SCRITO NEL 1969 DA GIGIO ZANON
I parte
VENEZIA, L’ITALIA E L’EUROPA 1848-49
È certamente opportuno che, a poco tempo dalle numerose iniziative che si sono svolte per commemorare i trent’anni della Costituzione della Repubblica Italiana, si celebri ora il 130° anniversario della Rivoluzione veneziana del 1848-49. Certo, gli uomini del 1848 non si sarebbero riconosciuti necessariamente in tutti gli articoli della Costituzione italiana entrata in vigore cent’anni dopo; una parte di essi, in effetti, li avrebbe atterriti. L’articolo 4, per esempio, nel quale « La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto », avrebbe fatto arretrare con orrore Manin e i repubblicani veneziani suoi compagni di lotta per loro il diritto al lavoro era il « péricoloso » Sogan degli ateliers nationaux parigini, il principio che era a fondamento della politica sociale di Louis Blanc, la parola d’ordine che spingeva le classi lavoratrici parigine alla guerra sociale del giugno 1848. Altrettanto estraneo al loro pensiero era il diritto delle donne al voto. Nel 1848 le donne occupavano ancora nella società una posizione rigorosamente subordinata e nessuna voce si levò durante la rivoluzione a chiederne l’emancipazione, sociale o politica. Le somiglianze fra i repubblicani del 1848 e quelli del 1948 sono nondimeno assai più marcate e significative delle loro differenze. Tanto gli uni quanto gli altri credevano nella democrazia politica, anche se non economica, nella repubblica in luogo della mnarchia nelle liberta fondamentali di pensiero, d’ opinione e di riunione Su questi punti i princìpi politici che ispirarono la Rivoluzione veneziana del 1848 furono molto simili a quelli del moderno Stato italiano, e i capi di tale rivoluzione furono i precursori dei « padri fondatori » della Costituzione italiana.
Fra questi due momenti non c’è però affatto una connessione lineare. I repubblicani del 1848 trionfarono in due sole città, Venezia e Roma e anche in quei furono sconfitti in grandissima misura durante il Risorgimento, e quella sconfitta proiettò una lunga ombra scura sull’intera formazione della moderna nazione italiana. A un livello simbolico, non è un caso che un monumento a Mazzini sia stato eretto a Venezia solo dopo la seconda guerra mondiale. Perciò, nel tornare a raccontare, a un vasto pubblico, in occasione del 130° anniversario, la storia della rivoluzione, dobbiamo evitare gli eccessi elogiativi in cui cade tanto spesso la letteratura commemorativa. Il tributo più grande che possiamo pagare agli uomini del ‘48 consiste nel non limitarci a ricordare il loro eroismo ma nel tentare anche di spiegare il loro insuccesso. Comprendendo le ragioni dell’insuccesso, che si dimostrò poi storicamente tanto importante, possiamo infatti acquisire una comprensione più approfondita delle tormentate origini dello Stato italiano.
Fra il 1840 e il 1850, Venezia era una città di oltre 122.000 abitanti, al sesto posto Costantinopoli, Genova e Livorno. Nel 1814 era entrata a far parte dell’Impero austriaco e per molti anni languì, come un’acqua stagnante pittoresca, mentre il grosso del commercio dell’Adriatico passava al porto di Trieste, favorito dagli Austriaci. La città sembrava destinata a un declino irreversibile.
Nell’ottobre 1818, Shelley era convinto che Venezia fosse ormai condannata:
Sun-girt City, thou hast been
Ocean’s child, and then bis queen;
Now is come a darker day,
And thou soon musi’ be bis prey.
(O Città cinta dal sole, tu sei stata
D’Ocean la figlia e poi la sua regina;
Un’epoca più oscura oggi è arrivata,
E la tua fine incombe ormai vicina. )
Gradualmente, però, questa profonda depressione economica andò attenuandosi.
Nel 1830 gli austriaci concessero a Venezia la condizione di porto franco, grazie alla quale il suo commercio di transito acquistò un grande impulso e i suoi cittadini poterono importare beni di consumo o materie prime non gravati da dazi. Il cristallo di Murano, il principale prodotto di Venezia, cominciò a trovare sbocchi in tutt’Europa. Rialto, pur non essendo più uno dei grandi mercati del mondo, prosperava commerciando le materie prime del Veneto: cereali, pelli, legname, pesce secco e salato. Turisti ricchi provenienti da tutta Italia e da tutt’Europa cominciarono ad affollarsi a Venezia; nel 1843, un anno abbastanza normale, Venezia ospitò 112.644 visitatori. Le strette calli furono illuminate da luci a gas e la municipalità fece sforzi considerevoli per riparare i danni e contrastare il deperimento della città. Soprattutto, nel 1846 fu realizzato il grande ponte ferroviario che attraversa la laguna.
Sembrava che infine Venezia avrebbe superato la sua arretratezza e il suo isolamento e che sarebbe entrata a far parte delle città moderne d’Europa. La forza principale che dava impulso a questa rinascita della città non era la tradizionale e illuminante di Venezia, la nobiltà, ma piuttosto la borghesia agiata, che dava vita alla Camera di commercio di mercanti, banchieri e uomini d’affari come i membri della famiglia Papadopoli, Giuseppe Reali, i fratelli Pigazzi, Angelo e Valentino Cornelio, Jacopo Treves, erano estremamente ricchi. Essi non erano di per sé antiaustriaci. Reali, il vicepresidente della Camera di commercio, per esempio, prima della rivoluzione aveva chiesto di essere ammesso a far parte della nobiltà austriaca. Tutti, però, erano ansiosi di assistere a un rapido sviluppo materiale della loro città. Come Reali disse alla Camera di commercio nel 1847: « Il Commercio ha creato questa Città, e il Commercio deve ritornarla al suo antico splendore ».
Dopo il 1835 queste aspirazioni vennero a trovarsi sempre più in conflitto col governo austriaco della città. Gli austriaci avevano, è vero, concesso a Venezia la condizione di porto franco, ma la qualità della loro amministrazione declinò in misura notevole dopo la morte dell’imperatore Francesco I, sostituito dal ben intenzionato ma incapace Ferdinando. Ai due lati del nuovo imperatore, Metternich e Kolowrat iniziarono il loro lungo duello che sarebbe sfociato nella rivoluzione. Le decisioni venivano differite o non venivano mai prese, e la Camera di commercio di Venezia si sarebbe in seguito riferita al governo centrale di Vienna come al « sepolcro delle petizioni e delle rappresentanze ».
La politica economica austriaca, inoltre, attribuiva a Venezia e al Veneto una posizione molto subordinata di semplici fornitori di materie prime. Altre parti dell’Impero — la Boemia, la Moravia, la stessa Vienna — erano state scelte come centri manifatturieri. L’industria veneziana aveva perciò ben poche possibilità di prosperare, e la Camera di commercio fu umiliata dal persistente rifiuto degli austriaci di aprire a Venezia una succursale della Banca di Vienna. Se a quest’emarginazione si aggiungono una tassazione molto pesante (per sostenere le malferme finanze dell’Impero) e il protrarsi delle preferenze a vantaggio di Trieste la parvenue, non è difficile concludere che i « negozianti » veneziani si sentissero più ostacolati che aiutati dai loro padroni austriaci.
Questa situazione, com’è ovvio, non li trasformò automaticamente in rivoluzionari. Purtroppo per gli austriaci, però, la propaganda a favore di un’alternativa economica e politica al loro sistema divenne sempre più attraente e guadagnò sempre più terreno nell’Italia del tempo. Gli intellettuali italiani, e in particolare quelli milanesi (anch’essi soggetti al governo austriaco), cominciarono a scrivere sui vantaggi enormi che sarebbero risultati per ogni parte d’Italia dalla riduzione o dall’abbandono delle barriere doganali, dall’unificazione del sistema di pesi e misure, dalla creazione di un mercato nazionale e da un collegamento delle comunicazioni in tutta la penisola. Un tale programma era inaccettabile per gli austriaci, intenzionati a mantenere la Lombardia e il Veneto isolati dal resto d’Italia e a scoraggiare ogni segno di nazionalismo italiano. Al tempo stesso crebbe il sostegno a favore della creazione di una federazione di Stati italiani presieduta dal Papa.
Con la pubblicazione, nel 1843, del Primato civile e morale degli Italiani di Gioberti, il movimento cattolico liberale, con la sua chiara intonazione nazionalistica e politica, divenne sempre più popolare, soprattutto in Piemonte e negli Stati dell’Italia centrale.
I « negozianti » veneziani, uomini prudenti, non sposarono immediatamente la causa nazionale italiana, ma alcuni membri di un altro strato della borghesia veneziana, i ceti professionali, erano pronti ad andare un po’ oltre. Anche i professionisti — avvocati, medici, notai ecc. — avevano i loro motivi di lagnanza contro l’Austria. Il rigore della censura costituiva un freno per la loro attività intellettuale, la mancanza di istituti rappresentativi li privava di ogni possibilità di carriera La politica, e agli avvocati veniva negato dalla legge austriaca il diritto di rappresentare i loro clienti in tribunale. La politica austriaca riuscì solo a produrre un profondo senso di irritazione e di frustrazione negli ambienti colti veneziani.
Negli anni quaranta, Daniele Manin emerse come il membro più deciso di questo gruppo. La maggior parte della letteratura commemorativa ha presentato Manin con toni che ricordano la sua statua in Campo Manin: massiccio, autorevole, imponente. Vai forse la pena di ricordare che, prima della rivoluzione, non aveva avuto un particolare successo nella sua professione di avvocato, essendo afflitto da salute precaria e soggetto a crisi di malinconia e di mancanza di fiducia in se stesso. In una delle note su se stesso da lui lasciate scriveva: « Io amo il riposo: amo il 1 sonno e l’oziose piume: più della metà della mia vita ho passata nel poltrire a tepido I letto: così spero poter fare anche per tempo avvenire ». Spronato dall’ambizione e
dall’idealismo a superare questa naturale indolenza, Manin presentò in pubblico un’immagine del tutto opposta. Basso di statura, ma in possesso di una bella voce di oratore, la sua precisione mentale e la sua intensa energia in momenti di crisi furono le sue risorse più grandi.
Per la maggior parte del decennio che precedette la rivoluzione, i membri progressisti della Camera di commercio veneziana e gli avvocati radicali come Manin costituirono un gruppo isolato nella società veneziana.
Durante le infiammate discussioni per la costruzione della linea ferroviaria Milano-Venezia, ebbero un’occasione di incontrarsi con i loro colleghi a Milano e di ampliare i loro orizzonti. Rimanevano però una minoranza, priva di un programma comune o di alcun seguito di massa: Essi non rappresentavano certamente un « partito italiano » in nessun senso significativo. Nel 1846, però, due eventi — la crisi economica europea e l’elezione al soglio papale di Pio IX frantumarono con straordinaria rapidità la politica austriaca nell’Italia settentrionale.
In tutt’Europa i raccolti del 1845 e 1846, gravemente danneggiati dalla pioggia e dalla malattia, furono poco meno che disastrosi. Nel Veneto la situazione non era cattiva come in altre parti dell’Impero, fra cui la Boemia e la Slesia, ma era aggravata da esportazioni su vasta scala di granoturco, la dieta-base dei poveri. I prezzi salirono rapidamente. Nella primavera del 1847 i prezzi del granoturco erano più che raddoppiati rispetto a quelli del 1845. Da tutto il Veneto le autorità centrali avevano rapporti sulle sofferenze dei contadini e in alcune aree c’erano tumulti. Nelle campagne attorno a Treviso Giuseppe Olivi ricordava che « peregrinavano i miseri da villa in villa . . . Le spiche di frumento non ancora mature venivano avidamente divorate . . . Il mio buon padre aveva dispendiato lire sedicimila per sottrarre alla morte i nostri coloni ».
Nelle città la situazione era altrettanto critica. I cattivi raccolti avevano avuto come conseguenza la diminuzione della domanda interna di manufatti, in conseguenza del fatto che i poveri dovevano spendere quasi tutto il loro reddito nell’acquisto di generi di prima necessità. La crisi fu resa più acuta dalla generale depressione commerciale europea. Artigiani e industriali si trovarono nell’impossibilità di vendere i loro prodotti; ne seguirono inevitabilmente chiusure di fabbriche e laboratori artigianali, fallimenti e disoccupazione. Nel 1847 la Camera di commercio di Venezia deplorava amaramente le « condizioni in generale scabrosissime pel commercio di ogni piazza ».
La reazione austriaca alla crisi ebbe un’importanza determinante, in quanto offrì un’impressione di insensibilità e al tempo stesso di inefficienza. Il grave indebitamento in cui il governo di Vienna si trovava, lo rese riluttante a ridurre la tassazione a qualsiasi livello. Di fatto nel 1847 la tassa su arti e commercio, che fu estremamente onerosa per i ceti economicamente più attivi della città, portò nelle casse dell’Impero la stessa somma che nel 1845, e soltanto duemila formi in meno che nel 1846. Gli austriaci inoltre tardarono a proibire l’esportazione di granoturco, e ancora più esitanti furono nell’accettare di congelare il prezzo dei beni di
prima necessità e nell’introdurre un programma di opere pubbliche per attenuare la disoccupazione. La borghesia veneziana, che ancora pochissimo tempo prima aveva annunciato la rinascita della città, si sentì ora abbandonata dagli austriaci nel momento del bisogno. In generale l’ostilità di Venezia e del Veneto nei confronti del governo austriaco risale a questi primi mesi del 1847.
Sei mesi prima che la crisi raggiungesse il culmine nel Veneto, Pio IX fu eletto papa a Roma. Concedendo nei primi mesi del suo pontificato un certo numero di modeste riforme, Pio IX innescò, anche se non era questa la sua intenzione, una reazione a catena nel resto della penisola e dette un impulso decisivo alla causa nazionale. Per il movimento cattolico-liberale (i neoguelfi), le azioni di Pio IX furono letteralmente un dono del cielo. Pio IX apparve loro come il papa che sarebbe riuscito a unire attorno a sé il resto d’Italia. Il grido « Viva Pio Nono! » risuonò in tutte le principali città italiane e ad esso si aggiunse, con crescente frequenza, il grido di « Viva l’Italia! ». A Venezia e nel Veneto l’apparente liberalismo del Papato trovò un terreno fertile nel basso clero locale. I preti delle parrocchie erano risentiti per le eccessive ingerenze dello Stato nella vita interna della Chiesa, e quando gli eventi raggiunsero l’acme, nel marzo 1848, molti di loro abbracciarono la causa nazionale o almeno si rifiutarono di parlare contro di essa. Data la loro enorme influenza, sia come parroci sia come insegnanti, questa loro parziale defezione fu uno fra i colpi più gravi inflitti al controllo austriaco.
Dalla primavera del 1847 in avanti, il movimento nazionale raccolse lentamente forza a Venezia, prima fra la borghesia professionale e commerciale, e poi fra le classi popolari della città. Daniele Manin, per la sua schiettezza, chiarezza di pensiero e abilità organizzativa, ne divenne ben presto il capo riconosciuto.
L’agitazione rimase confinata in principio in campo economico, ma in autunno Manin prese lo spunto da Carlo Cattaneo, a Milano, e lanciò una « lotta legale » per ottenere i diritti politici a favore dei cittadini dell’Italia settentrionale soggetta al governo austriaco. In questa lotta si unì a lui la seconda figura, per importanza, della Rivoluzione veneziana, Nicolò Tommaseo. Tommaseo era uno fra i fautori più appassionati del cattolicesimo liberale ed era uno studioso di enorme erudizione ed energia. Prima del 1848 era stato costretto a trascorrere molti anni in esilio a Parigi; al suo ritorno si stabilì a Venezia, dove visse la vita di un asceta. Irritabile, arrogante e insofferente con coloro che erano meno capaci di lui, Tommaseo fu nondimeno un alleato di grandissima importanza per Manin. Alla fine di dicembre Tommaseo presentò all’Ateneo Veneto un brillante attacco alla censura, ricordando agli austriaci una promessa che avevano fatto nel 1815: quello di consentire a ogni cittadino di indicare al governo i suoi errori.
Manin fece seguire all’intervento di Tommaseo due petizioni, la seconda delle quali segnò l’apice della « lotta legale » a Venezia. In essa Manin chiedeva che il Regno lombardo-veneto fosse « veramente nazionale e indipendente »che le sue finanze quelle del resto delle’esercito e la marina fossero completamente italiani e restassero in Italia; che venisse concessa la libertà di parola, che gli ebrei venissero emancipati, che si procedesse a una riforma del diritto, e molte altre cose.
Tommaseo, a sua volta, redasse una petizione all’alto cero, che accuso di aver « reso a Cesare assai più di quel che è di Cesare. Il 18 gennaio 1848 stava apportando gli ultimi ritocchi a questa petizione, quando egli e Manin furono improvvisamente arrestati.
Nel resto d’Italia la situazione si era fatta sempre più tesa. Nell’autunno del 1847 le truppe austriache occuparono Ferrara, che faceva parte degli Stati pontifici, e alla fine dell’anno Vienna concluse un’alleanza difensiva e offensiva con i sovrani reazionari di Parma e di Modena. A Milano i nazionalisti dettero inizio a una campagna contro il fumo in segno di protesta contro il monopolio di Stato austriaco sul tabacco. Il «Times » commentò: « Un popolo che non è secondo a nessuno nel consumo di quest’erba sacrificò prontamente al patriottismo ciò che rifiutava alla
15 pulizia e al buon gusto ». Le truppe austriache risposero passeggiando boriosamente per le strade e fumando ostentamente. Il 3 gennaio 1848 la tensione sfociò in scontri: tre milanesi furono uccisi e più di sessanta feriti. In febbraio gli austriaci imposero al Lombardo-Veneto la legge marziale.
Il controllo militare austriaco sembrava nondimeno solidissimo. Gli austriaci avevano più di 13.000 uomini a Milano e altri 8.000 a Venezia. Gli italiani erano disarmati e Radetzky era ansioso di impartir loro una lezione. In gennaio disse alle sue truppe: « Sul vostro impavido valore s’infrangeranno le invidie del fanatismo e la smania insana d’innovazioni, come fragil schifo contro dura roccia ».
Egli aveva fatto i conti senza quell’ondata eccezionale di sollevazioni rivoluzionarie che si abbatte sulle capitali europee nei primi mesi dèl
tumulti provinciali dell’ Italia settentrionale in una rivoluzione nazionale.
Palermo dette il là in gennaio: Ferdinando fu costretto a concedere lo statuto del regtno delle Due Sicilie, e gli altri sovrani italiani si affrettarono a seguirne l’esempio. Questi sviluppi allarmarono gli austriaci, ma la loro importanza fu ben presto oscurata da un evento di gran lunga più significativo: lo scoppio della rivoluzione a Parigi nel febbraio. Luigi Filippo perse il trono, fu proclamata la Seconda Repubblica francese e il mondo dell’Europa sorta dalla Restaurazione fu frantumato una volta per tutte. Poi, meno di un mese dopo, scoppiarono disordini anche nella capitale dell’Impero. Il 13 marzo studenti, operai, artigiani e disoccupati di Vienna si accalcarono allo Hofburg, dove la guarnigione apri il fuoco contro i dimostranti disarmati. Quella sera, quando i saccheggi si diffusero nei sobborghi, la fazione contraria a Metternich trionfò a Corte e il giorno seguente l’artefice dell’Europa della Restaurazione annunciò le sue dimissioni. Due giorni dopo, di fronte alla crescente pressione, Ferdinando concesse un statuto a tutto l’Impero.
A Venezia la protesta era continuata a cresere nonostante l’arresto di Manin e Tommaseo (e anche a causa di esso), le classi lavoratrici veneziane corsero ad abbracciare la causa nazionalistica. I due dan popolari rivali,, iNicolotti e i Castellani, risolsero le loro divergenze e la polizia riferì che stavano fraternizzando come “italiani”.
Soltanto gli spiriti più audaci cominciarono a pensare a una rivoluzione, ma e notizie provenienti da Palermo e da Parigi sembravano rendere tutto possibile. Poi, il 17 marzo, arrivò da Trieste un piroscafo che portò notizie di sommosse nelle strade di Vienna e della caduta di Metternich. Una folla enorme si raccolse in Piazza San Marco per chiedere la liberazione di Manin e di Tommaseo. Il tentennante governatore della città, conte Palffy, prese la fatidica decisione di rilasciarli, e nell’atmosfera convulsa del liberazione non di Daniele bensì di Ludovico aiii che era stato l’ultimo Doge della Repubblica.
Gli eventi nella città erano all’apice. Mentre ancora era in carcere, Manin aveva deciso che, una volta tornato in libertà, avrebbe fatto tutto quanto era in suo potere per provocare una rivoluzione e proclamare una repubblica per Venezia e per il Veneto.
Egli sperava che la Repubblica Veneziana diventasse uno degli stati di un’ Italia federale e unita.
Quando confidò queste idée ai suoi amici più stretti, raccolse in risposta solo manifestazioni di scetticismo. Tommaseo gli disse che non era ancora il tempo per discorsi del genere. I ricchi mercanti della Camera di commercio non erano certamente rivoluzionari ed erano favorevoli a demandare i negoziati con gli austriaci alla congregazione municipale (che era composta in gran parte da nobili veneziani conservatori).
Il 17 e il 18 marzo, mentre Manin era a casa sua, in campo S.Paternian, scoppiaron scontri in Piazza San Marco. La mattina del 18, lavoratori del clan dei Nicolotti e studenti di Padova cominciarono a disselciare la piazza e scagliare le pietre sui soldati.
Gli austriaci risposero aprendo il fuoco sulla folla. Otto veneziani furono uccisi e nove gravemente feriti. Manin fece sapere che, a suo giudizio, l’unico modo di mantenere la pace in città era quella di consentire ai veneziani di formare una guardia civica che mantenesse separati dimostranti e soldati. Il governatore Palffy dette con riluttanza il consenso ad armare duecento guardie, ma a poche ore di distanza già 2.000 cittadini erano stati inquadrati in compagnie. Gli austriaci avevano perso la prima ripresa, consentendo la formazione di corpi armati di veneziani sui quali non avevano alcun controllo.
Verso la sera del 18 arrivò la notizia della concessione del nuovo statuto all’Impero. La notizia fu salutata con manifestazioni di giubilo e sembrava che, per gli austriaci, il peggio fosse ormai passato.
Manin continuava però a tramare la rivoluzione.
Stabilì contatti con elementi radicali della marina militare veneziana,e decise di tentare di impadronirsi dell’Arsenale, la chiave della città.
Ancora una volta i suoi amici si rifiutarono di sostenerlo considerando l’impresa una pura follia.
Come abbiamo già detto, in città erano presenti 8.000 soldati austriaci e i veneziani non avevano armi degne di nota.
La mattina del 22 Manin ricevette un aiuto prezioso, anche se non sollecitato, da parte degli arsenalotti. Essi erano stati costantemente sottoposti a un carico di lavoro eccessivo e pagati molto male dal capo ispettore dell’Arsenale, un certo colonnello Marinovich. Nelle prime ore del mattino del 22 essi si vendicarono dandogli la caccia e ferendolo a morte in una torre ne a parte orientale dell’ Arsenale. Manin, temendo che la situazione potesse sfuggirgli ad mano, si precipitò, accompagnato solo dal figlio sedicenne Giorgio e da alcune guardie civiche. Riuscì a entrare, ma gli austriaci fecero affluire rinforzi alla Porta dei Leoni. La guardia civica si oppose al loro ingresso e allora gli ufficiali austriaci ordinarono alle loro truppe di aprire il fuoco.
Questo fu probabilmente il momento cruciale della rivoluzione, poiché, se le truppe al servizio degli austriaci fossero rimaste fedeli all’imperatore, per i veneziani ci sarebbe stato ben poco da fare. Ma molte giubbe bianche erano contadini veneti ed erano state contagiate dagli entusiasmi nazionalistici di quelle giornate, dalla fraternizzazione con la guardia civica e dalla promessa che, se si fossero unite alla causa italiana, avrebbero potuto tornare ai loro paesi. Questi uomini si rifiutarono di aprire il fuoco e sopraffecero i loro ufficiali. Alla fine della giornata la maggior parte dei soldati italiani che facevano parte della guarnigione austriaca, circa 4.260 uomini in tutto, erano passati alla rivoluzione.
L’Arsenale era ora in mano ai veneziani e il popolo disponeva di armi. Dopo una breve pausa, Manin prese la testa di una folla enorme che percorse, senza incontrare resistenza, la Riva degli Schiavoni sino a Piazza San Marco. Quivi, in piedi su un tavolino di un caffè, Manin proclamò la Repibblica.
Una delegazione si era recata nel frattempo al palazzo del governatore per sollecitare Palffy a capitolare. Palffy era ancora in grado di rifiutarsi (metà della guarnigione gli era rimasta fedele), ma decise di non trasformare Venezia in un campo di battaglia. Alle sei del pomeriggio egli rassegnò i suoi poteri nelle mani della Munipalità.
Questa proclamò un governo provvisorio e dimostrò ogni intenzione di ignorare Manin e la repubblica da lui proclamata. Ma quella sera la protesta popolare era troppo vibrante e un gruppo di borghesi influenti, riuniti in gran fretta al caffè Florian, convinsero Avesani e i suoi amici della necessità di cedere il potere a Manin.
Il 23 in piazza San Marco fu proclamata formalmente la Repubblica e Manin ne dìvenne il primo presidente.
In generale la tattica e le azioni di Manin fra il 17 e il 22 marzo furono inappuntabili e possono essere considerate il risultato più importante conseguito nella sua vita. Egli aveva preso posizione contro la sua stessa classe e contro i suoi amici e aveva utilizzato con successo la combattività delle forze popolari a Venezia per assicurare all’insurrezione un esito democratico e repubblicano.
La Rivoluzione veneziana non era stata un evento isolato. Non soltanto erano insorte anche le città provinciali del Veneto (con l’eccezione notevole di Verona) ma anche Milano aveva espulso Radetzky dopo cinque giornate di continui combattimenti.
In tutt’Europa le giornate del marzo 1848 erano state contrassegnate da dimostrazioni, tumulti, insurrezioni: a Berlino, Vienna, Praga, Budapest. Sembrava che l’Impero austriaco fosse in agonia, colpito, come scrisse un volantino viennese, da « una inveterata gastroenterite, ovvero indigestione presa in Ungheria, nella Boemia, in Galizia, e particolarmente nel suo carissimo Lombardo-Veneto ».
Era sorta una nuova èra, la quale sembrava annunciare l’avvento della democrazia e il riconoscimento de11’ autonomie nazionali.
Perché « la primavera dei popoli » si trasformò tanto rapidamente nell’estate della controrivoluzione? Perché i repubblicani veneziani furono incapaci di consolidare la brillante vittoria del 22 marzo? Per dare una risposta a queste ‘domande, dobbiamo analizzare gli eventi del 1848 sui tre diversi piani dell’Europa, dell’Italia e di Venezia.
In Europa i due paesi che determinarono in grande misura la sorte della rivoluzione furono la Francia e l’Austria. In un primo tempo i repubblicani francesi, a giudicare dalle dichiarazioni idealistiche di Lamartine, sembravano intenzionati a trasportare la rivoluzione oltre i loro confini e a fare ancora una volta degli eserciti francesi la sferza dei monarchi europei. Manin, mentre ancora era in carcere, in febbraio, aveva trascritto entusiasticamente le prime dichiarazioni dei capi della nuova repubblica francese. Lamartine aveva chiesto che, nelle loro battaglie contro gli austriaci, gli italiani consentissero « ai loro amici francesi di dividerne il pericolo e di pagare all’Italia un debito di riconoscenza ».
Queste speranze nel ruolo internazionalistico della Francia si rivelarono ben presto infondate. Dapprima Lamartine, e in seguito Cavaignac e Bastide, si dimostrarono del tutto restii (a meno che non ci fosse dietro di loro una forte spinta) a incorrere nella stizza dei britannici e a rischiare una guerra europea marciando in aiuto dell’Italia, della Polonia o dell’Ungheria. È vero che nel movimento repubblicano francese, alla sinistra di Lamartine, c’era sì un’ala interventista, e che l’idea di un aiuto alla Polonia acquistò lentamente forza nei club parigini durante l’aprile e all’inizio del maggio 1848. Il 15 maggio, però, alcuni dei capi dei club commisero l’errore fondamentale di cercare di forzare la mano dell’assemblea nazionale, di sentimenti più moderati, per mezzo di una dimostrazione molto male organizzata. L’assemblea fu invasa dai dimostranti e per alcune ore fu costituito un nuovo governo. Nessuno aveva però un’idea chiara sul da farsi e la sera stessa i dimostranti erano già stati dispersi e i loro capi arrestati.
Un mese dopo, con le giornate di giugno a Parigi, fu inferto il colpo mortale alle idee di un aiuto internazionale francese. La rivoluzione parigina aveva assunto rapidamente il volto di una guerra di classe e in giugno i lavoratori della capitale, esasperati per la chiusura degli ateliers nationaux, insorsero contro il governo. Cavaignac soffocò l’insurrezione con estrema ferocia e da questo momento in avanti la questione dell’ordine sociale divenne prioritaria su ogni altra. Se questi eventi non segnarono, come vedremo, la fine della questione dell’aiuto francese, ogni possibilità di una cooperazione repubblicana internazionale nel primo e più favorevole periodo della rivoluzione europea era andata ormai irrimediabilmente perduta.
Quanto all’Austria, l’Impero non era così vicino a disintegrarsi come poteva sembrare. A Vienna non c’era stata una vera rivoluzione, e benché il 17 maggio Ferdinando avesse abbandonato la capitale, i ministri continuavano a controllare la situazione. Gli eserciti austriaci conservavano gran parte della loro efficienza. Radetzky, a Milano, aveva ricevuto un colpo molto duro, ma il fatto che Verona non avesse issato la bandiera dell’insurrezione gli aveva concesso il rifugio di cui aveva bisogno.
Dall’interno del Quadrilatero aveva la possibilità di attendere rinforzi e sognare la vendetta.
Similmente, Windischgrtz poté muovere con un forte esercito su Praga, dove schiacciò la rivoluzione ceca con relativa facilità. Gran parte dell’Impero restava fedele alla corona. Ciò valeva non solo per il Tirolo, la cui lealtà era assoluta, ma anche per i croati, sotto Jelaéié, e anche per molti di quegli studenti viennesi che avevano provocato la caduta di Metternich in marzo ma che non volevano vedere l’Impero smembrarsi in aprile. L’Ungheria di Kossuth, che potenzialmente era una minaccia non meno grande del Lombardo-Veneto, era in questo momento ancora riluttante a rompere completamente con Vienna. Ci fu così una tragica mancanza di connessione fra le rivoluzioni italiana e ungherese, poiché gli ungheresi rimasero passivi quando la lotta per l’indipendenza italiana era al suo culmine, e gli italiani avevano quasi perduto la loro lotta quando il temibile generale ungherese G5rgey cominciava a turbare i sonni degli austriaci.
Se passiamo dalle due aree europee che interessavano più da vicino Venezia a un esame della situazione italiana, vediamo immediatamente quanto grande sia stato il ruolo negativo svolto dai monarchi italiani nei mesi critici compresi fra il marzo e luglio 1848,
Ferciando II di Napoli fu costretto dapprima a permettere al suo esercito di partire verso nord per raggiunge i1 teatro di guerra in Lombardia, ma era chiaramente solo un tentativo di prender tempo prima passare alla controffensiva. Il 13 maggio il parlamento delle Due Sicilie, recentemente eletto, si riunì per la prima volta a Napoli.
Fra i deputati e il re scoppiò immediatamente un battibecco sugli esatti poteri del parlamento. Per la città corse voce che il re stesse progettando un colpo di Stato e nelle vie principali furono erette barricate. Gli insorti erano solo un migliaio ma fornirono a Ferdinando il pretesto di fare ciò che aveva atteso. Il 15 maggio (lo stesso giorno in cui a Parigi falliva la dimostrazione popolare a favore della Polonia), Ferdinando schiacciò con grande crudeltà l’insurrezione e divenne così il primo monarca in Europa a far invertire il flusso della rivoluzione. Immediatamente ordinò il ritorno delle sue truppe dal nord.. Solo il generale Pepe e alcune centinaia di soldati osarono disobbedire e si misero in marcia verso Venezia.
Anche Pio IX si ritirò molto presto dalla prima guerra d’indipendenza.
Profondamente preoccupato di poter distruggere l’unità del suo regno spirituale se avesse continuato a sostenere la causa italiana, il 29 aprile Pio IX tenne la sua famosa
allocuzione. In essa dichiarò che il Papato non poteva sostenere nessuna delle due parti in una guerra fra cristiani. Con un colpo solo privò gli italiani della loro guida spirituale e infranse le loro illusioni sulla possibilità di una guerra religiosa nazionale. Il fatto che egli non osasse richiamare il piccolo esercito pontificio, che avrebbe svolto una parte gloriosa, anche se inefficace, nella difesa del Veneto, fu solo un modesto compenso a tale delusione.
Più complesso è il caso del re di Savoia Carlo Alberto.
Egli fu l’unico monarca italiano a rischiare il suo trono in una guerra contro l’Austria e l’unico a impegnarvi a fondo il suo esercito. Egli e i suoi fautori avevano ragione quando, più tardi, si lagnavano che il Piemonte era stato abbandonato dagli altri Stati italiani e lasciato solo a fronteggiare la collera di Radetzky.
Carlo Alberto ebbe nondimeno grande responsabilità nell’insuccesso italiano.
Egli entrò in guerra con forte riluttanza, più per impedire la diffusione dei sentimenti repubblicani nell’Italia settentrionale che per ragioni di nazionalismo italiano.
Egli aveva tanto poco considerato una campagna contro l’Austria (contrariamente a quanto voleva far credere la tradizionale storiografia sul Risorgimento) che il suo alto comando non disponeva neppure di carte topografiche della Lombardia.
Una volta dichiarata la guerra, il suo esercito si mosse con lentezza esasperante, sprecando le opportunità che pure esistettero durante le settimane di importanza vitale in cui furono gli italiani ad avere l’iniziativa.
L’indecisione, il timore e l’impreparazione militare di Carlo Alberto e del suo stato maggiore generale ebbero la conseguenza di vanificare dapprima, alla fine di marzo, la possibilità di una vittoria schiacciante sulle forze esaurite di Radetzky e di rendere poi inevitabile una inconclusiva e logorante guerra di posizione sul Mincio per l’intero mese di aprile.
Di pari gravità (anche se non certo sorprendenti) furono l’atteggiamento e le intenzioni di Carlo Alberto nei confronti di quelle forze popolari e radicali del Lombardo Veneto che per prime avevano fatto a rivoluzione Il paradosso della prima guerra d’indipendenza, come ha sottolineato Piero Pieri, fu quello di « una guerra rivoluzionaria diretta da chi temeva rivoluzione e rivoluzionari ».
Anziché fare dell’esercito piemontese il fulcro delle forze volontarie e dell’intera nazione, Carlo Alberto e i suoi sostenitori insistettero sulla tesi che i volontari erano politicamente pericolosi e militarmente inutili.
Peggio ancora, le promesse del re piemontese di un aiuto puramente fraterno al Lombardo-Veneto mascheravano le tradizionali ambizioni espansionistiche di casa Savoia. Nei mesi di aprile maggio e giugno del 1848 i piemontesi si adoperarono senza sosta a creare una pressione politica per indurre il Lombardo-Veneto a entrare a far parte di un nuovo regno dell’Italia settentrionale sotto Carlo Alberto.
Le ambizioni dinastiche avevano soppiantato i repubblicani e i democratici italiani additarono sempre in Carlo Alberto il primo responsabile della rotta del 1848.
Manin, per esempio, scrisse verso la fine della sua vita: « Credevo e credo ancora che la propaganda a favore dell’annessione delle province lombardo-venete al Piemonte sia stata la causa principale del fallimento della guerra d’indipendenza ».
Ma in tale giudizio c’era anche un errore di valu tazione sulla parte avuta in tale insuccesso dai rivoluzionari stessi, i quali ne erano responsabili non meno di Carlo Alberto.
Sotto questo punto di vista, ciò che accadde a Milano durante le Cinque giornate ebbe un’importanza critica, in quanto la capitale lombarda era la città italiana più prospera ed economicamente più avanzata, e negli anni anteriori alla rivoluzione era stata il centro della propaganda nazionalistica. Durante la rivoluzione, la grande maggioranza della nobiltà liberale milanese, che era stata in passato la portavoce della causa italiana, si chiuse in casa rifiutandosi di unirsi agli insorti. Di conseguenza furono Carlo Cattaneo e i giovani radicali e democratici del consiglio di guerra a trovarsi sulle spalle la responsabilità di guidare la rivoluzione. Ma Cattaneo, nonostante le continue pressioni da parte del democratico Cernuschi e di
altri, si rifiutò, a differenza di Manin, di proclamare la repubblica e di assumere il potere. Cattaneo pensava di essere più un pubblicista e un accademico che non un politico, che i milanesi non potessero fare a meno della nobiltà liberale e che un’allenza fra i democratici e le classi inferiori non fosse un’alternativa vitale al governo monarchico. In tal modo egli stava sottraendosi alla logica dell’insurrezione, poiché proprio una tale alleanza era alla base del successo dei moti milanesi.
Così i democratici milanesi, durante le giornate di marzo, finirono col lasciarsi sfuggire di mano il potere politico. Il podestà albertista della città, Gabrio Casati, riprese lentamente animo, proclamò il suo proprio governo provvisorio ed emarginò gradualmente il Cattaneo e gli altri da ogni posizione di responsabilità. Cattaneo, più autocritico di Manin, capì in seguito dove aveva sbagliato. « Nella maggior parte delle rivoluzioni », scrisse, « la moltitudine non seconda l’audacia de’ capi; in questa fu il contrario: il popolo era una spada d’acciaio colla punta di legno ».
In assenza di un efficace sostegno da parte di Milano, a cui Venezia aveva sempre guardato per averne una guida, la proclamazione della repubblica a Venezia da parte di Manin finì col sembrare un atto di sfida isolato in un Italia prevalentemente monarchica.
Si dissolsero così tutte le speranze di sostituire il Regno del lombardo-veneto in una repubblica unita lombardo-veneta.
Ma anche in una tale situazione di isolamento, la nuova repubblica veneziana avrebbe potuto non soccombere tanto facilmente o alle pretese politiche dei piemontesi o alla riconquista militare da parte degli austriaci.
A lungo termine, data la situazione internazionale e italiana che abbiamo delineato sopra, la Repubblica di Venezia non avrebbe potuto senza dubbio sopravvivere da sola.
Ma se Manin fosse riuscito a sviluppare una strategia militare coerente per la difesa del Veneto, la sua repubblica avrebbe potuto non essere tanto effimera.
Non mancavano elementi propizi a un tentativo di creare un’efficace forza militare veneziana. All’epoca della rivoluzione, l’arsenale di Venezia conteneva circa 30.000 fucili oltre a un gran numero di cannoni. Una conseguenza della coscrizione austriaca era che, nel 1848, secondo le stime più prudenti, nel Veneto c’erano più di 60.000 uomini che avevano fatto otto anni di servizio militare nell’esercito austriaco. C’era scarsità di ufficiali, poiché moltissimi esponenti della borghesia avevano evitato, pagando, di compiere il servizio militare, ma gli uomini c’erano. Nei primi giorni della rivoluzione, l’entusiasmo popolare per la repubblica era alle stelle. La fede in una guerra santa contro gli austriaci era molto diffusa, e Manin aveva abolito la tassa personale e diminuito la tassa sul sale in uno sforzo di accattivarsi i contadini. La creazione di un esercito popolare era, come sempre, irta di difficoltà e avrebbe richiesto una vigorosa azione governativa, ma non era un compito così disperato come hanno tentato di dimostrare la maggior parte degli storici.
I repubblicani veneziani presero invece, per salvare il Veneto, le misure più fiacche e ricercarono la salvezza altrove, confidando negli eserciti dinastici piemontese e pontificio.
Qual è la ragione di questo stato di cose? Prescindendo dall’incompetenza dei consiglieri militari di Manin, ci sono ragioni più profonde per spiegare il grave insuccesso dei veneziani. Il loro repubblicanesimo era di natura fondamentalmente moderata, diversamente da quello dei giacobini francesi che più di cinquant’anni prima avevano organizzato con tanta efficacia un esercito popolare. I veneziani non concepivano nemmeno la possibilità di seguire il modello giacobino e di fare importanti concessioni sociali ai contadini per assicurarsene il sostegno. Molti fra i membri della Camera di commercio veneziana che ora fornivano un cospicuo aiuto finanziario alla repubblica erano facoltosi proprietari terrieri. Era quindi molto improbabile che dessero il loro appoggio a una strategia militare che poteva mettere in pericolo la stabilità sociale delle campagne. Un appello all’aiuto dei monarchici sembrava loro una risorsa molto meno rischiosa.
Inoltre i capi della Repubblica di Venezia facevano parte della borghesia urbana e ignoravano quasi completamente le condizioni vigenti nelle campagne.
Manin, per considerare l’esempio più ovvio, aveva lasciato Venezia solo per andare a studiare all’Università di Padova, e per fare i suoi primi anni di avvocato a Mestre. In tutta la sua copiosa corrispondenza di questo periodo non si trova alcun riferimento concreto ai problemi delle campagne. Come tanti altri fra i capi repubblicani del 1848, egli fu perciò incapace di concepire un’alleanza con i contadini (la grande maggioranza della popolazione) come intrinsecamente necessaria al sopravvivere della rivoluzione.
Quando a queste ragioni si aggiunge l’ignoranza quasi totale dei problemi militari da parte dei nuovi capi veneziani, è meno difficile capire perché essi si volgessero tanto presto all’aiuto dinastico come all’unica salvezza possibile. Ma per poter sopravvivere politicamente, la repubblica veneziana doveva dimostrare di essere in grado di difendersi dalla riconquista austriaca.
Una volta che fu chiaro che i ministri veneziani fidavano quasi esclusivamente sulla disponibilità di Carlo Alberto e dell’esercito pontificio a combattere per loro, i giorni della repubblica furono contati.
Dal marzo al luglio 1848 la Repubblica veneziana si smembrò rapidamente. Sul piano militare, il generale austriaco Nugent riorganizzò in gran fretta, a Trieste, le truppe che erano state espulse dal Veneto, con l’intenzione di marciare verso ovest per portare aiuto il più presto possibile a Radetzky. La sua missione aveva un’importanza vitale in quanto Radetzky, in assenza di rinforzi, non avrebbe potuto opporsi a Carlo Alberto e c’era la concreta possibilità che i politici di Vienna, sol lecitati da Palmerston, finissero col concludere una pace separata senza tener conto del parere contrario del feldmaresciallo austriaco.
Alla metà di aprile Nugent era già in marcia. Nel frattempo il governo veneziano non aveva fatto niente, ma più attivo era stato il comitato locale per la difesa del Friuli, che aveva cercato di raccogliere il maggior numero possibile di uomini a guardia del confine. Al suo appello risposero circa 6.000 contadini, una testimonianza eloquente delle possibilità esistenti in questo primo mese della rivoluzione. Molti membri del clero, come gli arcipreti di Motta e di Spilimbergo, guidarono le milizie dei loro paesi ai luoghi di raccolta. Non c’era però un piano difensivo generale, né fucili inviati da Venezia o truppe regolari da Torino. Alcune migliaia di contadini armati di forconi non erano sufficienti per fermare Nugent.
Il 19 aprile questi ne scompaginò i ranghi e tre giorni dopo aveva preso Udine.
Il comitato di difesa veneziano rispose a questo disastro appellandosi a Carlo Alberto per un aiuto immediato. Non fu compiuto alcun tentativo per imporre la coscrizione, per gettare le basi di un esercito veneziano, o anche per coordinare le molte migliaia di guardie civiche rurali, alcune delle quali avevano organizzato guardie mobili » pronte a lasciare i loro villaggi. Il comitato guardava invece ai 17.000 uomini dell’esercito pontificio, a cui Carlo Alberto aveva ordinato di entrare nel Veneto.
Purtroppo il comandante di tale esercito, il generale Giovanni Durando, commise il grave errore di dividere le sue forze, prendendo con sé tutte le truppe regolari nella sua marcia verso Belluno e lasciando Ferrari, con tutti i volontari, più a sud. Il 9 maggio Nugent mise nel sacco Durando, attaccando i volontari di Ferrari a Cornuda, ma riuscendo a dargli l’impressione che il grosso delle sue truppe fosse ancora attestato più a nord.
I volontari romani resistettero valorosamente per tutta la giornata, ma quando Durando, ingannato da Nugent, lasciò loro mancare i soccorsi, essi si ritirarono verso Treviso, convinti di essere stati traditi dal loro comandante in capo.
La battaglia di Cornuda fu decisiva per la campagna degli austriaci nel Veneto, poiché aveva aperto a Nugent la via per Verona. Il contributo di Venezia alla difesa del Veneto era stato minimo. Dopo Cornuda rimaneva solo la possibilità di difendere città singole.
Fra queste Vicenza fu senza dubbio quella che offrì resistenza più strenua, lottando contro gli austriaci in almeno tre distinte occasioni. La prima volta Manin e Tommaseo arrivarono in treno con un migliaio i uomini, e fu questa l’unica volta che il capo veneziano lasciò Venezia durante i diciotto mesi della rivoluzione. Nella seconda occasione i difensori della città riuscirono a respingere una forza austriaca di circa 18.000 uomini e 42 cannoni. Infine, il 10 giugno, lo stesso Radetzky, con 30.000 uomini e non meno di 124 cannoni, costrinse la città alla resa dopo un intera giornata di aspri combattimenti. Così, alla fine di giugno l’intero Veneto era stato riconquistato con l’eccezione delle due fortezze isolate di Palmanova e di Osoppo, e la Repubblica di Venezia era stata ridotta alle città di Venezia e di Chioggia e alla isole della laguna.
Alla fine di marzo, Manin accettò l’appello del governo provvisorio milanese per una tregua politica sino alla fine della guerra, sperando in tal modo di mantenere la concordia fra le forze italiane e di assicurare l’aiuto di Carlo Alberto per Venezia.
Nei fatti la politica adottata non assolse nessuna delle due funzioni.
Quando i rappresentanti veneziani raggiunsero il campo piemontese, alla metà di aprile non rimase loro alcun dubbio circa il vero significato dell’ offerta i Carlo Alberto dell’aiuto che « il fratello deve al fratello, l’amico all’amico ».
Cittadella scrisse a Venezia: « il Ministro della guerra [Franzini] ci ha esaltato i sentimenti generosi del Re e dei suoi figli, ma ci ha fatto intendere a chiare note che il Piemonte non può essere guidato da un puro spirito cavalleresco e che aspetta un compenso a tanti suoi sacrifici ».
Il « compenso » avrebbe dovuto consistere nell’annessione della Lombardia e di Venezia al Piemonte in un nuovo Regno dell’Alta Italia.
Per molte settimane Manin resistette a ogni pressione tendente a sacrificare in questo modo la repubblica. Egli nutriva una profonda diffidenza nei confronti di Carlo Alberto e temeva che i piemontesi potessero preparare una replica del trattato napoleonico di Campoformio, in virtù della quale Venezia potesse essere venduta all’Austria come prezzo per l’annessione della Lombardia da parte del Piemonte.
Venezia, secondo Manin, doveva restare in mani veneziane poiché, una volta che la città fosse passata ai piemontesi, questi avrebbero potuto disporre della sua sorte a loro piacimento.
Col passare delle settimane Manin venne però a trovarsi sempre più isolato in Italia e a Venezia. Il governo provvisorio lombardo, violando quella tregua politica che esso stesso aveva proclamato, decise il 12 maggio di tenere un plebiscito per decidere se entrare o no a far parte di un regno dell’alta Italia.
fine I parte