Napoleon el naneto corso, on gran criminal - e i veneti

Napoleon el naneto corso, on gran criminal - e i veneti

Messaggioda Berto » mar dic 02, 2014 4:59 pm

Napoleon el naneto corso, on gran criminal - e i veneti
viewtopic.php?f=160&t=1245

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... Correr.jpg

http://correr.visitmuve.it/it/il-museo/ ... toria/sede
http://it.wikipedia.org/wiki/Museo_Correr
http://it.wikipedia.org/wiki/Procuratie ... apoleonica


http://archiviostorico.corriere.it/2002 ... 1221.shtml

POLEMICHE. Sparita quasi due secoli fa e riacquistata da Sotheby' s, l' opera d' arte rinfocola vecchi rancori a metà fra storia e politica

Napoleone? No grazie. Mezza Venezia si ribella

Il ritorno della statua fa indignare chi non perdona a Bonaparte di avere affondato la Serenissima
L' imperatore spogliò la città di inestimabili ricchezze: cominciando dalle «Nozze di Cana» del Veronese, che si trovano tuttora al Louvre

DAL NOSTRO INVIATO VENEZIA - Due secoli, quattro anni e nove mesi non son stati sufficienti a perdonare l' umiliazione del Leon. Uno sfregio insolente e gratuito. Non era bastato a Napoleone l' aver rubato a Venezia anche quella magnifica statua di bronzo greco-orientale che svettava da secoli su una delle colonne di San Marco. Non era bastato averla portata a Parigi per piazzarla agli Invalides da dove sarebbe tornata a casa 18 anni dopo (grazie agli austriaci) frantumata in 84 pezzi. No, aveva voluto che il superbo animale, simbolo della grandezza della Serenissima, fosse «ritoccato» con la coda piegata tra le gambe. Certo, dopo tutto questo tempo è facile leggere anche un risvolto politico nelle proteste dei leghisti contro l' acquisto a Sotheby' s per 353 mila euro di una statua del Bonaparte che per tre anni, dal 1811 al 1814, aveva troneggiato davanti al Palazzo Ducale da dove era stata rimossa durante una sommossa popolare per sparire nel nulla. Venezia, come ricorda con trinariciuto disappunto il forzista Giorgio Carollo, resta «l' unica isola bolscevica» (sic) del Veneto.

Una polemica in più, anche se nel centrodestra Vittorio Sgarbi e Renato Brunetta hanno benedetto l' operazione, è sempre benvenuta.

L' indignazione per il ritorno della statua, due metri e mezzo di marmo scolpito dal veronese Domenico Banti e riacquistato grazie alla Cassa di Risparmio di Venezia e al Comité Francais pour la sauvegarde de Venise, affonda però davvero le radici in un astio antico.

C' è chi come il presidente del consiglio regionale Enrico Cavaliere urla che «è come se gli indios facessero un monumento ai conquistadores».

Chi come Bartolomeo Boscolo scrive al Gazzettino per chiedere stizzito: «allora facciamo una statua anche a Francesco Giuseppe».

Chi come Gianpietro Zucchetta, autore di vari libri su Venezia, minaccia d' andare al «Correr», dove l' opera finirà, «solo per sputare addosso a chi uccise la Serenissima».

Chi come il venetista Alberto Gardin segnala la nascita di vari comitati «pronti a dare a Napoleone il "benvenuto" che merita».

Davanti a tanto rancore che aggalla nonostante l' ok di Giandomenico Romanelli, il direttore dei musei secondo il quale col rientro della statua un pezzo di storia veneziana, piaccia o no, torna al suo posto, lo scrittore Alvise Zorzi non è affatto stupito: «Il nome di Napoleone è legato alla rovina di Venezia.
Gli amici del Comité francese amano la nostra città e sono impegnati da anni in opere straordinarie, come il restauro della Salute. Ma credo anch' io che questo sia stato un errore».

Fu la fine di tutto, quel maggio 1797. Di una storia millenaria spazzata via dal voto d' autoscioglimento del Maggior Consiglio.

Della venezianità secolare delle terre dalmate dove il capo del villaggio di Perasto, bocche di Cattaro, salutò la morte della Serenissima con parole strazianti: «el nostro cuor sia l' onoratissima to tomba».

Dell' orgoglio d' una città che mai era stata invasa ed ora moriva disonorata da voltagabbana come Giacomo Foscarini, «lo zoppo», che si levò la toga patrizia e la calpestò per mettersi all' occhiello una coccarda francese.
Tutte le navi che erano all' Arsenale furono affondate, tutte le artiglierie smontate e mandate in Francia, tutte le gomene e le vele portate via. Tutti i leoni della città scalpellati insieme con le statue dei dogi, tutti i preziosi scranni del Maggior Consiglio incendiati, tutti i meravigliosi intarsi e gli arredi del Bucintoro, compreso quel leone alato che «parea slanciarsi nelle acque marine», sfasciati e bruciati all' isola di San Giorgio dove «arsero per tre giorni e tre notti» finché, spente le fiamme di quella che era stata la più bella barca mai esistita, le ceneri furono raccolte e mandate a Napoleone: simbolo del totale annientamento della città.

Un saccheggio spaventoso. Che col successivo dominio francese dal 1806 al 1814 e il sequestro dei beni religiosi avrebbe lasciato Venezia spogliata di inestimabili ricchezze: settanta chiese e conventi demoliti, 20 mila opere d' arte disperse, sei milioni di lire torinesi (una somma enorme, metà in contanti e metà in attrezzature nautiche) taglieggiati devastando le pubbliche casse, i quattro cavalli di San Marco e il magnifico Leone portati a Parigi insieme con un patrimonio incredibile che solo in parte (le Nozze di Cana del Veronese, per dire, sono ancora al Louvre) sarebbe tornato indietro. Nell' elenco, riassunto da Zorzi in «Venezia scomparsa», c' erano opere del Tintoretto, del Tiziano, del Giambellino... Per non parlare dei 470 manoscritti antichi asportati dalla Biblioteca Marciana, delle centinaia di incunaboli, dei codici greci su pergamena. E più ancora del fantastico Tesoro di San Marco: corone e croci e gioielli straordinari accumulati per secoli, smontati pezzo per pezzo dalla cittadina Mascherini: di qua le pietre preziose, di là l' oro da fondere.
Un delitto mai perdonato. Trasmesso di padre in figlio, di nonno in nipote.

E ripreso in un adagio veneziano: «I francesi no xè tuti ladri, ma Bonaparte sì». Gian Antonio Stella

Stella Gian Antonio
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Re: Napoleon el naneto corso, on gran criminal

Messaggioda Berto » gio dic 04, 2014 8:28 am

Napoleone invade la Serenissima Repubblica Veneta.


dixen ke ƚa colpa lè en bona parte anca de ƚa Repiovega Veneta e de ki ke gheva el poder prasiò de l'arestograsia venesiana ke ƚa ƚo ga lasà vegner drento ƚe tere venete:


http://www.venetieventi.it/napolion/kro ... occupa.htm

1792
17/10/1792 - Il senato rifiuta di aderire alla Coalizione di Pillnitz (Sassonia) contro la Francia (v. Coalizioni anti-francesi) stipulata tra Austria e Prussia, già anticipata dalla Dichiarazione di Pillnitz il 27/08/1791.

1794
08/02/1794 - Alla proposta di alleanza del re di Napoli, la Repubblica conferma la neutralità disarmata.
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Re: Napoleon el naneto corso, on gran criminal

Messaggioda Berto » gio dic 04, 2014 8:51 am

Ƚa fine o el termene de ƚa Repiovega Arestogratega Veneta
viewtopic.php?f=138&t=521
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Re: Napoleon el naneto corso, on gran criminal

Messaggioda Berto » gio dic 04, 2014 9:05 am

Giacomo Foscarini, «lo zoppo», che si levò la toga patrizia e la calpestò per mettersi all' occhiello una coccarda francese.???

http://xoomer.virgilio.it/fercova/sitob ... Varese.htm

Altre notizie relative ad un Giacomo Foscarini (cognome diffusissimo a Venezia) sono quelle relative ad una manifestazione del 12 maggio 1797 : la folla gridava che non voleva né Francesi né cambiamenti e iniziarono a dare l'assalto alle case dei partigiani Francesi. Durante gli assalti fece le spese più di tutti il magnifico palazzo Foscarini ai Carmini.Tempo prima un Giacomo Foscarini, detto lo Zoppo, figlio del cavalier Bastian e nipote del provveditore Nicolò, all'uscita del Maggior Consiglio si era svestito della toga patrizia e l 'aveva calpestata con infami espressioni, mettendosi all' occhiello una coccarda coi colori francesi. Qualcuno se ne ricordò e il famoso palazzo fu completamente devastato.

Potrebbe essere il Foscarini che stiamo scoprendo che evidenziava con l'amico Dandolo le simpatie giacobine, ma in quel periodo doveva aver già abbandonato Venezia ed essere stabilito a Varese.
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Re: Napoleon el naneto corso, on gran criminal

Messaggioda Berto » gio feb 12, 2015 11:12 am

Ƚe colpe, ƚe responsabeƚetà e ‘l tradimento dei venesiani

viewtopic.php?f=167&t=1277


El Parlamento Arestogratego Venesian el ga abdegà a favor de ła Mounçepałetà Demogratega el 12 de majo del 1797

Ła Repiovega Veneto Venesiana lè termenà ente 1797 el 12 de majo
viewtopic.php?f=160&t=807


???
http://www.venetieventi.it/napolion/kro ... _kaput.htm

Venezia, di punto in bianco, capitola, perché? Si dice che sia colpa del crollo commerciale. Qualcuno immagina un governo stanco di governare. E allora che cosa si può dire delle centinaia e centinaia di Nazioni meno ricche e meno longeve della Serenissima ancora in piedi? E che dire di quelle Nazioni, seppur piccole, che hanno riacquistato la libertà? Forse è più logico pensare che la morte di Venezia sia avvenuta per colpa di governanti inetti, menefreghisti e “servidori de tanti paruni”.

Dalle numerose e spontanee ribellioni popolari antifrancesi avvenute nei territori eneti in questo infausto periodo napoleonico, appare chiaro che il Popolo veneto non voleva assolutamente saperne di invasori stranieri, proprio come avvenne quattrocento anni prima contro la Lega di Cambrai. E mai una volta nella storia della Serenissima i Veneti si ritorsero contro la propria Repubblica, segni evidenti che sotto San Marco la gente stava bene. Perché, dunque, gli ultimi governanti veneti non tennero conto in nessuna occasione della volontà popolare? E perché nessun governo veneto da allora ai nostri giorni ha mai rivendicato pubblicamente giustizia tenendo conto dei fatti storici? E' chiaro, contrariare i nuovi padroni significava come minimo perdere la carica istituzionale con tutti i relativi benefici che essa comporta.

Da

L'ultimo Maggior Consiglio, impotente di fronte alla supremazia francese, vota e accetta il governo municipale imposto da Napoleone con 598 voti favorevoli, 7 contrari, 14 astensioni (quei 7 contrari dovrebbero essere ricordati come eroi), cancellando in un baleno 11 secoli di storia della Serenissima. Un tale quorum esaudente le richieste di Napoleone non poteva che significare ingraziarsi il tiranno per esigenze future.
E chi ci rimise in quest’operazione?
Non certo gli ex governanti che ben presto rivedremo occupare la vecchia poltrona e mantenere pure tutti i loro beni.
Da questi “calabrache” Napoleone selezionò la peggiore classe dirigente immaginabile.
Egli impose un governo democratico veneziano filo-francese senza alcuna difficoltà (più verosimilmente filo-francese per opportunismo come lo saranno in seguito i governi filo-austriaco e filo-italiano).
Molti nobili, infatti, si precipitarono da Napoleone alla villa di Stra, per assumere le nuove cariche che egli distribuiva a “gente abietta che sostava giorni e giorni sulle soglie delle mie stanze e che sembrava mi chiedessero l’elemosina” (dalle “Memorie”) . Mi par di vederli… uguali a tanti politici odierni che si affannano per conquistare la “karega” del potere, dispensando compiacenti ghigni e false promesse e, all’occorrenza, sconfinando nell’illegalità per conservarla il più a lungo possibile pur non avendo né merito né doti.
I nuovi dirigenti filo-francesi di allora, come tanti di oggi politicamente loro eredi, escludevano qualsiasi pensiero ideologico sociale come patria, popolo, evoluzione storica e culturale della propria gente, morale collettiva ecc. Principi, probabilmente, esclusi da tempo dalla loro antica scuola basata fondamentalmente su “commercio e finanza”. Il banchiere Lippomano era stato del resto ben chiaro, quando scrisse ai suoi colleghi “Bisogna essere delle nullità, come noi siamo, per riuscire a tenere tutto” (9). E tennero veramente tutto.
Ma come sarebbe disegnata ora l’Europa se quel Maggior Consiglio invece di “calare le brache” avesse aderito alle Coalizioni antifrancesi proposte dall’Austria? E’ una domanda alla quale ci vuol poco per rispondere: la Serenissima si sarebbe seduta coi vincitori al Congresso di Vienna e, probabilmente, avrebbe mantenuta la sua indipendenza. Perché dunque non scegliere la Coalizione? E' Impossibile credere che dal 1791, anno in cui venne chiesto alla Serenissima di aderire alla prima alleanza antifrancese, al 1797, anno dell’abdicazione, nessuno del Maggior Consiglio abbia pensato che coalizzarsi significava affiancare un potenziale vincitore. In fin dei conti i duellanti nell'Europa di quell'epoca erano solo due: la Francia e i coalizzati. Ecco che alleandosi la Serenissima poteva vincere o perdere, ma restando isolata la certezza di cadere vittima di uno dei due contendenti era assoluta. Ed è proprio andata così, la gloriosa Repubblica “lìbara” è morta e il Popolo veneto, da allora orfano di madre Patria e educato dagli occupanti a considerarsi di tutto fuorché un Popolo, non sa più se ha una storia e nemmeno se ha un futuro. E' probabile che un giorno, forse non molto lontano, nei libri di storia si trovi scritto: "C’era una volta il Veneto".
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Re: Napoleon el naneto corso, on gran criminal

Messaggioda Berto » ven feb 13, 2015 5:47 pm

Rimossi 14 secoli di storia dal Museo Correr - interrogazione in Regione

http://guiotto-padova.blogautore.repubb ... in-regione

Sta per arrivare in Consiglio Regionale la protesta contro quanto sta avvenendo da mesi ormai presso il Museo Correr, uno dei più famosi musei veneziani.
Il 5 giugno è stata presentata infatti dal consigliere M.Foggiato un'interrogazione per far luce su quella che sembra essere, di fatto, una vera e propria censura della memoria storica della Civiltà Veneta: da qualche anno a questa parte "il museo ha mutato conformazione, si sono accantonati i materiali prestigiosi di storia veneta, quelli che tutto il mondo venendo a Venezia vuole apprezzare e conoscere, al fine di valorizzare la conoscenza di ciascuno su questo mondo incantevole. Nel contempo venivano messi in primo piano ambientazioni tirate a nuovo, non di meno banali, che riproponevano il soggiorno di Napoleone, della principessa Sissi, di Francesco Giuseppe e dei Savoia".

Ma andiamo per ordine. Fra i primi a sollevare il caso attorno a questa vicenda è stato il Presidente dell'Associazione "Europa Veneta", Edoardo Rubini, che attraverso un comunicato stampa ha denunciato come fosse stata "maldestramente sconvolta l'esposizione dei pregiatissimi pezzi, frutto di preziosi lasciti e importantissime acquisizioni collezionate nel tempo, nel segno del recupero e della valorizzazione della storia veneta: si è proceduto alla rimozione e all’accantonamento delle testimonianze più importanti, riferite alle vittoriose campagne navali del futuro Doge Francesco Morosini, e alla dispersione di pezzi “storici” di ingente valore, allo snaturamento delle precedenti ricchissime sale dedicate alla storia veneta. Con i nuovi allestimenti, 14 secoli di storia veneta sono divenuti una trascurabile parentesi davanti ai fasti di effimere occupazioni straniere, che vengono esaltate come prodromo dell’italico trionfo con un po’ di ciarpame neoclassico, su cui vengono impiantati tricolori e la solita retorica illuminista e patriottarda. Tutto ciò è avvenuto, come al solito in questo cosiddetto stato, nel silenzio assordante della stampa e delle istituzioni cittadine. [...] Io, cittadino obtorto collo di questa specie di stato - prosegue Rubini - mi sento incredulo e avvilito per quanto accade. Nella famosa Ala napoleonica sorgono le sale ottocentesche del Museo perché durante il primo Regno d’Italia (1805-1814) l'occupazione francese provvide a demolire la chiesa di San Giminiano e i due bracci della Procuratie Nove e Vechie che si congiungevano ad essa; al loro posto fu realizzata una sala da ballo dove il conquistatore francese potesse celebrare i suoi fasti, dopo essersi proclamato imperatore.
Ecco come appariva Piazza San Marco in precedenza:

Piazza San Marco con la chiesa di San Giminiano

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... iniano.jpg

Negli ultimi mesi il restauro delle sale ottocentesche (di quello che oggi è ribattezzato Palazzo Reale di Venezia) è stato completato, su iniziativa del Comitato francese per la Salvaguardia di Venezia e con il mecenatismo del World Monuments Fund.
Il Comitato Francese per il recupero del Palazzo Reale veneziano dal 2000 – nell’ambito del Programma Unesco – Comitati privati internazionali per la salvaguardia di Venezia – ha proseguito i lavori sugli appartamenti di rappresentanza (2000-2004) e nelle altre sale di nuova acquisizione, affacciate sui giardini e sul Bacino. Alla fine di questa incredibile mutazione, il museo ha messo in primo piano l’ala già abitata da Napoleone, da Sissi a Francesco Giuseppe e dai Savoia".

Quindi la visita del museo Correr, un tempo rivolta alle collezioni strettamente legate alla storia della Veneta Repubblica, come da volontà del suo fondatore Teodoro Correr (da La Gazzetta di Venezia, 26 febbraio 1830: "tutta la sua facoltà mobile, immobile, azioni, ragioni, crediti abbiano a servire di patrocinio a questa sua Pubblica istituzione, ch'egli pone a tutela della Città di Venezia") è oggi dichiaratamente riservata alle occupazioni straniere post 1797.
Ora la parola passa alla politica veneta, che a breve dovrà interrogarsi su "quali iniziative si intendano intraprendere affinchè il Museo ritorni in linea con le volontà del fondatore Teodoro Correr e, in particolare, se e quando possano venire rimessi i pezzi storici al loro posto ed essere progettata nel contempo la loro nuova sistemazione in modo da conferirvi massime centralità e visibilità, con allestimenti esplicativi all'avanguardia, che consentano al visitatore di entrare nel vivo della Venezia del tempo".

Un'interrogazione che dovremmo tutti fare nostra. Davide Guiotto


TUTTI A VENEZIA DOMENICA 15 FEBBRAIO ORE 11, Museo Correr.

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... /Corer.jpg

https://www.facebook.com/raixevenete

TUTTI AL MUSEO CORRER! Domenica 15 febbario ore 11 Museo Correr, Piazza San Marco Venezia. Raixe Venete invita i suoi followers alla mobilitazione pacifica organizzata dal "Gruppo WSM" a tutela e a difesa della nostra gloriosa Storia e identità bistrattata e vilipesa da oltre 200 anni di infamie. Invitaimo i nostri contatti a presenziare alla protesta.

LA STORIA DI VENEZIA PRETENDE RISPETTO: SI TOLGANO LE SALE DEDICATE A FRANCESI E AUSTRIACI E SI SPOSTI ALTROVE LA PACCOTTIGLIA OTTOCENTESCA, RISERVANDO ALLA STORIA VENEZIANA IL MUSEO CORRER, COME E’ SEMPRE STATO.

Il museo Correr di Venezia è, con palazzo ducale, la principale esposizione di opere d’arte, cimeli, collezioni storiche, monumenti che ricordano la storia della Veneta Serenissima Repubblica.
Prende il nome dalla volontà del suo fondatore, il nobiluomo veneziano Teodoro Correr, che alla sua morte lasciò "tutta la sua facoltà … a questa sua Pubblica istituzione, ch'egli pone a tutela della Città di Venezia" (da La Gazzetta di Venezia, 26 febbraio 1830).

Oggi la mostra non è più la stessa, dopo il restauro di alcuni spazi: su iniziativa del Comitato francese per la Salvaguardia di Venezia e del World Monuments Fund, sono state realizzate “sale ottocentesche” di quello che oggi è ribattezzato “Palazzo Reale di Venezia” (un tempo parte delle Procuratie).

In pratica, il Comitato Francese che ha messo i soldi per i lavori, ha anche deciso il nuovo allestimento del Museo Correr, dedicandolo alla “Grandezza francese” e a Napoleone Bonaparte, il distruttore della Repubblica di Venezia, in contraddizione con tutta la storia della Repubblica più longeva mai esistita, cioè la Serenissima.

La visita del museo inizia ideologicamente con l’esibizione di ambienti ottocenteschi, quasi un omaggio di sottomissione a Francia e Austria, cioè le occupazioni straniere post 1797: l’accesso al percorso è legato alla statua di Napoleone Bonaparte, che troneggia sulla mostra, inserito in ambienti dedicati alla principessa Sissi, a Francesco Giuseppe e ai Savoia, che avrebbero alloggiato in queste stanze.

Sono stati nel contempo emarginate le collezioni veneziane, in particolare quella legata al Doge Francesco Morosini.

Tutto è stato giustificato con l’argomento assurdo secondo cui tutti gli accadimenti storici avvenuti in un posto vanno evidenziati e, anzi, celebrati.

Si dimentica che i milioni di visitatori di Venezia arrivano in laguna vogliono assaporare la città per la sua immagine e per i significati che l’hanno resa grande e famosa in tutto il mondo, non certo per le disgrazie che ha patito, dalle invasioni straniere al suo attuale disfacimento fisico e sociale. Quale popolo libero e dignitoso proporrebbe nei luoghi più centrali e sacri del suo territorio l’esaltazione dei propri carnefici?

Come si è potuto presentare all’ingresso del museo Correr la figura del dittatore giacobino che a fine ‘700 ha umiliato e derubato l’intero territorio veneto?

C’è oggi in città chi ricorda che l’evento più discusso degli anni recenti è stata l’apparizione dell’attore americano George Clooney. Si ironizza, così, dicendo che il museo dovrebbe allora esibire un’esposizione in ricordo del corteo acqueo dei motoscafi di George Clooney, che il giorno del suo matrimonio imperversavano per il Canal Grande.

Già: ma che cosa c'entra con la storia di Venezia chi l'ha usata come sala da ballo, come salotto o come sfondo scenico mondano
per i propri comodi?

SISSI E NAPOLEONE AL POSTO DI VENEZIA
https://www.youtube.com/watch?v=CfBhyLv1gGs


Mi no ghe sarò, finaké łi venesiani no łi garà ła bona cosiensa e el corajo de torse tute łe so responsabełetà sensa scargarghełe so łi altri e so Napoleon (anca se sto bandito criminal el ga łe so colpe).
Sta kì lè ła colpa granda de Venesia e dei venesiani de ver tratà i veneti de tera cofà suditi e no cofà pari!
Colpa ke ła ga endebołetso el Veneto e ke ła ga fato de l'arestograsia venesiana na casta sensa pì nerbo, łigà a łi so priviłej, a łe so rikese e al so poder, talkè ła se gà calà łe braghe co Napoleon:


Ƚe colpe, ƚe responsabeƚetà e ‘l tradimento dei venesiani
viewtopic.php?f=167&t=1277

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... esiana.jpg


https://www.facebook.com/franco.rocchet ... comments=5

Franco Rocchetta
Chi, relativamente al 1797, parla di "veneziani" e di "tradimento dei veneziani", credendo il Veneto avulso da Venezia e dalla storia della Veneta Repubblica, fa il gioco delle nobiltà feudali e napoleoniche, e delle loro pletore di burocrati e di parassiti tuttora imperanti.

Alberto Pento
Mi a so veneto vixentin e no son venesian. Me despiaxe dirteło ma par mi a te si on fanfaron e buxiaro. Mi a so on pareota veneto ke vive del so laoro e ti del vitałisio tałian. Mi no vago en volta a contar bàłe e a far edeołoja, łi miti speçe coełi falbi łi fa lomè dani. Mi a so on pareota veneto vixentin e no venesian e no vojo el torno de ła Repiovega Serenisima Venesiana ma ke nasa na Repiovega Veneta de tuti i veneti, come ła Xvisara ente n'Ouropa Federal, dapò ti te pol jrar ła storia e contarla storta ma mi ła contarò senpre cusì, a ognon łe so reponsabełetà. Venesia ła xe stà caouxa del termene de ła Repiovega Veneta parké no ła ga savesto e vołesto verxarse a tuti veneti e ła ga volesto restar lomè ke venesiana. La ga łasà ke Napoleon el rivàse ente ła tera veneta col so exerçeto e dapò col se ga fato paron de ła tera veneta el Parlamento Arestogratego Venesian el se ga całà łe braghe e el ghe ga consegnà el poder de ła Repiovega al Corso. La Xvisara ła ga savesto far ben altro. Tuti coełi ke łi ła conta difarente no łi xe altro ke fanfaroni e buxiari. Co łe buxie no se fa strada e no se aia ła xente veneta a ver na cosiensa e na siensa ke łe ghe parmeta de farse forte e lebera. El Veneto de tera el ga fato parte del domegno de ła Repiovega Serenisima Venesiana lomè ke par 4 secołi. A te si pì bravo col tałian ke co ła łengoa veneta, anca se te scrivi monàe. Warda ke no ghè pì łe nobeltà feodałi e napoleoneghe e gnanca l'arestograsia venesiana e le "pletore" de parasiti e burocrati tałiani le enpera a Venesia come a Roma e na parte łe vive anca de vitałisi tałiani come ti e ła to ex mojer. Mi a tegno conto de ła storia, de coel ke xe capità ma ti e coełi cofà ti nò, łi prefarise vendar fumo e falbi miti! Ki ke no ga el corajo de torse łe so responsabełetà no lè n'omo d'onor de cu poderse fidar. Come ca te pol łexar mi no ghe vago mia drio a ła màsa sensa testa e par amor de veretà no me preocupo se ghe vago contro a łe falbe credense de tanti veneti. Mi a prefariso ła veretà, par coanto amara ke ła sipie a ła meskisa (dolçe-salsa) falbetà o falbesa. Mołegheła venesiani e envaxà de łi venesiani de darghe doso a łe xenti venete de tera, ma kì credio de esar? Ke gà fato grande el Veneto no xe stà Venesia ma i veneti de tera, łe so çità (Verona, Pava, Viçensa, Trevixo, Bełun, Udine, Pordenon, Ruigo) e łi migranti xermani, i doxe o duki xermani, łe fameje nobiłi o arestograteghe, ła borghexia çitadina, łe istitusion comounałi ke no łe xe nate a Venesia, i contadini, i pastori e i montanari veneti co łe so raixe anca xermane, łi so artexani, łi so endustriałi, ... a Pava xe nata ła prima ogneversedà e soto ła segnoransa dei Cararexi e no a Venesia o durante ła Repiovega Veneta Venesiana.

I Duki o Doxi e łe grandi fameje venet-xermagne
viewforum.php?f=179

L’ogneversetà veneta ła xe nasesta a Pava e no a Venesia
viewtopic.php?f=147&t=631
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Re: Napoleon el naneto corso, on gran criminal

Messaggioda Berto » sab feb 14, 2015 2:56 pm

La Svizzera e Napoleone
http://www.myswitzerland.com/it-it/la-s ... leone.html

Napoleone riconobbe che il modello di uno Stato unitario centralista non aveva chance di sopravvivere in Svizzera a causa delle differenze linguistiche, culturali e religiose. Propose dunque una bozza di costituzione per uno stato federale.

Poiché alla fine del XVIII secolo la Svizzera era soggetta al potere dei francesi, non poté tenersi fuori dalla guerra combattuta all'epoca in Europa.

Nel 1799 la Svizzera fu involontariamente teatro della battaglia tra la Francia e le truppe austriache e russe, quando queste ultime tentarono invano di scacciare i francesi. La presenza di un gran numero di truppe straniere in Svizzera impoverì ulteriormente il paese.

Fra il 1799 e il 1803 la Repubblica elvetica subì inoltre quattro colpi di stato; la ripartizione dei cantoni e la Costituzione furono modificate più volte. La Repubblica elvetica si dimostrò ingovernabile, poiché il parlamento era diviso in due correnti, quella federalista e quella centralista.
Il paese slittò verso una guerra civile e Napoleone fu costretto ad intervenire in quanto mediatore della Repubblica elvetica.

Nel marzo del 1803 entrò in vigore l'Atto di mediazione, che restaurò il vecchio sistema cantonale, con l'integrazione in qualità di membri a pieno titolo delle precedenti regioni sottomesse. La Confederazione si allargò quindi di sei cantoni nel 1803 (Argovia, Grigioni, San Gallo, Turgovia, Ticino e Vaud).

La nuova costituzione riconosceva nuovamente la neutralità svizzera, ma gli svizzeri erano tuttora obbligati a fornire soldati per l'esercito francese. Molti soldati svizzeri morirono combattendo per la Francia. La più famosa impresa di questi soldati è costituita dalla battaglia svoltasi al fiume Beresina, dopo il ritiro di Napoleone dalla campagna russa (1812). Per un giorno intero, 1'300 soldati svizzeri riuscirono a difendersi da 40'000 russi, mentre il resto dell'esercito attraversava il fiume su pontoni. La maggioranza dei soldati svizzeri vi perse la vita, ma le truppe francesi furono salvate dalla sconfitta totale.

La Svizzera dopo la caduta di Napoleone

In seguito al fallimento della campagna di Russia del 1812, Napoleone cominciò a perdere il favore degli svizzeri. Ne giovarono gli alleati, guidati dall'Austria, che cercarono di minare l'influenza della Francia in Svizzera.
Le autorità pre-rivoluzionarie presero di nuovo il controllo alla fine del 1813, e le vecchie costituzioni cantonali, con tutte le loro disuguaglianze politiche e sociali, furono restaurate. Nonostante la dura opposizione di alcuni ex signori, i nuovi cantoni non furono aboliti.

In base al nuovo Patto Federale firmato nell'agosto 1815, i cantoni recuperarono la loro sovranità in tutti i campi con l'eccezione della politica estera.

Vallese, Neuchâtel e Ginevra si unirono alla Confederazione nel 1815. Il territorio della diocesi di Basilea (nel Giura) fu preso alla Francia e dato in larga parte a Berna. Questo fu l'ultimo significativo cambiamento dei confini della Svizzera che a tutt'oggi si registra.


Napoleone, un colpo di fortuna per la Svizzera?
http://www.swissinfo.ch/ita/napoleone-- ... ra-/480186
05 febbraio 2003 - 10:56
Andreas Gross e Christoph Mörgeli, due consiglieri nazionali zurighesi, si esprimono sull'importanza dell'Atto di mediazione del 1803.

L'ordinamento costituzionale imposto da Napoleone suscita tuttora opinioni divergenti.

«Nessuno era veramente contento dell'Atto di mediazione», afferma Andreas Gross, politologo e consigliere nazionale del Partito socialista svizzero (PS). «Per i progressisti, la Costituzione era troppo restaurativa. E i privilegiati di prima non ne erano soddisfatti, perché, contrariamente a quanto speravano, non poterono riottenere i loro vecchi diritti».

D'altronde, Gross è convinto che la Costituzione del 1803 abbia avuto soltanto un'importanza secondaria per la formazione dello Stato svizzero: «La Costituzione elvetica del 1798 e quella federale del 1848 furono molto più incisive ed epocali».

Di tutt'altro parere Christoph Mörgeli, storico e consigliere nazionale dell'Unione democratica di centro (UDC): «L'Atto di mediazione riveste una grande importanza nella storia della Svizzera. Dopo la Costituzione elvetica unitaria e centralistica, ha nuovamente dato maggior rilievo alle strutture esistenti in Svizzera.»

Compromesso tra vecchio e nuovo?

La Costituzione del 1803 rappresentava un «compromesso per quanto si poteva fare allora», spiega Mörgeli: «I cantoni ottennero una sovranità con parità di diritti. Non ci furono più territori sottomessi né cittadini con minori diritti. L'uguaglianza politica, postulato della Rivoluzione francese, fu mantenuta».

«Non si può parlare di compromesso», ribatte Andreas Gross. «Solo chi è libero può concludere dei compromessi. La Svizzera, a quei tempi, viveva sotto servitù della Francia». Secondo Gross, i confederati avrebbero avuto il potenziale per «fare molto di più di una semplice restaurazione parziale dell'Ancien Régime».

Napoleone: invasore o accorto riformatore?

Effettivamente «sarebbe stato meglio e più soddisfacente» se la Svizzera fosse riuscita a «realizzare le riforme necessarie con le proprie forze», ammette Christoph Mörgeli. Con la sua immobilità, la Confederazione non riuscì invece che a farsi trasformare in quello Stato unitario «che non aveva niente di tipicamente svizzero» del 1798, e poi a subire il dettato di Napoleone. «In un certo modo, data la situazione del 1803, Napoleone rappresentò un colpo di fortuna per la Svizzera, indicandole la via federalistica, che le era più adeguata».

«Non si può mai essere riconoscenti per un diktat straniero», sostiene invece Andreas Gross. «Napoleone ha sfruttato la Svizzera per gli interessi della Francia. Decine di migliaia di svizzeri non poterono sviluppare delle attività economiche, perché le dogane e le strade erano controllate da stranieri. A loro, il dominatore francese portò sofferenza e miseria.»

Nondimeno anche Gross, come Mörgeli, è del parere che, in definitiva, fu l'irrigidimento interno a condurre la Confederazione, nel 1798, a subire le imposizioni francesi.

«Ma non deve sorprendere più di quel tanto, se a quei tempi non si intravedeva la necessità di riforme», relativizza Gross. «La popolazione era composta in gran parte da sudditi, e se non si è liberi, è difficile sviluppare un'astuzia e una visione politica. La libertà è una condizione per il rinnovamento».

La storia insegna

Oggigiorno, con il suo stare in disparte sul piano europeo, la Svizzera è confrontata ad un problema analogo a quello della vecchia Confederazione del 1798, sostiene Andreas Gross. «Sono troppi quelli che si illudono che si stia meglio da soli nel mondo. In realtà, così la Svizzera rischia di marcire come l'Ancien Régime e di avere poi bisogno di un nuovo Napoleone».

Comunque, contrariamente ad allora, la Svizzera è oggi in grado di compiere «importanti processi di apprendimento» e di risolvere i propri problemi «al passo con i tempi», riconosce Gross. «La Svizzera è uno dei paesi d'Europa più "europei". E per questo è predestinata a trovare da se stessa il cammino per l'Europa».

Christoph Mörgeli non sembra apprezzare questo parallelo storico: la Svizzera deve «risolvere da sola i suoi problemi interni», mentre l'UE «non ha finora veramente risolto alcun problema politico».

D'altronde, l'Atto di mediazione dimostra quanto il federalismo sia importante per la Svizzera. «Un'adesione all'UE significherebbe centralismo, imposizioni e la fine dell'odierna democrazia diretta», afferma Mörgeli. Il quale difende l'idea di «non aderire per diventare una copia degli altri, bensì di rimanere un esempio di Stato a democrazia diretta con un popolo forte».
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Re: Napoleon el naneto corso, on gran criminal

Messaggioda Berto » sab feb 14, 2015 4:24 pm

L'Atto di Mediazione e la faticosa costruzione del Cantone

http://www4.ti.ch/decs/dcsu/sportello/a ... /la-storia


Due le date indissolubilmente legate: il 1798, l'anno dell'emancipazione dei baliaggi a sud del Gottardo e il 1803, l'anno in cui nasce lo Stato ticinese. Gli avvenimenti di quel periodo intricatissimo non sono agevoli da raccontare, anche perché hanno subìto una forte rielaborazione in chiave patriottica con l'intento di indicare il processo di emancipazione e di aggregazione alla Confederazione elvetica prima, e di unificazione cantonale poi, come un'espressione genuina della volontà degli abitanti degli ex-baliaggi.

Non fu proprio esattamente così: le sorti delle terre ticinesi nel 1798 e nel 1803 non furono decise né da un'unanime volontà né da una sorta di lealismo elvetico incondizionato. I baliaggi non agirono, ma reagirono, e le sorti degli abitanti e delle terre ticinesi furono decise dalle vicende esterne, dalla Grande Storia.

L'adesione alla Svizzera fu imposta e non fu una libera scelta, e le parole dei francesi nel marzo nel 1798 non lasciavano dubbi: La precisa intenzione della Repubblica francese è che voi siate liberi, ma che facciate parte integrante della Repubblica Elvetica. [1]

Un giornale ticinese scrisse, a ragione, che noi fummo riuniti più per forza del caso che per propria virtù: senza Napoleone e senza l'Atto di Mediazione il Ticino non sarebbe esistito. [2]

Coloro che nei primi dell'800 non risparmiavano elogi al Primo Console, Protettore e Padre della Patria, lo facevano con intenti adulatori, ma coglievano nel segno e riconoscevano - come fece il Gran Consiglio il 20 maggio 1803 - che al Bonaparte era dovuta l'esistenza politica del Cantone Ticino.

Il Ticino fu dunque la conseguenza di un matrimonio forzato e non voluto fra territori giustapposti e popolazioni diverse, e più di una volta si rasentò il divorzio fra continui litigi.

E' questo un dato di partenza essenziale per capire le difficoltà incontrate nell'edificazione dello Stato cantonale.

Prima del 1798 la sudditanza era accettata, e perfino gradita, perché il governo degli Svizzeri salvaguardava l' "antica democrazia dei padri": gli Illustrissimi Signori Svizzeri certamente non promossero opere di progresso e di interesse pubblico (non costruirono né scuole, né strade, né ospizi) , ma questo immobilismo, se d'un canto manteneva le popolazioni dei baliaggi separate e arretrate, dall'altro salvaguardava le antiche libertà e i sacri statuti. In sostanza, in gran parte della popolazione, le libertà dei francesi, più che suscitare aneliti irrefrenabili di emancipazione, sollevarono paure e timori e i rumori, diffusi dagli émigrés trovavano terreno fertile: si temeva per la religione dei padri, si temevano i reclutamenti, si temevano le leggi che distruggevano le antiche usanze, e anche i benestanti trepidavano per le loro sostanze. E quanto avveniva nella vicina Lombardia sembrò confermare le paure. Quindi al di fuori di una piccola cerchia di fautori delle libertà francesi, nessuno voleva cambiare.

Teniamo ben presente questa realtà e potremo così capire perché i fatti di Lugano del 15 febbraio del 1798 - che videro i Volontari luganesi, che avevano giurato fedeltà ai balivi, ributtare a lago i cisalpini filofrancesi - furono rapidamente manipolati in funzione patriottica, tanto da perpetuare la falsa immagine di un popolo che, dopo aver rifiutato la secolare sudditanza e reclamato la libertà degli Svizzeri, aderì entusiasticamente al Corpo Elvetico [3]. Ecco come andarono invece le cose: il collasso dei baliaggi innescò immediatamente un impressionante e violento processo di disgregazione e ogni regione guardò al proprio tornaconto: la Val Maggia rimpianse i vecchi padroni, alcune pievi rurali si dichiararono ostili ad ogni mutamento, nella Leventina c'era chi voleva unirsi a Uri, Riva S. Vitale voleva l'adesione alla Repubblica Cisalpina, e alcuni ex-baliaggi pretendevano addirittura di governarsi da soli.

L'avversione alla Repubblica Elvetica non fu tanto il rifiuto di un modello imposto con la forza dallo straniero quanto piuttosto la reazione a un modello che si scontrava con uno dei caratteri dominanti delle terre a sud del Gottardo: la separatezza e la frammentazione dei territori, delle leggi, delle coscienze. La Repubblica Elvetica trasformò i sudditi in cittadini e molte leggi prefigurarono l'avvento dello Stato moderno, ma ebbe un grave difetto: antepose la libertà individuale alla libertà collettiva e in nome dell'uguaglianza politica e della sovranità nazionale distrusse d'un sol colpo la democrazia corporativa , le pratiche di autogoverno fondate sugli statuti e le separatezze regionali.

Fino al 1798 gli abitanti dei baliaggi furono sudditi degli svizzeri, ma il rispetto degli statuti comunitari li faceva sentire liberi; dopo il 1798 erano citoyens ma si sentivano sudditi perché le nuove leggi dello Stato li avevano privati delle antiche autonomie . In poche parole qui non si conosce il valore della libertà, concludeva sconsolato un funzionario dell'Elvetica [4]. Più semplicemente l'idea di libertà era diversamente intesa e per buona parte degli abitanti dei baliaggi essa si risolveva nel fare del passato un eterno presente. Quindi nel 1798 gli abitanti dei baliaggi la storia, più che farla, la subirono: l'emancipazione fu vissuta come una brutale menomazione, l'aggregazione all'Elvetica come una imposizione che li mise di fronte alla logica di un potere statale che rompeva bruscamente con il passato. Sta qui la contraddizione alla base della storia cantonale. L'Elvetica, centralizzatrice e unificatrice, metteva drammaticamente a confronto innovazione e tradizione senza soluzione di continuità. Le reazioni di rifiuto, nel Ticino come altrove, furono sicuramente alimentate dalle nuove leggi che si urtavano con la storia (si pensi alla grande conquista del droit de cité helvétique e del libero domicilio che eliminava la distinzione fra vicini e semplici residenti e cancellava i privilegi corporativi compromettendo la delicata gestione dei beni comuni; alle imposte dirette, alle coscrizioni militari, all'obbligo di redigere i catasti , alla libertà di culto considerato un attentato alla religione dei padri) ma, più ancora, furono provocate dall'idea stessa di Stato che, in un modo o nell'altro, presupponeva un potere sovraregionale limitatore delle autonomie locali. L'Elvetica risultò delegittimata fin dall'inizio perché all'unificazione degli spazi e delle leggi non corrispondeva l'unificazione delle coscienze. La constatazione fu fatta sia dai prefetti dell'Elvetica sia successivamente dai primi rappresentanti del governo cantonale: non bastava elaborare buone leggi per tutti, bisognava costruire anche delle coscienze che in esse si riconoscessero, e non era impresa facile. Ecco quindi la reticenza di molti ad abbandonare il vecchio statuto di baliaggio e la resistenza endemica al nuovo regime. Il prefetto Franzoni di Lugano osservò, nel 1800, che il dominio degli svizzeri si adattò bene al paese perché lasciò intatte le istituzioni del passato [5]: e infatti alcuni ex-baliaggi, costretti ad aderire all'Elvetica, chiesero subito inutilmente ai francesi di potersi governare da soli, affinché l'acquistata libertà loro non divenga gravosa [6]: Repubblica Elvetica sì, ma status quo ante. Il liberale Zschokke sintetizzò all'osso il problema: una parte non può, una parte non vuole afferrare l'inevitabile necessità e il valore del sistema unitario [7].

Con l'Elvetica si prefigurarono in nuce due diverse concezioni dello Stato che si ribalteranno sull'epoca successiva dando origine ad aspre contese: da una parte lo Stato concentratore, livellatore, omogeneizzatore in nome della sovranità nazionale e dell'uguaglianza politica, dall'altra lo Stato debole, a bassi costi, a sovranità limitata, con scarse competenze e con una funzione complementare rispetto al primato delle autonomie regionali e locali. Segnavano la contrapposizione fra due mondi, il primo all'insegna dell'unificazione presupposto della modernizzazione politica ed economica, espressa dai centri e dai nuovi ceti in ascesa, il secondo fondato sul particolarismo della tradizione.

La Repubblica Elvetica aveva riunito gli ex-baliaggi nelle prefetture di Lugano e Bellinzona e non funzionò. Con l'Atto di Mediazione Napoleone fece della Svizzera una Confederazione di 19 cantoni autonomi i cui rappresentanti si riunivano in una Dieta federale con scarsissime competenze. Il Ticino fu eretto alla dignità di Cantone suddiviso in 8 distretti (gli ex-baliaggi) e 38 circoli. Il potere fu affidato a un Gran Consiglio di 110 membri eletti dal popolo dei cittadini attivi e a un Piccolo Consiglio di 9 membri eletti dal Gran Consiglio. Bellinzona diventò la capitale del nuovo cantone.

L'Atto di Mediazione risultò un compromesso fra vecchio e nuovo che, correggendo le esagerazioni del periodo precedente, riavvicinò le leggi alla tradizione: dal diritto di voto furono esclusi i non patrizi e i poveri, il diritto di domicilio fu reso più difficile, le imposte dirette furono abolite e i vecchi statuti riesumati. Si configurava in questo modo una sorta di federalismo delle regioni e l'Atto di Mediazione appariva come un tentativo di conciliare la modernizzazione e le esigenze dello Stato moderno con il retaggio della storia e della tradizione. Rispetto ai principi dell'Elvetica fu un passo indietro, ma sul piano politico fu un passo in avanti: l'atto di Mediazione fu il primo vero tentativo di superare quegli ostacoli che si presentano in qualsiasi paese che voglia intraprendere la via della modernizzazione [8].

Nel 1803 il Cantone nasceva come una fragilissima collezione di territori giustapposti e di popolazioni litigiose che non si riconoscevano né in una patria comune né in una comunanza di interessi . Ciò delegittimava le istituzioni e le leggi dello Stato cantonale ritenute delle intrusioni indebite nelle realtà locali. Emblematico lo scoramento di un sindaco che nel 1804 dichiarò di non poter far applicare le disposizioni cantonali nel suo comune perché il corpo municipale non le riconosceva, e addirittura cinquant'anni dopo un deputato ricordava che molti comuni erano convinti che la legge la dovevano fare loro e perciò era lecito ignorare le leggi cantonali [9].

I nostri governanti sapevano bene quale fosse il nodo da sciogliere: le strutture dello Stato cantonale c'erano, le leggi si facevano ma mancava la loro legittimazione perché mancava il cittadino ticinese. Chiaro è il proclama del Governo del 26 maggio 1803:

10.0pt">Il nostro Cantone non consiste in un Popolo, che vivesse insieme da secoli, e fosse da un'antica abitudine legato alla stessa sorte. Egli è composto da otto Distretti, i quali sebbene poco lontani, variano nelle leggi, negli usi, e nei costumi. Noi ben sentiamo, che è d'uopo agire con prudenza, e con moderazione per appianare le difficoltà, prevenire i risentimenti, soffocare i pregiudizi e formare lo spirito pubblico [10].

Al landamano d'Affry, che sollecitava il Ticino a mettersi in moto, i nostri rappresentanti segnalarono le tre piaghe da sanare: il particolarismo esacerbato e i regionalismi, la mancanza di una coscienza cantonale e un'idea di patria che non coincideva con il Cantone, la paura di ogni cambiamento. Si trattava quindi, dopo il 1803, di costruire lo Stato attraverso il trasferimento allo stesso dell'obbedienza in precedenza dovuta ai detentori dei poteri locali. E si trattava contemporaneamente di costruire una coscienza cantonale. La politica del governo cantonale fin dall'inizio perseguì questi obiettivi: furono nominati i commissari di governo in ogni distretto e giudici di pace in ogni circolo che dovevano costituire la lunga mano del potere centrale, si iniziò la costruzione di vie di comunicazione che dovevano unire le varie parti del paese, si promulgarono molte leggi che dovevano amalgamare le varie parti del Cantone cancellando le disparità e il guazzabuglio giuridico esistente. E si cercò soprattuto di plasmare una coscienza cantonale attraverso un profluvio di stemmi, stendardi, bandiere e divise. Furono perfino commissionate opere che dovevano suscitare salutari slanci patriottici, come l'enorme tela di Antonio Baroffio collocata nel 1805 nelle sale del Gran consiglio o il Dizionario degli uomini illustri del Cantone Ticino di Gian Alfonso Oldelli. E non si lesinò sulle feste civico-patriottiche.

Tuttavia la soluzione del problema posto nel 1804 ebbe costi altissimi perché per buona parte dell'Ottocento lo Stato continuò ad essere delegittimato. Ancora a metà secolo c'era chi considerava lo Stato, con i suoi funzionari e le sue leggi, come una sorta di aguzzino che pretendeva di regolare le coscienze come delle dogane [11].

E infatti tante leggi emanate per disciplinare l'agricoltura, incrementare i commerci, promuovere l'istruzione, o non erano applicate o erano semplicemente ignorate. Insomma lo Stato continuò ad essere sentito come una costruzione artificiosa perché mancava un'identità cantonale. Questa incongruenza fu percepita anche dal grande Cesare Laharpe: nel 1824 scriveva all'amico Vincenzo Dalberti che non era possibile conservare le istituzioni senza uno spirito pubblico.

La cruenza della storia politica cantonale per buona parte dell'Ottocento si spiega proprio per il fatto che il contenzioso posto nel 1803 con l'Atto di Mediazione restava irrisolto: l'idea di uno spazio cantonale retto da istituzioni e leggi omogenee posta nel 1803 continuava ad essere frenata dai feroci regionalismi e da una prevalente mentalità che circoscriveva l'idea di patria al proprio comune, alla propria valle. Non a caso il Franscini proponeva, con amara ironia, di erigere la capitale cantonale sul Monte Ceneri e magari di chiamarla Concordia [12].

L'importanza dell'Atto di Mediazione non sta tanto, a mio avviso, nel fatto che grazie alla volontà napoleonica il Ticino diventò cantone a tutti gli effetti, quanto nel fatto che innescò una duplice contrapposizione politica, economica, sociale, culturale che condizionò la storia cantonale di tutto il XIX secolo: su un asse verticale vi fu la dura contrapposizione fra potere centrale e poteri locali e sull'asse orizzontale l'opposizione fra regione e regione, fra Sopra e Sottoceneri, fra centri e periferie. Tutte le vicende cantonali dell'Ottocento possono essere ricondotte a queste contrapposizioni. Ecco qualche esemplificazione significativa: nel 1814 la Leventina chiese l'annessione a Uri per sfuggire - dichiarò - a uno Stato esoso e accentratore che imponeva tasse e leggi complicate che favorivano solo i centri. Qualche anno prima, nel 1811, i deputati sopraccenerini al Gran Consiglio si dichiararono disposti a scambiare il Mendrisiotto con qualche vantaggio commerciale. Per settant'anni Lugano e Bellinzona si accapigliarono per diventare capitale unica del Cantone e le altre regioni sostenevano il miglior offerente perché - dicevano - il primo dovere di un cittadino benpensante è quello di procurare i massimi vantaggi alla Patria, intendendo con ciò la regione di appartenenza. E se nel 1870 non si arrivò allo smembramento del Cantone fu solo grazie alle truppe federali.

Il luganese Giovanni Airoldi nel 1852 distillò l'essenza della storia cantonale: La lotta delle varie unità distrettuali (gli ex-baliaggi) coll'unità dello stato, si può dire sia la storia della piccola nostra repubblic [13].

Per molti decenni, dopo il 1803, il pendolo della storia cantonale oscillò incessantemente fra il radicalismo della modernizzazione e il radicalismo della tradizione senza soluzione di continuità. Fin tanto che la modernizzazione fu vista come negazione della tradizione, e viceversa, lo Stato continuò ad essere considerato un organismo di parte e non al di sopra delle parti, e ciò impedì il consolidamento del sentimento di appartenenza a un territorio comune con interessi comuni. Solo sul finire del secolo si arrivò un punto d'incontro che rese possibile l'integrazione della tradizione nel processo di modernizzazione del paese. Era la definitiva legittimazione dello Stato che portò - come disse un costituzionalista - alla formula dello Stato unitario ma decentralizzato [14].

Andrea Ghiringhelli

Direttore dell'Archivio di Stato



[1] Caddeo, Stato politico e morale del Ticino alla vigilia della reazione del 1799, ASSI, 1937, p. 189
[2] L'Elettore ticinese, 19 aprile 1852
[3] Non è bello dover ammettere che i popoli dei baliaggi non si sono emancipati, ma sono stati emancipati. Meglio reinterpretare la storia e mettere in ombra il Bonaparte: ed è interessante constatare che il Ticino, solitamente assai prodigo nell'elargire onorificenze anche a personaggi assai discutibili, al Primo Console ha negato perfino il nome di una viuzza.
[4] v. il rapporto del commissario Luigi Jost, in R.Caddeo, Stato politico e morale del Ticino alla vigilia della reazione del 1799, ASSI, 1937, p. 205
[5] J.Strickler, Actensammlung aus der Zeit der Helvetischen Republick, Bern, 1897, VI, p. 107
[6] L. Delcros, Il Ticino e la Rivoluzione francese, vol. II, Lugano, 1961, p. 118
[7] J. Strickler, op. cit., V, p. 1289
[8] I politologi parlano di sfida di costruzione dello stato e di sfida di costruzione della nazione
[9] Per il primo esempio v. Archivio di Stato, Fondo Dipartimento interni, sc. 17/II, per il secondo Archivio di Stato, Div. 62, G.Sartori al Consiglio di Stato, 11 gennaio 1858
[10] Proclama al Popolo del Cantone Ticino, 26 maggio 1803
[11] Giuseppe Filippo Lepori, La possidenza agraria e la sovranità del popolo, Lugano, 1859, p. 42
[12] S. Franscini, La Svizzera Italiana, Vol. II, Lugano, 1840, p. 292
[13] L'Elettore ticinese, 19 aprile 1852
[14] L. Aureglia, Evolution du droit public du Canton du Tessin dans le sens démocratique, Paris, 1916, p. 331



Ticino 1803 - Nascita di un Cantone
http://www4.ti.ch/decs/dcsu/sportello/a ... sentazione

La bufera della Rivoluzione francese aveva soffiato i suoi venti tempestosi in ogni parte d'Europa, senza risparmiare la piccola Svizzera. La vecchia Confederazione dei 13 Cantoni, con i suoi Stati alleati e i territori sottomessi, retta su un sistema istituzionale e sociale che mal si adattava ai tempi nuovi, era stata spazzata via nel 1798 dall'intervento dei cannoni della Francia repubblicana. Al suo posto era nata la Repubblica Elvetica "una e indivisibile", modellata sul centralismo istituzionale francese, che svecchiava antiche e anacronistiche strutture: veniva abolito il protettorato dei Cantoni sovrani su territori vassalli, erano sanciti il suffragio universale e l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, erano proclamate le libertà di pensiero, di circolazione, di commercio, si provvedeva a separare i poteri dello Stato e a promulgare una legislazione comune.

Ma la nuova Costituzione dell'Elvetica mal si conciliava con le antiche tradizioni federaliste e con il sistema dell'autogoverno regionale, e per questo fu odiata e combattuta. Si trascinò fra continui disordini per cinque anni, fino al 1802, quando Napoleone, Primo Console di Francia, per concordare un nuovo testo costituzionale convocò a Parigi i rappresentanti elvetici, accolti con queste parole: "La nature a fait votre État fédératif: vouloir la vaincre ne serait pas d'un homme sage".
Il 19 febbraio 1803 l'"Eroe della Libertà di Europa" concedeva alla Svizzera l'Atto di Mediazione per pacificare le fazioni in lotta sull'orlo della guerra civile: nasce allora la moderna Confederazione dei 19 cantoni, in cui sono accolte le nuove repubbliche del Ticino, Argovia, Turgovia, Vaud, San Gallo e Grigioni.

Nel 1803 le discoste vallate ticinesi guadagnavano la dignità di Cantone libero e autonomo nel seno della Confederazione per circostanze esterne che interessavano la grande politica nazionale e internazionale. Ad alimentare il nuovo assetto istituzionale degli antichi "baliaggi italiani" non erano dunque state improbabili aspirazioni di indipendenza dei suoi abitanti, non del tutto malcontenti del temperato dominio esercitato per tre secoli dai Cantoni sovrani svizzeri, rispettosi delle autonomie regionali e delle tradizionali forme di autogoverno locale. Ai ticinesi toccava così sacrificare le proprie prerogative fin lì gelosamente difese, che irrigidite nel corso dei secoli non potevano certo reggere all'urto dirompente di una società in piena evoluzione.

L'Atto di Mediazione, dopo la tappa del 1798 in cui era stata fatta tabula rasa del passato, fu subito inteso come il momento fondatore per la storia del paese, a cui si spalancavano le porte della modernità: un evento celebrato persino da artisti contemporanei, che per l'occasione allestirono dipinti allegorici. Ma a quei pionieri dello Stato unitario e indipendente non sfuggiva come la lotta per la modernità contro le forze della tradizione sarebbe stata lunga e irta di ostacoli, poiché si trattava di amalgamare popoli tra loro vicini ma estranei per leggi, usi, costumi, ognuno abbarbicato nella difesa di antichi privilegi.

Nel 1803 fu posta la prima pietra dell'edificazione dello Stato cantonale, in un territorio povero, privo di infrastrutture, a cominciare dagli edifici in cui ospitare governo e parlamento, che dovettero adattarsi a chiedere ospitalità ai conventi di frati e monache. Occorreva porre in cantiere un'opera colossale di "incivilimento" del paese, adeguare il sistema legislativo ai tempi nuovi, costruire strade per favorire traffici e collegamenti interni tra i centri di pianura e di montagna, promuovere lo sviluppo economico e sociale in tutte le sue forme. Ma l'opera più difficile si sarebbe rivelata la formazione dei nuovi "cittadini", che non più "sudditi" faticavano ad accettare orizzonti politici più aperti, a superare la separazione delle coscienze e a riconoscersi nei valori della patria comune.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Napoleon el naneto corso, on gran criminal - e i veneti

Messaggioda Berto » lun mar 02, 2015 9:33 pm

Distrutte opere millenarie – ISIS o…?

http://vivereveneto.com/2015/03/02/dist ... rie-isis-o

Pubblicato il 02/03/2015

Napoleone e la Repubblica di San Marco

di Giorgio Burin

Apprendiamo dai Media che alcuni membri dell’ISIS hanno distrutto opere millenarie custodite nei musei di Mosul e Ninive. Fa orrore alla nostra cultura e al nostro senso di giustizia un gesto del genere, che ci appare inutile ed immotivato.
Giudichiamo queste azioni segno di una mancanza di cultura e rispetto che vanno ben oltre la sconfitta del nemico.

Si tratta, tra l’altro di azioni a freddo, da non confondere con lo scempio seguito alla conquista di molte città del passato, magari dopo lunghi e sanguinosi assedi. Non c’è l’adrenalina della soldataglia vincitrice che fa scempio di una città vinta. C’è solo la supposta superiorità della propria cultura, così smodata da giustificare il tentativo di annientamento della cultura e della memoria altrui, così cieca da far credere onnipotenti.
Ma ci stupiamo ?

Diceva il Manzoni : Invece di cercare lontano si poteva scavare vicino. Nella nostra stessa storia di Veneti abbiamo assistito a fatti simili ai nostri danni.

Poco più di 200 anni fa entravano nei Territori di San Marco i liberatori francesi, portando giustizia, libertà e fratellanza, così dicevano. Nei mesi seguenti si dedicarono in maniera molto simile all’ISIS alla distruzione dei segni del Veneto Fasto.

Hanno distrutto più di 1000 statue del Leone alato, arrivarono a bruciare la Galea ducale, il Bucintoro coperto di oro Veneto, simbolo dello splendore di un governo millenario. A freddo, con metodico calcolo. Forse il generale corso che li comandava aveva in odio Venezia per le infinite sconfitte subite da Genova** per mano Veneta. Certo che lo spregio perpetrato andò oltre la logica del vincitore. Ricordiamo che, svuotato il gioiello Veneto, questo fu ceduto all’Austria, nessuna strategia di possesso quindi, solo spregio.

Questi gesti sembrano, oggi come allora, la frustrazione di un perdente, più che il trionfo di un vincitore.
Niente di Nuovo

Non sappiamo se i membri dell’ISIS si siano ispirati alle azioni del corso per concepire lo scempio delle statue. Se si, avranno anche appreso che la parabola Napoleonica si è esaurita in 15 anni e la loro durerà probabilmente meno. 3500 anni di storia, Veneta (e Assira) non si distruggono perché qualche esaltato si accanisce contro suoi simboli.
Eppure ci stupiamo

Ma ci stupiamo sì, ci stupiamo che oggi, nel 2014, si apra un museo nel cuore di Venezia per ricordare le gesta del distruttore dei Leoni, del ladro dei Cavalli di san Marco, di colui che fece bruciare il Bucintoro.

Ci stupiamo che i testi scolastici italiani dipingano un dittatore sanguinario come un eroe liberatore, ci stupiamo che dello scempio dei Leoni non si parli per un complice silenzio della cultura italiana. Su questo bisogna riflettere.

Ci stupiamo che ci siano statue che lo ricordano nella stessa da lui violentata Venezia. Chissà se il signore con il martello pneumatico, intento a sminuzzare la statua nella foto qui sopra avrà una sala che lo ricorda nel museo di Ninive fra 200 anni.

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** La Corsica era Genovese. Pochi anni prima della nascita di Bonaparte fu ceduta alla Francia. Bonaparte è nato Francese per caso, ma certamente l’astio genovese verso Venezia si respirava in famiglia.


Ki xe ke lo ga fato entrar e làsa kel fasa da paron ?
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Berto
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