El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » mar feb 07, 2017 10:23 pm

El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Il mito risorgimentale e le sue falsità italico-romane (o l'ideale risorgimentale con i suoi miti artefatti italico-romani)
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 139&t=2481


Se fosse stato un ideale costruito con miti veritieri e argomentazioni ragionevoli avrebbe portato ad una storia con altri esisti, avrebbe generato sicuramente un paese migliore e uno stato assai diverso anziché quello che abbiamo e che ci fa dannare come uno dei peggiori e più incivili dell'Occidente.
Soltanto un concepimento ideale contronatura può aver generato una realtà infernale come quella italiana e dello stato italiano che è il più corrotto, ademocratico, ingiusto, parassitario e criminale di tutto l'occidente europeo e americano.


https://it.wikipedia.org/wiki/Risorgimento
Con Risorgimento la storiografia si riferisce al periodo della storia italiana durante il quale l'Italia conseguì la propria unità nazionale. La proclamazione del Regno d'Italia del 17 marzo 1861 fu l'atto formale che sancì, ad opera del Regno di Sardegna, la nascita del nuovo Regno d'Italia formatosi con le annessioni plebiscitarie di gran parte degli Stati preunitari. Per indicare questo processo storico si usa anche la locuzione "Unità d'Italia".
Il termine, che designa anche il movimento culturale, politico e sociale che promosse l'unificazione, richiama gli ideali romantici, nazionalisti e patriottici di una rinascita italiana attraverso il raggiungimento di un'identità unitaria che, pur affondando le sue radici antiche nel periodo romano, aveva subìto un brusco arresto a partire dalla seconda metà del VI secolo a seguito dell'invasione longobarda.



Ecoło ki el mal!

Exaltasion de Roma e de la romanedà, depresamento de l'Ouropa e de ła xermanedà, negasion dei 930 de enfloensa xermana contro i 650 ani de enfloensa romana; negasion del mexoevo, de łe so raixe xermane e del so portà comunal e demogratego. Lè stà on tradimento, on renegamento de ła storia, on tornar endrio anvense de ndar en vanti.


Roma - el mito tra el vero e el falbo
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 111&t=2355

Mexoevo - ani o secołi veneto-xermani (suxo 900 ani) e naseda o sorxensa dei comouni
http://www.filarveneto.eu/forum/viewforum.php?f=136



Soltanto un concepimento ideale contronatura può aver generato una realtà infernale come quella italiana e dello stato italiano che è il più corrotto, ademocratico, ingiusto, parassitario e criminale di tutto l'occidente europeo e americano.

Ecco cosa ci ha portato il Risorgimento italiano e il suo Stato unitario a noi veneti:

fame, miseria, emigrazione con esodo biblico, deprivazione e arretramento economico, la nefasta rinascita dell'imperialismo romano, guerra con distruzione e morte, sottosviluppo, corruzione amministrativa e politica, mafia ed altre organizzazioni criminali, falsificazione della nostra storia, induzione al disprezzo etno razzista verso noi stessi e la nostra gente, inciviltà italica con le sue caste e istituzioni ademocratiche ed il suo fascio-comunismo, l'arroganza romana, l'ipocrisia democristiana, la falsa fratellanza con il suo parassitismo statale, romano, etnico e sociale, il ladrocinio bancario, la finanza truffaldina, l'industria assistita ...


Possiamo verificare e giudicare la bontà e della verità delle radici storiche e mitiche e dei sogni/ideali del Risorgimento/Regno d'Italia e della Resistenza/Repubblica/Costituzione dai loro frutti, ecco il risultato, giudicate voi:

I primati dello stato italiano e dell'Italia in Europa e nel mondo
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =22&t=2587

Ençeveltà tałega, straji, połedega, caste, corusion, parasidi, ladri, buxiari, vili
http://www.filarveneto.eu/forum/viewforum.php?f=22

Ani veneto-tałiani - regno e repiovega tałiana (150 ani de dexgràsie)
http://www.filarveneto.eu/forum/viewforum.php?f=139
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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » mar feb 07, 2017 10:24 pm

El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian
viewtopic.php?f=139&t=338

L’orenda canta mamełega
viewtopic.php?f=139&t=568

Roma - el mito tra el vero e el falbo
viewtopic.php?f=111&t=2355

Mexoevo - ani o secołi veneto-xermani (suxo 900 ani) e naseda o sorxensa dei comouni
viewforum.php?f=136
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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » mar feb 07, 2017 10:24 pm

Ła trufa del falbo mito del Resorximento ła se sente ben ente ste amare parołe de Bepo Verdi

https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Verdi
https://www.senato.it/3182?newsletter_i ... numero=151


http://www.veja.it/2016/01/19/gli-eroi- ... sorgimento

Così scriveva in proposito Giuseppe Verdi il 16 giugno 1867 all’Arrivabene:

“Cosa faranno i nostri uomini di Stato? Coglionerie sopra coglionerie! Ci vuol altro che mettere delle imposte sul sale e sul macinato e rendere ancora più misera la condizione dei poveri. Quando i contadini non potranno più lavorare ed i padroni dei fondi non potranno, per troppe imposte, far lavorare, allora moriremo tutti di fame. Cosa singolare! Quando l’Italia era divisa in piccoli Stati, le finanze di tutti erano fiorenti! Ora che siamo tutti uniti, siamo rovinati” .
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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » mar feb 07, 2017 10:25 pm

Anesion del Veneto a el stado talian - el plebesito trufa o farsa ?
viewtopic.php?f=139&t=518

Mi dispiace ma non fu proprio così. Nel caso del Veneto, i veneti, che non erano uomini liberi e sovrani, ma sudditi dei francesi a cui erano stati ceduti dagli austriaci a seguito della sconfitta militare con la Francia, vennero chiamati a decidere tra la sudditanza francese e quella savoiarda e scelsero quello che a loro sembrava il male minore, ossia il dominio savoiardo, dopo aver provato quello francese-napoleonico e quello austriaco, anche se la cessione del Veneto ai Savoia era già avvenuta giorni prima a prescindere da quello che poi sarebbe stato l'esito del plebiscito. La scelta dei veneti fu condizionata dalla retorica patriottarda italiana con il suo mito dell'Italia romana, più che dalle supposte minacce e intimidazioni. Il mito del risorgimento italiano non nasce dopo i plebisciti ma molto prima e condizionò le scelte delle aristocrazie, della borghesia e dei piccoli proprietari che furono chiamati a votare Sì o No. La truffa è il Mito Risorgimentale più che i plebisciti che furono soltanto parte della retorica patriottarda italiana.

Sipion Mafei (Scipione Maffei) e ła fine de ła Repiovega Venesiana
viewtopic.php?f=160&t=2279


1848 en Ouropa, ara tałega, ara veneta
viewtopic.php?f=148&t=2344
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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » mar feb 07, 2017 10:26 pm

Indipendenza, l’unione fa sempre la forza?
7 Feb 2017
di ENZO TRENTIN

http://www.lindipendenzanuova.com/indip ... ent-417725


Esaminiamo, per esempio, la questione di sapere come e sotto quale bandiera l’indipendentismo sardo, sudtirolese, veneto eccetera si dovrebbe alzare a combattere la battaglia dello scioglimento dei vincoli dell’unità nazionale italiana. Si accusavano gli indipendentisti (specie, ma non esclusivamente, i Veneti) di essere discordi; da ogni lato si predica loro l’unione, perché, secondo il vecchio adagio, l’unione costituisce la forza. Ma, per avere la forza ci vuole un’unione di elementi omogenei, se no, in sua vece avremo miscuglio e confusione che generano la debolezza e l’impotenza. Ci vuole un’idea che segni la via che conduce alla meta, e tolga le incertezze, le perplessità e i governi provvisori che partoriscono necessariamente la sconfitta.

Se solo si guardasse alla storia, si è mai veduta unione più meravigliosa di quella degli italiani nel 1848?

Tutti ripetevano ad una voce: «Non si discuta ora di nulla! Prima fuori lo straniero, poi ci intenderemo sul da farsi!» e furono veduti re, cortigiani, commissari di polizia, spie, preti, Papa e popolo tutti in un mucchio per cacciare lo straniero, e dappertutto governi provvisori e bandiera neutra. E il risultato? L’Italia, o meglio: gli Stati preunitari, furono più schiavi di prima. E perché? perché quella era un’unione bastarda, un accozzamento assurdo di elementi eterogenei e intrinsecamente nemici.

Il 10 giugno 1848 Radetzki passa nel Veneto, si unisce a Welden e con tutte le sue forze, 44.000 uomini, assalta Vicenza ove gli 11.000 volontari veneti e l’esercito romano del Durando vennero costretti alla resa. In quella battaglia, a Monte Berico, è ferito Massimo D’Azeglio e il gonfalone del Comune di Vicenza verrà insignito della sua prima medaglia d’oro al valor militare. La seconda la riceverà nel 1994, per la guerra di liberazione dal nazi-fascismo. Nello stesso 1848 un po’ in tutta Europa forze eterogenee si uniscono per sovvertire le monarchie assolutiste, e puntualmente tali disomogeneità portano al fallimento delle singole imprese.
«Succede un 48» assurgerà a sinonimo di ribellione, confusione, disordine e fallimento.

Non va meglio all’unione delle forze aristocratiche e controrivoluzionarie russe. Allo scoppio della guerra civile (1918) il bolscevico gen. Budyonny organizzò una divisione della cavalleria nella regione del Don, che divenne la prima cavalleria dell’Armata rossa. Questo reparto svolse un ruolo importante nella vittoria della guerra civile spingendo il generale delle armate bianche, Anton Denikin, fino a Mosca. Nel Settentrione, fra Murmansk e Arcangelo, operava l’esercito bianco del generale Evgenij Karlovich Miller con circa 20.000 uomini. Dall’estate del 1918 era supportato dalle potenze alleate che avevano sbarcato migliaia di uomini, tra cui molti sono gli italiani. Quando un anno dopo, a causa di ripetuti ammutinamenti le forse alleate si ritirano, Miller resta solo. Nel febbraio del 1920 ripara in Norvegia, e da qui raggiunge a Parigi il Granduca Nicola e Pyotr Nikolayevich Wrangel altro fuggiasco battuto dalle armate rosse.

Durante la guerra civile spagnola non andrà meglio alle forze repubblicane e democratiche che sono massicciamente composte da brigate internazionali, italiani compresi. Il regista inglese Ken Loach, nel bel film “Tierra y Liberdad” (1995), racconta i massacri di trotskisti ed anarchici ad opera della matrice stalinista. L’anno era il 1937, una data cruciale per la guerra civile spagnola, che finì per compromettere gravemente la resistenza repubblicana.

Sulla seconda guerra mondiale, un solo esemplificativo episodio riguardante l’unione delle forze partigiane: il 7 febbraio 1945, mercoledì, alle 14.30. Nelle malghe di Porzus, due casolari sopra Attimis, in provincia di Udine, ha sede il comando Gruppo brigate est della divisione Osoppo, formata dai cosiddetti “fazzoletti verdi” della Resistenza, partigiani cattolici, azionisti e indipendenti. Giungono in zona cento partigiani comunisti, agli ordini di Mario Toffanin (nome di battaglia Giacca) sotto le false spoglie di sbandati in cerca di rifugio dopo uno scontro con i nazifascisti. In realtà, è una trappola: alla malga vengono uccisi il comandante della Osoppo, Francesco De Gregori (nome di battaglia Bolla), il commissario politico Enea, al secolo Gastone Valente, una giovane donna sospettata di essere una spia, Elda Turchetti e un giovane, Giovanni Comin, che si trovava a Porzus perché aveva chiesto di essere arruolato nella Osoppo. Il capitano Aldo Bricco, che si trovava alle malghe perché doveva sostituire Bolla, riesce a fuggire e salva la vita perché i suoi inseguitori, dopo averlo colpito con alcune raffiche di mitra, lo credono morto. Altri venti partigiani osovani vengono catturati e condotti prima a Spessa di Cividale e poi nella zona del Bosco Romagno, sopra Ronchi di Spessa, una ventina di chilometri più a valle. Due dei prigionieri si dichiarano disposti a passare tra i garibaldini. Gli altri saranno tutti uccisi e sbrigativamente sotterrati tra il 10 e il 18 febbraio. Della cosa si cercò di non far trapelare nulla. Ancora un mese dopo c’era chi assicurava che i capi Bolla ed Enea erano tenuti prigionieri dai garibaldini o dagli sloveni. La liberazione dal nazi-fascismo in Europa ed in Italia, infine, avvenne ad opera delle armate alleate, non già dalle forze partigiane.

Morale? Non sempre, dunque, l’unione fa la forza! Cosa manca, allora, all’indipendentismo del Belpaese?

Sicuramente manca l’indicazione dell’obiettivo finale. Tutti si scapicollano a dettagliare questo o quel percorso atto ad ottenere l’indipendenza; quasi nessuno indica per filo e per segno quale sarà l’organizzazione del nuovo Stato che si venisse a creare. Se ci si pensa: in Francia scrivono su tutti gli edifici pubblici la parola libertà fra quelle di fratellanza e di eguaglianza e non hanno neppure la libertà comunale, come se vi potesse essere repubblica senza il Comune libero e senza il federalismo.

Dopo tanto sentir parlare e sproloquiare di federalismo da parte di Umberto Bossi, politicanti vari e intellettuali al soldo del “principe” (leggasi: partiti ad personam), alcuni hanno cominciato ad affermare di volere l’indipendenza e basta. Non vogliono il federalismo. E che c’entra l’unità politica coll’amministrazione dei Comuni?

L’accentramento esagerato del potere è il dissolvente più rapido di ogni spirito civico. Voler regolare con le stesse leggi perfino nei più piccoli bisogni dei Comuni, sessanta milioni di cittadini o anche meno, è una cosa insensata. Alla minima ruota che si rompe, tutto il sistema va a catafascio. Infatti, nel XIX secolo, ogni quindici o vent’anni si faceva, in Francia, una rivoluzione che termina invariabilmente con fucilazioni e deportazioni, e i cadaveri delle vittime non erano ancora raffreddati che quegli uomini politici non trovano nulla di meglio da fare che di rabberciare la vecchia macchina sotto l’intelligente protezione delle baionette. Nessuno pensa a costruire una macchina nuova nella quale l’equilibrio delle forze sia meglio distribuito.

Quasi nessuno dei competitori indipendentisti che corrono alle amministrative del prossimo 6 maggio 2012, c’informa che – se eletto – si spenderà per la modifica degli Statuti comunali, introducendo la corretta formulazione, e quindi l’agibilità semplice e tempestiva degli strumenti di partecipazione popolare, detti anche di democrazia diretta. Questo perché appartenendo la sovranità, a qualsiasi livello degli organi dello Stato, ai cittadini; gli eletti hanno sempre il dovere di uniformarvisi, qualunque essa sia, poiché essi sono delegati a rappresentare la volontà della maggioranza e non gli interessi dei partiti politici ai quali appartengono, e che ai cittadini, in democrazia, dev’essere sempre riconosciuto il potere di modificare le regole della delega, e di fare o di modificare direttamente le leggi nella libertà, e senza assurdi ed ingiustificati vincoli burocratici.

Se noi governati negassimo loro il consenso, come crediamo si dovrebbe fare, impediremmo ai politicanti, e agli interessi che rappresentano, di gestire e dominare la società attuale e quella a venire. Imporremmo noi l’idea di ordine e corretto sviluppo economico-politico. È pur vero che oramai sono in molti a parlare di democrazia diretta; a raccogliere firme per questa o quella proposta di legge d’iniziativa popolare o referendum; ma quasi tutti costoro non pensano all’indipendenza, credono e sperano che il paese di Arlecchino e Pulcinella possa ancora essere riformato. C’è solo un clima psicotico e paranoico (con singoli elementi che spiccano per il loro… protagonismo. Sigh!) che continua a ripetere come un mantra come si raggiungerà l’indipendenza, non a cosa porterà. Ha scritto Mark Twain che «per bontà divina, nel nostro paese abbiamo tre cose indicibilmente preziose: libertà di parola, libertà di coscienza e l’accortezza di non praticarle mai».

In senso generale, pensiamo sia corretto sostenere che un’élite corporativa di “tecnici”, tycoon e politicanti d’ogni risma governi il sistema economico-politico, se non altro in larga parte. Il cosiddetto popolo esercita occasionalmente la scelta tra quelle che Marx definì «le fazioni rivali e gli avventurieri delle classi dominanti».1 Chi ritiene poco duttile questa spiegazione potrebbe preferire la formulazione moderna che ne ha dato un teorico della democrazia come Joseph Schumpeter.2 Questi descrive il nostro sistema democratico in modo favorevole: al suo interno «la decisione sulle istanze pubbliche da parte dell’elettorato è secondaria rispetto all’elezione degli uomini che prendono le decisioni». Egli sostiene correttamente che il partito politico «è un gruppo i cui esponenti propongono di agire di comune accordo nella lotta per il potere.»

Oggi abbiamo a disposizione risorse tecniche e concrete per soddisfare i bisogni materiali dell’uomo. Non abbiamo ancora perfezionato quelle morali e culturali, cioè le forme democratiche dell’organizzazione sociale, che ci permetterebbero di utilizzare in modo umano e razionale la nostra ricchezza e potenza materiale.

Gli ideali della democrazia classica espressi e sviluppati con le moderne tecnologie sono realizzabili. Ma può farlo solo un movimento rivoluzionario radicato in ampi strati della popolazione, che miri ad eliminare le istituzioni repressive e autoritarie, private o statali. Creare un’azione di cittadini di questo tipo è la sfida che dobbiamo cogliere se vogliamo sfuggire alla barbarie moderna. Alla «Dicta blanda» in atto.

Come sosteneva Buckminster Fuller 3: «Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta». Non bastasse gli fa eco Gianfranco Miglio 4: «Chi – come me – pensa che, in una fase storica come l’attuale, ci si debba sforzare di inventare nuove istituzioni e nuovi modelli politici…».

NOTE

1. «The Civil War in France», in Tucker, a cura di, The Marx-Engels Reader, p. 630.
2. È stato un economista austriaco, tra i maggiori del XX secolo.
3. È stato un inventore, architetto, designer, filosofo, scrittore e conduttore televisivo statunitense. Fu anche professore alla Southern Illinois University.
4. Tratto da Ideazione n. 2 – Marzo-Aprile 2001

(da lindipendenza dell’aprile 2012)
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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » lun feb 27, 2017 9:16 pm

Il Risorgimento secondo i complottisti

L'ALTRA FACCIA DEL "RISORGIMENTO", QUELLA VERA. MASSONI E PROPAGANDA.
Le origini del “risorgimento” Di Fabio Calzavara La successiva conquista militare savoiarda degli Stati indipendenti preunitari promoss...
lunedì 27 febbraio 2017

https://dalvenetoalmondoblog.blogspot.i ... l?spref=fb

La successiva conquista militare savoiarda degli Stati indipendenti preunitari promosse quel filone letterario e politico che si sviluppò nei primi decenni del XIX secolo, il cosiddetto “risorgimento italiano”.

Difatti, gia’ all'indomani dell'unità statuale, la classe dirigente neo-italica fece rappresentare ciò che accadde come il risultato di una adesione “spontanea” del Popolo ed obbligo’ tale insegnamento nelle scuole del Regno; in tal modo varie generazioni di Cittadini hanno imparato il “risorgimento” come avrebbe dovuto essere invece di come è stato.

Possiamo infatti dire che il “risorgimento italiano” come lo conosciamo oggi sia nato in ... tipografia: editti, proclami, giornali, riviste, manifesti e volantini non facevano che appellarsi ad una presunta volonta’ di popolo, in realta’ mai avvenuta.
Anche in questo caso la Storia venne scritta dai vincitori, nonostante fatti ed avvenimenti documentati, riportati di seguito, smentissero clamorosamente l’epopea descrittaci.

Documenti alla mano, il presunto supporto popolare fu praticamente nullo, non ci furono sollevazioni ne’ rivolte in nome di tali ideali, solo atti di violenza e terrorismo compiuti o finanziati dai massoni carbonari per attaccare le Istituzioni e sobillare la popolazione.


Vista l’assenza di partecipazione popolare si arrivò perfino a ingaggiare galeotti e disoccupati per inscenare proteste denominate “spontanee”.

In realta’ i veri interessati a cambiamenti furono le classi dei nobili e dei banchieri assieme ai grandi commercianti preoccupati di aumentare i loro traffici e soddisfare le loro ambizioni.

Tale “risorgimento” prese quindi avvio sull’onda del nuovo pensiero politico giacobino e fu guidato dal Grande Oriente di Francia e dalla Gran Loggia d’Inghilterra) nonché perseguito dalle sue logge coperte (i carbonari).

Propaganda e terrorismo “risorgimentali”

Per supportare il progetto espansionista del piccolo Regno piemontese, prima di tutto fu concertata dai governi inglese (Palmerston) e francese (Napoleone III) una incessante propaganda denigratoria tramite articoli sulla stampa asservita che denunciavano il malgoverno e sottolineavano i difetti, quasi sempre falsificati, del Regno di Napoli e Sicilia e dello Stato della Chiesa, auspicando un intevento internazionale che riportasse “democrazia e liberta’” alle popolazioni “oppresse”.

Compiacenti giornali “italiani”, supportati dai massoni, riportavano ampliando le accuse ed i commenti inglesi e francesi, incuranti perfino delle smentite e delle querele fatte dai governi di Napoli e Roma.

Un esempio tra i tanti: i massoni denunciavano che negli Stati “italiani” esisteva una sanguinosa repressione politica e sociale e le condanne a morte erano ormai senza controllo... invece sia nel Regno di Napoli che nello Stato della Chiesa non venivano eseguite condanne a morte da alcuni anni, al contrario di Gran Bretagna e specialmente in Francia dove la ghigliottina continuava tristemente a funzionare ogni giorno.

Nel Regno dei savoia addirittura le condanne a morte erano superiori alla Francia stessa, addirittura di ben 8 volte, come denunciato in Parlamento dal Deputato piemontese Brofferio nel 1856.

In questo modo il Regno sabaudo ebbe il sostegno internazionale per intervenire militarmente contro altri Stati sicuramente piu’ democratici.

La “liberazione a scopo umanitario” ebbe inizio con operazioni di terrorismo e provocazioni armate: da un lato il massone Joseph Marie Garibaldi’, pilotato dal Gran Oriente di Francia, che assieme ad altri mercenari ed avventurieri ebbe il compito di attaccare di sorpresa vari Stati preunitari con lo scopo di rovesciare i governi legalmente in carica, dall’altra il massone Giuseppe Mazzini, guidato dalla Gran Loggia di Londra che fu incaricato di promuovere gruppi eversivi, organizzare attentati ad obbiettivi militari e civili, assassini di personalita’ pubbliche, nonchè attuare sommosse e tumulti nelle varie capitali da conquistare “alla causa italiana”.

Oltre ai famosi massoni di origine francese, Vittorio Emanele II (il nobile), Cavour (il governante), Garibaldi (il mercenario) e Mazzini (‘ideologo), merita l’attenzione anche un loro precursore, il concittadino francese Gioacchino Murat, ex albergatore divenuto rivoluzionario al seguito di Bonaparte poi marito di sua sorella, govenatore di Parigi, quindi generale e feldmaresciallo di Francia, insediato sul trono di Napoli da Napoleone.

Il Murat divenne famoso (e deriso dai suoi sudditi) per il suo “Proclama di Rimini”, l’appello con il quale, il 30 marzo 1815, dopo aver dichiarato guerra all'Austria, si rivolse agli italiani, incitandoli alla rivolta contro l'OCCUPANTE STRANIERO (lui, francese imposto con la forza!), presentandosi quindi come alfiere dell'indipendenza italiana, nel tentativo di trovare alleati nella sua disperata battaglia per conservare il trono.

Meno nota invece la repressione del brigantaggio ad opera prima del generale ligure Andrè Massena e piu’ tardi al generale Charles Antoine Manhès, attuata con metodi di sconvolgente crudeltà.



Alberto Pento
??? ... Documenti alla mano, il presunto supporto popolare fu praticamente nullo, non ci furono sollevazioni ne’ rivolte in nome di tali ideali, solo atti di violenza e terrorismo compiuti o finanziati dai massoni carbonari per attaccare le Istituzioni e sobillare la popolazione. ???

Ke storeghi da poco!

E sta rivolta a Venesia col tricolor ???
https://it.wikipedia.org/wiki/Repubblica_di_San_Marco
Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... 848-49.gif

Durante il suo periodo di detenzione Manin, fino a quel momento fermo su posizioni moderate di lotta legale, era infatti giunto alla conclusione che il momento storico richiedesse un'azione insurrezionale come unico modo di garantire la libertà di Venezia. Questa analisi della situazione non era però condivisa né dal Tommaseo, convinto che una rivoluzione fosse prematura, né dagli altri amici e simpatizzanti di Manin. Il gruppo di persone che si raccoglieva intorno a Manin rappresentava uno dei due principali centri di attività cittadina. L'altro era quello legato alla congregazione municipale presieduta dal podestà Giovanni Correr (1798-1871). Costituita da membri dell'aristocrazia o dell'alta borghesia cittadina i membri della municipalità erano ostili a qualunque soluzione insurrezionale ed erano orientati a sfruttare il momento di crisi del governo austriaco per chiedere una costituzione e maggiori libertà.



http://www.150anni.it/webi/index.php?s=21&wid=1147
Le prime notizie sulla rivoluzione di Vienna giunsero a Venezia nel pomeriggio del 16 marzo e destarono grande fermento. Il 17, in seguito ad una vivace manifestazione, il governatore Palffy ordinò il rilascio di Manin, Tommaseo e degli altri patrioti arrestati a gennaio, i quali furono immediatamente portati dai manifestanti stessi in piazza San Marco.

Il governo provvisorio di Venezia adotta la bandiera con i 3 colori nazionali

Grazie all'insistenza di Manin e al sostegno ricevuto dal podestà di Venezia, conte Correr, il governatore autorizzò il 18 marzo la costituzione di una Guardia civica, posta alle dipendenze del municipio e comandata dall'avvocato Angelo Mengaldo, ex ufficiale napoleonico.

Mentre però gli uomini del municipio l'avevano voluta per arginare il movimento popolare e intendevano procedere sulla via delle riforme in accordo con le autorità austriache, Manin era pronto all'insurrezione al fine di costituire una Repubblica veneta.

In ogni caso, dopo alcuni giorni di relativa tranquillità, la mattina del 22 marzo Manin riuscì ad impadronirsi dell'Arsenale con l'aiuto degli operai e degli ufficiali. Anche i reparti della fanteria-marina e dell'artiglieria passarono agli insorti, che poterono disporre di un ingente quantitativo di armamenti e munizioni.

Contemporaneamente a questa azione, il patriota Radaelli, alla testa di un gruppo di Guardie civiche, prese il controllo della Gran guardia austriaca di piazza San Marco, mentre altri insorti occupavano gli ingressi del Palazzo del governo. A questo punto anche gli uomini del municipio, che fino a quel momento avrebbero tentato una mediazione con le autorità austriache, si schierarono con gli insorti e invitarono il governatore a cedere loro il potere.

La capitolazione, firmata dal governatore militare, conte Zichy, alle 18 del 22 marzo, mentre insorgevano gli abitanti di Mestre, Chioggia e degli altri centri abitati delle isole della Laguna, prevedeva la partenza delle truppe non italiane e la costituzione di un governo provvisorio formato dagli uomini del municipio.

L'assenza del Manin dal governo suscitò però l'indignazione popolare, cosicché la mattina del 23 Manin costituì un secondo governo, di cui fece parte anche Tommaseo, e proclamò la Repubblica.
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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » ven mar 17, 2017 8:06 am

Nel 1848 Venezia era per l'Unione Italiana
Nel plebiscito del 1866 i veneti votarono per l'annessione all'Italia in linea con quanto era accaduto nel 1848; mossi o motivati dall'illusione risorgimentale a cui avevano stoltamente aderito, perciò il plebiscito non fu una truffa. Il grande inganno storico è stato l'illusione risorgimentale da cui i veneti hanno avuto soltanto grandi mali.

La Repubblica di San Marco fu uno Stato costituito a Venezia il 22 marzo del 1848 a seguito dell'insurrezione della città, che aveva avuto inizio il 17 marzo dello stesso anno, contro il governo austriaco. L'episodio è uno dei più significativi nel contesto dei moti insurrezionali del 1848 che coinvolsero numerose città italiane ed europee. È inoltre inscindibilmente legato agli eventi della fallimentare prima guerra di indipendenza italiana. La repubblica sopravvisse fino al 22 agosto 1849 quando, dopo una strenua resistenza, la città tornò sotto il dominio asburgico.

Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... na-ipg.jpg


1848 en Ouropa, ara tałega, ara veneta
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 148&t=2344

Anesion del Veneto a la Tałia - el plebesito trufa o farsa?
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =139&t=518
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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » ven mar 17, 2017 8:06 am

RISORGIMENTO: LE RADICI DELLA VERGOGNA
15 marzo 2016
Elena Bianchini Braglia

https://iltalebano.com/2016/03/15/risor ... a-vergogna


Il Risorgimento: uno stupro. Un atto violento, arbitrario, malcondotto, che ha generato i mostri che oggi attanagliano il nostro paese. Un atto vergognoso che ha generato vergogna.
Il grido di dolore di un’Italia fatta nascere con la forza. Di un’Italia costruita sull’oblio delle identità e delle tradizioni, contro la sua natura e la sua volontà. Il grido di dolore di una grande nazione “idea universale capace di riunire il mondo”, che si è fatta piccolo stato. Il grido di dolore di un’Italia che vuole risorgere.

L’Italia è una nazione?
O è vera la celebre espressione irrisoria del Metternich che la riduceva piuttosto a mera “espressione geografica”?

Il senso del nostro paese è indubbiamente cambiato dopo che, poco più di 150 anni fa, lo si è voluto ad ogni costo far diventare uno stato unitario. È cambiato, ma non come forse ci si aspettava. L’espressione del Metternich a ben guardare è più adatta all’Italia di oggi che non a quella di ieri.

L’Italia dei piccoli stati e delle sue molte capitali primeggiava per cultura, arte, mecenatismo. Era formata da tanti centri vitali, indipendenti, custodi di tradizioni antiche e diversissime tra loro. E poteva essere definita una nazione, quantomeno in virtù di una dimensione culturale e religiosa che le veniva universalmente riconosciuta.

Gli italiani non hanno mai avvertito un orgoglio nazionale inteso in senso politico. Velleità espansionistiche, brama di potere non erano aspirazioni diffuse, perché «l’unica cosa che li interessava era quello che avrebbe potuto dar loro un certo valore agli occhi degli altri, quello che avrebbe conferito loro un significato universale» spiegava il filosofo Vladimir Solovev nella sua opera La giustificazione del bene. E Dostoevskij, riconoscendo all’Italia un ruolo di grande nazione culturale, denunciava come, dopo l’opera unificatrice di Cavour, un «piccolo regno di second’ordine» avesse preso il posto di una grande «idea universale capace di riunire il mondo».

L’Italia unita in effetti ha perso tutto il suo prestigio, senza che peraltro si sia creata una comune identità. L’unificazione politica ha poi generato una serie di divisioni e fratture prima sconosciute. Si è contrapposto il nord al sud, e così si è aperta la mai risolta questione meridionale; con l’attacco alla Chiesa si è diviso il popolo italiano, fino ad allora ancora fortemente e unitamente cattolico; e infine si è perso il rispetto per la cosa pubblica e l’aspirazione a una sua gestione etica. Durante gli anni della forzata unificazione, truffe, corruzioni, inganni, ruberie, estorsioni, delitti parvero anticipare il peggio della futura politica italiana, distaccando per sempre il popolo da un retto sentire della cosa pubblica, da un comune senso di appartenenza, dalla fiducia nello Stato e nelle Istituzioni.

Parlare di Risorgimento non significa dunque parlare semplicemente di un capitolo di storia. Il Risorgimento è attualità, perché le conseguenze di quegli avvenimenti, di quell’unità malcondotta e imposta, le viviamo ancora oggi, sono evidenti nella situazione politica e sociale del paese, pongono tuttora interrogativi e problemi identitari.

Per questo è necessaria una sorta di Psicanalisi dell’Italia, una riflessione attenta sugli eventi del passato, “dell’infanzia” del nuovo stato. Una riflessione che permetta di far emergere i traumi nascosti, dimenticati o fatti dimenticare, le violenze attuate e subite, lo “stupro” che ha portato alla nascita di una creatura malriuscita, per metabolizzarli e superarli, riconducendo la nazione a quella che è la sua naturale vocazione, ovvero alla pluralità e all’autogoverno delle sue tante identità.

Quello che fu detto Risorgimento in realtà non fu che l’espansione territoriale e militare di uno degli stati che componevano la penisola a danno degli altri, ottenuta tra l’altro con l’intromissione determinante di potenze straniere, che poi hanno presentato (e presentano tutt’ora) il conto.

Denis Mack Smith nella sua Storia d’Italia dal 1861 al 1958, definisce il Risorgimento italiano «un succedersi di guerre civili». Il processo di espansione del Regno sabaudo fu una guerra di conquista ratificata da inganni e truffe come quella dei plebisciti, mascherata da una veste filantropica che finì col denigrare secoli di storia italica, e accompagnata da una massiccia propaganda anticattolica che nel cattolicissimo popolo italiano non poté che provocare grave disagio. Il popolo assisteva, indifferente o contrario, agli eventi. Fu poi necessario un lungo lavoro culturale per tentare di «fare gli italiani» dopo avere fatto l’Italia con le armi. E così si è cominciato a infangare tutto il passato preunitario, iniziando dalla grande bugia del “grido di dolore”, per arrivare a una vera sistematica propaganda calunniosa degli antichi Stati, dei Sovrani e dell’Austria. «Bisogna perlomeno ottenere il risultato che l’Austria sia detestata da tutti. Un giorno o l’altro questo odio universale porterà i suoi frutti», scriveva Cavour in una lettera a D’Azeglio.

In realtà i popoli italici prima dell’unità non gridavano per il dolore, né gemevano sotto tirannidi. Gli stati preunitari erano relativamente prosperi, le loro monete circolavano ovunque, i dialetti erano le lingue commerciali del Mediterraneo, le antiche capitali erano fucine d’arte, musica e letteratura. Fu invece dopo l’unificazione che l’Italia conobbe il deficit economico, l’impennata delle imposte, l’emigrazione. Nel 1866 il ministro delle Finanze Antonio Scialoja fu costretto a proclamare il corso forzoso della moneta italiana, cioè la sua indegnità a essere convertita in oro. La qualità della vita del popolo negli anni successivi all’unità crollò miseramente, e la gente si ribellò: la vera partecipazione popolare, sotto forma di manifestazioni, proteste e insurrezioni, si ebbe dopo, come opposizione all’invasore.

I Savoia non hanno fatto l’Italia: hanno cancellato quello che di buono c’era, hanno soffocato le mille peculiarità, le autonomie, le ricchezze della penisola. In senso culturale sacrificando tradizioni, usi e costumi, omologando tutto in un mediocre livellamento verso il basso; in senso materiale imponendo la loro legislazione, le loro tasse, i loro debiti: cosa che ha provocato miseria, malcontento, brigantaggio, emigrazione…

La vergogna di essere italiani nasce con lo Stato Italia, dal modo in cui è stato creato, dai falsi eroi che ci sono stati imposti come modelli. L’unità forzata è stata condotta da uomini – poi celebrati come grandi eroi e padri della patria – che per raggiungere lo scopo non hanno esitato a lordare le loro biografie d’ogni sorta di malaffare.

Filippo Curletti, agente segreto di Cavour, già nel 1861, prevedeva questi esiti: «Io non avevo scorto da nessuna parte quell’entusiasmo per l’unità italiana che, imbevuto dalle illusioni piemontesi io mi era atteso di vedere manifestarsi ovunque. Dappertutto il Piemonte era guardato come uno straniero e come un conquistatore», ammetteva, per poi riflettere amareggiato che «l’unità di una nazione non si crea. Bisogna aspettare che nasca alla sua ora. Allora solamente sarà forte e durevole».

Evidentemente non era la sua ora. Molto è andato perso. Poco di buono è stato guadagnato. Non sono stati raggiunti nemmeno quegli obiettivi minimi che erano stati sbandierati come irrinunciabili. L’Indipendenza, ad esempio, è stata ottenuta solo nelle parole roboanti e nei proclami retorici della cricca risorgimentalista; in realtà si è demonizzato uno “straniero” per poi accoglierne servilmente altri, più arroganti e invadenti. E la libertà è solo una finzione, perché, come scrisse Alianello, «la libertà che s’impone con le baionette non è più dessa».

Le bugie e le false promesse hanno lasciato un vuoto. Vuoto che ha fatto appunto dell’Italia più che una nazione, una mera espressione geografica.


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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » ven mar 17, 2017 8:40 am

Quando nacque e dove e con chi l'idea risorgimentale?

https://it.wikipedia.org/wiki/Risorgimento
Il termine, che designa anche il movimento culturale, politico e sociale che promosse l'unificazione, richiama gli ideali romantici, nazionalisti e patriottici di una rinascita italiana attraverso il raggiungimento di un'identità politica unitaria che, pur affondando le sue radici antiche nel periodo romano, «aveva subìto un brusco arresto [con la perdita] della sua unità politica nel 476 d.C. in seguito al crollo dell'Impero Romano d'Occidente»

Sebbene non vi sia consenso unanime tra gli storici, la maggior parte di essi tende a stabilire l'inizio del Risorgimento, come movimento, subito dopo la fine del dominio Napoleonico e il Congresso di Vienna nel 1815, ...

La definizione dei limiti cronologici del Risorgimento risente evidentemente dell'interpretazione storiografica riguardo a tale periodo e perciò non esiste accordo unanime fra gli storici sulla sua determinazione temporale, formale ed ideale.

Esiste inoltre un collegamento tra un "Risorgimento letterario" e uno politico: fin dalla fine del XVIII secolo si scrisse di Risorgimento italiano in senso esclusivamente culturale.

La prima estensione dell'ideale letterario a fatto politico e sociale della rinascita dell'Italia si ebbe con Vittorio Alfieri (1749-1803), non a caso definito da Walter Maturi il «primo intellettuale uomo libero del Risorgimento», vero e proprio storico dell'età risorgimentale, che diede inizio a quel filone letterario e politico risorgimentale che si sviluppò nei primi decenni del XIX secolo.

Come fenomeno politico, il Risorgimento viene compreso da taluni storici fra il proclama di Rimini (1815) e la breccia di Porta Pia da parte dell'esercito italiano (20 settembre 1870), da altri, fra i primi moti costituzionali del 1820-1821 e la proclamazione del Regno d'Italia (1861) o il termine della terza guerra d'indipendenza (1866).

Altri ancora, in senso lato, vedono la sua nascita fra l'età riformista della seconda metà del XVIII secolo e l'età napoleonica (1796-1815), a partire dalla prima campagna d'Italia.

La sua conclusione, parimenti, viene talvolta estesa, come detto, fino al riscatto delle terre irredente dell'Italia nord-orientale (Trentino e Venezia Giulia) a seguito della prima guerra mondiale. Infine, le forze politiche che diedero vita alla Costituzione della Repubblica Italiana ed una parte della storiografia hanno individuato nella Resistenza all'occupazione nazi-fascista, tra il 1943 ed il 1945, un "secondo" Risorgimento.



Il conte Vittorio Amedeo Alfieri (Asti, 16 gennaio 1749 – Firenze, 8 ottobre 1803) è stato un drammaturgo, poeta, scrittore e attore teatrale italiano.
https://it.wikipedia.org/wiki/Vittorio_Alfieri

Influenza politica del pensiero alfieriano

I primi patrioti del Risorgimento italiano, sia liberali, sia moderati (monarchici che si rifacevano al suo atteggiamento controrivoluzionario) sia di altre fedi politiche, da Santorre di Santarosa a Cesare Balbo, si riconobbero nei suoi ideali e la casa natale di Asti fu meta di moltissimi uomini che combatterono per l'unità d'Italia. In particolare Santorre scrisse che:
(FR)

« Alfieri allumera dans votre coeur les héroiques vertus et elevera votre pensée; ses expression rudes, mais plein de force et d'energie sont toutes marquées au coin du génie de Melpomene »
(IT)

« Alfieri illumina nel vostro cuore le virtù eroiche ed eleva il vostro pensiero; le sue parole dure, ma piene di forza e di energia sono tutte recanti il timbro del genio di Melpomene »
("Delle speranze degli italiani" Milano, 1920)
Vittorio Alfieri, ritratto di William Girometti (1985)

Luigi Provana del Sabbione, storico e senatore del Regno di Sardegna, dichiarò che anche lui come molti patrioti aveva baciato la tomba di Vittorio Alfieri in Santa Croce ed aveva fissato gli occhi sulla finestra del poeta che si affacciava sull'Arno. Fu visto anche come una sorta di figura decadentista del "dandy" ante litteram, come un personaggio di artista aristocratico e libero. Anche dopo il Risorgimento l'ammirazione di molti intellettuali verso la personalità dell'astigiano continuò: il pensiero politico di Alfieri, quale emerge dalle tragedie e dai trattati, fu visto di volta in volta come un precursore dell'idea anarchica, dell'individualismo, del nazionalismo fascista, del pensiero libertario, di forme di liberalismo.

Nel primo novecento ispirò alcune opere e, in parte, il pensiero del giornalista liberale e antifascista Piero Gobetti, anche lui piemontese, come nell'articolo Elogio della ghigliottina, in cui Gobetti si rifà ad alcune idee espresse nel trattato alfieriano Della tirannide: se tirannide deve essere (il bersaglio di Gobetti è il fascismo), è meglio, paradossalmente, che non sia affatto una dittatura morbida, ma che sia oppressiva, in modo che il popolo capisca cos'è davvero un regime e si ribelli apertamente ad esso. Gobetti descrive il pensiero politico di Alfieri come «liberalismo immanentistico».

Nell'epoca contemporanea, le tragedie alfieriane non vengono sovente rappresentate, al di fuori della città di Asti, a causa della difficile fruizione di esse per un pubblico poco preparato in materia (la più rappresentata è comunque il Saul, ritenuta la migliore), mentre è tuttora molto citato e preso come esempio, anche per la realtà moderna, il trattato Della tirannide, specialmente la definizione data dal drammaturgo piemontese di questo tipo di governo. Si è registrato inoltre, in rassegne dedicate al teatro settecentesco, un recente interesse per le commedie, sdegnate dalla critica alla loro comparsa; in particolare, Il divorzio è stato rappresentato spesso accanto alle grandi opere del periodo, come le tragedie di Voltaire, le commedie di Diderot e quelle di Goldoni.



Poi Napoleone
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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » ven mar 17, 2017 8:54 am

I Napoleone



Repubblica Cisalpina
https://it.wikipedia.org/wiki/Repubblica_Cisalpina
La Repubblica Cisalpina fu uno Stato dell'Italia settentrionale, che si estese principalmente nelle odierne regioni Lombardia ed Emilia-Romagna e, marginalmente, in Veneto e in Toscana. Fu costituita il 29 giugno 1797.
La cosiddetta "repubblica sorella" (così infatti erano chiamate quelle che presero a modello le istituzioni della Francia rivoluzionaria) mutò dapprima il proprio nome in Repubblica Italiana (1802-1805) e quindi Regno d'Italia (1805-1814).


Il Regno d'Italia napoleonico
https://it.wikipedia.org/wiki/Regno_d%2 ... (1805-1814)
Il Regno d'Italia napoleonico fu uno Stato posto sotto il controllo delle forze armate francesi. L'entità politica fu fondata da Napoleone Bonaparte nel 1805, allorquando il generale francese si fece incoronare sovrano della previgente Repubblica Italiana. Il Regno, che comprendeva l'Italia centro orientale e buona parte del settentrione e aveva capitale Milano, non sopravvisse alla caduta del suo monarca, e si disciolse nel 1814. Il Regno napoleonico d'Italia o Regno Italico è considerato dalla storica anglo-italiana Jessie White l'embrione dello Stato unitario italiano costituitosi poi nel 1861.


L'imperatore che avviò l'unità d'Italia Napoleone III, il «doppio nipote» di Bonaparte. Senza di lui l'avventura unitaria non sarebbe iniziata.
PAOLO MIELI
19 ottobre 2010

http://www.corriere.it/unita-italia-150 ... aabc.shtml

V ictor Hugo lo detestava al punto da definirlo «Napoleone il piccolo». E buona parte della storiografia democratica nella seconda metà dell'Ottocento nonché nella prima del Novecento non ne aveva gran stima. Ma in tempi recenti storici italiani di diversa provenienza politico culturale, da Luciano Canfora a Franco Cardini, hanno mostrato grande interesse per la figura di Napoleone III. Cardini ha anche scritto su di lui un bel libro per la Sellerio (nella collana diretta da Sergio Valzania che riprende i testi di una seguitissima trasmissione radiofonica), Napoleone III, dedicandolo a Eugenio Di Rienzo «studioso autentico di Luigi Napoleone, con la doverosa riconoscenza di un onesto dilettante». Perché questo omaggio dai toni insoliti (quantomeno nel mondo degli storici)? Per il fatto che quando è uscito il libro di Cardini stava per essere pubblicato (e adesso lo è, per i tipi della Salerno editrice, nella collana «profili» fondata da Luigi Firpo e diretta da Giuseppe Galasso) un poderoso, accurato volume di Di Rienzo - anche qui il titolo è Napoleone III - che può essere considerato il primo esauriente studio italiano sulla figura di quel «doppio nipote», protagonista del Secondo Impero francese. «Doppio nipote» dal momento che Napoleone Bonaparte gli era ad un tempo zio - in quanto fratello di suo padre, Luigi, re d'Olanda - e nonno adottivo come marito di Giuseppina de Beauharnais, madre di sua madre, Ortensia.

RIVALUTAZIONE - Un qualche apprezzamento da parte degli storici italiani nei suoi confronti non è una novità. Cinquant'anni fa, Luigi Salvatorelli in Leggenda e realtà di Napoleone (Einaudi) si spinse addirittura a valutare Napoleone III più positivamente del suo zio e nonno acquisito. «Mentre il primo regime imperiale (quello di Napoleone Bonaparte, ndr) era andato verso un assolutismo personalistico sempre più completo - scriveva Salvatorelli -, il Secondo Impero seguì un'evoluzione contraria, fino a trasformarsi nell'Impero liberale, cioè in una monarchia costituzionale vera e propria, salvo la persistente ambiguità che l'imperatore era responsabile davanti al popolo francese, a cui poteva sempre fare appello».
Ma torniamo alla formazione di Napoleone III. Luigi, suo padre, aveva sposato malvolentieri Ortensia su pressione del fratello. Fratello, il Bonaparte, che Luigi sospettava fosse anche il vero genitore del primo figlio nato dalla sua unione con Ortensia nel 1802, lo stesso anno delle nozze (il piccolo fu battezzato con il nome di Napoleone Carlo e sarebbe morto per una febbre difterica nel 1807). La coppia ebbe poi, nel 1804, un secondo figlio, Napoleone Luigi (morirà di scarlattina nel 1831) e infine, nel 1808, il protagonista del libro di Di Rienzo, che sarà battezzato con il nome Luigi Carlo Napoleone, ma verrà sempre chiamato Luigi Napoleone. Il titolo di Napoleone II sarebbe spettato all'autentico figlio del Bonaparte, nato nel 1811 dal matrimonio tra questi (che nel frattempo aveva divorziato da Giuseppina) e Maria Luisa d'Austria; figlio che aveva preso il nome di Francesco Carlo in omaggio al nonno per parte di madre, Francesco I d'Asburgo imperatore d'Austria, e a Carlo Magno. Ma anche Francesco Carlo (Napoleone II), che dopo la caduta di Napoleone aveva vissuto a Vienna ed era stato nominato duca di Reichstadt, morì prematuramente, a ventun'anni, nel 1832.

L'EREDE - Da quel momento, primi anni Trenta, Luigi Napoleone si considerò e fu considerato l'erede della dinastia napoleonica. Ruolo che interpretò vestendo fin da giovane i panni del rivoluzionario: nel 1831 con il movimento insurrezionale che si era sviluppato tra l'Emilia, le Romagne, le Marche e l'Umbria; poi con il tentativo di provocare una rivolta in alcune piazzeforti dell'est della Francia; quindi con la ricerca di una sollevazione della Polonia; e ancora nel 1836 con il putsch (fallito) di Strasburgo. Infine, nel 1840, dopo lunghe peregrinazioni, con lo sbarco a Boulogne per innescare una rivoluzione (ennesimo fallimento). Quell'insuccesso fu considerato un po' da tutti come la prova che Luigi Napoleone era uno sprovveduto. Anche suo padre inviò al tribunale una lettera, pubblica, in cui auspicava che il figlio fosse trattato con clemenza in quanto era un povero ragazzo raggirato da cattivi consiglieri.
Il «Times», a proposito di quel ragazzo, scrisse che se almeno fosse stato ucciso, sarebbe stata «la fine più appropriata di un imbecille mistificatore». Allo sbarco a Boulogne era seguito un processo in cui il procuratore generale Emile Franck-Carré aveva definito il futuro Napoleone III «un puerile avventuriero, un giovanotto conosciuto solo per le sue sconsiderate imprese, un dittatore improvvisato, che venne a prendere terra a Boulogne, in mezzo ai suoi servitori travestiti da soldati e aveva osato impugnare la spada di Austerlitz (quella di Napoleone Bonaparte, ndr) che si era rivelata davvero troppo pesante per le sue deboli mani». Luigi Napoleone fu condannato; tra il 1840 e il 1846 subì una detenzione (dorata) nella prigione di Ham, che lui stesso definì la «mia università» dal momento che poté tenere una vivace corrispondenza con personalità del suo tempo, studiare, scrivere articoli e opere invero non disprezzabili.

DISASTROSO GOLPISTA - «Se come golpista si era rivelato un disastro - ha scritto Cardini -, come commentatore politico e osservatore della vita civile sapeva essere informato, aggiornato, acuto».
Nel '46 evase, si stabilì a Londra per poi rientrare a Parigi dopo la rivoluzione del 1848. E qui si vide (e lui stesso poté constatare) quanto fosse ancora forte e persistente il mito di Napoleone. A dicembre di quell'anno il nostro fu eletto presidente della Repubblica; nel 1851 assunse poteri dittatoriali, nel 1852 fu proclamato imperatore. E qui viene la parte più avvincente del libro di Di Rienzo, quella dedicata al ruolo che Napoleone III ebbe nel processo che portò alla formazione dello Stato italiano. Ruolo ben noto che inizia con la partecipazione del Regno di Sardegna alla guerra di Crimea con la conseguente facoltà di sedere tra i vincitori della coalizione antirussa al congresso di Parigi del febbraio-marzo 1856, prosegue con i colloqui di Plombières tra l'imperatore e Cavour (1858), sfocia nella guerra franco-piemontese contro l'Austria (1859), ma si infrange contro il trattato di Villafranca, in virtù del quale la Francia, incassate Nizza e la Savoia, interrompeva il conflitto dopo che era stata «liberata» solo la Lombardia e non anche il Veneto come dagli accordi di Plombières. Fu un duro colpo. Al punto che i patrioti dell'epoca paragonarono il trattato di Villafranca al «tradimento» di Campoformio con il quale nel 1797 Napoleone Bonaparte aveva interrotto la sua campagna in Italia tenendo Milano ma lasciando, anche quella volta, Venezia all'Austria. E tutti quelli che avevano a cuore la causa dell'Italia unita (almeno quella settentrionale) reagirono con identica indignazione.

VILLAFRANCA - Ma, come già osservò Rosario Romeo nel terzo volume di Cavour e il suo tempo (Laterza), «se Villafranca non realizzava tutto il programma di Plombières, essa segnava per l'Austria la più grave disfatta che avesse mai subito sulla questione italiana: così grave da mutare interamente i termini del problema quali erano stati dal 1815 in poi». E se Cavour in quei giorni di luglio non riuscì a rendersene conto, «ciò si dovette», sempre secondo Romeo, «in parte a un dato esistenziale proprio della condizione umana, e in parte alla sua fragilità temperamentale, che nei momenti di maggiore tensione gli faceva perdere il controllo dei dati oggettivi della situazione e il dominio di se stesso: senza tuttavia privarlo nella più parte dei casi della istintiva capacità di prendere le decisioni politicamente più opportune». Come furono proprio le dimissioni.
Tra Vittorio Emanuele e Cavour si era creato in quei giorni un clima di crescente, reciproca insofferenza. Il conte era persuaso della necessità di sottrarre al re ogni influenza sull'andamento delle operazioni militari. Dopo la battaglia di Solferino disse esplicitamente a La Marmora che bisognava esautorare del tutto il sovrano. Ma, come ha ben ricostruito Adriano Viarengo nel suo recente Cavour (Salerno editrice), forte era anche la determinazione del re sabaudo - in ciò aizzato da Urbano Rattazzi - a liberarsi una volta per tutte del suo ingombrante primo ministro che «si era anche sforzato di mettere in cattiva luce presso l'imperatore francese».

L'IRA DI CAVOUR - Ecco come Costantino Nigra, braccio destro del primo ministro del Piemonte nonché suo ambasciatore a Parigi, ricorda il momento in cui, al cospetto di Vittorio Emanuele, fece conoscere a Cavour il preliminare dell'accordo di Villafranca. «Cavour lo lesse, però man mano che andava innanzi nella lettura gli si accendeva il volto e cresceva l'orgasmo. Quando poi giunse a quel punto dove è detto che tutti i sovrani d'Italia avrebbero formato una Lega presieduta dal Papa, allora non si contenne più e proruppe altamente dicendo al re di sperar bene che non avrebbe apposto la sua firma a quel trattato ignominioso. E qui dette sfogo lungamente all'animo esacerbato bollando con parole roventi la condotta dell'imperatore: pregò il re che non se ne rendesse solidale perché era un tradimento verso le popolazioni che, insorgendo, avevano avuto fiducia in lui». Il colloquio fu a tal punto aspro che il re accolse le sue dimissioni con sollievo e poco tempo dopo, parlando di Cavour con il colonnello inglese George Cadogan, disse: «Il suo tempo è finito».
Non era vero: di lì a breve Cavour sarebbe tornato alla guida del governo, postazione dalla quale nel biennio '60/61 avrebbe sorvegliato il travaglio che avrebbe portato alla nascita dello Stato italiano. Ma neanche Cavour immaginava che nel volger di pochi mesi sarebbe tornato sul ponte di comando. Ne è prova il fatto che proprio nei giorni di Villafranca passò da stati di esaltazione allo sprofondo della depressione. Disse a Lajos Kossuth: «Mi farò cospiratore! Mi farò rivoluzionario! Ma questo trattato non si applicherà mai... Mai! Mai!». Scrisse a Bianca Ronzani: «Mi ritrovo sul lago, sfinito e sfiduciato. Non più sorretto dalla speranza di riuscire ad impresa più gloriosa e più nobile di quante siensi tentate mai. Non più eccitato dalla lotta e dalla necessità di vincere: sento un tale spossamento che mi rende avvertito essere pur troppo per me cominciata la vecchiaia; vecchiaia prematura, cagionata da dolori morali d'impareggiabile amarezza». Cavour in quel momento aveva solo 49 anni e comunque il processo di formazione dell'Italia unita aveva preso l'avvio.

I MERITI DELL'UNIFICAZIONE - Ma - riconosciuto a Cavour quel che è di Cavour - l'uomo che rese possibile l'unificazione italiana fu in tutto e per tutto Napoleone III. E questo libro di Di Rienzo ha il grande pregio di restituire a Napoleone III i meriti che non possono essergli disconosciuti. Innanzitutto in virtù dei problemi che - per consentirci di «fare l'Italia» - l'imperatore dei francesi dovette affrontare nel suo Paese. Al largo entusiasmo popolare per la guerra d'Italia manifestatosi tra i quadri del bonapartismo di sinistra, negli ambienti operai, nei circoli repubblicani e addirittura in quelli dell'opposizione emigrata, si contrapponeva «una reazione eguale e contraria in altri e più estesi settori della società». Quali? Le masse rurali dei dipartimenti di confine esposte al pericolo di una reazione della Prussia, i vertici militari, la grande banca rappresentata dal barone Rothschild, buona parte delle Camere di Commercio, la totalità dell'opinione pubblica cattolica (quel conflitto segnò una grave incrinatura dell'alleanza tra Pio IX e il regime bonapartista), i seguaci della dinastia orleanista e alcuni importanti membri del governo tra i quali il ministro degli Esteri Walewski.
La guerra contro l'Austria iniziò il 3 maggio del '59, il 4 giugno fu la vittoria di Magenta, il 24 giugno fu quella risolutiva di Solferino e poco dopo Villafranca. Qui furono i seguaci di Mazzini ad accusare di tradimento l'imperatore dei francesi. Francesco Crispi, futuro presidente del Consiglio, confessò in quell'occasione di detestare «Napoleone cagion di tanti mali al nostro paese e vero ostacolo da superare per la completa conquista dell'unità nazionale». E nella sinistra italiana da allora in poi si produsse una crescente ostilità nei confronti della Francia (la «gallofobia democratica») che sarebbe andata crescendo nei decenni successivi. E pensare che in quei giorni, dopo Solferino, il principe Richard di Metternich inviava dal quartier generale di Verona al ministro degli Esteri austriaco una lettera nella quale si sosteneva che «nulla era più possibile fare in Italia» e che «soltanto un miracolo ci può ancora aiutare, ma contro il nemico tanto più potente, inebriato dalla sua vittoria, che riceve ogni giorno nuovi rinforzi, che ci sta accerchiando e che ci schiaccerà» era difficile sperare anche nel soccorso divino.

LA MINACCIA PRUSSIANA - In effetti è lo stesso Di Rienzo a riconoscere che dopo le sconfitte austriache «la continuazione della campagna in Italia offriva ottime possibilità di riuscita nonostante la scarsa prova dell'alleato piemontese». Ma questo è un punto da non sottovalutare: il Paese di Napoleone III era rimasto assai turbato dall'imprevista entità dello spargimento di sangue francese e dall'apporto assai modesto dei militari di Cavour. Secondo elemento importante fu l'uscita della Prussia dalla neutralità. Tutto accadde dopo la vittoria di Magenta, quando «a Berlino iniziò a prevalere il partito della guerra», in considerazione del fatto che, con l'avvicinarsi dei franco-sardi alla linea del Mincio, non era più procrastinabile un atteggiamento di maggior decisione: l'11 giugno venne dunque decisa dalla Prussia la mobilitazione di sei corpi d'armata, mobilitazione che comportava il richiamo della riserva orientale per la formazione di un contingente da collocare sul Reno in posizione ostile verso i confini francesi. A questo punto Walewski (siamo tra il 20 e il 23 giugno) chiese all'imperatore l'immediato concentramento di una grossa formazione francese sul Reno avvertendolo che, se avesse insistito con la guerra in Italia, il congiungimento tra austriaci e prussiani sarebbe stato inevitabile. E per la Francia sarebbero stati dolori.
Racconterà Napoleone III otto anni dopo, nel 1867, che la Francia non era riuscita a schierare in Italia più di 150 mila uomini e che, scrisse, «se la Provvidenza non mi fosse venuta in aiuto, donandomi il frutto della vittoria, io non avrei potuto disporre di una seconda linea a difesa dei nostri confini». Spiega Di Rienzo che la Francia del Secondo Impero scontava un notevole decremento demografico, la politica economica tendeva a immobilizzare la maggior parte delle risorse per la realizzazione di grandi opere di carattere civile; e a peggiorare il quadro va tenuta in conto la difficoltà «di catturare il consenso del ceto finanziario, agrario, manifatturiero, sempre restio a un incremento delle spese militari per paura di un innalzamento dei carichi fiscali; la volontà dell'imperatore di assicurarsi il favore delle masse contadine, tendenzialmente ostili a un aumento dei gravami della leva. Il che aveva prodotto un grave depotenziamento della sua macchina bellica, in particolare per quello che riguardava il numero di uomini da schierare sul campo nonché la mancata modernizzazione degli armamenti, del sistema dei trasporti e della logistica. Così che aveva ragione Walewski nel sostenere che, in caso di conflitto con le forze di tutto il mondo germanico, la Francia sarebbe stata di sicuro soccombente».

LA SCONFITTA DELL'EUROPA DEI TRATTATI - Villafranca fu dunque molto diversa da Campoformio. Perché a quel punto, come già scrisse Romeo, era accaduta la cosa fondamentale: «Per la prima volta dopo il 1815 l'Europa dei trattati era stata sconfitta dall'Europa delle nazionalità». E, per quel che riguarda Giuseppe Mazzini, il quale sosteneva che lo stesso risultato (magari di più ampie proporzioni) potesse essere raggiunto nel 1859 con un'insurrezione popolare, si trattava di illusioni. Quanto poi al fatto che Vittorio Emanuele II potesse in quei frangenti decidere di continuare la guerra da solo - ha scritto giustamente Domenico Fisichella nel recente Il miracolo del Risorgimento. La formazione dell'Italia unita (Carocci) - sarebbe stata una «follia». Il libro di Di Rienzo dimostra in maniera definitiva come, senza lo sforzo militare francese, l'avventura che portò all'unità d'Italia non avrebbe potuto neanche cominciare. E come la figura dell'erede del Bonaparte meriti la massima considerazione dal momento che, per correre quell'avventura, l'imperatore dei francesi prese su di sé rischi che nessun capo di una nazione nell'Ottocento si sarebbe mai addossato. Tanto meno per favorire l'indipendenza di un altro Stato.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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