Guardiamo all’indipendenza con occhi meno sognantihttp://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 86x200.jpghttp://www.lindipendenza.com/guardiamo- ... o-sognantidi ENZO TRENTIN
Il 12 ottobre 1492 è il giorno della scoperta dell’America e della fine del Medioevo. Venerdì 7 maggio 1954 è la data in cui capitola il campo trincerato di Dien Bien Phu sito nell’Indocina francese. Per la prima volta nella storia del colonialismo un esercito “bianco” e professionale: il CEFEO (Corps expéditionnaire français en Extrême-Orient, Corpo di spedizione francese in Estremo Oriente) veniva definitivamente sconfitto sul campo di battaglia da soldati di popolo: i Bo-doi, che camminavano con calzari ricavati da vecchi copertoni d’automobile. Da questa data passeranno soli 21 anni e crollerà per sempre un sistema coloniale che durava da secoli. Si consolida definitivamente il concetto di autodeterminazione dei popoli.
La situazione disperata di Dien Bien Phu venne sfruttata dagli americani per eliminare la presenza coloniale francese dalla regione, in modo da portare l’intera Indocina nella loro sfera d’influenza. Infatti, durante la battaglia di Dien Bien Phu, vista la situazione sempre più precaria, i francesi chiesero agli americani un massiccio appoggio aereo. Al che, “il 4 aprile 1954 il presidente Dwight Eisenhower acconsentì all’intervento solo a condizione che venissero rispettati alcuni requisiti: ad agire doveva essere una coalizione internazionale, i francesi dovevano acconsentire all’indipendenza vietnamita ed era necessaria l’approvazione del Congresso. Poiché tali condizioni non si verificarono, Eisenhower rifiutò di muoversi e le richieste francesi per un aiuto dall’esterno rimasero inascoltate”. Lo scrive M.K. Hall, La guerra del Vietnam, che cita Frey (vedi più sotto) il quale sottolinea come il diniego americano fosse dettato dalla necessità per Washington di non apparire, agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, troppo ‘consonante’ con una potenza coloniale come la Francia (cfr. M. Frey, Storia della guerra in Vietnam, p. 29). Per inciso, anche l’indipendenza algerina sarà ‘patrocinata’ dagli Stati Uniti, in particolare da Kennedy, “partigiano confesso dell’indipendenza dell’Algeria” (A. Horne, Storia della guerra d’Algeria 1954-1962, cit., p. 521) sin dal suo celebre discorso al Senato del luglio del 1957. Si osservi che è dal 7 gennaio che con l’istituzione del coprifuoco imperversa la cosiddetta battaglia di Algeri, successivamente immortalata dall’omonimo film di Gillo Pontecorvo.
Non deve sorprendere la “ondivaga” politica internazionale statunitense. Infatti “Nel corso del 1945 il Viet minh collaborò con l’Office of Strategic Services (Oss) americano, fornendo in cambio informazioni e ricevendo armi e addestramento” (M.K. Hall, La guerra del Vietnam, il Mulino, Bologna 2003, p. 11). In altre parole: “nei cinque mesi fra il marzo 1945 e la capitolazione del Giappone, i viet minh divennero ufficialmente alleati delle potenze occidentali. Agenti dell’OSS inviati in Vietnam si avvalsero dell’appoggio logistico del movimento di liberazione, ottennero informazioni sugli spostamenti di truppe giapponesi, e guerriglieri viet minh aiutarono, offrendo loro rifugio e vitto, gli aviatori alleati i cui aerei erano stati abbattuti. L’OSS per parte sua rifornì i viet minh di armi e arruolò perfino Ho Chi-minh come proprio agente con il nome di copertura di Lucius” (M. Frey, Storia della guerra in Vietnam. La tragedia in Asia e la fine del sogno americano, Einaudi, Torino 2008, pp. 8-9); emblematica è anche la descrizione di Frey (cfr. ivi, p. 3) della cerimonia di proclamazione dell’indipendenza vietnamita, il 2 settembre 1945, con aerei americani a fare il giro d’onore nel cielo di Hanoi, la banda che suonava l’inno nazionale americano e gli agenti dell’OSS in tribuna insieme a Ho Chi-minh, che dal canto suo nel discorso ufficiale parafrasava la dichiarazione d’indipendenza americana. Questa resta, perciò, una delle pagine più sorprendenti della politica americana in Asia, se letta ex post, ossia alla luce del successivo coinvolgimento militare degli USA nella penisola indocinese proprio contro gli antichi alleati.
Questa lunga premessa storica per guardare ai nostri giorni con occhi meno sognanti e più disincantati alla domanda d’indipendenza che sorge da parte di veneti, lombardi, sudtirolesi, sardi, siciliani ed altri italici popoli. E sorvolando su catalani, scozzesi, fiamminghi, bretoni, baschi, corsi ed altri ancora.
Per quanto riguarda la situazione veneta si può constatare che proprio in questi giorni i partitini indipendentisti (quelli che si sono presentati a tutte le elezioni possibili con l’alibi della visibilità, ma senza alcun risultato degno di nota) sono stati messi in secondo piano per esaltare invece la costituzione e l’operato di comitati culturali apartitici. E uno di tali comitati scrive: «Vivere o morire, anche sul piano culturale, deve però essere una loro decisione: questa assunzione di responsabilità è la premessa indispensabile alla rinascita culturale del nostro popolo. Se è vero che l’indipendenza è ormai la strada divenuta obbligata perché i Veneti abbiano un futuro e se è vero che un referendum sull’indipendenza (che consulti gli aventi diritto al voto) è la via maestra che legittima quell’obiettivo, allora il nostro impegno diretto in questo processo non contrasta con il nostro ruolo culturale, ma è anzi un coraggioso contributo a costruire nuove condizioni generali nella vita pubblica, perché la Civiltà Veneta possa ancora esistere e prosperare. […] Davanti alla concreta minaccia di estinzione per il nostro popolo, il nostro impegno culturale non può limitarsi a valorizzare la storia e l’identità, ma deve oggi anche tradursi in termini di difesa diretta dei diritti nazionali dei Veneti. Noi siamo intervenuti ad animare il coordinamento [...] non per modificare la natura delle nostre organizzazioni o per mettere da parte le nostre attività: tutto ciò che abbiamo prodotto in questi anni proseguirà indisturbato, anzi si svilupperà ancora».
Insomma, con lo “strumento” dei comitati si farà azione culturale, informativa e propagandistica; ma non per questo sembra che i “partitini” smetteranno di trescare con la partitocrazia italiota al fine di giustificare l’eventuale elezione dei singoli pseudo leader nelle istituzioni di quell’esecrato Stato dal quale si vuole l’indipendenza. Le citazioni – a sproposito, perché non comparabili – delle esperienze catalane e scozzesi si sprecano.
Non emerge nessuna proposta nuovo assetto istituzionale. Anzi c’è chi osserva che una Costituzione potrebbe essere inutile. Il Regno Unito vive civilmente senza di essa. Anche Israele è uno Stato democratico – l’unico del medio oriente – senza Costituzione. Tuttavia si può osservare che, all’opposto, la civilissima Svizzera ha una Costituzione. Ed essa è tanto più civile in quanto a modificarla sono incorsi più e più volte sia i cosiddetti rappresentanti, sia il cosiddetto popolo sovrano. Queste le posizioni di alcuni soggetti politico-intellettuali che si muovono nella scena pubblica veneta.
Se manca la proposta di nuova architettura istituzionale, è difficile abbozzare una proposta di nuovo assetto giuridico. Anzi, in “conversazioni tra amici” qualcuno sostiene: «I codici sono tutt’altra cosa. [...] i due codici di diritto sostanziale – penale e civile – e la necessità di contemplare anche le due relative procedure. [...] la giustizia “si amministra” con le procedure, non con il diritto sostanziale. Di più. Il tasso di democrazia e di civiltà giuridica di un popolo traspare ben più dal codice di procedura penale che non dal codice penale. Ma su ciò non voglio tediare i non addetti ai lavori. Ed è proprio nella veste di studioso e di pratico del processo penale che affermo con sicurezza che quello dei codici è un falso problema. Nessun Paese, nella Storia, ha forgiato prima i propri codici e poi sé medesimo; nessuno; diversamente da quanto, talvolta, è avvenuto per le carte costituzionali. I codici sono raccolte di leggi ordinarie e da sempre la nascita di un nuovo Stato si accompagna al vigore di regimi giuridici transitori. Solo nei casi di conquista, come fu ad esempio per le terre italiche annesse dal Regno di Sardegna, vi fu la brutale sostituzione di un sistema con un altro (entrata in vigore dei codici del Regno Sardo in tutti i territori annessi). Laddove vi fu buon senso non fu così: il primo dominio austriaco del Veneto vide la continuità del diritto veneto. [...] se c’è una cosa ben fatta in Italia è il codice penale di Alfredo Rocco (o almeno ciò che ne resta). Il giudizio dei grandi giuspenalisti, sul punto, è unanime. Né si confonda tale giudizio di valore con le necessità di riforma del codice, espresse da decenni e regolarmente abortite. La questione è squisitamente tecnica, non certo politica. I codici italiani sono portatori di altissimi valori civili e si attestano ai vertici del pensiero giuridico mondiale. Almeno in una fase transitoria la loro applicazione sarebbe nulla di scandaloso. Anzi, al contrario, sarebbe operazione temeraria lo spazzarli via.»
Qui emergono due constatazioni: 1) se oggi possiamo liberamente parlare ed operare per l’indipendenza è grazie alla modifica dell’art. 241 del Codice penale. Con la Legge 24/02/2006, n.85 – Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione – così riscritto: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti violenti diretti e idonei a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza o l’unità dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni. La pena è aggravata se il fatto è commesso con violazione dei doveri inerenti l’esercizio di funzioni pubbliche.» Insomma dal 2006 grazie ad una modifica parziale del C.P. si può parlare ed agire per l’indipendenza, basta farlo con atti non violenti. 2) almeno in Veneto ci sono fautori del ripristino della Repubblica Veneta.
Alcuni di questi, nelle predette “conversazioni tra amici”, sostengono: «…che non solo si atteggia a Stato Cattolico e dunque confessionale (da confiteor = io testimonio che Gesù Cristo è Dio), ma in tutto il suo impianto istituzionale, fino nei minimi particolari la Repubblica Veneta rappresenta l’esatto opposto del sistema liberale (che nasce sulla base ideologica). Siamo all’opposto in tutto: ruolo dello stato, stato sociale, diritto, politica economica, economia, politica estera, diritti politici e civili, concezione della politica, valori morali, religione… in un elenco senz’altro non esauriente.»
Quest’ultima è un’idea ricca di fascino e di seduzione. Purtroppo è avvilente constatare che manca un numero adeguato di Patrizi. Se ci sono chiediamo scusa per esserci distratti. Quell’aristocrazia che governò la Repubblica di Venezia, e che – soprattutto – se ne accollò gli oneri, a chi o cosa corrisponde oggi? Se tale aristocrazia (dal greco άριστος, “Migliore” e κράτος, “Potere”, che secondo l’etimologia greca del termine dovrebbero appunto essere i “migliori”) esiste già, dove si è formata? Perché ogni entità ben amministrata forma la propria classe dirigente, come avviene in tutte le nazioni davvero evolute. Senza questo lungo percorso di educazione ed istruzione, dove sono i “migliori”?
Ritornando alle osservazioni in premessa: “il fatto che per secoli un certo gruppo di popoli sia riuscito ad assoggettare al proprio volere tutto il resto del mondo appare unico nella storia universale”. Ciò si spiega con “spirito di avventura, ardimento, volontà decisa, durezza di carattere, e poi doti di organizzazione”, unite al “convincimento che il cristianesimo” rendesse gli europei i portatori “della vera fede”. (J. Evola, Ora tocca all’Asia. Il tramonto dell’Oriente, in “Il Nazionale”, II, 41, 8 ottobre 1950, p. 2.) Da qui l’odierno Jadismo fondamentalista islamico. Ma questi “fattori eroico-religiosi dovevano rapidamente venir meno” nel momento in cui “al periodo dei conquistadores” subentrò lo “sfruttamento economico” da parte “delle varie compagnie commerciali” europee. Di poi, sarebbero stati proprio gli europei a fornire ai popoli delle colonie le armi ideologiche per la loro emancipazione, per prima cosa diffondendo “il vangelo dei ‘diritti dell’uomo’” e poi la dottrina della “autodecisione dei popoli”, risalente alla pace di Versailles. Di conseguenza, gli europei “con una specie di autosadismo, dovevano ridursi alla fine a predicare l’anticolonialismo” e ad aprire così la strada al tramonto della loro egemonia.
Ne consegue come logica conclusione che dal campo indipendentista peninsulare sembrano emergere due filoni. Al primo appartengono persone, partiti e partitini che cercano l’elezione nelle istituzioni italiane, dove è difficile credere ancora al fatto che tali istituzioni possano essere riformabili dal loro interno. La storia ultra ventennale della Lega Nord è lì a dimostrarlo. Anche le recenti vicende del M5S sembrano andare nella stessa infruttuosa direzione. Emblematica, poi, è l’iniziativa di “contro referendum” proposto dal Pdl in Regione Veneto per ottenere una maggiore autonomia. (Tsz!) Al secondo filone sembrano appartenere persone, associazioni culturali e comitati apartitici che puntano al consenso popolare, ma non hanno ancora una proposta di nuova architettura istituzionale su cui far convergere detto consenso. Al momento c’è solo il legittimo sogno dell’indipendenza. È dunque, a nostro parere, necessario individuare lucidamente le persone e gli organismi che puntano in questa direzione; ma è anche indispensabile che il nuovo progetto istituzionale ottenga l’utile accredito internazionale. E purtroppo, sempre a nostro avviso, su quest’ultimo punto siamo ancora in alto mare.
Comento de Filarveneto:Par fortuna anca pal pasà ai bei tenpi de la Repiovega Veneta, gh'era veneti co la cràpa so le spale ke li stava al moto:
prima sem veneti e dapò cristiani (catoleghi)