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Schiavi dell'Islam o del nazismo imperialista maomettano

MessaggioInviato: dom gen 18, 2015 9:35 pm
da Berto
Schiavi dell'Islam o del nazismo imperialista maomettano
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 149&t=1336

Schiavi dell'Islam o del nazismo imperialista maomettano



L'Islam e la schiavitù
https://www.facebook.com/permalink.php? ... 0147022373


Il comandamento choc dell'Isis: "Giusto rapire le donne e farle schiave sessuali"

Per gli estremisti è lecito rapire le donne degli infedeli e farle schiave. Una donna curda guida la resistenza a Kobane
Orlando Sacchelli - Lun, 13/10/2014 - 12:49

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/com ... 59236.html

Non c'è fine alla brutalità dell'Isis: dopo le decapitazioni degli ostaggi filmate e trasmesse in video, arrivano nuovi particolari inquietanti sulla barbarie dei tagliagole. Nel quarto numero della sua rivista online, l’Isis sostiene la legittimità del rapimento e della riduzione in schiavitù sessuale delle donne degli "infedeli".
Tutto questo sulla base di un’interpretazione estrema della sharia, respinta dalla stragrande maggioranza del mondo musulmano.
La Turchia aiuta l'Isis: la Nato deve opporsi

La formalizzazione di quella che è diventata una drammatica prassi, riferisce il sito della Cnn, è messa nera su bianco sulla rivista "Dabiq".
l nome della rivista, "Dabiq", è altamente simbolico, perché Dabiq è la regione che nel 1516 fu teatro della battaglia finale in cui gli Ottomani sconfissero i Mamelucchi, consolidando quello che nella storia si ricorda come l'ultimo califfato. Ciò a cui si ispira lo stato islamico del sedicente 'califfo' al Baghdadi. Pubblicato in diverse lingue europee, è uno degli strumenti attraverso cui gli uomini del 'califfo' al-Baghdadi cercano di radicalizzare e reclutare giovani ovunque nel mondo, soprattutto in Occidente.
Ma vediamo cosa dicono gli estremisti: "Ci si dovrebbe ricordare che ridurre in schiavitù le famiglie dei kuffar", gli infedeli, "e prendere le loro donne come concubine è un aspetto saldamente stabilito dalla sharia, la legge islamica". Il titolo dell’articolo è "La rinascita della schiavitù prima dell’Ora", termine che indica il "Giorno del giudizio". Si legge ancora che le donne della setta degli yazidi, la minoranza curda insediata soprattutto in Iraq, possono essere legittimamente catturate e forzate ad essere concubine o "schiave sessuali".

Un rapporto di Human Rights Watch (Hrw), basandosi sulle testimonianze di alcuni detenuti che sono riusciti a scappare, ha denunciato che gli jihadisti dell’Isis tengono prigionieri centinaia di yazidi iracheni e costringono giovani donne e adolescenti a sposare i loro combattenti.

Hrw ricorda che sono centinaia gli uomini, le donne e i bambini yazidi detenuti dai jihadisti in diverse località dell’Iraq, in particolare a Mosul, Tal Afar e Sinjar, e nell’est della Siria. "Abbiamo raccolto storie scioccanti di conversioni religiose forzate, di matrimoni forzati e di abusi sessuali e schiavitù", ha denunciato Hrw nel rapporto redatto sulla base di 76 interviste.

Drammatiche le testimonianze di chi ha avuto la fortuna di fuggire dalla schiavitù. Una donna, Naveen, fuggita a settembre con i suoi quattro figli, ha raccontato di yazide costrette a sposarsi con i combattenti Isis: "Ho visto che le portavano via, circa 10 tra giovani donne e ragazze. Alcune avevano solo 12 o 13 anni, altre 20. Alcune di loro erano già sposate, ma senza figli, per cui lo Stato islamico non le ha considerate sposate". Quando sono tornate nel carcere di Badoush, vicino Mosul, le donne hanno raccontato: "Ci hanno sposato. Non abbiamo avuto scelta". Altre donne hanno raccontato di essere state vendute: come Rewshe, 15 anni, ceduta a un combattente palestinese dell’Isis per 1.000 dollari. Sempre Naveen ha raccontato anche della sorte toccata ai bambini maschi: "Nella prigione di Badoush ho visto anche portare via i bambini. Hanno detto che li portavano via per la loro educazione religiosa. Dalla mia cella hanno portato via sei o sette bambini, avevano tutti 10 o 11 anni. Io ho vestito mio figlio di 10 anni da bambina per nasconderlo".

Donna curda guida la battaglia contro l'Isis a Kobane

L'altra faccia della medaglia è rappresentato sempre da una donna, una quarantenne, che guida i combattenti curdi contro l'Isis nella città siriana di Kobane. Come rende noto l’Osservatorio siriano per i diritti umani, si chiama Mayssa Abdo ma è conosciuta soprattutto con il nome di battaglia Narin Afrin: guida le Unità di protezione del popolo curdo (Ypg) al fianco di Mahmud Barkhodan. Mayssa è uno pseudonimo, in questo caso della regione natale della donna, una roccaforte curda che, come Kobane, si trova nella provincia settentrionale di Aleppo. "Quelli che la conoscono dicono che è istruita, intelligente e flemmatica - ha detto il direttore dell’ong, Rami Abdel Rahman - si preoccupa dello stato psichico dei combattenti e si interessa dei loro problemi".
La presenza delle donne nelle file dei combattenti curdi, in Siria come in Iraq e in Turchia, è nota da anni. Il 5 ottobre scorso, proprio una donna, Dilar Gencxemis (nome di battaglia Arin Mirkan) è stata la prima kamikaze curda a farsi saltare in aria in Siria, dall’inizio della guerra, nel 2011, uccidendo decine di jihadisti alle porte di Kobane.

Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi

MessaggioInviato: dom gen 18, 2015 9:36 pm
da Berto
L'inferno delle rapite dall'Isis: in molte scelgono il suicidio

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/lin ... 78068.html


Percosse, abusi, torture e stupri: così le yazide concesse come trofei ai miliziani o vendute come schiave sessuali
Sergio Rame - Mar, 23/12/2014 - 10:50

Molte donne della minoranza yazida che sono state rapite dai jihadisti dei violenti miliziani dello Stato islamico scelgono il suicidio piuttosto che sposare o diventare schiave sessuali dei miliziani.

Il rapporto diffuso da Amnesty International è un vero pugno allo stomaco. Percosse, abusi, torture e minacce. E, ovviamente, violenze sessuali. È così che i fedeli del califfo Abū Bakr al-Baghdādī.

Dopo che migliaia di uomini, donne e bambini della minoranza nord-irachena sono finiti nelle sanguinarie mani dei jihadisti dell'Isis, il sangue di innocenti ha iniziato a scorrere. Secondo le testimonianze, gran parte degli uomini vengono uccisi o costretti a convertirsi all'islam. Le donne, invece, vengono in genere concesse come trofei ai jihadisti oppure vendute come schiave sessuali. Nel report Fuga dall'inferno Amnesty International ha raccolto le testimonianza di una trentina di donne tra le 300 circa che sono riuscite a fuggire dal Califfato.

Jilan aveva solo 19 anni quando è stata catturata. La sua famiglia ha poi saputo che si è suicidata. "Eravamo 21 ragazze in una stanza - ha raccontato la 20enne Luna alla ong - due di loro erano giovanissime, di 10 o 12 anni. Un giorno ci sono stati dati vestiti da danzatrici e ci è stato detto di fare un bagno e di indossarli. Jilan si è uccisa nel bagno. Si è tagliata ai polsi e si è impiccata. Era molto bella e sapeva che sarebbe stata portata via da un uomo. Per questo si è uccisa". Altre testimoni hanno raccontato di percosse, abusi, torture e minacce, oltre che di stupri. Alcune donne erano concesse a uomini già sposati, spesso combattenti stranieri arrivati da paesi occidentali per unirsi all'Isis. Alcune delle yazide fuggite hanno raccontato come le mogli spesso cercassero di aiutare le prigioniere, ma non avevano il potere di intercedere per loro. In alcuni casi, invece, riuscivano ad aiutarle a fuggire. "Per noi era più di una madre - ha raccontato una ex prigioniera a proposito di una donna dell’Isis che ha aiutato alcune prigioniere a fuggire, rischiando la propria vita - Non potrò mai dimenticare quella donna, ci ha salvate".

Al contrario di ebrei e cristiani, che per i musulmani appartengono come loro alle "religioni del libro", gli yazidi vengono considerati dagli estremisti dell'Isis come gente senza alcun diritto, in quanto adoratori del diavolo. Per questo, il gruppo terroristico considera legittimo ucciderli, abusare di loro o usarli come schiavi. Un numero di Dabiq, la rivista al soldo del Califfato, è stato dedicato proprio alla schiavitù illustrandone la legittimità e i vantaggi.

Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi

MessaggioInviato: ven feb 20, 2015 9:21 am
da Berto
La schiavitù nell'Islam è legittimata da diversi passi del Corano

http://it.cathopedia.org/wiki/Schiavit% ... ll%27Islam

La schiavitù nell'Islam è legittimata da diversi passi del Corano, dalla prassi di Maometto e dei primi musulmani, e dalla secolare tradizione islamica. Possono essere ridotti in schiavitù solo i non musulmani, e mantengono (come negli altri sistemi sociali e culturali schiavistici) un ruolo marginale nella società.

Nella prima fase dell'espansione islamica araba gli schiavi provenivano dalle popolazioni conquistate. La stasi delle armate di terra nell'VIII secolo non ha fermato la deportazione di schiavi che venivano razziati dai territori cristiani del sud Europa, dall'Asia centrale e soprattutto dall'Africa sub-sahariana e orientale. Tra il 650 e il 1900, il numero degli africani schiavizzati da mercanti islamici è stimabile (con larga approssimazione) tra 11-18 milioni di persone, cifra pari o superiore alle stime della ben più nota tratta atlantica "cristiana" (7-12 milioni). Nel solo periodo 1530-1780 i cristiani europei ridotti in schiavitù con scorrerie costiere e abbordaggi in mare aperto sono stimabili in 1-1,25 milioni.

In epoca contemporanea, nelle nazioni islamiche la schiavitù è gradualmente venuta meno per imposizione delle potenze occidentali.

Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi

MessaggioInviato: ven feb 20, 2015 9:58 am
da Berto
UN AFRICANO CONSIDERA LO SCHIAVISMO ISLAMICO INFLITTO AGLI AFRICANI
AFRICANI LIBERATI DALLE MANI DI UN NEGRIERO ARABO DEL ZANZIBAR NEL 1884 (Ofosu-Appiah, p. 82)
http://www.debate.org.uk/gesu-corano/trattati/t12.htm

I. LE PRETESE DELL’ISLAM

Al giorno d’oggi ci sono parecchi afrocaraibici e afroamericani che si convertono all’Islam. Secondo le ricerche, questi nuovi islamici si sono convertiti primariamente perché avevano l’idea che l’Islam fosse una religione di "fratellanza" e di uguaglianza. Molti di loro credevano che l’Islam non avesse problemi razziali e che non fosse coinvolto nella tratta degli schiavi, come parecchi stati occidentali europei.

‘Abd-al-Aziz’ Abd-al-Zadir Kamal dice nel suo scritto "L’Islam e la questione razziale": "Nell’Islam, l’umanità costituisce una sola grande famiglia, creata (con) ... diversità di colori della pelle ... (perciò) ... adorando Dio tutti gli uomini sono uguali, e un arabo non ha la precedenza su un non arabo... Tutti gli esseri umani sono ... uguali ... e i matrimoni sono conclusi senza alcun riguardo del colore della pelle." Egli asserisce dunque che nell’Islam ci sia l’armonia razziale e che tutti, indipendentemente dal loro colore, abbiano "gli stessi diritti sociali ... obblighi legali ... opportunità di lavoro e ... la protezione della loro persona" (pag. 64).

Ma è vero? Queste pretese sono valide alla luce della storia? Guardiamo per esempio la questione della schiavitù nell’Islam.

II. LE FONTI ISLAMICHE CONFERMANO QUESTE PRETESE?

Sfortunatamente ci sono molte persone di pelle nera che credono che l’attacco accanito degli arabi all’Occidente collimi con la causa africana. È uno sbaglio mortale. I primi scrittori musulmani delle tradizioni islamiche (che sono state redatte abbastanza tardi, cioè fra il nono e il decimo secolo d.C.) ammettono che già al tempo di Maometto era diventato appropriato propagare le sue idee tramite conquiste militari. Il suo obiettivo principale era il controllo politico e militare; perciò non ci sorprende che secondo la tradizione abbia detto: "L’atto più meritevole ... e la migliore fonte di guadagni è la guerra" (Mishkat II, pag.340).

Quando i primi leader della conquista araba (cioè Abu Bakr, Umar e altri) invadevano i paesi, la storia dimostra che gli abitanti innocenti potevano essere dominati da loro oppure "accettare la morte tramite la spada" (Dictionary of Islam, pag.24).

Lo stesso Corano comanda ai musulmani: "...uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati..." (sura 9:5). Inoltre raccomanda ai musulmani di avere schiavi e schiave (sura 4:24-25).

Secondo la tradizione islamica il generale Abu Ubaidah, durante l’assedio di Gerusalemme, diede l'opzione agli abitanti di "accettare l’Islam oppure di prepararsi ad essere uccisi con la spada" (Rau Zatu, Volume II, pag.241).

I compilatori musulmani del tardo nono secolo ammettono francamente che Maometto fosse un condottiere militare. Mentre le prime descrizioni della vita di Maometto dicono poco della sua attività profetica, abbondano di racconti delle sue battaglie. Al-Waqidi (morto nell’820) stima che Maometto fosse coinvolto personalmente in 19 delle 26 battaglie (Al-Waqidi 1966:144). Ibn Athir dice che il numero era 35 (Ibn Athir, pag.116), mentre Ibn Hisham (morto nel 833) lo valuta a 27 (Ibn Hisham, pag.78).

Il consiglio bellico di Maometto ai suoi seguaci fu questo: "Gareggiate con me in fretta per invadere la Siria, forse avrete le figlie di Al Asfar" (Al-Waqidi 1966:144). C’è da osservare che Al Asfar era un LIBERO uomo d’affari africano con figlie bellissime, fino al punto che "la loro bellezza era diventata proverbiale" (Al-Waqidi 1966:144).

Di conseguenza, i poveri discepoli di Maometto non rimasero poveri per molto tempo. Diventarono straricchi con i bottini di guerra, e accumularono molti animali e SCHIAVI, nonché molto oro (Mishkat, Volume II, pag.251-253, 405-406).

Non c’è da meravigliarsi che Ali Ibn Abu Talib si millantava dicendo: "I nostri fiori sono la spada e il pugnale. Narcisi e mirti non sono nulla; la nostra bevanda è il sangue dei nostri nemici, il nostro calice è il loro cranio dopo averli combattuti" (Tarikh-ul Khulafa, pag.66-67).

Non sorprende che il Corano echeggia questo pensiero dicendo: "Quando (in combattimento) incontrate i miscredenti colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati,..." (sura 47:4) e "Combattete coloro che non credono in Allah ..., e quelli, tra la gente della Scrittura (cioè i giudei e i cristiani)..." (sura 9:29).

III. LA STORIA CONFERMA QUESTE PRETESE?

Il generale musulmano Amr Ibn Al‘As invase l’Egitto dal 639 al 642 (Williams 1974:147-160). L’Egitto non gli bastò e per questo cercò di colonizzare la Makuria, un regno cristiano indipendente. Il re Kalydossas però sventò le sue macchinazioni nel 643. Al‘As cercò nuovamente di soggiogare la Makuria nel 651, ma fallì e fu costretto a firmare un trattato di pace (Williams 1974:142-145).

Nel 745 il generale Omar, il nuovo governatore dell’Egitto, intensificò la persecuzione dei cristiani, ma il re Cyriacus della Makuria riuscì ad arginare questo nuovo attacco (Williams 1974:142-145). Nel 831 il re Zakaria, il nuovo monarca della Makuria, si allarmò per i cacciatori musulmani di schiavi che stavano invadendo il suo paese (l’odierno Sudan). Egli mandò una delegazione internazionale al califfo di Bagdad affinché queste violazioni del trattato di pace fossero fermate, ma non ricevette alcun aiuto (Williams 1974:142-145).

Il sultano Balbar dell’Egitto continuò a violare il trattato del 651 (vedi sura 9:1-4). Più tardi, nel 1275, i musulmani, del soggiogato Egitto, cominciarono a colonizzare e a distruggere la Alwa, la Makuria e la Nobatia, i tre regni cristiani antichi in Africa. I popoli di queste nazioni, una volta indipendenti e splendide, furono venduti come schiavi.

Mentre l’Islam e la cultura araba dilagavano in Africa, si diffondevano anche lo schiavismo e il genocidio culturale. Si cominciava a fare guerre per avere schiavi africani. Kumbi Kumbi, la capitale del Ghana, fu distrutta dagli invasori musulmani nel 1076. Il Mali aveva una "mafia" musulmana che "incoraggiava" i re africani del Mali ad abbracciare l’Islam. Questa "mafia" controllava le importantissime carovaniere e i porti commerciali dell’Africa. I musulmani riuscirono a impadronirsi dei posti più importanti nel governo e cominciarono a cambiare la storia antica del Mali in modo che gli eventi preislamici fossero cancellati. Per ragioni di sicurezza, il governo ganaense dei Mossi, che era conscio del potere dei commercianti musulmani, istituì un dipartimento governativo per controllare lo spionaggio musulmano (Davidson, Wills e Williams).

La tratta islamica degli schiavi si svolgeva anche intorno al Lago di Ciad negli stati musulmani di Bagirmi, Wadai e Darfur (O’Fahley e Trimmingham 1962:218-219). Nel Congo, i negrieri Jallaba commerciavano con i Kreish e con gli Azande, un popolo nel nord (Barth e Roome). Ugualmente frequentata era la rotta che seguiva lo spartiacque tra il Nilo e il fiume Congo, dove i negrieri arabo-musulmani (per esempio Tippu Tip del Zanzibar) arrivavano dalle zone orientali dell’Africa (Roome 1916, e Sanderson 1965).

Nell’Africa orientale, i promotori del commercio degli schiavi erano i popoli Yao, Fipa, Sangu e Bungu, che erano tutti musulmani (Trimmingham 1969 e Gray 1961). Sulla riva del Lago Nyasa (ora chiamato Lago di Malawi) fu istituito nel 1846 il sultanato musulmano di Jumbe con lo scopo preciso di favorire il commercio degli schiavi (Barth 1857 e Trimmingham 1969). Nel 1894 il governo britannico valutò che il 30 per cento della popolazione di Hausaland fosse costituito da ex schiavi. Era così anche nell’Africa occidentale francese fra il 1903 e il 1905 (Mason 1973, Madall e Bennett, e Boutillier 1968).

IV. L’ISLAM OGGI

A. SONO VALIDE QUESTE PRETESE?

Gli africani moderni hanno per troppo tempo praticato l’amnesia selettiva riguardo allo schiavismo islamico. Quelli di colore hanno messo giustamente l’enfasi sull’impatto distruttivo del colonialismo europeo e del commercio transatlantico degli schiavi, ma stranamente hanno ignorato la molto più duratura e devastante tratta arabo-musulmana degli schiavi in Africa.

Non si sente quasi mai parlare degli africani che erano costretti a migrare a causa delle incursioni dei negrieri musulmani dall’est, dall’ovest e dal nord dell’Africa dopo il settimo secolo. Gli schiavi africani, trasportati per via nave da Zanzibar, Lamu e altri porti estafricani, non erano portati in Occidente (come molti musulmani vogliono farci credere), ma finivano in Arabia, in India e in altri stati musulmani in Asia (Hunwick 1976, e Ofosu-Appiah 1973:57-63). Rapporti non ufficiali valutano che oltre 20 milioni di africani sono stati venduti come schiavi dai musulmani fra il 650 e il 1905 (Wills 1985:7)! È interessante notare che la maggioranza di questi 20 milioni di schiavi non era costituita da uomini, ma da donne e bambini che sono più vulnerabili (Wills 1976:7). È logico, visto che la posizione delle femmine nel Corano è sempre stata inferiore a quella dei maschi (sura 2:224; 4:11,34,176).

I teologi musulmani, come il famoso Ahmad Baba (1556-1527), sostenevano che "... la ragione dello schiavismo imposto ai sudanesi è il loro rifiuto di credere ... (Perciò) è legale impossessarsi di chiunque venga catturato come miscredente ... Maometto, il profeta, ridusse in schiavitù le persone perché erano Kuffar ... (È dunque) legale avere in possesso gli etiopi ..." (Baba pag.2-10).

Hamid Mohomad (alias "Tippu Tip"), che è morto nel 1905, era uno dei più affaccendati negrieri di Zanzibar. Ogni anno vendeva oltre 30.000 africani (Lewis pag.174-193 e Ofosu-Appiah 1973:8). È importante ricordarsi che la tratta degli schiavi a Zanzibar è continuata fino all’anno 1964! Infatti, nella Mauritania la tratta non è stata ufficialmente dichiarata illegale prima dell’anno 1981, mentre nel Sudan continua persino fino al giorno d’oggi secondo un rapporto dell’ONU del 1994 (vedi anche Ofosu-Appiah 1973:57-63; "The Times" del 25 agosto 1995; Darley 1935; MacMichael 1922 e Wills 1985). Tutti questi esempi riguardano uno schiavismo esclusivamente islamico.

B. BISOGNA RICONOSCERE QUESTE PRETESE?

I fatti soprannominati vengono generalmente sorvolati, ignorati o dimenticati nella letteratura di oggi, semplicemente perché non è "politicamente corretto" parlarne. Essendo io stesso africano, dico onestamente che dobbiamo rivalutare il ruolo dell’imperialismo europeo del diciannovesimo secolo riconoscendo che esso, malgrado la "stampa cattiva" che gode, è stato una delle poche forze che hanno fermato l’imperialismo arabo-musulmano nel continente africano. Gli arabo-musulmani di oggi screditano l’imperialismo occidentale del passato senza considerare o discutere l’argomento della loro propria sordida storia nel continente.

CONCLUSIONI:

Questo è stato un breve riassunto dello schiavismo islamico in Africa. I compilatori del Corano e gli scrittori islamici posteriori ammettono che la guerra e la tratta degli schiavi fossero i mezzi più efficaci per impadronirsi di nuovi ed indipendenti paesi in Africa. Questa teologia ha danneggiato gravemente non soltanto la vita familiare africana, ma anche l’antica eredità cristiana in Africa e lo sviluppo economico fino al giorno d’oggi. L’Islam ha attaccato deliberatamente prima le donne e i bambini, la parte più vulnerabile e importante della popolazione africana. Gli uomini che non sono stati venduti come schiavi sono semplicemente stati uccisi. La colonizzazione e lo schiavismo islamici sono cominciati oltre 1000 anni prima della più recente e breve tratta europea e transatlantica (Hughes 1922:49). Molte culture africane, sia pagane che cristiane, sono state distrutte. Perché?

Inoltre, perché i musulmani non protestano contro la schiavitù imposta agli africani nel Sudan odierno, e perché non la fermano? Il loro silenzio è molto eloquente! Mentre gli schiavi nei paesi occidentali sono stati liberati secoli fa, gli africani si chiedono per quanto tempo lo schiavismo durerà ancora nel continente africano.

Il Signore Gesù Cristo ha detto: "Andate e predicate l’Evangelo in tutto il mondo", inclusa l’Africa (Matteo 28:19-20). Non ci ha chiesto di fare la guerra o di ridurre i popoli in schiavitù. Al contrario, quando il Figlio di Dio ti avrà liberato sarai davvero libero. Infatti, la Bibbia condanna ogni tipo di imperialismo, sia arabo, europeo, asiatico che africano (vedi Esodo 23:4-5; Levitico 19:15; Deuteronomio 27:17; Proverbi 10:2-4, Isaia 5:20; Matteo 5:13-16; 38-48; 15:19; Giovanni 18:36-37; Romani 1:16-3:20; Ebrei 11:8-16 e Giacomo 4-5). Gesù ha anche detto: "Li riconoscerete dai loro frutti". I bianchi cristiani moravi della Germania deliberatamente vendevano loro stessi come schiavi per poter predicare l’Evangelo agli schiavi neri nelle Indie occidentali! Gli arabi musulmani hanno mai fatto qualcosa di simile per i neri? Il buon albero di Cristo porta frutti buoni. L’albero cattivo dell’Islam ha portato frutti cattivi in Africa dal 639 in poi, e continua a farlo fino al giorno d’oggi. Sta a te fare il confronto e prendere posizione.

Fratello Banda

Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi

MessaggioInviato: ven feb 20, 2015 10:40 am
da Berto
La schiavitù nell’Islam
Scritto il 4 settembre 2014 by AdminIslamic

http://islamicamentando.altervista.org/ ... 3242187500

Il tema del “padrone e dello schiavo comporta nel Corano due realtà distinte ma parallele.

Da una parte, a un livello “superiore”, la servitù (‘ubūdiyya) è caratteristica essenziale della condizione ontologica dell’umanità tutta intera di fronte al Creatore, “il Signore”, al-Rabb. Maometto stesso è “il servo” (II:23) così come il Messia prima di lui (IV:172). In tal modo il termine ‘ibād, “servi”, designa l’umanità. Secondo la stessa logica, gli atti attraverso i quali l’umanità traduce la propria sottomissione e si riconosce nella condizione di servitù davanti al Signore, cioè gli atti cultuali nel loro insieme (preghiera, pellegrinaggio ecc.) sono definiti ‘ibādāt, un altro termine derivato dalla stessa radice «’bd». La servitù dell’uomo si traduce nel rispetto scrupoloso dell’insieme dei comandamenti divini espressi nella sharī’a, cioè l’obbedienza agli ordini e ai divieti del Signore. Questo è il disegno che il musulmano deve mettere in opera per assicurarsi la salvezza.

D’altra parte, a un altro livello giuridico, la servitù definisce lo statuto legale degli schiavi di fronte ai loro padroni o padrone umani.
Il Corano, come l’Antico e contrariamente al Nuovo Testamento (che però lo fa implicitamente), non condanna il principio della schiavitù; quest’ultima è un’istituzione ritenuta naturale o, tutt’al più, che si inscrive senza alcun salto logico nell’ordine del mondo e delle realtà umane, voluta e creata da Dio (XVI:71; XXX:28). Lo schiavo, semplicemente, non è stato beneficiato da Dio degli stessi diritti delle altre persone.
L’ineguaglianza originale della condizione umana, secondo il Corano, è di istituzione divina.

La schiavitù era praticata nell’Arabia preislamica – ma poco se ne ne sa – e gli schiavi erano per la gran parte abissini. Maometto stesso aveva degli schiavi.
Il Corano stabilisce inoltre una distinzione tra schiavi (raqaba) e schiavi credenti (raqaba mu’mina). Infine, per un musulmano che cerca una sposa, una musulmana schiava è migliore di una miscredente di condizione libera (II:221).
In assoluto, il Corano tanto quanto la Sunna, esprime la necessità di trattare gli schiavi con benevolenza (ihsān), e dall’altra sulla meritorietà che vi è nell’emanciparli. Lungi dall’essere semplicemente formali, queste raccomandazioni si traducono in numerose disposizioni pratiche poi sistematizzate nel fiqh: emancipare uno schiavo o una schiava ha valore di pena espiatoria (kaffara) per emendare alcuni delitti/peccati (IV:92; V:89; LVIII:3) ed è cosa buona in sé (XC:13); un padrone non può costringere la schiava a prostituirsi (XXIV:33); il padrone è incoraggiato a concludere un contratto di affrancamento con lo schiavo se questi glielo propone (XXIV:33). A tale riguardo le elemosine legali (sadaqāt) sono destinate, tra le altre cose, a pagare il prezzo di questa emancipazione (IX:60). Va precisato che molti dei versetti riguardanti l’emancipazione degli schiavi Maometto li “ricevette” per convertire queste persone alla religione islamica, ed aumentare quindi il numero di combattenti nell’esercito musulmano, bisogno primario questo, dato che come sappiamo Maometto visse praticamente tutta la sua esistenza in guerra contro gli “infedeli”.

Gli schiavi musulmani dei due sessi hanno infine la possibilità di sposarsi con musulmani o musulmane di condizione libera o servile (II:221; IV:25), e quanto al padrone di una schiava, egli ha il diritto di goderne fisicamente e di prenderla come concubina senza che ella figuri tra le sue mogli (LXX:30).
L’inferiorità intrinseca dello statuto di schiavo si traduce nel Corano in modo evidente: la legge del taglione vuole che la vita di un uomo libero valga quella di un uomo libero, quella di uno schiavo quella di uno schiavo e quella di una donna quella di una donna (II:178). Nella necessità di valutarie materialmente, queste vite non hanno lo stesso valore, e il “prezzo del sangue” (diya) non è quindi lo stesso.

La schiavitù nel fiqh

Nel fiqh, le disposizioni coraniche e quelle derivate dalla Sunna sono state sviluppate in un sistema complesso, e la distinzione tra schiavi musulmani e non musulmani è rilevante.
Un principio, talvolta inevaso, vuole che lo statuto originale di un essere umano sia la libertà; così, per esempio, un bambino trovato per strada (laqīt) e del quale non si sappia nulla è presunto libero.
Lo statuto dello schiavo è misto: per certi aspetti è un “figlio di Adamo” (ādamī) che gode di alcuni diritti e doveri inerenti a questa qualifica; per altri riguardi è una merce che, al pari di ogni altra mercanzia, si presta a tutte le operazioni commerciali. La testimonianza di uno schiavo non ha alcun valore. Ciononostante, il suo statuto gli procura de facto certi vantaggi in materia di diritto penale; infatti, le pene coraniche che lo riguardano sono dimezzate rispetto a quelle di un musulmano che abbia commesso lo stesso delitto, e ciò significa evidentemente che la vita di uno schiavo vale la metà di quella di una persona libera. Uno schivo può essere di proprietà di numerose persone; le prerogative dei suoi padroni sono in tal caso differenti, soprattutto per quello che concerne il concubinaggio.
Il padrone esercita una tutela sull’insieme delle attività dei suoi schiavi. Per quanto in linea generale una pena legale possa essere amministrata solo tramite un rappresentante dell’autorità politica, il padrone può, in alcuni casi, decidere dell’opportunità della pena da comminare al suo schiavo che si sia reso colpevole di qualche delitto, e applicarla egli stesso: lo schiavo è nelle mani del suo padrone esattamente come gli esseri liberi sono nelle mani di Dio; ma con la differenza che il padrone umano è presente nella comunità, mentre il Padrone divino non lo è essendo rappresentato dall’ autorità politica, cioè dall’imam e dai suoi delegati. In sintesi, il padrone è nei confronti del suo schiavo quel che Dio, se fosse sulla Terra, sarebbe nei confronti dei suoi schiavi cioè l’umanità.
Per principio, un musulmano libero può essere ridotto in schiavitù, e il musulmano o una musulmana possono essere di condizione servile solo se nati in schiavitù. Ma quando un non musulmano ridotto in schiavitù si converte all’islam non si ritrova automaticamente emancipato. Tutto sta al consenso del Padrone. Uno schiavo può acquistare la libertà dedicandosi a una attività che gli frutti il denaro necessario per riscattarsi; in tal caso è detto mukātab. Un padrone (o una padrona), inoltre, può specificare, che alla propria morte il tale schIavo sarà libero; lo schiavo è allora detto mudabbar e può essere oggetto delle medesime transazioni di uno schiavo ordinario. Quando un bambino nasce da una relazione tra il padrone e la schiava, è di condizione libera e la madre, definita umm al-walad, “la madre del bambino”, non può essere oggetto della benché minima transazione finanziaria ed è ipso facto affrancata alla morte del padrone. Infine, uno schiavo affrancato e la sua discendenza maschile conservano con l’ex-proprietario e la sua famiglia una relazione particolare definita walā, una sorta di patronato avente effetti giuridici.

La schiavitù nella storia delle società musulmane

Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza dell’istituzione della schiavitù nel seno alle società musulmane. Nel quotidiano, gli schiavi sono presenti ovunque, non solamente nelle cerchie agiate ma anche più semplicemente sotto il giogo dei membri di classi che oggi si direbbero “medie”. Non essendo mai stata contrassegnata da un giudizio apertamente negativo sul piano etico-legale, iscrivendosi piuttosto nell’ordine divino delle cose ed essendo prevista dalla sharī’a, si può dire che la schiavitù nel mondo musulmano, rappresentato dai suoi ulamā, non sia mai stata oggetto di una critica radicale né di alcuna condanna in via di principio. Nelle discussioni degli ‘ulamā’ può trovarsi, nel migliore dei casi una mitigazione delle condizioni della sua applicabilità e, nel caso peggiore, un richiamo alla sua legitlimità atemporale. Gli ultimi paesi schiavisti musulmani hanno abolito la schiavitù per le pressioni esterne; tuttavia la schiavitù esiste, quasi di diritto, ancora in certi paesi sahariani e, di fatto, nella penisola araba.
Nella storia delle società musulmane, lo schiavismo ha rivestito diverse forme. Si è avuta la schiavitù domestica, quella perpetuatasi fino a oggi, che è polimorfa: dall’uomo tuttofare – per lo più di colore, come ai tempi del Profeta – che non vale granché sul mercato fino alla superba schiava caucasica dalla pelle chiara, acquistata per concubinaggio e del valore di una piccola fortuna. La storia ha registrato le rivolte degli Zanj, schiavi neri catturati sulle coste dell’Africa orientale nei secoli I/VII e III/IX.
Il ruolo politico degli schiavi non è stato affatto trascurabile. Il fenomeno delle milizie costituite esclusivamente da schiavi, per iniziativa delle autorità politiche, è molto antico nel mondo islamico, e le autorità politiche in questione si sono sovente ritrovate in balia di queste milizie. Tale sistema è giunto a costituire un regime politico alquanto singolare, quello dei Mamelucchi, “gli Assoggettati” (Mamlūk significa “in stato di servitù”), che governarono l’Egitto e la Siria con una certa vivacità sotto la tutela formale del califfato abbaside, dal XIII secolo all’inizio del XVI secolo. Come indica il loro nome, erano schiavi, catturati in Asia centrale o in Europa orientale. Nella maggior parte dei casi erano schiavi di liberti: erano educati nell’islam, addestrati alle armi – erano prima di tutto dei militari – e quindi affrancati; la loro fedeltà si rivolgeva solo ai padroni grazie ai quali godevano di una posizione privilegiata rispetto alla popolazione della loro terra d’origine e, paradossalmente, nel luogo della loro schiavitù essi formavano una casta privilegiata. Anche il sultano, ossia la persona investita del potere politico, proveniva in un modo o nell’ altro da questa casta.

Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi

MessaggioInviato: gio apr 16, 2015 8:29 pm
da Berto
LA STORIA DIMENTICATA DEI BIANCHI RIDOTTI IN SCHIAVITÙ

https://ilblogdibarbara.wordpress.com/2 ... -schiavitu

(Perché il famoso «Mamma li turchi» non è una leggenda, né un modo di dire frutto di qualche bizzarro pregiudizio, bensì una tragica realtà della nostra storia, che faremmo bene a non dimenticare)

(È piuttosto lungo. Magari leggetelo a rate, ma leggetelo, che di queste cose non si parla mai. E bisognerebbe, invece)

I neri ricordano, i bianchi hanno dimenticato
Gli storici americani hanno studiato tutti gli aspetti della schiavitù degli africani ad opera dei bianchi, ma hanno ampiamente ignorato la schiavitù dei bianchi da parte dei nord africani. Quella degli schiavi cristiani con padroni musulmani è una storia accuratamente documentata e scritta chiaramente di ciò che il prof Davis chiama «l’altra schiavitù», sviluppatasi all’incirca nello stesso periodo del commercio transatlantico, e che ha devastato centinaia di comunità costiere europee. Nel pensiero dei bianchi di oggi, la schiavitù non ha minimamente il ruolo centrale che ha tra neri, ma non perché sia stato un problema di breve durata o di scarsa importanza. La storia della schiavitù mediterranea è, infatti, altrettanto fosca delle più tendenziose descrizioni della schiavitù americana.
Nel XVI secolo, gli schiavi bianchi razziati dai musulmani furano più numerosi degli africani deportati nelle Americhe.

Un commercio all’ingrosso
La Costa dei Barbari, che si estende dal Marocco fino all’attuale Libia, fu sede di una fiorente industria del rapimento di esseri umani dal 1500 fino al 1800 circa. Le grandi capitali del traffico di schiavi furono Salé in Marocco, Tunisi, Algeri e Tripoli, e durante la maggior parte di questo periodo le marine europee erano troppo deboli per opporre più che una resistenza simbolica.
Il traffico transatlantico dei neri era puramente commerciale, ma per gli arabi, i ricordi delle crociate e la rabbia per essere stati espulsi dalla Spagna nel 1492 sembrano aver determinato una campagna di rapimenti dei cristiani, quasi simile ad una Jihad.
«È stato forse questo pungolo della vendetta, contrapposto alle amichevoli contrattazioni della piazza del mercato, che ha reso gli schiavisti islamici tanto più aggressivi e inizialmente (potremmo dire) più prosperi nel loro lavoro rispetto ai loro omologhi cristiani», scrive il professor Davis.
Durante i secoli XVI e XVII furono condotti più schiavi verso sud attraverso il Mediterraneo che verso ovest attraverso l’Atlantico. Alcuni furono restituiti alle loro famiglie in cambio di un riscatto, alcuni furono utilizzati per lavoro forzato in Africa del Nord e i meno fortunati morirono di fatica come schiavi nelle galere.
Ciò che più colpisce circa le razzie barbaresche è la loro ampiezza e la loro portata. I pirati rapivano la maggior parte dei loro schiavi intercettando imbarcazioni, ma organizzavano anche enormi assalti anfibi che praticamente spopolavano parti della costa italiana. L’Italia è il bersaglio più apprezzato, in parte perché la Sicilia è solo a 200 km da Tunisi, ma anche perché non aveva un governo centrale forte che potesse resistere all’invasione.

Grandi incursioni spesso non incontrarono alcuna resistenza
Quando i pirati hanno saccheggiato Vieste nell’Italia meridionale nel 1554, ad esempio, rapirono uno stupefacente totale di 6.000 prigionieri. Gli algerini presero 7.000 schiavi nel Golfo di Napoli nel 1544, un raid che fece crollare il prezzo degli schiavi a tal punto che si diceva che si poteva «scambiare un cristiano per una cipolla».
Anche la Spagna subì attacchi su larga scala. Dopo un raid su Grenada nel 1556, che fruttò 4.000 uomini, donne e bambini, si diceva che «piovevano cristiani su Algeri». Si può calcolare che per ognuno di questi grandi raid ce ne siano stati dozzine di minori.
La comparsa di una grande flotta poteva far fuggire l’intera popolazione nell’entroterra, svuotando le regioni costiere.
Nel 1566, un gruppo di 6.000 turchi e corsari attraversarono il mare Adriatico e sbarcarono a Francavilla. Le autorità non erano in grado di fare nulla e raccomandarono l’evacuazione completa, lasciando ai turchi il controllo di più di 1300 chilometri quadrati di villaggi abbandonati fino a Serracapriola.
Quando apparivano i pirati, la gente spesso fuggiva dalla costa per andare alla città più vicina, ma il Professor Davis spiega che questa non era sempre una buona strategia: «più di una città di medie dimensioni, affollata di profughi, si trovò nell’impossibilità di sostenere un assalto frontale di molte centinaia di corsari e reis [capitano dei corsari] che altrimenti avrebbero dovuto cercare schiavi a poche dozzine per volta lungo le spiagge e sulle colline, potevano trovare un migliaio o più di prigionieri comodamente raccolti in un unico luogo per essere presi.»
I pirati tornavano continuamente a saccheggiare lo stesso territorio. Oltre a un numero molto maggiore di piccole incursioni, la costa calabra subì le seguenti depredazioni, sempre più gravi in meno di dieci anni: 700 persone catturate in un singolo raid nel 1636, un migliaio nel 1639 e 4.000 nel 1644.
Durante il XVI e XVII secolo, i pirati installarono basi semi-permanenti sulle isole di Ischia e Procida, quasi all’imboccatura del Golfo di Napoli, da cui organizzavano il loro traffico commerciale.
Quando sbarcavano sulla riva, i corsari musulmani non mancavano di profanare le chiese. Spesso rubavano le campane, non solo perché il metallo aveva valore, ma anche per ridurre al silenzio la voce inconfondibile del cristianesimo.
Nelle più frequenti piccole incursioni, un piccolo numero di barche operavano furtivamente, piombando sugli insediamenti costieri nel cuore della notte per catturare gli uomini «tranquilli e ancora nudi nel loro letto». Questa pratica diede origine alla moderna espressione siciliana, pigliato dai turchi, [in italiano nel testo], che significa essere colto di sorpresa, addormentato o sconvolto.

La predazione costante provocava un terribile numero di vittime
Le donne erano più facili da catturare degli uomini, e le regioni costiere potevano perdere rapidamente tutte le loro donne in età fertile. I pescatori avevano paura di uscire, e si prendeva il mare solo in convogli. Infine, gli italiani abbandonarono gran parte delle loro coste. Come ha spiegato il Professor Davis, alla fine del XVII secolo «la penisola italiana era preda dei corsari di Barberia da più di due secoli, e le popolazioni costiere si erano ritirate in gran parte nei villaggi fortificati sulle colline o in città più grandi come Rimini, abbandonando chilometri di coste, una volta popolate, a vagabondi e filibustieri.
È solo verso il 1700 che gli italiani riuscirono a impedire le imponenti incursioni di terra, anche se la pirateria sui mari continuò senza ostacoli.
La pirateria indusse la Spagna e soprattutto l’Italia ad allontanarsi dal mare e perdere la loro tradizione di commercio e di navigazione, con effetti devastanti: «Almeno per l’Iberia e l’Italia, il XVII secolo ha rappresentato un periodo oscuro in cui le società spagnola e italiana non erano più che l’ombra di quello che erano state durante le epoche d’oro precedenti».
Alcuni pirati arabi erano abili navigatori d’alto mare e terrorizzavano i cristiani fino ad una distanza di 1600 km. Uno spettacolare raid in Islanda nel 1627 fruttò quasi 400 prigionieri.
L’Inghilterra era stata una formidabile potenza di mare dal tempo di Francis Drake, ma per tutto il XVII secolo, i pirati arabi operarono liberamente nelle acque britanniche, entrando persino nell’estuario del Tamigi a fare catture e incursioni sulle città costiere. In soli tre anni, dal 1606 al 1609, la Marina britannica ha riconosciuto di aver perso non meno di 466 navi mercantili inglesi e scozzesi a causa dei corsari algerini. Nel metà del Seicento, gli inglesi erano impegnati in un attivo traffico trans-atlantico dei neri, ma molti equipaggi inglesi divennero proprietà dei pirati arabi.

Vita sotto la frusta
Gli attacchi di terra potevano essere molto fruttuosi, ma erano più rischiosi delle catture in mare. Le navi erano quindi la principale fonte di schiavi bianchi. A differenza delle loro vittime, le navi dei corsari avevano due mezzi di propulsione: gli schiavi delle galee oltre alle vele. Ciò significava che potevano avanzare a remi verso un’imbarcazione ferma per la bonaccia e attaccarla quando volevano. Avevano molte bandiere diverse, così quando navigavano potevano issare quella che meglio poteva ingannare le prede.
Una nave mercantile di buone dimensioni poteva trasportare circa 20 marinai abbastanza sani da poter sopportare qualche anno nelle galere, e i passeggeri erano generalmente buoni per ottenere un riscatto. I nobili e i ricchi mercanti erano prede allettanti, così come gli ebrei, che potevano generalmente fornire un forte riscatto da parte dei loro correligionari. Anche alti dignitari del clero erano preziosi perché il Vaticano era solito pagare qualsiasi prezzo per sottrarli alle mani degli infedeli.
All’arrivo di pirati, spesso i passeggeri si toglievano i vestiti belli e tentavano di vestirsi il più poveramente possibile, nella speranza che loro rapitori li restituissero alla loro famiglia per un riscatto modesto. Lo sforzo era inutile se i pirati torturavano il capitano per avere informazioni sui passeggeri. Era inoltre consuetudine far spogliare gli uomini, sia per cercare oggetti di valore cuciti nei vestiti, sia per verificare che non ci fossero ebrei circoncisi travestiti da cristiani.
Se i pirati erano a corto di schiavi per le galee, potevano mettere immediatamente al lavoro alcuni dei loro prigionieri, ma i prigionieri erano solitamente messi nella stiva per il viaggio di ritorno. Erano ammassati, potevano a malapena muoversi in mezzo a sporcizia, fetore e parassiti, e molti morivano prima di raggiungere il porto.
All’arrivo in Nord Africa, era d’uso far sfilare per le strade i cristiani appena catturati, affinché la gente potesse schernirli e i bambini coprirli di immondizia.
Al mercato degli schiavi, gli uomini erano costretti a saltellare per dimostrare che non erano zoppi, e gli acquirenti spesso li volevano far mettere nudi per vedere se erano in buona salute. Ciò permetteva anche di valutare il valore sessuale di uomini e donne; le concubine bianche avevano grande valore, e tutte le capitali dello schiavismo avevano una fiorente rete omosessuale. Gli acquirenti che speravano di fare rapidi guadagni con un forte riscatto, esaminavano lobi delle orecchie per trovare segni di piercing, che era un’indicazione della ricchezza. Inoltre si usava guardare i denti per vedere se fossero in grado di sopportare un duro regime di schiavo.
Il Pasha, cioè il governatore della regione, riceveva una certa percentuale di schiavi come una forma di imposta sul reddito. Questi erano quasi sempre uomini e diventavano proprietà del governo, piuttosto che proprietà privata. A differenza degli schiavi privati che solitamente si imbarcavano con il loro padrone, questi vivevano nei «bagni», come erano chiamati i negozi di schiavi del Pascià. Agli schiavi pubblici venivano solitamente rase la testa e la barba come ulteriore umiliazione, in un tempo in cui la capigliatura e la barba erano una parte importante dell’identità maschile.
La maggior parte di questi schiavi pubblici trascorrevano il resto della propria vita come schiavi sulle galee, ed è difficile immaginare un’esistenza più miserabile. Gli uomini erano incatenati tre, quattro o cinque ad ogni remo, e anche le loro caviglie erano incatenate insieme. I rematori non lasciavano mai il loro remo, e quando veniva loro concesso di dormire, dormivano sul loro banco. Gli schiavi avrebbero potuto spingersi a vicenda per defecare in un’apertura dello scafo, ma spesso erano troppo esausti o scoraggiati per muoversi e si liberavano sul posto. Non avevano alcuna protezione contro il sole cocente del Mediterraneo, e il loro padrone sfregiava le schiene già provate con lo strumento di incoraggiamento preferito del padrone di schiavi: un pene di bue allungato o “nerbo di bue”. Non c’era quasi nessuna speranza di fuga o di aiuto; il compito dello schiavo era quello di ammazzarsi di fatica – principalmente in incursioni per catturare altri disgraziati come lui – e suo padrone lo gettava in mare al primo segno di malattia grave.
Quando la flotta pirata era in porto, gli schiavi vivevano nel “bagno” e facevano tutti i lavori sporchi, pericolosi o estenuanti che il Pasha ordinava. Lavori consueti erano tagliare e trascinare pietre, dragare il porto, o lavori dolorosi. Gli schiavi che si trovavano nella flotta del sultano turco non avevano nemmeno quella scelta. Erano spesso in mare per mesi di fila e restavano incatenati a loro remi anche al porto. Le loro barche erano prigioni a vita.
Altri schiavi sulla Costa dei Barbari avevano i lavori più vari. Spesso svolgevano lavori domestici o agricoli del genere che noi associamo alla schiavitù in America, ma quelli che avevano qualche competenza venivano spesso affittati dai loro proprietari. Alcuni proprietari mandavano in giro i loro schiavi durante il giorno con l’ordine di tornare la sera con una certa quantità di soldi, sotto pena di essere duramente picchiati. I padroni sembravano aspettarsi un profitto di circa il 20% sul prezzo di acquisto. Qualunque cosa facessero, a Tunisi e Tripoli, gli schiavi dovevano tenere un anello di ferro attorno a una caviglia e una catena di 11 o 14 kg di peso.
Alcuni proprietari mettevano i loro schiavi bianchi a lavorare in fattorie lontane verso l’interno, dove correvano un altro rischio: la cattura e una nuova schiavitù dalle incursioni berbere. Questi infelici probabilmente non avrebbero mai più visto un altro europeo per il resto della loro breve vita.
Il Professor Davis osserva che non c’era nessun ostacolo alla crudeltà: «Non c’era alcuna forza equivalente per proteggere lo schiavo dalla violenza del suo padrone: nessuna legge locale contro la crudeltà, nessuna opinione pubblica benevola e raramente pressioni efficaci da parte di stati stranieri».
Gli schiavi bianchi non erano solo merci, erano infedeli e meritavano tutte le sofferenze che il padrone infliggeva loro.
Il Professor Davis osserva che «tutti gli schiavi vissuti nei “bagni” e sopravvissuti per scrivere le loro esperienze, hanno sottolineato la crudeltà e la violenza endemica che vi venivano praticate». La punizione preferita era fustigazione, in cui un uomo veniva messo sulla schiena con le caviglie legate per essere battuto a lungo sulle piante dei piedi.

Uno schiavo poteva ricevere fino a 150 o 200 colpi, che potevano lasciarlo storpiato. La violenza sistematica trasformava molti uomini in automi.
Gli schiavi cristiani erano spesso così numerosi e così a buon mercato che non c’era alcun interesse ad occuparsene; molti proprietari li facevano lavorare fino alla morte e poi li rimpiazzavano.
Gli schiavi pubblici contribuivano anche ad un fondo per mantenere i sacerdoti del bagno. Era un’epoca molto religiosa e anche nelle condizioni più terribili gli uomini volevano avere la possibilità di confessarsi e, soprattutto, di ricevere l’estrema unzione. C’era quasi sempre un sacerdote prigioniero o due nel bagno, ma perché fosse disponibile per i suoi compiti religiosi, gli altri schiavi dovevano contribuire e riscattare il suo tempo al pasha. Alcuni schiavi di galee dunque non avevano più niente per comprare cibo o vestiti, sebbene in certi periodi degli europei liberi che vivevano nelle città della Costa dei Barbari contribuissero al mantenimento dei sacerdoti.
Per alcuni la schiavitù diventava più che sopportabile. Alcuni mestieri, in particolare quello del costruttore di navi, erano così ricercati che un proprietario poteva premiare il suo schiavo con una villa privata e delle amanti. Anche alcuni residenti del bagno riuscivano a sfruttare l’ipocrisia della società islamica e a migliorare la propria condizione. La legge vietava rigorosamente ai musulmani il commercio di alcol, ma era più indulgente con i musulmani che si limitavano a consumarlo. Schiavi intraprendenti organizzarono delle taverne nei bagni e alcuni facevano la bella vita servendo i bevitori musulmani.
Un modo per alleggerire il peso della schiavitù era «prendere il turbante» e convertirsi all’islam. Questo esentava dal servizio nelle galere, dai lavori faticosi e qualche altra vessazione indegna di un figlio del Profeta, ma non faceva cessare la condizione di schiavo. Uno dei compiti dei sacerdoti dei bagni era quello di impedire agli uomini disperati di convertirsi, ma la maggior parte degli schiavi non sembrano aver bisogno di consiglio religioso. I cristiani pensavano che la conversione avrebbe messo in pericolo la loro anima, e significava anche lo sgradevole rituale della circoncisione in età adulta. Molti schiavi sembravano sopportare gli orrori della schiavitù considerandoli come una punizione per i loro peccati e come una prova per la loro fede. I padroni scoraggiavano le conversioni perché limitavano il ricorso ai maltrattamenti e abbassavano il valore di rivendita di uno schiavo.

Riscatto e redenzione degli schiavi bianchi
Per gli schiavi, la fuga era impossibile. Erano troppo lontani da casa, spesso erano incatenati ed erano immediatamente identificabili dai loro tratti europei. L’unica speranza era il riscatto.
A volte la salvezza arrivava in fretta. Se un gruppo di pirati aveva già catturato tanti uomini che non c’era più abbastanza spazio sotto il ponte, poteva fare un’incursione in una città e poi tornare qualche giorno più tardi per rivendere i prigionieri alle loro famiglie. Era di solito ad un prezzo notevolmente inferiore a quello del riscatto di chi si trovava nell’Africa del Nord, ma era molto di più di quanto i contadini potessero permettersi. Gli agricoltori normalmente non avevano denaro in contanti e non avevano altri beni che la casa e la terra. Un mercante era generalmente disposto ad acquistarlo a modico prezzo, ma ciò significava che un prigioniero tornava in una famiglia completamente rovinata.
La maggior parte degli schiavi potevano prospettarsi il ritorno solo dopo essere passati attraverso il calvario del passaggio in un paese del Nordafrica e la vendita a uno speculatore. I prigionieri ricchi generalmente potevano trovare un riscatto sufficiente, ma la maggior parte dei schiavi non potevano. I contadini analfabeti non potevano scrivere a casa e anche se lo avessero fatto, non c’erano soldi per un riscatto.
La maggior parte degli schiavi dipendeva dall’opera caritatevole dei Trinitari (fondata in Italia nel 1193) e dei Mercedari (fondata in Spagna nel 1203). Questi gli ordini religiosi erano stati fondati per liberare i crociati detenuti dai musulmani, ma ben presto passarono a dedicarsi all’opera di riscatto degli schiavi detenuti dai barbareschi, raccogliendo denaro appositamente per questo scopo. Spesso mettevano davanti alle chiese delle cassette con la scritta «per il recupero dei poveri schiavi», e il clero invitava i cristiani ricchi a lasciare soldi per l’esaudimento dei loro voti. I due ordini divennero abili negoziatori e riuscivano a riscattare gli schiavi a prezzi migliori di quelli ottenuti da liberatori inesperti. Tuttavia non c’era mai abbastanza denaro per liberare molti prigionieri, e il Professor Davis ha stimato che in un anno venivano riscattati non più del 3 o 4% degli schiavi. Questo significa che la maggior parte hanno lasciato le loro ossa nelle tombe cristiane senza un contrassegno fuori dalle mura delle città.
Gli ordini religiosi tenevano conti precisi dei risultati conseguiti. I Trinitari spagnoli, per esempio, hanno effettuato 72 spedizioni di riscatto nel Seicento, con una media di 220 liberazioni ciascuna. Era consuetudine portare gli schiavi liberati nelle loro case e farli passare per le strade delle città in grandi celebrazioni. Queste parate divennero uno degli spettacoli urbani più caratteristici del tempo e avevano un forte orientamento religioso. A volte gli schiavi camminavano con i loro vecchi stracci di schiavi per evidenziare i tormenti che avevano sofferto; talvolta indossavano speciali costumi bianchi per simboleggiare la rinascita. Secondo i registri del tempo, molti schiavi liberati non si ristabilirono mai completamente dopo il loro calvario, soprattutto se essi aveva trascorso molti anni in cattività.

Quanti schiavi?
Il Professor Davis nota che sono state fatte enormi ricerche per calcolare il più precisamente possibile il numero di neri trasportati attraverso l’Atlantico, ma che non c’è stato uno sforzo analogo per conoscere l’estensione della schiavitù nel Mediterraneo. Non è facile ottenere dati affidabili, anche gli arabi generalmente non conservavano archivi. Ma nel corso di oltre dieci anni di ricerca il Professor Davis ha sviluppato un metodo di calcolo.
Ad esempio, gli archivi suggeriscono che dal 1580 al 1680 c’è stata una media di circa 35.000 schiavi nei paesi di Barberia. C’era una perdita costante per morti e riscatti, così se la popolazione rimaneva costante, il tasso di cattura di nuovi schiavi da parte dei pirati doveva essere tale da pareggiare le perdite. C’è una buona base per stimare il numero dei decessi. Per esempio, sappiamo che dei quasi 400 islandesi catturati nel 1627, solo 70 erano ancora vivi otto anni più tardi. Oltre alla malnutrizione, al sovraffollamento, all’eccesso di lavoro e alle punizioni brutali, gli schiavi subivano delle epidemie di peste, che eliminavano solitamente il 20 o 30% degli schiavi bianchi.
In base a un certo numero di fonti, il Professor Davis calcola pertanto che il tasso di mortalità era circa il 20% all’anno. Gli schiavi non avevano accesso alle donne, quindi la sostituzione avveniva esclusivamente per mezzo delle catture.

La sua conclusione: Tra il 1530 e il 1780, quasi certamente 1 milione e probabilmente fino a 1 milione e un quarto di cristiani europei bianchi sono stati ridotti in schiavitù dai musulmani della Costa dei Barbari.

Questo supera notevolmente la cifra generalmente accettata di 800.000 africani trasportati nelle colonie del Nord America e successivamente negli Stati Uniti.
Le potenze europee non furono in grado di porre fine a questo traffico.
Il Professor Davis spiega che alla fine del Settecento controllavano meglio questo commercio, ma ci fu una ripresa della schiavitù dei bianchi durante il caos delle guerre napoleoniche.

Neppure la navigazione americana si salvava dalla predazione. Fu solo nel 1815, dopo due guerre contro di loro, che i marinai americani riuscirono a liberarsi dei pirati barbareschi. Queste guerre furono operazioni importanti per la giovane Repubblica; una campagna è ricordata dalle parole «verso le coste di Tripoli» nell’inno della marina.
Quando i francesi presero Algeri nel 1830, c’erano ancora 120 schiavi bianchi nel bagno.
Perché c’è così poco interesse per la schiavitù nel Mediterraneo a fronte di un’infinità di studi e riflessioni sulla schiavitù dei neri? Come spiega il Professor Davis, schiavi bianchi con padroni non bianchi non si inquadrano nella «narrativa dominante dell’imperialismo europeo». Gli schemi di vittimizzazione tanto cari agli intellettuali richiedono malvagità bianca, non sofferenze bianche.
Il Professor Davis osserva anche che l’esperienza europea della schiavitù su larga scala rende evidente la falsità di un altro tema favorito della sinistra: che la schiavitù dei neri sarebbe stata un passo fondamentale nella creazione di concetti europei di razza e gerarchia razziale.
Non è il vero; per secoli, gli stessi europei sono vissuti nella paura della frusta, e molti hanno partecipato alle parate della redenzione degli schiavi liberati, che erano tutti bianchi. La schiavitù era un destino più facilmente immaginabile per se stessi che per i remoti africani.
Con un piccolo sforzo, è possibile immaginare gli europei preoccupati per schiavitù tanto quanto neri. Se per gli schiavi delle galere gli europei avessero nutrito lo stesso risentimento dei neri per i lavoratori nei campi, la politica europea sarebbe stato sicuramente diversa. Non ci sarebbe la continua richiesta di scuse per le crociate, l’immigrazione musulmana in Europa sarebbe più modesta, non spunterebbero minareti per tutta l’Europa e la Turchia non sognerebbe di entrare nell’Unione europea. Il passato non può essere cambiato e può essere esagerato coltivare rimpianti, ma chi dimentica si ritrova a pagare un prezzo elevato.

Fonti: Robert C. Davis, Christian Slaves, Muslim Masters: White Slavery in the Mediterranean, the Barbary Coast, and Italy, 1500-1800, Palgrave Macmillan 2003, 246 pagine, 35 dollari US.

Il genocidio velato
Sotto l’avanzata araba, milioni di africani furono razziati, massacrati o catturati, castrati e deportati nel mondo arabo-musulmano, da parte dei mercanti di carne umana dell’Africa orientale. Questa è stata in realtà la prima impresa degli arabi che hanno islamizzato i popoli africani, spacciandosi per pilastri della fede e modelli dei credenti. (Qui, traduzione mia)

barbara

Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi, de łi arabi, de łi turki

MessaggioInviato: dom giu 28, 2015 8:22 am
da Berto
I saraceni ridussero in schiavitù milioni di cristiani: facciamo che la Storia non si ripeta

http://www.ioamolitalia.it/blogs/verita ... ipeta.html

Ogni islamico accolto in Europa, è un po' come l’acquisto di un biglietto alla lotteria del terrorismo. Ovviamente la stragrande maggioranza dei biglietti non saranno vincenti, ma più se ne acquistano, maggiori sono le probabilità che venga estratto un terrorista, oppure il padre, il nonno, o il bisnonno di un terrorista.

Queste geniali righe del mio amico Stefano Cattaneo, riassumono quello che sta succedendo. Il problema terrorismo, peraltro è un problema minore. Capisco che trovarsi con le gambe spappolate o direttamente defunti sia sgradevole e che, per coloro cui è successo, possa essere irritante essere definiti un problema minore, ma se ci mettiamo a fare i conti dei morti ammazzati sul suolo europeo dal terrorismo islamico, otteniamo una cifra ben più piccola dei morti uccisi sulle strade il sabato sera. La grandiosità del terrorismo islamico è il famoso detto “colpirne uno per educarne mille”. Erano tutti Charlie, ma l’incredibile armata dei difensori della libertà si è un po’ spampanata come i soffioni nella brezza della sera, e ora non c'è più un accidenti di nessuno: la parola islam in Francia è stata giudiziosamente cancellata dalla quarta di copertina dei pochi saggi che osano esserne critici. L’autocensura e la vigliaccheria sono problemi ben maggiori, l’ingresso spropositato di un’immigrazione aggressiva, anche se nessuno mette nessuna bomba, distruggerà la nostra economia e il nostro tessuto sociale.

In una giornata come quella di venerdì, mentre notizie folli ma prevedibili si inseguivano, ho voluto ricordare la mia famiglia. Quando ero bambina, mio padre me ne raccontò la storia. Discendevamo, secondo lui, da un ramo cadetto che si era andato a disperdere nel Meridione, di una famiglia di Genova, in realtà originaria dalla Corsica, la parte settentrionale, dove in effetti poco distante da Macinaggio c’è la torre dei De Mari o Da Mare e lì, nel dodicesimo secolo, o forse in quello prima o in quello dopo, tale Barbara De Mari, vedova, combatté contro i saraceni per proteggere la sua vita e quelli di coloro che le erano affidati. Dice la leggenda che combattesse con un’ascia e non con la spada, perché lei era femmina e la spada non le toccava, o più semplicemente perché un’ascia è un’arma dove la forza si concentra su un filo più corto e quindi anche una donna nonostante la minore forza muscolare può dare un colpo mortale.

Quella dei pirati saraceni è una tragedia dimenticata e quando un popolo dimentica e rinnega la propria storia si sta candidando a diventare un popolo di schiavi o un popolo di morti. Per secoli e secoli le navi di schiavisti hanno solcato il Mediterraneo per depredare le coste di milioni di uomini. Le coste sono state abbandonate, i porti si sono insabbiati e impaludati, la Magna Grecia è diventata una terra di contadini e pecorai analfabeti. La Corsica e la Sardegna sono civiltà di contadini e pastori e non di marinai perché le coste erano abbandonate, dalle coste veniva la morte, venivano i saraceni, veniva il nemico. Nell’islam è vietato rendere schiavo un musulmano. Gli schiavi non potevano riprodursi, come in Brasile e negli Stati Uniti, perché i loro figli sarebbero stati probabilmente islamici, non avrebbero potuto essere schiavi, quindi morivano nel giro di pochi anni senza discendenza, senza lasciare traccia, così che sono stati dimenticati. Dato che siamo intelligenti e la buttiamo sul ridere, sul dramma delle donne rapite abbiamo scritto Il ratto nel Serraglio e Un’italiana ad Algeri, e poi quella tragedia l’abbiamo dimenticata.

Guardavo il mare, un mare che era stato difeso dalla Repubblica Veneta, e ascoltavo la voce di mio padre. I popoli che hanno dimenticato che la libertà e la terra si difendono, sono destinati a essere popoli di schiavi o di morti.


di Silvana De Mari 27/06/2015 21:53:13

Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi, de łi arabi, de łi turki

MessaggioInviato: dom ago 30, 2015 7:03 pm
da Berto
Islam razzista: tra il 1530 e il 1780 oltre un milione di cristiani europei bianchi sono stati ridotti in schiavitù dai musulmani

http://www.ioamolitalia.it/blogs/cittad ... lmani.html

Ci si chiede ancora perché negli ultimi decenni l’ininterrotto genocidio di cristiani nei paesi musulmani abbia avuto così poca eco sui media, nella politica e anche in seno alla Chiesa e all’Occidente Cristiano. Persino i parroci, e non pochi, nelle prediche delle messe domenicali evitavano l’argomento. Alla fine del rito i fedeli, quelli informati, uscivano dalla chiesa perplessi, se non depressi.

Solo gli ultimi due papi hanno cominciato a denunciare il genocidio, e con maggior frequenza papa Francesco, il quale pur compiangendo le vittime, evita di nominare i carnefici. Come se fosse da maleducati dire che sono stati i musulmani integralisti o terroristi. Come se non si volesse metterli in cattiva luce: perché se sgozzano la gente e non si sa, si evita che cresca la paura nei loro confronti. Se invece si venisse a sapere, potrebbe diffondersi, oh che vergogna, l’islamofobia.

Può sorgere il dubbio, e a me viene, che questo atteggiamento della Chiesa e dell’Occidente, invece di alimentare un’atmosfera irenica e rappacificante, possa aver incattivito ancor più gli islamici. Eh, sì: perché i terroristi vogliono, seguendo un dettato coranico, terrorizzare gli infedeli, per piegarli e dominarli. Però se i terroristi nessuno “se li fila”, se nessuno parla dei cristiani crocifissi, se i telegiornali glissano su quei fattacci, i terroristi islamici possono aver l’impressione di aver lavorato tanti anni per niente. Di fatto, appena hanno imparato a usare internet, anche questi macellai di esseri umani, hanno provveduto in proprio a diffondere notizie e documentazioni orripilanti sui loro misfatti. Come se avessero detto: “Voi cristiani” fate il nesci”? Ci pensiamo noi a informare il mondo”.

Non sono riusciti subito nell’intento, ma a forza di decapitare, violentare, deportare, distruggere monumenti antichi, rendere schiave le donne catturate, ecc., alla fine hanno ottenuto che l’Occidente cristiano non potesse più continuare a far finta di niente. Intanto il Califfato islamico s’è diffuso a macchia d’olio e i paesi occidentali si sono riempiti non solo di veri profughi, ma anche di pseudo-rifugiati islamici, nella cui moltitudine si mimetizzano malintenzionati, che hanno portato il terrorismo in casa nostra, come tutti sanno, ma pochi se ne curano. E il peggio deve venire.

E’ noto che gli sconvolgimenti economici, politici, etnici e sociali in atto derivano da precise azioni e strategie volute da centri di potere di rilievo mondiale. Su questo non mi soffermo, perché per necessaria brevità voglio accennare solo ad alcuni specifici punti di un paio di questioni: quella del complesso rapporto tra cristiani e musulmani e di quello di una colossale e trascurata tratta di schiavi.

Inizio osservando che tra noi ci sono i giustificatori degli estremisti islamici, e sono quelli che si aggrappano sempre allo stesso argomento, cioè le Crociate, di cui fra l’altro non mi pare che il mondo cristiano si faccia un particolare vanto. Anzi, dopo che un papa “ha chiesto perdono” per le Crociate, l’argomento pare chiuso. Fra l’altro, se l’avete dimenticato, la Chiesa ci ha pure "sconsigliato" di parlar delle Crociate. Giusto per darvi un "aiutino" mnemonico, rivedetevi (c’è su internet) il documento "Nostra Aetate", prodotto in seno al Concilio Vaticano II (1962-1965). Questo documento, con parole chiare che impegnano i credenti, afferma che “La Chiesa guarda ...con stima i musulmani” e che “il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione”. Ciò deve condurre i cristiani ad accantonare il fatto che “nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani”. Menzionare in toni anche velatamente positivi le Crociate (XI-XIII sec.), la riconquista di Granada (1492) o la Battaglia di Lepanto (1571), si dice che vada quindi contro un preciso dettato del Concilio.

Non pare che il documento “Nostra Aetate”, pur impegnando i cristiani, abbia mai scalfito le strategie dell’integralismo islamico. Che anzi si fanno più cruente, per cui anche la Chiesa dovrebbe rivedere il proprio atteggiamento. Superando possibili “code di paglia”. E’ una mia gratuita malignità: forse quell’atteggiamento conciliare pro-islamico, tendeva a mettere la Chiesa al riparo da possibili critiche su certe trascorse “cristianizzazioni forzate”, specie nel “Nuovo Mondo” e non solo. Peraltro questo non traspare e l’esortazione conciliare riguarda solo i rapporti fra cristiani e musulmani. Quello è il tema e io mi ci attengo, per ora.

Nel diramare ai cristiani queste “raccomandazioni”, ci si chiede perché gli estensori del “Nostra Aetate” sembrino aver trascurato che i paesi musulmani del Medio Oriente, dei Balcani e del Nord Africa, sono stati in gran parte cristiani prima della conquista islamica. Nei primi quattro secoli della grande espansione araba, precedenti l’epoca delle Crociate, in quei paesi gli islamici avevano già ucciso o fatto schiavi un numero incalcolabile di cristiani, o li avevano costretti alla conversione. Chi aveva eroicamente conservato la fede in Cristo, era ridotto allo spregevole ruolo di “dhimmi” e sottoposto a pesanti discriminazioni. La prima crociata (nel 1095) fu indetta solo dopo 450 anni di espansionismo islamico guerresco, a cominciare dal 632 d.C. Se a disdoro dei crociati si cita la strage di Gerusalemme del 1095, va ricordato che secoli di aggressioni contro i cristiani, avevano a questi già procurato lutti impareggiabili. E chi eccepisce le “efferatezze dei crociati”, dovrebbe ricordare che gli islamici le guerre non le hanno fatte certo per beneficenza, come vedremo più avanti. E che il “conto”dei danni che hanno prodotto è impossibile da pareggiare. Anzi, a tutt’oggi, s’aggrava. Restano ovviamente fuori dal tema, i conflitti fra musulmani e popolazioni di altra fede, non cristiana.

A tanta gente è rimasta solo una schematica immagine mnemonica delle Crociate, residuo di apprendimenti scolastici, ormai obliati. Per alcuni sono state un’epopea gloriosa e sfortunata, per altri un errore o un orrore esecrando. In Marocco ho constatato che la percezione delle Crociate nella gente comune, si è formata sulla base della vasta produzione di film sull’argomento, soprattutto di provenienza egiziana. In questi film si dipingono i combattenti arabi come fulgidi eroi della fede, mentre i crociati appaiono come i più spregevoli sterminatori da film “horror”. La verità storica non è ovviamente né questa né quella. Non faccio qui tutta la storia, ma solo qualche puntualizzazione.

Le Crociate non videro affatto sempre due ben distinti schieramenti contrapposti, cristiani da una parte e musulmani di fronte. Nella Quinta Crociata, ad esempio, ci fu l’inedita alleanza tra crociati e musulmani Selgiuchidi, in contrapposizione ai musulmani che difendevano Damietta, in Egitto. E la guerra si complicò con scontri fratricidi interni in entrambi gli schieramenti, con un esito fallimentare della guerra per tutti. La spedizione per la Quarta Crociata aveva precedentemente perso per via destinazione e scopo, e aveva mutato percorso. La si ricorda per la conquista crociata di Zara e Costantinopoli e fu quasi unicamente una guerra fra cristiani. I musulmani in Terra Santa non vennero disturbati.
Quello straordinario personaggio che fu Federico II di Svezia condusse la Sesta Crociata, la più pacifica che si ricordi. Senza spargimenti di sangue, da uomo geniale, esperto di cultura e lingua araba, condusse una trattativa col sultano Al Malik Al Kamil e ottenne, seppure a titolo oneroso, il rispetto di alcuni diritti dei cristiani in Terra Santa. I musulmani riconobbero quindi ai crociati certe buone ragioni, che certi filo-islamici di oggi ancora non capiscono. Ma il confronto, allora, s’era svolto tra due personaggi di grande intelligenza.

Le Crociate furono quindi fatti eterogenei, che pare quasi arduo ricomprendere tutti sotto la stessa denominazione. Certi storici infatti la pensano così e non tutte le Crociate le considerano come tali. Ne è un esempio la cosiddetta “crociata dei clavisegnati”, promossa dal pontefice contro l’imperatore Federico II di Svezia, già scomunicato e reo, per il papa, di dubbie prestazioni politiche. E qui mi fermo perché è evidente che quegli eventi non sono passibili tutti d’ un identico giudizio. E, come argomento per una polemica anticristiana, hanno discutibile efficacia. Ancor di più se si contestualizzano nell’epoca e nella storia complessiva del periodo.

Ad esempio, sono note le vicende delle aggressioni ottomane nei Balcani alla Polonia e nell'Italia del sud. E degli assalti via mare dei Turchi-Mori-Saraceni-Barbareschi e come diavolo li hanno chiamati, ma sempre musulmani, in tutti i paesi rivieraschi del Mediterraneo, per milleduecento anni, con l'Italia in prima linea, penetrando all'interno del continente fino ad arrivare in Svizzera. Corsari musulmani risalirono l’Atlantico, e penetrare nell’estuario del Tamigi. Giunsero persino in Islanda nel 1627 e vi fecero 400 prigionieri, deportati come schiavi.

La “Costa dei Barbari”, come veniva chiamata quella che si estende dal Marocco fino all’attuale Libia, fu sede di un ultramillenario mercato di esseri umani, che toccò il suo massimo sviluppo dal 1500 fino a poco dopo l’inizio del 1800. Secondo gli storici, nel solo XVI secolo, gli schiavi bianchi razziati dai musulmani furano più numerosi dei neri deportati nelle Americhe. Soltanto nel periodo compreso tra il 1530 e il 1780, almeno 1 milione e probabilmente 1 milione e 250 mila cristiani europei bianchi sono stati ridotti in schiavitù dai musulmani della Costa dei Barbari. Anche gran parte del mercato degli schiavi neri, destinati all’America, era nelle mani dei musulmani, che razziavano schiavi specie nell’Africa Subsahariana per condurli poi, nell’ambito di terribili trasmigrazioni coatte, verso gli imbarchi sulla costa Atlantica, dove gli schiavi superstiti passavano nelle mani di trafficanti bianchi.

“Per almeno 10 secoli la schiavitù ha portato benefici al mondo musulmano. Quattro milioni di schiavi sono passati per il Mar Rosso, altri quattro hanno transitato per i porti dell'Oceano Indiano, forse nove milioni sono quelli che hanno attraversato il deserto del Sahara. Da undici a venti milioni – dipende da chi si consulta – hanno solcato l'Atlantico”. (da Elikia M’bokolo, “The impact of the Slave Trade in Africa”). Lo schiavismo di matrice islamica superò abbondantemente l’analogo fenomeno di matrice non islamica. Nei sacri testi dell’islam la schiavitù è un realtà asserita, né pare che a tutt’oggi sia stata espunta dalla dottrina. Le cronache della guerra in Medio Oriente, ci riferiscono quotidianamente di popolazioni ridotte in schiavitù dagli eserciti del Califfato. E le documentazioni filmate, che gli islamisti graziosamente diffondono, ce ne danno conferma.

Si è studiata a fondo la schiavitù degli africani ad opera dei bianchi, ma s’è a lungo trascurata la schiavitù dei bianchi, prevalentemente europei e cristiani con padroni musulmani. Oggi questa lacuna è stata ridimensionata. E ha descritto quella che viene definita «l’altra schiavitù», sviluppatasi all’incirca nello stesso periodo della deportazione degli schiavi neri in America, e che ha devastato centinaia di comunità costiere europee. Fenomeno connesso all’ “altro imperialismo” e all’altro “colonialismo”, che è quello legato all’espansionismo islamico. I grandi mercati di schiavi furono a Salé in Marocco (presso Rabat), a Tunisi, Algeri e Tripoli, soprattutto nel periodo in cui le Marine europee erano troppo deboli per opporre resistenza.

Massacri, stupri, deportazione di schiavi, distruzioni di paesi, città e chiese, solo per la parte che riguarda l'Italia furono innumerevoli e durarono secoli e secoli. Tanto per citare alcuni fatti emblematici, gli ultimi italiani (una trentina) fatti schiavi da pirati magrebini furono liberati, e tornarono in patria, grazie alla mediazione del governo inglese attorno al 1830. Quando i francesi presero Algeri nel 1830, c’erano ancora 120 schiavi bianchi nel “bagno”, come veniva chiamato il negozio o mercato in cui si vendevano gli schiavi. Non è quindi storia remota, quella della “schiavitù mediterranea”. Durante i secoli XVI e XVII furono condotti più schiavi verso Sud nel Mediterraneo che verso Ovest attraverso l’Atlantico. E l’Italia per i corsari fu una meta assai apprezzata. A Vieste vennero fatti 6000 prigionieri, al netto di quelli decapitati in loco. Gli algerini nel 1544 presero 7.000 schiavi nel Golfo di Napoli. Ciò fece crollare il prezzo degli schiavi a tal punto che si diceva che si poteva «scambiare un cristiano per una cipolla» e, per lo stesso motivo, si diceva che «piovevano cristiani su Algeri». Nel 1566, 6.000 turchi attraversarono il Mare Adriatico e sbarcarono a Francavilla e razziarono tutto il possibile. A Otranto nel 1480 fecero migliaia di schiavi e nella Cattedrale ne decapitarono 800 che avevano rifiutato la conversione all’islam. In Calabria 700 persone furono catturate nel 1636, circa 1000 nel 1639 e 4.000 nel 1644. Impossibile in questa sede completare l’interminabile elenco. Ricordo che, nelle mie visite in Marocco, una guida turistica locale, non so quanto attendibile,mi enumerava le decine di miglia di schiavi cristiani impiegati nella costruzione di fortezze e edifici storici.

Oggi, se si parla di tratta degli schiavi, la gente pensa ai neri condotti in America. L’Occidente, in piena decadenza, oblia se stesso e la propria storia, si auto-flagella e si prostra alle ragioni altrui dimenticando le proprie. La schiavitù dei bianchi, invece, deve essere ricordata. Ha determinato un colossale martirio di esseri umani, per mano di chi, ancora oggi, potrebbe infliggerci sotto qualsiasi forma una nuova schiavitù. Mentre noi, all’ombra di nuovi minareti, ancora chiediamo perdono per le Crociate.
di Vittorio Zedda 30/08/2015 14:58:54

Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi, de łi arabi, de łi turki

MessaggioInviato: mar gen 26, 2016 10:37 am
da Berto
La Rivolta degli Zanj (869-883): Parte 1
marzo 26, 2015 Zweilawyer
Questo articolo traduce, sintetizza ed integra un eccellente studio sulla Rivolta degli Zanj pubblicato in tedesco dal Prof. Theodor Noldeke e tradotto in inglese da John Sutherland Black per il volume Sketches From Eastern History nel 1892.

http://zweilawyer.com/2015/03/26/la-riv ... 83-parte-1

Oltre a narrare le straordinarie (e sconosciute ai più) vicende della ribellione di schiavi neri (“Zanj” sta per “negro” in persiano. “Zanzibar” infatti si traduce come “Terra dei Negri”) più rilevante di sempre, il testo tocca, in via incidentale, degli argomenti che non mancheranno di suscitare la vostra curiosità: le correnti interne all’Islam, la presenza degli “Zutt”, ovvero degli zingari, nell’Iraq meridionale del IX secolo, l’intolleranza del Califfo Mutawakkil nei confronti degli altri culti, l’abbattimento dell’albero sacro degli Zoroastriani e molto altro.

Quando il Califfo Mutawakkil venne assassinato, per ordine di suo figlio, l’11 o il 12 Dicembre 861, la struttura dell’Impero Abbaside iniziò a collassare. Le truppe, sia quelle Turche che le altre, insorsero e deposero i Califfi; i generali, molti dei quali un tempo erano stati schiavi come quelli che ora comandavano, lottavano per un potere che spesso dipendeva dall’umore dell’esercito. Nelle province nacquero nuovi governatori che, nella maggior parte dei casi, pensavano non fosse necessario riconoscere il Califfo come loro signore, anche solo dal punto di vista formale. Nelle grandi città della regione del Tigri ci furono gravi tumulti popolari. La pace e la sicurezza erano garantite solo dove il governatore, in pratica indipendente, esercitava il potere in modo ferreo.

Al-Mutawakkil non ebbe mai grande apprezzamento per le altre fedi presenti nell’Impero. Nell’850 emanò un decreto che costringeva i Dhimmi (in maggioranza Ebrei e Cristiani) a vestire abiti che li distinguessero dai Musulmani. Inoltre i loro luoghi di culto furono distrutti e furono estromessi dalle cariche pubbliche.
Quelli cui andò peggio furono i Zoroastriani, poiché Mutawakkil ordinò di abbattere il loro albero sacro, il Cipresso di Kashmar, per utilizzarlo nella costruzione del suo nuovo palazzo. Per sua sfortuna, fu assassinato prima dell’arrivo dell’albero.

Questa situazione interna ci aiuta a comprendere come, un avventuriero intelligente e senza scrupoli possa essere stato in grado di creare, non lontano dal cuore dell’Impero, un dominio che per lungo tempo divenne il terrore delle regioni confinanti. Egli riuscì inoltre ad accaparrandosi il supporto delle classi più disprezzate della popolazione. Il suo regno si piegò solo dopo 14 anni di attacchi da parte del Califfato, che nel frattempo era riuscito a recuperare parte della sua antica forza.
Alì inb Muhammad, proveniente da un villaggio non lontano dall’odierna Teheran, si proclamò discendente di Alì ibn Abi Talib e di sua moglie Fatima, la figlia del Profeta. Visto che nel IX secolo i discendenti di Alì (non tutti persone di buona nomea) erano ormai migliaia, la sua affermazione poteva essere vera così come poteva essere una semplice invenzione.
A detta di alcune autorità la sua famiglia proveniva dal Bahrein, una regione dell’Arabia nord-orientale, ed apparteneva ad un ramo della tribù di Abdalkais, che risiedeva lì. Ad ogni modo, egli passò per essere un uomo di sangue Arabo.
Prima di rivelarsi al mondo, si narra che Alì rimase per qualche tempo, assieme ad altri avventurieri , in Bahrein, cercando di farsi un seguito lì. Questa notizia sembra essere confermata dal fatto che diversi dei suoi seguaci più importanti provenivano da quella regione.
Fra questi c’era lo schiavo liberato nero noto con il nome di Sulaiman, figlio di Jami, uno dei suoi generali più capaci. L’ambizioso Alì, sfruttando una situazione di prevalente anarchia, cercò di assicurarsi una base a Basra. Questa grande città commerciale, dopo Bagdad il luogo più importante delle province centrali, era in grave sofferenza a causa del conflitto tra due fazioni, con ogni probabilità rappresentate dagli abitanti di due differenti quartieri della città. Qui Alì non ebbe grande fortuna; alcuni dei suoi seguaci, e anche i membri della sua famiglia, furono imprigionati, una sorte che evitò fuggendo a Bagdad. Poco dopo però, in seguito a un cambio di governatore, a Basra ci furono nuovi scontri, le prigioni furono aperte, e Alì si recò nuovamente in loco.
Egli aveva già esaminato in modo accurato il terreno adatto ai suoi piani.
Conosciamo solo marginalmente il luogo degli accadimenti relativi all’ascesa di Alì. Sappiamo che, in quel tempo, l’Eufrate, si immetteva in una regione di laghi e acquitrini, connessi al mare da canali di marea.
La più importante di queste acque era vicino a Basra, che si trovava più a ovest rispetto alla moderna, e molto più piccola, città con lo stesso nome (Bussorah). Questo luogo e le sue vicinanze erano attraversati da moltissimi canali (si dice più di 120.000). Sempre in quel periodo, il ramo principale del Tigri era quello a sud, ora chiamato Shatt al Hai, su cui sorgeva la città di Wàsit.
C’erano quindi alcune differenze geografiche rispetto a oggi, anche perché allagamenti e argini rotti avevano trasformato molte terre fertili in paludi; mentre, all’opposto, il prosciugamento e la costruzione di argini ne avevano bonificato molte altre.
In linea di massima, quella che era una terra ridente era divenuta selvaggia a causa dell’espansione degli acquitrini e dal riempimento di limo e ostruzione dei canali di drenaggio. Erano cambiati anche i letti dei fiumi. In considerazione di quanto detto, possiamo seguire solo in modo vago i riferimenti topografici molto precisi dettagliati dalle fonti nel descrivere le campagne contro Alì ed i suoi uomini.
A poca distanza a est di Basra c’erano ampi piani, attraversati da fossi, in cui un gran numero di schiavi neri, la maggior parte provenienti dalla costa orientale africana, la terra degli Zanj, erano impiegati per scavare via la superficie nitrosa del suolo e mettere a nudo il fertile terreno sottostante. Al tempo stesso, questi venivano utilizzati anche per raccogliere il salnitro presente nello strato superiore del terreno.
Il lavoro degli schiavi era massacrante e la supervisione molto stretta. Il sentimento di affetto che, in Oriente, legava lo schiavo alla famiglia in cui viveva ed era cresciuto, era qui del tutto assente.
D’altro canto però, in simili masse di schiavi che lavorano insieme nasce facilmente una comunione di sentimenti, un comune senso di rabbia verso i padroni, e, sotto determinate condizioni favorevoli, la presa di coscienza della propria forza; queste, opportunamente combinate, sono le condizioni di un’insurrezione su larga scala. Avvenne questo durante le guerre combattute contro gli schiavi nell’ultimo secolo della Repubblica Romana, e la stessa cosa accadde qui.

I procacciatori di schiavi catturavano gli schiavi direttamente (specie le tribù nomadi), o tramite compravendite con i regni locali, come ad esempio quello del Ghana, l’Impero Gao o, in seguito, l’Impero del Mali. In questo caso, tutto quello che i musulmani dovevano fare era recarsi presso i vari mercati regionali (Gao, Aghordat, o altri locali) ed acquistare i prigionieri catturati nelle guerre interne.
Oltre a questo, i regni vassalli venivano spesso costretti a pagare un tributo in schiavi. Il primo fu istituito nel 652 a carico del regno di Nubia, e prevedeva l’invio di 360 schiavi l’anno (un numero che probabilmente fu aumentato nel tempo), oltre a elefanti e altri animali selvatici. Il regno di Nubia continuò a pagare ininterrottamente per circa cinquecento anni.
Musa bin Nusair, uno dei più grandi generali arabi di tutti i tempi, ridusse in schiavitù 300.000 Berberi infedeli, di cui 30.000 divennero schiavi-soldato. Successivamente, durante la campagna che lo portò a disintegrare il regno Visigoto (711–15), Musa riuscì a riportare in nord-Africa 30.000 vergini gote.
Alì comprese la forza latente di quegli schiavi neri. Il fatto che egli fu in grado di mettere in moto questa forza, e di svilupparla in una potenza che richiese molto tempo ed enormi sforzi per essere stroncata, dimostra che egli fu un uomo di grande acume. Il “capo degli Zenj”, “Alid” o il “falso Alid” gioca un ruolo molto importante negli annali dei suoi tempi, tanto che è facile comprendere perché la nostra fonte principale, Tabarì, preferisse chiamarlo “l’abominevole”, “il malvagio” o “il traditore”.
A Babilonia già una volta uno Arabo di talento e senza scrupoli aveva sfruttato un periodo di confusione istituzionale per far nascere un regno basato su pretesti religiosi con l’aiuto delle classi più disagiate. Lo scaltro Mokhtàr aveva fatto appello alla popolazione Persiana e ai mezzo-sangue Persiani delle grandi città, in particolare Cufa, cui i dominatori Arabi, in quei primi anni dell’Islam, guardavano con grande disprezzo (685-687). Ma Alì andò molto più a fondo, e rimase al potere molto di più di Mokhtàr.
Prima di rivelarsi apertamente, Alì aveva cercato fra gli strati più derelitti della popolazione (in particolare fra gli schiavi liberati) gli strumenti adeguati all’esecuzione dei suoi piani.
All’inizio del settembre 869 si recò presso il distretto del salnitro sotto le mentite spoglie dell’uomo d’affari di una ricca famiglia, e iniziò a provocare gli schiavi. Secondo le fonti, egli si rivelò definitivamente il 10 settembre 869.
Aizzò gli schiavi neri sottolineando quanto fossero infime le loro condizioni d vita e promise loro che, se lo avessero seguito, avrebbero ottenuto libertà, benessere e… schiavi. Avete capito bene, Alì non aveva alcun interesse a predicare la necessità l’uguaglianza universale o un generale benessere, ma cercava di convincere gli schiavi neri che dovevano essere loro a primeggiare.

Ovviamente, Alì non si fece problemi a mascherare il suo piano da questione religiosa. Davanti ai suoi seguaci, egli proclamava la restaurazione della vera giustizia e che nessuno, a parte loro, erano veri credenti o destinati a rivendicare i diritti terreni e divine del vero Musulmano.
In un tempo di superstizioni e feroce utilizzo delle posizioni religiose, Alì riuscì a fare presa sia sui sentimenti più nobili che su più bassi delle masse disagiate. Il suo fu un successo completo.
In pratica si fece passare per un messaggero divino, e ai neri sembrò effettivamente esserlo, ma che ne fosse davvero convinto è difficile a credersi. Da quello che sappiamo di lui, sembra che Alì fosse un freddo calcolatore, anche se in realtà conosciamo meglio le sue gesta militari che non la sua vera personalità.
Alì affermò dunque di essere un discendente di Alì, il genero di Maometto, e quindi ci si poteva aspettare che, come avevano fatto altri, iniziasse a sbandierare la natura divina della sua famiglia e fondasse una setta Sciita. Al contrario, egli si dichiarò a favore della dottrina dei nemici più decisi della legittimità di quella Sciita. Questi erano i Khargiti, i quali sostenevano che solo i primi due Califfi erano stati legittimi, mentre ripudiavano Othmàn e Alī ibn Abī Ṭālib, perché avevano fatto proprie idee secolari. Sostenevano anche che avrebbe dovuto regnare solo “l’uomo migliore”, anche se fosse stato uno “Schiavo Abissino”. Visto che si consideravano gli unici veri musulmani, non si facevano problemi a uccidere e schiavizzare i loro nemici musulmani e le loro famiglie.
Alì portava la scritta “Alì, figlio di Maometto” sul suo stendardo, ma gli schiavi non lo avrebbero seguito basandosi solo sulla sua presunta discendenza. Il passo decisivo fu proprio far credere loro di essere gli unici veri Musulmani e legittimi massacratori o padroni di tutti gli altri.
Nello scegliere la dottrina adatta ad infiammare gli animi degli Zanj, Alì, quasi sicuramente, tenne anche in considerazione la scarsa popolarità della dottrina sciita a Basra. E questa sua scelta ebbe una ripercussione rilevante, visto che probabilmente spiega il motivo per cui Qarmat, fondatore dei Carmati (setta ismaelita, a sua volte corrente sciita), non abbia mai voluto supportarlo.
Tornando ad Alì, bisogna notare che la conformazione territoriale (cui abbiamo accennato) favoriva il buon esito di una rivolta. Una quarantina di anni prima, nelle paludi fra Wàsit e Basra, si erano stabiliti degli Zingari (in arabo “Zutt”) le cui file si erano ingrossate grazie all’arrivo di emarginati e ribelli. Nonostante il Califfato fosse allora in pieno vigore, era stato difficile farli capitolare, quindi gli schiavi neri, più forti fisicamente (nell’articolo originale si legge “più coraggiosi”) e più numerosi, avevano buone possibilità di avere successo.

Dell’inizio della rivolta degli Zanj abbiamo diverse testimonianze dirette. Un gruppo di schiavi dopo l’altro iniziò a seguire il nuovo messia, e il numero dei ribelli arrivò prima a cinquanta, poi a cinquecento e così via. La loro furia si abbatté sui loro guardiani, perlopiù essi stessi schiavi o schiavi liberati, ma Alì , dopo averli fatti pestare, scelse di risparmiare le loro vite.
I proprietari degli schiavi supplicarono Alì di riconsegnarglieli e gli offrirono cinque pezzi d’oro per ciascuno schiavo oltre all’amnistia per le sue azioni. Egli rifiutò sempre queste offerte e giurò ai suoi seguaci (infastiditi da questo tipo di negoziazioni) che non li avrebbe mai traditi.
L’etnia di africani più rappresentativa fra gli schiavi era quella degli Zanj, che in pratica non parlavano neanche arabo, tanto che Alì fu costretto ad usare un interprete per comunicare con loro. I Nubiani invece, e gli altri africani del nord, già parlavano arabo. Agli operai delle cave di salnitro si unirono anche schiavi fuggiti da città e villaggi e uomini bianchi, mentre invece ci fu poca adesione da parte del proletariato urbano. Di sicuro un buon incremento del potere dei rivoltosi fu dovuto all’ammutinamento di soldati neri del Califfato, specie dopo che le truppe di quest’ultimo venivano sconfitte da Alì. Ad esempio, proprio all’inizio della rivolta un contingente dell’esercito fu sconfitto dagli schiavi (quasi disarmati), e più di trecento soldati neri si unirono a loro.
Purtroppo non disponiamo di informazioni dettagliate sull’organizzazione interna dello stato di Alì, ma la storia delle sue battaglie e della sua resistenza al Califfato ci è nota, e l’affronteremo la settimana prossima, nella seconda parte dell’articolo.

Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi, de łi arabi, de łi turki

MessaggioInviato: dom apr 24, 2016 1:46 pm
da Berto
Vivere (e lavorare) in schiavitù a Dubai. Storia di Harriet
aprile 24, 2016 Leone Grotti
Ecco cosa devono subire i milioni di immigrati che lavorano in Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. «Nel mio giorno libero piangevo, ero felice di avere quella possibilità»

http://www.tempi.it/vivere-e-lavorare-s ... ia-harriet

Harriet è nata in Uganda, ha 25 anni e un buon curriculum. Ma poiché a Kampala non è riuscita a trovare lavoro per un anno, ha deciso di tentare la fortuna a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dove 7,8 milioni di persone su 9,2 sono lavoratori stranieri. Una compagnia di assunzioni l’ha contattata per pulire gli aerei all’aeroporto internazionale di Dubai e lei ha accettato. Così è cominciato il suo incubo.

STATI SCHIAVISTI. La sua storia, insieme a quella di tante altre persone come lei ridotte a schiave nei paesi arabi, è raccontata nel libro di prossima uscita: Slave States. The practice of Kafala in the Gulf Arab Region (Stati schiavisti. La pratica della kafala nel Golfo arabo). Le storie sono state raccolte dal giornalista ugandese Yasin Kakande, che ha scritto per oltre dieci anni dal Medio Oriente.

PAGARE PER LAVORARE. Harriet ha firmato un contratto per due anni, a 800 dirham (192 euro) al mese, ma le prospettive di guadagno fin da subito si sono mostrate in salita. Infatti, in cambio del privilegio del lavoro, ha dovuto pagare un pizzo di 2.400 dirham, pari a tre mesi di salario. Dopo sei mesi, le braccia e il volto le si sono ricoperti di sfoghi e irritazioni a causa di un detergente, il Bacoban, dannoso per la pelle. Dopo essersi lamentata con i suoi superiori, è stata subito portata in ospedale e curata.

CURE A PAGAMENTO. Solo a fine mese ha scoperto che le cure erano a suo carico e così, su 800 dirham pattuiti, ne ha ricevuti solo 200. Harriet avrebbe voluto tornare all’ospedale nei mesi successivi, dal momento che le irritazioni peggioravano, ma il suo datore di lavoro l’ha avvisata che se avesse lavorato meno delle ore pattuite, sarebbero scattate delle penalità. Non poteva permetterselo.

VIETATO BERE. In generale, interrompere il lavoro era proibito: non ci si poteva fermare né per mangiare, né per bere un bicchiere d’acqua. Un collega della ragazza, proveniente dal Kenya, un giorno è svenuto al pomeriggio per il caldo dentro l’aeroplano: l’aria condizionata non funzionava e lui non aveva mai potuto fermarsi per bere dal mattino. Molti rubavano delle bottigliette d’acqua all’interno degli aeroplani, con il terrore di essere scoperti.

ABUSI SESSUALI. Ogni volta che si chinava a terra, uno dei superiori di Harriet si allungava su di lei toccandole il fondoschiena con le natiche o con le parti basse. Se si lamentava per quel trattamento, quelli rispondevano: «Scusami, è la posizione della banana». Tutte le sue colleghe venivano trattate allo stesso modo e chi denunciava ufficialmente un caso veniva «accusata di essere una prostituta».

COSTRETTE A PROSTITUIRSI. In effetti, molte sue colleghe finivano per prostituirsi perché non avevano altra scelta. Lo stipendio, già di per sé misero, a volte non bastava neanche per mangiare. Nei miserabili container o logori appartamenti in cui venivano alloggiate le lavoratrici era vietato cucinare. Così si era costretti a comprare il cibo fuori. La stessa cosa valeva per i vestiti: bisognava per forza recarsi alle lavatrici automatiche. Solo per pulire l’uniforme (ed era obbligatorio), bisognava pagare quattro dirham.

CUCINARE DI NASCOSTO. Per sopravvivere, era indispensabile violare le regole, facendosi da mangiare all’aperto. Ma di nascosto e a notte fonda, per timore di essere scoperti. Al di fuori del suo complesso, costruito per sole donne, era in realtà pieno di uomini che gridavano perché uscissero in strada. Molte donne lo facevano, non per fare conoscenza, ma per prostituirsi e raggranellare qualche soldo in più. Molte si rifiutavano e finivano per essere stuprate anche solo nel breve tragitto dagli appartamenti al ristorante.

KAFALA. Dopo neanche un anno, Harriet ha deciso di cambiare lavoro, inviando a diverse aziende il suo curriculum. Tutte le risposte dicevano la stessa cosa: abbiamo bisogno che il tuo datore di lavoro dia il consenso. Stupita, chiese all’ufficio risorse umane della sua impresa di che cosa si trattava. E quelli le risposero che non poteva cambiare lavoro fino alla scadenza del contratto e che se l’avesse fatto, sarebbe stata cacciata dal paese. Il sistema chiamato kafala prevede appunto che il datore di lavoro possa disporre a piacimento del dipendente.

«FELICE DI PIANGERE». Fortunatamente, Harriet è riuscita a convincerlo e ora è impiegata in un negozio di cosmetici di Dubai. Anche qui deve affrontare molte difficoltà, ma è nulla rispetto a prima. Parlando con l’autore del libro, ricorda il suo primo lavoro: «Considero ancora quei due anni passati a pulire gli aerei come la peggiore esperienza della mia vita». In realtà, c’era una sola cosa che le dava sollievo. Il giorno libero: era una dei pochi lavoratori ad averlo. «Passavo tutto quel giorno a letto a piangere. Ero davvero felice di avere la possibilità di piangere in privato. Solo questo mi impediva di crollare in pubblico».