Coała xeła l'etega de l'endependenteixmo veneto?

Re: Coała xeła l'etega de l'endependenteixmo veneto?

Messaggioda Berto » mer giu 01, 2016 12:38 pm

L’indipendenza è un diritto 1/ Ma senza accordi e unità resta un miraggio
ENZO TRENTIN
1 Jun 2016

http://www.lindipendenzanuova.com/lindi ... n-miraggio

Un lettore, in calce ad un nostro recente articolo criticando l’intenzione del Presidente della Regione Veneto: Luca Zaia, di voler presto indire un referendum consultivo sull’autonomia di tale Regione, ha scritto: «È già stato fatto un referendum sull’indipendenza di tipo privatistico, come non poteva essere altrimenti, e certificato ben due volte sia in campo nazionale che internazionale. È stato fatto un ricorso di 421 pagine contro l’Italia innanzi all’Alta Corte di Giustizia per i diritti umani [La Corte europea dei diritti dell’uomo (abbreviata in CEDU o Corte EDU). Ndr], ci si appresta anche a fare passi all’O.N.U. e se verrà deciso anche sugli U.S.A. che come ogni veneto dovrebbe sapere è stata riconosciuta la loro indipendenza, come primo Stato, dalla Serenissima di Venezia e chiedere una reciprocità mi sembra il minimo che si possa pretendere oggi.» [ http://www.lindipendenzanuova.com/un-po ... 2v2fr.dpuf ]

Premessa la “singolarità” del referendum di Zaia che non porterà a nulla, e al fine di favorire un utile approfondimento della questione, proponiamo alcune riflessioni e constatazioni:

I potenti, siano essi sacerdoti, capi militari, re, governatori, o in genere i “rappresentanti”, credono sempre di comandare in virtù di un diritto divino; e quelli che sono loro sottomessi si sentono schiacciati da una potenza che pare loro divina o diabolica, in ogni caso soprannaturale. Ogni società oppressiva è cementata da questa religione del potere, che falsifica tutti i rapporti sociali permettendo ai potenti di ordinare al di là di ciò che possono imporre; qualcosa di diverso accade solo nei momenti di effervescenza popolare, momenti in cui al contrario tutti, schiavi in rivolta e padroni minacciati, dimenticano quanto le catene dell’oppressione siano pesanti e solide.

Simone Weil è stata e sarà sempre non contemporanea al suo e al nostro tempo. In “La Prima Radice” ha scritto: «La nozione di obbligo predomina su quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo corrispondente; l’adempimento effettivo di un diritto non viene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa. L’obbligo è efficace allorché viene riconosciuto. L’obbligo, anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto. Non ha senso dire che gli uomini abbiano dei diritti e dei doveri a quelli corrispondenti. Queste parole esprimono solo differenti punti di vista. La loro relazione è quella da oggetto a soggetto».

Una conferma di ciò la troviamo nei cittadini sahrawi nati prima del 1975. Essi sono considerati cittadini spagnoli, ma se chiedono i documenti alla Spagna, questa li nega. Il popolo sahrawi, cioè “sahariano” è un esempio di diritto non riconosciuto, quindi dell’inutilità di perseguire solo i diritti. [ https://it.wikipedia.org/wiki/Sahrawi ] E per un approfondimento alleghiamo una nota dal titolo: “Il Sahara Occidentale: dall’oppressione coloniale alla lotta verso l’indipendenza”.

Il 14 dicembre 1960 l’ONU votò la risoluzione n. 1514 con la quale si riconosceva il diritto all’indipendenza per le popolazioni dei paesi colonizzati. Nel 1963 il Sahara Occidentale fu incluso dalle stesse Nazioni Unite nell’elenco dei paesi da decolonizzare e nel dicembre di due anni dopo l’Assemblea Generale riaffermò il diritto all’indipendenza del popolo sahrawi, invitando la Spagna a metter fine alla sua occupazione coloniale dell’area.

Nel 1966 l’ONU ratificò l’atto di autodeterminazione del popolo sahrawi. Il 10 maggio 1973 il Polisario (Frente Popular de Liberación de Saguia el Hamra y Río de Oro) organizza il suo primo congresso di fondazione e la Spagna, l’anno seguente, compie un censimento della popolazione del Sahara Occidentale, atto necessario per organizzare il referendum richiesto dall’ONU fin dagli anni ’60. Il risultato indica la presenza nella regione di 74.902 persone e il 20 agosto 1974 la Spagna annunciò il suo parere favorevole per l’effettuazione del referendum di autodeterminazione del popolo sahrawi.

Pur tuttavia, ai primi del 1975, il re del Marocco Hassan II espresse la sua totale opposizione all’indipendenza del paese, malgrado il 12 maggio 1975 una missione dell’ONU recatasi in visita nei territori del Sahara Occidentale, riconfermasse il diritto all’autodeterminazione del popolo sahrawi, riconoscendo di fatto il Polisario che, già da qualche mese, aveva cominciato ad effettuare operazioni di guerriglia contro la Spagna.

Un’altra missione ONU incaricata di verificare la situazione del paese rileva quanto la popolazione osteggi l’annessione del Sahara Spagnolo ad uno dei paesi vicini e come sostenga il Fronte Polisario quale proprio legittimo rappresentante. Il 18 ottobre 1974 la Corte dell’Aja aveva decretato illegittima l’applicazione del principio di res nellius (terra di nessuno) al Sahara Spagnolo e dichiarava l’inesistenza di vincoli di sovranità territoriale di Marocco e Mauritania nei confronti del Sahara Spagnolo.

Il Marocco non accetta passivamente le risoluzioni dell’ONU e reagisce, dopo aver stipulato un accordo segreto con la Mauritania, inviando ben 350.000 contadini da Tarfaya al di la’ del confine con il Sahara durante la cosiddetta Marcia Verde, ufficialmente dichiarata una pacifica manifestazione secondo Re Hassan II ma prontamente condannata dall’ONU.
Il 14 novembre 1975 a Madrid, Re Juan Carlos di Borbone, Re Hassan II e Mokhtar Ould Daddah, presidente della Mauritania, siglano un trattato che prevede, alla partenza della Spagna, la spartizione del territorio tra Marocco e Mauritania.

Questa la dimostrazione che nessun patto ha mai garantito l’efficacia neppure agli sforzi più generosi. E sarebbe ridicolo desiderare che un’operazione magica permetta di conseguire grandi risultati con le forze infime di cui dispongono gli individui isolati.

Che ci si debba disfare di uno Stato ed un governo inadeguati (eufemismo) possiamo essere d’accordo, perché come scriveva George Orwell «Un popolo che elegge corrotti, impostori, ladri, traditori, non è vittima, è complice.» A questo punto, però, ci sembra che la cosa più sensata che gli autentici indipendentisti possono fare è confrontarsi su un progetto istituzionale che diventi condivisibile. Se le loro teorie e convincimenti non sono in grado di persuadere o non trovano un compromesso accettabile tra chi come loro si considera ed agisce da indipendentista, come potranno mai conquistare l’opinione pubblica?

Dopo essersi conciliati tra di loro, le loro tesi, ed aver concretizzato un’ipotesi di nuovo assetto istituzionale, potranno partire alla conquista delle menti, dei cuori e dell’anima dell’opinione pubblica, poiché una volta acquisita questa vittoria potranno dichiarare la secessione o l’autodeterminazione (che in questo caso divengono sinonimi), e non ci sarà partito o istituzione italiana che potranno contrapporsi. Ma contestualmente dovranno anche mettere in evidenza quali vantaggi avranno gli altri Stati a riconoscerla, ad intrattenere con essa rapporti commerciali e quant’altro, poiché la “reciprocità” richiamata dal nostro lettore non può basarsi che su questi ultimi.

Si tenga presente che nel Somaliland sono indipendenti da 25 anni, ma nessuno li riconosce. Nel Paese si tengono elezioni, il grado di sicurezza è elevato, ma nessun governo al mondo riconosce ufficialmente il governo del Somaliland. [ http://www.miglioverde.eu/somaliland-in ... -riconosce ] Ciò è estremamente frustrante per Saad Ali Shire, il Ministro degli Esteri: «Non è giusto. Se avessimo saputo ciò che ci meritiamo [il riconoscimento], potremmo accedere ai prestiti internazionali, potremmo beneficiare di un aiuto allo sviluppo, potremmo attrarre gli investitori stranieri per creare ricchezza e posti di lavoro, ma non possiamo far nulla di tutto ciò».



L’indipendenza è un diritto 2 / Il Sahara Occidentale: dall’oppressione coloniale all’autoderminazione
1 Jun 2016
ENZO TRENTIN

http://www.lindipendenzanuova.com/lindi ... rminazione

Il Saharawi prima della colonizzazione spagnola – La presenza umana nell’area dell’attuale Sahara Occidentale, o Sahara Spagnolo, risale al periodo mesolitico, ed è testimoniata da numerosi ritrovamenti archeologici. Nei millenni successivi, nonostante l’inaridimento progressivo dell’area gli insediamenti non cessarono mai di esistere. Le popolazioni che abitavano queste terre presentavano caratteri somatici misti negroidi e nordici.

A partire dal primo millennio a.C., gruppi nomadi berberi migrarono in queste terre sovrapponendosi e mischiandosi alle etnie che già presenti. L’arrivo dei berberi vide l’apertura delle vie carovaniere transahariane che collegavano le coste dell’Atlante con le terre che si affacciano sul Golfo di Guinea e ciò permise di migliorare le condizioni economiche delle popolazione. Successivamente, dal VII secolo l’espansione araba fece sentire la propria pressione anche su queste terre comportando l’islamizzazione dei popoli locali, avvenuta comunque lentamente e non senza difficoltà. Ed è proprio dalla fusione del gruppo berbero dei Sanhaya con la popolazione araba dei Beni, avvenuta tra il XIII ed il XIV secolo, che nacque il nucleo originario del popolo Saharawi. Infatti, essi presentano caratteri razziali misti arabo-africani e parlano un dialetto arabo denominato Hasanya.
L’insieme delle tribù saharawi, a differenza di quanto accadeva nei limitrofi regni di Marocco e Mauritania, non diedero vita ad una organizzazione statale ed unitaria ma si organizzarono secondo una scala gerarchica che vedeva in cima le tribù guerriere (Reguibat, Uld Delim, Tekna), le quali avevano il controllo delle vie carovaniere; sotto di esse vi erano le tribù “religiose”, che si dedicavano alla predicazione coranica ed trasmissione della cultura; infine vi erano le tribù stanziali della costa, che vivevano di pesca e della produzione delle saline, e quelle di pastori nomadi dell’entroterra. Tutti questi gruppi, comunque pagavano un tributo alle tribù guerriere che offrivano, in cambio, la loro protezione.
Ogni tribù si autoamministrava attraverso l’assemblea dei capi famiglia, la Giama’a, che eleggeva un capo, il giudice il quale operava nel rispetto della legge islamica. Nonostante la vastità del territorio e la conseguente bassa densità della popolazione non favorissero l’avvicinamento e la coesione tra le varie comunità in situazioni di pericolo e guerra venivano stretti patti tra i vari gruppi ed entrava in funzione una organizzazione sovratribale chiamata l’Ait’Arba’in.

La colonizzazione spagnola

I primi tentativi di penetrazione coloniale di Spagna e Portogallo ai danni delle popolazioni autoctone iniziarono già nel XV secolo ma, a seguito della bellicosità delle tribù del Sahara e della loro reazione, non riuscirono per molto tempo a realizzare i propri progetti. Gli europei erano però molto interessati alle ricchezze del paese, soprattutto allo sfruttamento delle risorse ittiche ed al controllo delle vie carovaniere ed ai traffici che vi si svolgevano; tornarono perciò in seguito a perseguire i propri scopi espansionistici. Dopo che anche Francia ed Inghilterra si dimostrano interessate al nord-Africa la Spagna, nel 1884 invia l’italiano Emilio Bonelli ad esplorare i territori del Rio de Oro: egli riuscirà ad ottenere un trattato con le popolazioni locali tramite il quale le stesse riconoscevano il controllo dell’autorità spagnola fino a Capo Bianco e, già l’anno seguente durante il Congresso di Berlino, la Spagna proclamerà la sua sovranità su tutto il Rio de Oro oltre che su Tunisia, Mauritania e su alcuni territori del Golfo di Guinea.
Da quel momento in poi inizia a consolidarsi la presenza dei colonizzatori spagnoli con la costruzione delle città di Villa Cisneras, oggi Dakhla, e La Guera; la presenza spagnola si limiterò però per molto tempo alla sola costa in quanto la penetrazione nell’entroterra fu resa ardua dall’ostilità delle popolazioni locali. La reazione delle popolazioni locali non si fece però attendere ed, attorno al predicatore Ma’ el-Aynin, si coagulò il primo gruppo di resistenza sahrawi. Le file della resistenza, originariamente formata dai 68 figli e dalle 26 mogli del capo, si ingrossarono con l’apporto di elementi tra cui molti nomadi del deserto minacciati dalla pressione coloniale; nel 1885 viene perciò proclamata la guerra santa contro gli invasori e, nello stesso anno, fondò la città di Smara unica città sahrawi di fondazione indigena. Per condurre la sua lotta cercò anche di tessere una rete di alleanze ma il suo tentativo di unire alla causa il Marocco fallì quando questo, nel 1912, diventa protettorato francese. Ma’ el-Aynin morì in battaglia e questa circostanza favorì la spartizione dell’area tra Francia e Spagna che si accordarono per sfruttare la regione ed annientare definitivamente la resistenza sahrawi. Nonostante le truppe francesi premessero da nord, est e sud e la presenza spagnola penetrasse sempre più in profondità nell’entroterra, la resistenza locale non demorse e Smara cadde solo nel 1934 quando ormai tutto il paese era ormai assoggettato al potere coloniale. Come successo in molte altre simili circostanze, la repressione che seguì alla sconfitta militare fu immediata e violenta. I reduci della resistenza vennero perseguitati ed espulsi dal paese ed anche la popolazione civile che aveva appoggiato la ribellione venne punita con la distruzione dei propri mezzi di sussistenza, bestiame ed agricoltura. La guerra civile spagnola e l’apparente scarsezza di ricchezze della colonia fecero si che per oltre un quindicennio, fino alla fine degli anni ’40, la presenza coloniale non sia troppo oppressiva. Quando però venne scoperta la presenza di giacimenti di fosfati ed iniziarono le ricerche di depositi di idrocarburi l’interesse della Spagna tornò a ridestarsi.

Il processo di decolonizzazione e le ingerenze del Marocco.

In quegli anni, inoltre, l’effervescenza di molte zone del Magreb che avviavano la lotta per l’indipendenza, faceva sentire i suoi effetti anche nel Sahara spagnolo. Il Marocco aveva ottenuto l’indipendenza nel 1956 ma non considerava la lotta per l’indipendenza conclusa in quanto mirava all’annessione dei territori sahariani (Mauritania, Sahara dell’ovest, parte dell’Algeria e del Mali) ancora sotto dominio francese e spagnolo; la Mauritania, sottomessa ai colonizzatori, vedeva invece il sahara spagnolo come il naturale fratello per una futura unificazione.
Già all’indomani della cacciata dei colonizzatori, quindi, l’Armata di Liberazione del Marocco, affiancata da forze sahrawi compie una serie di attacchi contro Ifni, dov’era allora posta la residenza del governatore spagnolo. La reazione spagnola è decisa e vengono immediatamente trasferiti 14.000 soldati e 130 aereoplani: la resistenza sahrawi è immediatamente sconfitta e l’armata marocchina ricacciata oltreconfine. Come già avvenuto in passato la popolazione civile fa le spese del conflitto; una parte del Saquit el-Hamre viene costretta all’esodo mentre il resto dei civili deve subire persecuzioni ed uccisioni per ritorsione. La cessione della zona di Tarfaya dalla Spagna al Marocco riporta comunque la pace tra le due nazioni.
Con il ristabilimento della calma viene fondata l’ENMINSA, la società mineraria spagnola che, grazie anche ad appoggi statunitensi e tedeschi, inizia l’attività estrattiva nella zona di Bu Craa dove viene aperta una miniera a cielo aperto.
Contemporaneamente il Marocco ribadisce le sue mire espansionistiche cercando di ostacolare il processo d’indipendenza della Mauritania che comunque si affrancherà nel 1960. Anche con l’Algeria, dopo che ne aveva appoggiato la lotta anti-francese, sorgono contrasti a causa della contesa sul territorio di Tindouf: in seguito la situazione verrà risolta con la rinuncia da parte algerina della sovranità sul territorio in cambio di uno sfruttamento congiunto delle miniere di ferro.
Nel 1965 anche l’ONU incomincia ad interessarsi della situazione ed approva una prima risoluzione, che verrà in seguito reiterata ogni anno, nella quale si chiedeva al governo spagnolo di prendere adeguate misure al fine di liberare i territori dell’Ovest Sahara istituendo un referendum tramite il quale il popolo sahrawi avrebbe potuto decidere del proprio futuro. Ufficialmente le posizioni di Marocco, Mauritania e Spagna sono favorevoli all’iniziativa ma, nei fatti, non fanno nulla per renderla effettiva. Il governo spagnolo, rimandando continuamente il referendum, crea addirittura la Giama’a un’Assemblea Generale del Sahara che però risulta essere un organo in mano agli spagnoli che lo utilizzano per i propri fini.
Intanto, il processo di urbanizzazione delle popolazioni nomadi, accelerato dalle ricorrenti stagioni secche e dalla grande offerta di lavoro nei centri della costa, faceva sempre più sentire i suoi effetti mettendo a contatto elementi di tribù che in passato non avevano mai avuto modo di solidarizzare e la popolazione spagnola con quella indigena. Questo processo consente la nascita di una diffusa coscienza etnico-nazionale che risulterà fondamentale nel proseguo della lotta di liberazione del popolo Sahrawi. I giovani sahrawi hanno da questo momento la possibilità di studiare ed istruirsi nelle scuole marocchine e nelle università dei paesi magrebini mentre gli stessi spagnoli, spinti dalla necessità di reclutare mano d’opera specializzata per le proprie imprese, aprono numerose scuole superiori.

La nascita del movimento indipendentista sahrawi: il Fronte Polisario

Il 1967 vede la nascita del primo movimento organizzato per l’indipendenza del popolo sahrawi: è l’ MLS (Movimento di Liberazione del Sahrawi) fondato da Sidi Ibrahim Bessiri un insegnante di religione ed arabo a Smara in Siria dove era arrivato dopo essere fuggito nel’58 in Marocco dove aveva potuto studiare. Il movimento aveva tra le sue finalità aveva la liberazione nazionale e numerose riforme sociali senza l’utilizzo della non violenza. Il 17 giugno, però, in occasione di una festa indetta dalle autorità spagnole per celebrare l’annessione del Sahara spagnolo, viene indetta una contromanifestazione di protesta nel quartiere popolare di Zemla nella città di Ayun. L’esercito reagisce sparando sulla folla e provocando un massacro: molti sono gli arresti effettuati e tra questi viè anche quello di Bassiri di cui, da quel momento, non si avranno più notizie. In seguito a questo fatto l’MLS viene sciolto ed i suoi aderenti vengono costretti all’esodo.
La lotta iniziata da Bessiri viene ripresa da un altro giovane Requibat di formazione marocchina, al-Wali Mustapha Sayed che comincia la sua militanza a favore della causa sahrawi entrando in un collettivo antispagnolo all’università di Rabat. Dopo i due colpi di stato contro il presidente Hassan, in cui gli aderenti al collettivo sono marginalmente coinvolti, decide assieme ai compagni di riparare a Zomerate in Mauritania. In questo luogo, dopo aver preso contatti con altri sahrawi, viene fondato nel 1973 il Fronte Polisario o Fronte per la Libertà del saquiat al-Hamra ed il Rio de Oro: l’intento dei ribelli è porre fine all’occupazione ed al regime coloniale degli spagnoli ricorrendo anche alla lotta armata. Nel III congresso del Fronte vengono inoltre chiarite le linee guida del movimento che prevedono la volontà di mantenere, una volta ottenuta l’indipendenza, le frontiere coloniali (in ottemperanza al principio sancito dall’OUA), di eliminare la struttura tribale della società e di emancipare le donne, che contribuiranno in seguito in modo determinante alla lotta anticolonialista. Fin dall’inizio la lotta del Fronte si esplica sia sul piano militare, con azioni via via sempre più efficaci, che su quello diplomatico cercando di intrattenere rapporti con i governi dei paesi arabi al fine di legittimare la propria rappresentatività del popolo sahrawi. Contemporaneamente la crisi dell’impero coloniale portoghese ed altri fattori spingono la Spagna ad affrontare la questione del Sahara spagnolo. Il censimento che viene fatto, però fornisce risultati atti a favorire gli interessi spagnoli, considerando gli indigeni sahrawi nel numero di 73.497, su un totale di 95.019 abitanti, mentre la resistenza quantifica in circa 500-600.000 il numero di sahrawi considerando i nomadi ed i numerosi fuoriusciti (40-50.000 risiedevano in Marocco, 18.000 in Algeria mentre altri in Mauritania).

La Marcia Verde

Appena la Spagna si dichiara pronta ad indire il referendum la reazione marocchina nella persona del re Hassan II è molta violenta ed il sovrano arriva ad affermare che impedirà con ogni mezzo l’inclusione di una opzione indipendentista all’interno del referendum. In precedenza la Spagna, intenzionata a lasciare libero il paese, aveva operato in tal senso favorendo la nascita del PUNS (Partito di Unità Nazionale Sahrawi) che avrebbe dovuto guidare il paese all’indipendenza; la reazione marocchina, però, spinse la Spagna a tornare sui suoi passi disilludendo le speranze della popolazione locale sempre più raggruppata attorno al Fronte Polisario. In Algeria il fronte cominciò ad approntare dei campi di raccolta nei quali confluirono anche numerosi disertori sahrawi dell’esercito.
Il 14 ottobre 1974 una missione ONU incaricata di verificare la situazione del paese rileva quanto la popolazione osteggi l’annessione del Sahara Spagnolo ad uno dei paesi vicini e come sostenga il Fronte Polisario quale proprio legittimo rappresentante. Due giorni dopo la Corte dell’Aja decreta illegittima l’applicazione del principio di res nellius (terra di nessuno) al Sahara Spagnolo e dichiarava l’inesistenza di vincoli di sovranità territoriale di Marocco e Mauritania nei confronti del Sahara Spagnolo.
Il Marocco non accetta passivamente le risoluzioni dell’ONU e reagisce, dopo aver stipulato un accordo segreto con la Mauritania, inviando ben 350.000 contadini da Tarfaya al di la del confine con il Sahara durante la cosidetta Marcia Verde, ufficialmente dichiarata una pacifica manifestazione secondo Re Hassan ma prontamente condannata dall’ONU.
Il 14 novembre a Madrid, Re Juan Carlos di Borbone, Re Hassan e Mokhtar Ould Daddah, presidente della Mauritania, siglano un trattato che prevede, alla partenza della Spagna, la spartizione del territorio tra Marocco e Mauritania.

La nascita della RASD

Dal canto suo il Fronte Polisario dichiara che “il nostro popolo, che attualmente deve far fronte all’invasione marocchina, considera l’accordo concluso… nullo e non avvenuto, e lo ritiene un atto di aggressione e di brigantaggio”. La Giama’a viene perciò immediatamente sciolta (il suo presidente aveva fatto atto di sottomissione al Marocco pochi giorni prima della marcia). Il 27 febbraio del 1976 a Bir Lahlu in territorio liberato, viene proclamata la nascita della RASD (Repubblica Araba Democratica Sahariana) coma stato arabo, africano e non allineato.
A questo punto le truppe marocchine e mauritane invadono il paese prontamente ostacolate dalla resistenza dell’ALPS (Armata di Liberazione Popolarev Sahrawi). L’invasione però si traduce subito in dramma per la popolazione civile costretta a fuggire dalle città trovando rifugio nei campi di raccolta organizzati dal Fronte Polisario nella parte nord-orientale del paese ancora libera. L’aggressione marocchina non si ferma neanche davanti all’esodo della popolazione e, sui campi di raccolta, vengono effettuati bombardamenti durante i quali vengono sganciate bombe al napalm ed al fosforo bianco. A questo punto l’unica salvezza consiste nell’attraversare il confine algerino: nei pressi di Tindouf il governo algerino concede una striscia di territorio al confine con la Mauritania. Proprio qui verrà costituito il nucleo della nascente Repubblica Sahrawi.
La resistenza sahrawi riesce comunque ad ottenere numerosi successi soprattutto sul fronte mauritano dove riescono addirittura a penetrare profondamente all’interno del paese. Nello stesso periodo la situazione interna della Mauritania era diventata sempre più precaria a causa della siccità e dell’oneroso impegno finanziario richiesto dalla guerra. Nel 1978, perciò, il Fronte Polisario proclama una tregua unilaterale e nel ’79 si arriva al definitivo cessate il fuoco tra le due parti consentendo alle forze del Fronte di potersi concentrare sul fronte marocchino. A questo punto le truppe marocchine invadono la regione del Rio de Oro appena evacuata dalle forze mauritane. Inoltre il Marocco, gia’ spalleggiato dalla Francia, tenta di ottenere anche l’appoggio tecnico-finanziario degli Stati uniti e lo otterrà in seguito in cambio della concessione di tre basi militari in territorio marocchino. Anche le truppe della RASD possono comunque contare sull’aiuto degli alleati algerini e libici dai quali ricevono armi, anche se la principale fonte di approvvigionamento militare risiede proprio nel sottrarle al nemico. In questo quadro maturano una serie di pesanti sconfitte per il Marocco che si vede costretto a cambiare repentinamente la propria tattica, in funzione anche del fatto che il popolo marocchino dimostra sempre maggior insofferenza nei confronti di una guerra che non smette di mietere vittime e di svuotare le casse statali. Viene così decisa la difesa del solo triangolo utile, ovvero quella zona comprendente le miniere di fosfati e le città, tramite la costruzione di un muro di sabbia e filo spinato lungo circa 1.500 chilometri, di alcune potenti fortificazioni presso punti strategici e l’utilizzo di un’attenta vigilanza aerea. Anche in questo modo, però, le forze marocchine subiscono nuove sconfitte e ben presto le nuove postazioni cadono, compresa la roccaforte di Guelta Zammur, e numerosi varchi vengono aperti nel muro. Ancora una volta però, il supporto offerto dagli Stati Uniti consente al Marocco di rafforzare le proprie difese e viene costruita una nuova barriera formata da ben quattro mura ampliate rispetto alla precedente e dotate perfino di attrezzature elettroniche di difesa. La nuova difesa è presidiata da 120.000 soldati!
Anche l’ALPS è perciò costretta cambiare tattica e, nell’84, lancia l’offensiva “Gran Magreb” basata su attacchi fulminei e ripetuti localizzati sempre in diversi punti infliggendo notevoli danni al nemico dimostrando quanto sia importante per il popolo sahrawi, la completa liberazione della loro patria.
Sul piano diplomatico la RASD è stata via via riconosciuta da un numero sempre crescente di nazioni (in numero di 59 al luglio 1985) ma l’ONU, pur emanando una serie di risoluzioni atte ad aprire i negoziati per favorire lo svolgimento del referendum, non ha mai menzionato la Repubblica Sahrawi nei suoi testi, mancando implicitamente di riconoscerne l’esistenza. Diverso è il comportamento tenuto dall’OUA che, nel 1982 ad Addis Abeba, ammetteva la RASD nell’organizzazione quale 51°, provocando la dissociazione del Marocco all’organizzazione

La vita nei campi profughi

Dal 1975 circa 160.000 sahrawi sono costretti a vivere nei campi profughi dislocati nei pressi di Tindouf, nel deserto algerino. Le condizioni nei campi sono terribili: la mancanza di cibo, acqua e medicinali aggrava la situazione resa già difficile dall’affollamento e dal continuo flusso di profughi. Gli organismi e le associazioni internazionali intervengono fornendo gli aiuti più urgenti. L’organizzazione dei campi risulta comunque, fin dall’inizio, ben ideata: la popolazione, distribuita su un territorio piuttosto vasto, viene suddivisa in tre regioni (al-Ayun, Smara, Dakhla), ognuna delle quali è suddivisa in sette province a cui vengono dati i nomi delle città e dei villaggi della patria occupata. La RASD viene dotata anche di una complessa struttura politico-amministrativa allo scopo di evitare un pericoloso vuoto di potere di cui avrebbero potuto approfittare gli invasori. In questo modo il popolo sahrawi poteva eleggere i propri rappresentanti nei vari organi. L’organigramma della repubblica era completo di un Governo, di un Consiglio nazionale (organo legislativo) e di un capo dello stato. Inoltre tutto il funzionamento dello stato si basava sulla Costituzione.
Gli abitanti dei campi sono impegnati in attività lavorative, prevalentemente nel settore terziario, ma anche nell’agricoltura, nell’allevamento e nell’artigianato, che è un settore molto significativo. L’attività lavorativa, in considerazione anche del fatto che nei campi non esisteva moneta, risultano essenziali per impegnare gli individui ed evitare situazioni, comuni ad altri campi profughi, di deperimento fisico-psicologico, di perdita di identità culturale e di abbandono all’ozio. La maggioranza della popolazione risulta comunque impegnata nei servizi e nell’amministrazione dei campi ma soprattutto nei settori dell’istruzione e della sanità. L’organizzazione scolastica prevede due cicli di studi primario e secondario e recentemente è stata avviata una campagna di alfabetizzazione rivolta alla popolazione adulta. Il problema maggiore che si è posto all’avvio dell’attività scolastica, fu la mancanza di insegnanti preparati a svolgere il proprio ruolo ma esisteva anche l’esigenza di limitare al minimo gli effetti della colonizzazione culturale sia spagnola che marocchina. A questo riguardo la scuola sahrawi è impegnata in una campagna di recupero delle tradizioni e della cultura del popolo sahrawi.
Per quanto riguarda la situazione sanitaria, dopo i primi disperati mesi, la situazione risulta oggi normalizzata grazie ad un piano di formazione del personale e di una politica basata sulla prevenzione. Nei campi è stata creata una rete di farmacie, consultori ed ambulatori e molti sono gli ospedali sparsi oltre a quello nazionale Bashir Saleh completo di ogni specializzazione. Inoltre è in atto un graduale processo di recupero nei confronti della medicina tradizionale.
Un aspetto fondamentale nella vita dei campi è l’apporto dato dalla donne sahrawi, presenti ed attive in ogni settore in funzione anche del fatto che la popolazione maschile è purtroppo spesso stata impegnata nella guerra di liberazione nazionale. Addirittura nella scuola 27 Febbraio vengono istruite e preparate le donne che in seguito andranno a far parte dei quadri dirigenti della società sahrawi.
Ben diversa risulta la situazione nei territori sottoposti all’occupazione marocchina. Qui la popolazione ha dovuto subire a pressioni, minacce ed angherie allo scopo di fiaccare, inutilmente peraltro, la resistenza e l’attaccamento alla propria terra del popolo sahrawi.

Nel 1985 il Marocco si dichiara finalmente pronto ad accettare l’indizione del referendum contando sul fatto che, a quella data, gran parte della popolazione residente nelle terre irredente è abitata in maggioranza da coloni marocchini. Successivamente, nel 1988, la risoluzione ONU 621/88 istituisce la MINURSO (Missione delle Nazioni Unite per il Referendum del Sahara Occidentale) e stabilisce un piano per riportare la pace nel paese. Successivamente, il Fronte Polisario ed il Marocco accettano la tregua fissata per il 6 settembre ’91 e programmano lo svolgimento del referendum per il gennaio 1992 considerando valide le liste elettorali del censimento spagnolo del 1974. In funzione della scadenza referendaria il Marocco organizza una Seconda Marcia Verde cui partecipano circa 155.000 coloni marocchini che portarono il rapporto tra coloni e sahrawi nelle zone occupate a 7 a 1.
Purtroppo, e non a caso, il testo dell’accordo prevede che chi non risulta censito possa presentare ricorso alla MINURSO al fine di poter essere ammesso al voto. Volutamente, però, non è stato specificato che ciò dovrebbe essere possibile per i soli sahrawi, cosicchè il Marocco ha potuto presentare una lista elettorale aggiuntiva composta da soli coloni marocchini, bloccando così lo svolgimento del referendum con una valanga di ricorsi che non possono essere esaminati dalla missione ONU.
Per quanto riguarda l’Italia, in completo disprezzo alle posizioni espresse dal Parlamento Europeo nel 1989 in favore dell’autodeterminazione del popolo sahrawi, continua tranquillamente nel suo programma di ingenti aiuti anche militari al Marocco. Durante la recente visita del Re del Marocco in Italia (12/4/2000) Roma il paese è stato chiamato a svolgere il ruolo di pacificatore per il contenzioso sul Sahara Occidentale in quanto è l’unico a poter mantenere una posizione neutrale sulla questione. Nella stessa data l’americano James Baker, che per conto dell’ONU dovrebbe favorire la convocazione del referendum sull’autodeterminazione deciso nel 1992 ha dichiarato che, guardacaso, “non è in vista una soluzione”.

Bibliografia

Il fronte polisario di Luciano Ardesi della fondazione Internazionale Lelio Basso, lega italiana per i Diritti e la Liberazione dei popoli. Napoli 1986
La Repubblica Araba Sahrawi Democratica di Gaia Pallottino Rossi Doria edito dal Centro Informazione ed Educazione allo Sviluppo
Una Tragedia da fermare articolo pubblicato da “Il Sole delle Alpi” del 12-6-1999
Un “frente” dimenticato articolo pubblicato da “Il Sole delle Alpi” del 22-5-1999
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Coała xeła l'etega de l'endependenteixmo veneto?

Messaggioda Berto » mer giu 01, 2016 12:41 pm

???

Il manifesto di Sanca Veneta: la sinistra ha fallito, la via è l’indipendenza

http://www.lindipendenzanuova.com/il-ma ... dipendenza

1. IL VENETO HA BISOGNO DI UNA SVOLTA. Abbiamo bisogno di nuova cultura politica. L’obbiettivo di Sanca Veneta è di creare un nuovo approccio al rapporto tra cittadinanza e istituzioni fatto di partecipazione e trasparenza. Creare un’alternativa per un Veneto che merita più di quello che la sua attuale classe dirigente può dare.

2. SIAMO DIVERSI. Tra le pochezze e le carnavalate dell’indipendentismo veneto e il dogmatismo centralista della sinistra italiana, abbiamo deciso di differenziarci. Nessuno di questi due mondi ci appartiene, ed esattamente per questo siamo nati.

3. SIAMO LA VOCE DEI GIOVANI VENETI. La gioventù veneta è sempre più lontana da una politica che li delude e dimentica. Il consiglio direttivo ha un’età media di 25 anni. Il nostro obbiettivo è dargli una voce, perché se i giovani veneti non hanno opportunità e non vedono prospettive di cambiamento, il Veneto non ha futuro. Noi siamo l’antidoto a questa malattia.

4. SIAMO MOLTI DI PIÙ DI QUANTO PENSIAMO. Quando siamo nati eravamo stupiti di essere una decina o poco più, oggi siamo un gruppo molto più numeroso e in continua espansione. Ci hanno convinto che essere indipendentisti e progressisti sia un ossimoro. Non lo è. Siamo parte di un movimento globale per l’autodeterminazione.

5. LA SINISTRA ITALIANA HA FALLITO IN VENETO. A livello territoriale la sinistra italiana ha dimostrato la propria incompetenza nell’ascoltare, comprendere e analizzare il Veneto. Asservita alla linea e ai diktat romani e impegnata più nei propri conflitti interni, ha dimenticato le priorità e gli interessi di Veneto e Veneti.

6. L’EUROPA STA CAMBIANDO. Movimenti autonomisti e indipendentisti stanno conquistando la scena politica di molti stati membri, dalla Scozia alla Corsica passando per la Catalunya. Il loro, e il nostro messaggio è chiaro: vogliamo un Europa nuova, più democratica e meno burocratica, che serva gli interessi dei propri popoli piuttosto che quelli delle burocrazie degli stati membri.

7. SANCA È INTELLIGENZA COLLETTIVA. Il nostro team è giovane e ambizioso. All’interno di Sanca non ci sono capetti o omeni forti, orticelli da coltivare o correnti da prendere. In Sanca Veneta le decisioni vengono prese collettivamente e ogni attivista ha I diritto di esprimersi a riguardo. Ogni dibattito ci rende più forti, ogni battaglia più motivati.

8. ABBIAMO UN MESSAGGIO DI POSITIVITÀ. Vogliamo mandare un segnale di speranza e partecipazione. Lamentarci o chiuderci nelle nostre nicchie di conforto non ci portera da nessuna parte. La paura e l’apatia non ci porteranno da nessuna parte.

9. CULTURA E LINGUA VENETA NON POSSONO ESSERE MONOPOLIO DI PARTITO. Preservare e valorizzare l’identità veneta è fondamentale per affontare le sfide che la globalizzazione ci pone innanzi. Lasciare ad una sola parte politica questo compito significa arrenderci al populismo, all’incompetenza e agli stereotipi oggi ancora troppo diffusi.

10. SIAMO IL FUTURO DELLA POLITICA VENETA!

Nol me piaxe sto manefesto, el calca łe rengaure de i połedeganti, màsa retorega.
E po' no se capise se el fin el sipia l'endependensa dei veneti entel Veneto o el torno de ła Serenisima.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Coała xeła l'etega de l'endependenteixmo veneto?

Messaggioda Berto » lun ago 29, 2016 2:18 pm

I disinvolti della Regione Veneto
29 Aug 2016
http://www.lindipendenzanuova.com/i-dis ... one-veneto


ENZO TRENTIN – «Ho provato: sono andato al bar in piazza ed ho chiesto “Cosa ne pensi della governabilità?” Nessuno mi capiva. Siccome sono Consigliere comunale ho provato anche con altri Consiglieri, durante un pausa del Consiglio. Stessa reazione incuriosita: “Cosa è?”
Il vocabolo stesso non esiste nella lingua del posto. Devi creare un neologismo che comunque sistematicamente non viene capito e pertanto lo devi spiegare.
Dopo vari tentativi arrivi a dovere dire: “Si tratta di avere la ‘maggioranza sicura’ anche a prescindere da contenuti.”

A questo punto la reazione di sorpresa si trasforma in indignazione: “Ma quella è una dittatura!” Infatti. Sono italiano, ma vivo in Svizzera. Più precisamente nella Svizzera francofona. In questo paese nessuno dispone della “governabilità” ed il concetto stesso, una volta spiegato, fa pensare ad una dittatura.

Per “avere la maggioranza sicura” in quanto Consigliere dispongo di un solo metodo: devo proporre qualcosa che sicuramente ottiene il consenso dei Consiglieri riuniti in Consiglio.

E questo metodo non si può aggirare: non ho altre strade che questa. E può darsi che non basti ancora. Infatti, se in Consiglio decidiamo qualcosa che non piace ai cittadini, questi possono facilmente abrogare la nostra delibera.

Va precisato che quando dico “Consiglieri” intendo ciascuno di loro individualmente, non i “gruppi consiliari”. Infatti il “voto di squadra” non esiste. Quando una delibera è approvata o respinta i consensi ed i dissensi passano normalmente attraverso tutti i partiti. È normale che sia così: infatti su ogni tema della vita cittadina si trovano pareri concordi e discordi anche tra gli elettori ed i simpatizzanti di uno stesso partito. È quindi naturale che questi pareri si rispecchino nell’organo legislativo. Altrimenti questo organo non sarebbe “rappresentativo” dei cittadini, ma di qualcosa d’altro.»

Quanto sopra riportato è l’apertura di un intervento di Leonardo Zaquini, dal titolo: “La Governabilità, ma cos’è”
[http://www.rivoluzione-liberale.it/32101/cultura-e-societa/governabilita-ma-cosa-e-una-forma-di-dittatura.html ] lo riportiamo perché quando molti indipendentisti veneti affermano di voler uno Stato indipendente veneto, alla domanda sul come sarà istituzionalmente organizzato, rispondono di volere l’applicazione del federalismo svizzero. Naturalmente si tratta di buone intenzioni. Dicono che l’inferno ne sia lastricato.

Proviamo a vedere perché analizzando alcuni convincimenti politici di persone chiaramente impegnate nell’affermazione dell’autodeterminazione. Ed in ordine gerarchico non possiamo che partire dalle prese di posizione di alcuni Consiglieri regionali veneti.

La Risoluzione n. 19 “dichiarazione ed enunciazione dei principi e valori della sovranità e del futuro politico del Veneto” presentata il 3 maggio 2016 dal Consigliere Antonio Guadagnini, che consigliamo di leggere, [http://www.antonioguadagnini.eu/veneto-indipendente/wp-content/uploads/2016/05/risoluzione-19-sovranita%CC%80.pdf ] è un miscuglio di presunzione e di politichese.

Vi si dichiara tra l’altro: con la Mozione 19 – 22 settembre 2015, e la Mozione 29 – 1° dicembre 2015: «Il Consiglio Veneto riconosce in un ulteriore atto ufficiale il principio della inclusività ed esclusività del diritto di autodeterminazione dell’agente, e di conseguenza evidenzia l’inconferenza in materia di eventuali atti/condotte poste in essere da soggetti diversi da quello agente autodeterminante.» Ovvero si arroga il diritto esclusivo dell’azione tesa all’indipendenza del Veneto, ed aggiunge: «Il Consiglio Regionale Veneto dichiara inoltre che il futuro politico collettivo del Popolo veneto avviene in conformità ai seguenti principi:

SOVRANITÀ – Ogni cittadino è in qualsiasi momento titolare del potere di decidere le forme di governo dalle quali farsi governare, potere che viene esercitato collettivamente attraverso le istituzioni pubbliche che lo rappresentano».

Tradotto dal politichese, si tratta dello stesso meccanismo capzioso contenuto nella Costituzione italiana, dove al Comma 2, dell’art. 1 è scritto: «La sovranità appartiene al popolo…», principio contraddetto dai successivi articoli.

I disinvolti della Regione Veneto affermano che il cittadino «è in qualsiasi momento titolare del potere [esclusivo] di decidere», ma il «potere viene esercitato collettivamente attraverso le istituzioni pubbliche che lo rappresentano.» Ora, chi “occupa” attualmente le istituzioni regionali venete? Secondo le ultime elezioni chi ha ricevuto il consenso di 1 elettore sui 4 degli aventi diritto al voto! Il che è una singolare interpretazione della democrazia.

Eppure Tucidide II, 37 sosteneva: «Si chiama democrazia perché il potere non è nelle mani di pochi, ma dei più».

Tuttavia, per mettere a fuoco la questione, è indispensabile sapere esattamente che cos’è una

Risoluzione, vale a dire uno strumento diretto a manifestare orientamenti o a definire indirizzi su specifici argomenti. Ed una Mozione è un mezzo di sindacato politico di cui dispone il Parlamentino regionale per provocare una discussione in determinate direzioni o nei confronti di problemi di pubblico interesse. Insomma, non si tratta di documenti legislativi, ma di orientamenti.

Ovverosia non quanto votato, per esempio, dal Parlament de Catalunya, che ha provocato la Corte costituzionale (TC) spagnola a sospendere il processo di disconnessione della Catalogna. Inoltre, la decisione del Tribunal Constitucional, presa all’unanimità, avverte personalmente il presidente del Parlamento catalano, Carme Forcadell, e della Generalitat, Carles Puigdemont, della loro potenziale responsabilità, anche penale, se ignorano tale sospensione.

I disinvolti autoctoni non impressionano nessuno, è dimostrato dal fatto che la Corte costituzionale italiana non ha battuto ciglio, e Luca Zaia, Antonio Guadagnini & Co. non rischiano assolutamente nulla, avendo prodotto null’altro che delle “intenzioni” o ciàcole, non già atti legislativi.

Non basta: nella sua poliedricità l’ambito indipendentista veneto offre anche altre posizioni, e singolari personalità. Una di queste è Lucio Chiavegato. S’è fatto le ossa con il sindacalismo militando tra i Liberi Imprenditori Federalisti Veneti (LIFE). Nel suo profilo Facebook, il 2.08.2016 – h. 20,52, scrive tra l’altro: «…Mi ripeto. Informare e far conoscere l’indipendenza ai veneti. Lotta democratica contro i politici veneti asserviti al potere romano-italico, attraverso la cosa più facile e capibile dalla maggioranza di veneti che è anestetizzata da un partito che da 25 anni ha provocato disastri. Creare un unico partito veneto indipendentista. Vincere le regionali e creare la rottura con Mafia-capitale. Manifestazioni di piazza contro le quotidiane ruberie italiche e a favore del nuovo Stato veneto».

Analizzando queste dichiarazioni, si percepisce una premessa condivisibile, ma è la soluzione che non persuade altri indipendentisti altrettanto impegnati. Ovvero “conquistare” la Regione Veneto, e da lì cercare l’autodeterminazione, probabilmente in similitudine (sinora fallimentare) con quanto avviene ai giorni nostri in Catalogna. Per la Scozia è diverso, hanno già una sorta di indipendenza e vogliono ampliarla. Nulla di tutto ciò in Veneto.

Sui partiti politici abbiamo ampiamente argomentato qui: [http://www.miglioverde.eu/gli-indipendentisti-si-battano-lannientamento-dei-partiti/ ] «La’ dove i cittadini si manifestano in generale incapaci di affermare la loro personalità, i governanti li dirigono a modo loro come fossero marionette o li considerano come strumenti a loro disposizione.» sosteneva Moisei Ostrogorski già nel 1902, ed aggiungeva: «il moderno partito politico è una macchina centralizzata al servizio del leader, e della quale il leader non avrebbe potuto fare a meno per raggiungere i suoi scopi». Umberto Bossi docet!



Le conclusioni che possiamo trarre da tutte queste constatazioni sono:

Quando gli pseudo indipendentisti veneti parlano di voler introdurre un sistema istituzionale simile alla Svizzera, con tutta evidenza non sanno di cosa trattano.
Malgrado il discredito nei confronti dei partiti politici sia antico, ci sono persone che ancora pensano ad un grande partito.
Il grande partito, poi, dovrebbe andare alla conquista della Regione Veneto, istituto della Repubblica italiana, per deliberare – forse – documenti che sarebbero immediatamente bloccati dalla Corte costituzionale. E questo senza avere il consenso popolare, né soprattutto un progetto istituzionale di cui godono i catalani e gli scozzesi.
In ogni caso tutti costoro rimandano ad indipendenza ottenuta la progettazione di un nuovo assetto istituzionale, ignorando che proprio l’esperienza italiana concretizzata alla fine della II G.M. ha prodotto molte conflittualità per ottenere il potere, che sono sfociate nella Costituente (redigente e non deliberante, è bene sottolinearlo) che ha stilato una Costituzione dove senza spostare una virgola si può indifferentemente creare un regime comunista, o l’attuale regime partitocratico e pseudo democratico.

Di converso, altri indipendentisti auspicano la realizzazione – a priori – di una bozza, da proporre all’esercizio della sovranità popolare, dove alla «Base della costituzione democratica è la libertà. […] di qui è venuta la pretesa di essere sotto nessun governo o, se no, di governare e di essere governati a turno: questa via contribuisce alla libertà fondata sull’eguaglianza.» (vedasi Aristotele, Politica, Laterza, Bari, 1995, Libro V).
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Re: Coała xeła l'etega de l'endependenteixmo veneto?

Messaggioda Berto » lun set 12, 2016 10:15 pm

L’indipendentismo è fatto di patrioti
12 Sep 2016
di ENZO TRENTIN
http://www.lindipendenzanuova.com/lindi ... i-patrioti


L’Italia è un paese di patrioti e, tutte le volte che le cose vanno male, che gli affari non funzionano, che l’oppressione burocratica e la fiscalità sono troppo pesanti, basta che il governante di turno si metta ad indicare la necessità di solidarizzare con questa o quella causa, perché questi patrioti si scordino delle loro ragioni di malcontento e ardano dal desiderio di supportare questa o quella causa. Di saltate alla gola del nemico, o di proferir minacce contro un paese straniero, non ci pensa nessuno. Sono cose che ricordano il fascismo. Meglio mandare le forze armate attrezzate di tutto punto in missioni di peacekeeping (mantenimento della pace. Tsz!) È così grande la disponibilità italiana nell’offerta di contingenti militari per operazioni all’estero, senza ritorno di “interessi nazionali”, che pare sia l’unico modo di fare una politica estera.

Tramontata l’era dell’autonomismo sul modello delle Regioni a Statuto speciale; dimenticata la rivendicazione per il federalismo, di cui molti non comprendono l’essenza, e che i politicanti non hanno interesse a praticare; la parola d’ordine di alcuni patrioti che ai giorni nostri si occupano attivamente di politica è diventata: indipendenza. A questo punto, tralasciamo la politica “tradizionale” imperniata sui partiti che con il loro comportamento hanno deluso, tediato e stancato l’opinione pubblica. Ed ecco che i cosiddetti indipendentisti sono diventati tali, perché fallita l’era dell’autonomismo e del federalismo non intravvedono altra via che l’autodeterminazione.

Tuttavia nel fronte patriottico indipendentista si apre una dicotomia: da una parte ci sono coloro che chiedono il voto per entrare nelle istituzioni italiane con il proposito di cambiarle dal loro interno. Metodo sinora sempre fallito. Spesso caldeggiato da persone che hanno già avuto incarichi istituzionali, ma che non hanno mai raggiunto gli scopi per i quali erano stati votati. Se poi a questa fazione viene chiesto: «Che tipo di indipendenza sarà?», rispondono semplicisticamente di volere uno Stato il cui ordinamento sia simile a quello svizzero. E qui molti indipendentisti rizzano le orecchie, perché sanno che le stesse semplificazioni furono adottate anche per il federalismo, e di norme o proposte autenticamente federali non se ne sono mai ottenute da questi rappresentanti. Ciò nonostante costoro hanno un codazzo di plebe che incoraggiano con il «Plaudite cives!» (“applaudite cittadini!”). Ma non c’è da stupirsi, la claque esisteva già nella Roma antica. Era un “servizio” per lo più a pagamento, riservato a chi poteva permettersela. E siccome le istituzioni italiane “pagano bene…”, è diffuso il sospetto che loro vogliano entrarci per poter vivere di rendite politiche.

Dall’altro canto si riscontra una massa di cives che pur non essendo plebe, come per esempio le tifoserie calcistiche, è tuttavia inattiva, attendista. Aspetta gli eventi, o l’uomo della provvidenza, ignorando che se c’è non farà sicuramente i loro interessi quando dovesse apparire all’orizzonte. Infatti quando si conferisce un grande potere a una carica, si ignora quali garanzie avrà il cosiddetto “popolo sovrano” nel momento della crisi. Insomma per dirla in termini commerciali: esiste una domanda di mercato, ma l’offerta per soddisfarla è carente.

I patrioti più sensibili fanno propria un’affermazione di Thomas Jefferson: «Se un popolo crede di poter essere libero e disinteressarsi della politica, immagina qualcosa che non è mai stato né mai sarà.» Si sono convinti che una bozza di progetto istituzionale innovativo, potrebbe soddisfare tale domanda, e contemporaneamente rendere inoffensivi i politicanti.

Ad ogni buon conto quando si parla di autodeterminazione si deve tener presente che il principio fu solennemente enunciato da Woodrow Wilson in occasione del Trattato di Versailles (1919), e avrebbe dovuto fungere da linea guida per il tracciamento dei nuovi confini, ma in realtà fu applicato in modo discontinuo e arbitrario. Il principio di autodeterminazione dei popoli si è poi sviluppato compiutamente a partire dal 1945. In particolare, è stata l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a promuoverne lo sviluppo all’interno della Comunità degli Stati.

Si tenga presente che il princìpio di autodeterminazione dei popoli sancisce l’obbligo, in capo alla comunità degli Stati, a consentire che un popolo sottoposto a dominazione straniera (colonizzazione o occupazione straniera con la forza), o facente parte di uno Stato che pratica l’apartheid, possa determinare il proprio destino in uno dei seguenti modi: ottenere l’indipendenza, associarsi o integrarsi a un altro Stato già in essere, o, comunque, a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico. Il princìpio, nell’ambito del diritto internazionale, esplica i suoi effetti solo sui rapporti tra gli Stati e non sancisce alcun diritto all’autodeterminazione in capo a un popolo: quest’ultimo, infatti, non è titolare di un diritto ad autodeterminare il proprio destino ma è solo il materiale beneficiario di tale principio di diritto internazionale, i cui effetti, invece, si ripercuotono solo sui rapporti tra Stati.

Invece, ai sensi del diritto internazionale sui diritti umani, il soggetto titolare del diritto all’autodeterminazione è il popolo come soggetto distinto dallo Stato. Ma in nessuna norma giuridica internazionale c’è la definizione di popolo. Questa reticenza concettuale non è dovuta al caso. Gli Stati giocano sull’ambiguità, non essendo ancora disposti ad ammettere espressamente che i popoli hanno una propria soggettività giuridica internazionale.

Sotto quest’ultimo aspetto, ad oggi, solo la Corte suprema del Canada, valutando le rivendicazioni di indipendenza del Québec rispetto al Canada, ha analizzato attentamente tale principio definendone i limiti: di esso sono autorizzati ad avvalersi ex colonie, popoli soggetti a dominio militare straniero, e gruppi sociali cui le autorità nazionali rifiutino un effettivo diritto allo sviluppo politico, economico, sociale e culturale. (Sentenza 385/1996) Insomma, si può rigirarla come si vuole, ma è indispensabile che il soggetto che vuole autodeterminarsi si dia prima una parvenza di soggetto istituzionale, di comunità politica con norme e regole proprie e condivise dalla maggior parte di quella popolazione cui fa riferimento.

Ciò premesso, un primo (fallito) tentativo di autodeterminazione lo possiamo riscontrare nei giorni stessi in cui il princìpio fu determinato. Alla fine della Grande Guerra, la conferenza di pace di Parigi del 1919 stabilì che Fiume non poteva essere Italiana, e a molti nazionalisti italiani questa decisione non piacque, perché contraddiceva uno dei principi della Conferenza stessa, quello della “Autodeterminazione dei Popoli”. D’Annunzio si fece portavoce di questa contraddizione e con i suoi legionari occupò Fiume.

Sotto la sua supervisione il Vate affidò immediatamente la redazione di una Costituzione della reggenza italiana del Carnaro – così si chiamò la Repubblica italiana di Fiume – ad un repubblicano fondatore del sindacalismo rivoluzionario, il socialista Alceste de Ambris. La Costituzione nota come Carta del Carnaro, superava di molto lo Statuto Albertino in termini eversivi; doveva instaurare un nuovo ordine fondato sul lavoro, la tutela dei diritti individuali, la giustizia sociale, la prosperità e l’idea di bellezza. Riportiamo qui solo due degli articoli più significativi:

2 – La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta, che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali. Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra, per quanto è possibile, i poteri dello Stato, onde assicurare l’armonica convivenza degli elementi che la compongono.

5 – La Costituzione garantisce inoltre a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, l’istruzione primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l’uso dei beni legittimamente acquistati, l’inviolabilità del domicilio, l’habeas corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere.

La democraticità della Carta è attestata anche dall’introduzione del sistema referendario, sia in chiave propositiva che abrogativa (artt. LVI e LVII), nonché dall’incompatibilità, ossia il nostro moderno conflitto d’interessi: “…Nessun cittadino può esercitare più di un potere né partecipare di due corpi legislativi nel tempo medesimo” (art. LIX).

Orbene, nessuno Stato vuole l’autodeterminazione di una parte della sua popolazione, né che questo determini lo smembramento del suo territorio. E adesso che la propaganda è più potente di quanto lo sia mai stata, e che tutti i suoi strumenti sono in mano a chi regge lo Stato; nell’Italia governata dalla partitocrazia non è più possibile per gli indipendentisti autentici far conoscere la verità.

L’autodeterminazione non è prodotta, se mai lo è stata, da forze economiche semplicisticamente analizzabili. Ora l’autodeterminazione è perlopiù progettata da individui singoli, da demagoghi, e da politicanti che giocano sul patriottismo dei loro concittadini per indurli, una volta che le loro millantate pretese non sono riuscite a soddisfare i popoli soggetti al malgoverno dello Stato dal quale vogliono scindersi, a credere in un grande imbroglio. E il colossale raggiro in Italia consiste ed è messo in atto da coloro che vogliono farsi eleggere nelle istituzioni dello Stato, per poi da lì “guidare” l’indipendenza.

Capziosamente portano ad esempio la Scozia, la Catalogna o la Corsica, ma sono molto attenti a non mettere in evidenza le sostanziali differenze di questi tre indipendentismi che, in ogni caso, hanno dei precisi progetti di nuovo assetto istituzionale, e che – ancora più importante – hanno il seguito di una consistente parte dell’opinione pubblica cui fanno riferimento.

La questione dell’assetto istituzionale, è evidenziata anche in una intervista concessa dall’ambasciatore russo in Italia: S. S. Razov, all’emittente Radio Nazionale Veneta [www.radionazionaleveneta.org ], dove tra l’altro afferma: «[…] nella fase attuale nessuno Stato è in grado di funzionare senza il decentramento del potere. Il contenuto reale dello status di autonomia dipende dalla portata dei diritti e dei poteri della regione che naturalmente devono essere sanciti nella corretta forma giuridica».

radio nazionale veneta

Ecco allora che molti patrioti sono “distratti” da pseudo indipendentisti che sono molto prodighi nel ricordare lo splendido passato, ma avari di proposte istituzionali credibili, perché troppo attenti a non privarsi delle cospicue rendite politiche di cui vivono da molti anni.

È invece convinzione di molti che si debba lavorare per prefigurare adesso le nuove istituzioni, e con detto progetto si debba agire sul doppio binario:

1) sull’opinione pubblica alla quale ci si vuole rivolgere per avere l’ampio consenso di cui godono i catalani e gli scozzesi, e in misura minore i corsi;

2) operare sul piano internazionale per i necessari appoggi e riconoscimenti.

Naturalmente si può fare altro; ma prima o poi si dovrà arrivare a questo, perché questo rimane il nocciolo del problema.
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Re: Coała xeła l'etega de l'endependenteixmo veneto?

Messaggioda Berto » mer set 14, 2016 8:21 pm

È L’IDEA STESSA DELLO STATO CHE VA RIPENSATA
di ENZO TRENTIN


La realtà è che la storia dello stato moderno ha diffuso un’idea limitata e parziale delle innumerevoli possibilità di organizzazione della convivenza internazionale. Costituzionalisti, studiosi di diritto pubblico e giuristi internazionalisti però non se ne rendono conto, se non confusamente, a causa della concezione ossessiva della sovranità nella quale sono cresciuti.

C’è una teoria secondo la quale, un uomo politico o un patriota, non appena gli viene data una posizione suprema nello Stato, sempre che sia privo d’ambizione e non abbia brigato per ottenere questa carica, incomincia invariabilmente a mostrare i sintomi di ciò che il potere provoca in lui. Questo, si è potuto costatare chiaramente anche in tutti i personaggi della Rivoluzione francese ed è perciò che nei sistemi autenticamente federalisti la durata in carica dell’esecutivo è limitata, proprio perché sappiamo come il potere agisce sugli uomini.

Tra i primi sintomi della malattia del potere nei cosiddetti “rappresentanti” è la diffidenza nei confronti dei collaboratori, seguita da una grande suscettibilità su tutte le questioni, dalla incapacità di subire critiche, dalla convinzione di essere indispensabili e dalla ferma persuasione che non sia mai stato fatto nulla di buono prima che loro fossero arrivati al potere, (mentre scriviamo al lettore potrà venire in mente Matteo Renzi, ma probabilmente si tratta dell’ultimo d’una lunga lista) e che non si farebbe mai più nulla di buono se egli non restasse al potere. Pare che, quanto più l’uomo è capace e disinteressato, tanto più rapidamente la malattia lo colpisce. Pare che un disonesto può resistere molto di più, perché la disonestà lo rende cinico o, in un certo senso, umile, ed è questo che lo protegge.

L’Unione Europea sta per implodere: è certo come è certo che l’inverno segue all’autunno. Se vogliamo starne fuori, è adesso il momento di decidere di starne fuori. Adesso, prima che cominci la propaganda. È il momento di rendere impossibile a qualunque uomo, a qualunque centinaio di uomini, a qualunque migliaio di uomini, di portarci alla rovina nel giro di dieci giorni, costoro non dovranno combattere per il pane quotidiano; sono quasi sempre riusciti a vivere di rendite politiche. Se li lasciamo fare continueranno a danno dell’intera comunità.

Chiunque sarà alla testa della nazione avrà l’occasione di essere per breve tempo tra i più grandi uomini del mondo, invitato a meeting come il G20 et similia, ma la nazione, una volta passato l’entusiasmo, resterà a mani vuote. Per i prossimi anni ci servono uomini senza ambizioni, che odino la guerra e sappiano che anche dalle missioni di peacekeeping non ne viene mai niente di buono e, soprattutto, di uomini che abbiano dato prova delle cose in cui credono vivendo in conformità con esse. Tutti i candidati dovranno essere valutati sulla base di questi requisiti. È vero che i nomi che vengono alla mente sono pochi, ma queste persone esistono. Non abbiamo bisogno di leader che si mettano a capo di coalizioni, ma di leader che plasmino i consensi, che è cosa assai diversa.

Sosteneva Gianfranco Miglio che il federalismo come soluzione è la via d’uscita al declino irreversibile dello Stato nazionale. E che il vero modello politico di riferimento, il novum che gli sarebbe piaciuto vedere realizzato era quello “anseatico”, che ricalca quello delle libere città commerciali che l’Europa ha conosciuto prima che ovunque nel continente si imponesse la struttura statuale moderna, con i suoi eserciti e la sua burocrazia. Infatti, la più genuina tradizione federalista è stata quella dei secoli XII-XVII, delle città mercantili libere, sopraffatte dall’avvento violento dello stato moderno. In questa fase nelle città non c’erano persone di grande rilievo politico, né parlamenti, ma solo una gestione degli affari quotidiani negoziata continuamente, e un governo frammentato.

Il professor Miglio era affascinato dall’idea che il governo di una comunità politica sia affidato non a un pletorico Consiglio dei Ministri (come oggi accade nei regimi parlamentari), ma a un collegio ristretto formato dai vertici elettivi delle diverse unità politico-territoriali che compongono la Federazione. Cinque, sette persone, coadiuvate da un segretario (un po’ ciò che è in essere in Svizzera), capaci di attivare processi decisionali autentici, frutto non di estenuanti mediazioni tra ministri che rappresentano ognuno un partito o peggio una corrente, ma di accordi condotti alla luce del sole e in tempi brevi. Come si vede, l’istanza del superamento del sistema dei partiti politici era presente anche nello studioso lombardo.

Gianfranco Miglio apprezzava Johannes Althusius che nel 1603 pubblicò a Herborn un compendio di Politica ordinato secondo il metodo sistematico: sotto quel nome egli comprendeva la parte generale del diritto pubblico. Quest’opera è il più antico tentativo, dal punto di vista formale, di un’esposizione rigorosamente sistematica e completa della cosiddetta «politica». Ma è ancor più notevole per il suo contenuto. Con essa l’autore mostra di aderire senza riserve alle concezioni di quei pubblicisti – in gran parte coinvolti nelle guerre civili francesi degli ultimi decenni del XVI secolo – i quali dal principio della sovranità popolare avevano tratto la conseguenza rivoluzionaria di un diritto di resistenza attiva contro i signori fedifraghi, e perciò già dai contemporanei loro avversari erano stati denominati «monarcomachi». Ma ciò che fino allora era stato espresso a fini pratici attraverso scritti di partigiani e di esuli, egli lo parò di una veste dottrinale astratta e metodica. E meglio di qualsiasi suo predecessore egli fondò la sua teoria su basi ampie e coerenti, affermando per primo l’assoluta inalienabilità del diritto sovrano del popolo, e l’essenza del contratto sociale che ne è il fondamento, in formule che si ripresentano per la prima volta presso Jean-Jacques Rousseau con una rassomiglianza sorprendente.

Ma il vero punto di trasformazione sarà rappresentato dalla redazione e dalla successiva applicazione degli Statuti comunali (che non potranno essere omogenei). Perché tutto ciò che la società attuale contiene di ostacoli per il mantenimento sociale sarà da eliminarsi soltanto se, prima ancora dell’eliminazione, si sarà creato l’organismo, il sistema, l’ingranaggio da mettere al posto di quello di cui gli indipendentisti intendono disfarsi. E al fine di evitare contrasti crescenti con l’amministrazione centrale dello Stato, naturalmente ben intenzionata a difendere i propri poteri e i propri privilegi, altro non resta che la secessione.

Dopo gli Statuti (che, ripetiamo, non dovranno somigliarsi troppo l’uno con l’altro, ma dovranno invece rispecchiare le differenze tra territori ed evitare la trappola dell’omogeneità), il passo successivo, in una logica di reale autonomia politica e istituzionale, sarà rappresentata dalla possibilità di federarsi o confederarsi con altre Istituzioni secondo macro-aree omogenee dal punto di vista economico-territoriale. Un passaggio inevitabile, perché le attuali Regioni, artificiali e inventate a tavolino nell’Ottocento, non possono trasformare in senso federale il Paese. A quel punto, con la nascita delle “entità” organizzate in Cantoni, si saranno create le condizioni istituzionali per la realizzazione di una reale struttura federale, per la definizione di un assetto politico-costituzionale innovativo.

Con tali visioni si comprende come risulti incongruente la conquista delle Regioni (organismi dello Stato italiano) così come perorano alcuni sedicenti federalisti e pseudo indipendentisti. In specie quelli veneti. La teoria di Miglio vede tutte strutture “a basso tasso di politicità” che hanno prodotto livelli di civiltà e di crescita economica straordinari. È l’«altra metà del cielo» della storia europea, come egli la definisce, a tornare di attualità con le sue straordinarie ed esemplari strutture di marca althusiana, ricche e complesse, progenitrici del neofederalismo contemporaneo.

Con il neofederalismo Miglio rovescia l’approccio: il federalismo finora sperimentato deriva da un foedus che produce un pluribus unum, l’unità nella pluralità. Noi oggi dobbiamo, invece, cercare il foedus che consenta il passaggio dall’unità alla pluralità, ex uno plures. Il vero ordinamento federale per Miglio è contrassegnato da una pluralità di fonti di potere, almeno da due: quella delle entità federate e quella della federazione. Pluralità di sovranità finisce per significare “nessuna sovranità”. Infatti: “La radice del neofederalismo è l’affermazione di una pluralità di sovranità contro l’idea della sovranità assoluta [ed è] fondata sulla libera volontà di stare insieme. È un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla pluralità di tutti i rapporti, sull’eliminazione dell’eternità del patto [politico]”. Per essenza una struttura federale è una struttura “a pluralità di sovranità”, cioè non a piramide. Johannes Althusius aveva sviluppato l’idea contrattuale sostenendo un’immagine dell’aggregazione federale come formata “a scatole cinesi”, però tutte scomponibili in qualsiasi momento: “[…] erano tutti contratti di diritto privato e non patti politici.”

In questa visione ben più funzionale sarà la ricerca del consenso popolare e dell’appoggio internazionale. Ma questo è possibile ottenerlo mostrando a priori che tipo di ordinamento i “sovrani” vorranno darsi, e qui prendiamo a pretesto l’«indipendenza» comunale che è nata intorno all’anno 1.000 proprio nell’Italia settentrionale e centrale per espandersi poi a buona parte dell’Europa dei secoli successivi. Ed un modo (non l’unico ovviamente) potrebbe essere quello di partire dagli attuali Statuti comunali. In questo senso c’è già chi pensa, propone e agisce, e qui in allegato ne forniamo un esempio: VEDI QUI https://comitatopidemocrazia.wordpress. ... e-elezioni .
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Re: Coała xeła l'etega de l'endependenteixmo veneto?

Messaggioda Berto » mer set 21, 2016 12:43 pm

L’indipendentismo da non rimpiangere
21 Sep 2016
ENZO TRENTIN

http://www.lindipendenzanuova.com/lindi ... impiangere

Lo psichiatra, psicoanalista e antropologo svizzero Carl Gustav Jung, diceva: «Non rimpiango le persone che ho perso col tempo, ma rimpiango il tempo che ho perso con certe persone, perché le persone non mi appartenevano gli anni sì.» E prima di affrontare le nostre constatazioni, ricordiamo anche Giordano Bruno, che il 17 febbraio 1600 moriva condannato per eresia. Fu un martire del libero pensiero. Il cardinal Roberto Bellarmino, suo inquisitore, al contrario è venerato come santo dalla Chiesa cattolica e proclamato Dottore della Chiesa. Giordano Bruno a suo tempo già sapeva come funzionavano le cose e infatti fu messo al rogo. Da allora ad oggi, a parte i roghi, non è cambiato nulla, e le sue parole certi indipendentisti dovrebbero scolpirsele nel cuore: «Che mortificazione! Chiedere al potere di riformare il potere. Che ingenuità!»

Ora, quello che possiamo constatare è che sin dalle battaglie del duo Marin-Rocchetta degli anni a cavallo del 1990, tutti gli autonomisti si sono dichiarati anche federalisti. Da allora abbiamo avuto decine di rappresentanti in Parlamento ed alla Regione Veneto (oltre ad altre Regioni s’intende), ma non c’è stato nessuno – e se c’è stato accettiamo di cospargerci il capo di cenere come ogni sincero penitente – che abbia avanzato una sola proposta di modifica del referendum consultivo.

Questa “boiata pazzesca” per dirla alla Fantozzi, era apparsa con la legge 142/1990, denominata «Ordinamento delle autonomie locali»; ma già la Legge 265/1999, denominata «Più autonomia per gli enti locali», ed il successivo Decreto legislativo 267/2000 «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali», non prevedevano più che il referendum fosse consultivo, anzi la definizione scompare. È quindi lecito domandarsi: a) perché i vari pubblici amministratori che hanno chiesto il voto in quanto autonomisti e federalisti non hanno provato ad abrogare tale norma? b) perché ancora oggi abbiamo una parte del fronte indipendentista che perora l’indizione di un tale tipo di referendum, quando la popolazione con il voto referendario è chiamata a decidere su qualche cosa, non ad essere consultata su quella cosa?

È lecito per gli autentici indipendentisti porsi qualche domanda sull’onestà intellettuale di quegli pseudo separatisti che ancor oggi cercano il consenso elettorale per entrare nelle istituzioni italiane con il proposito di cambiarle?

Nell’indipendentismo veneto – ed in altri in verità – ci sono numerosi pseudo leader che si comportano come presi all’interno del meccanismo delle porte girevoli. Entrano, escono e rientrano nella LN, varano e annientano partitini pesudo autonomisti-federalisti-indipendentisti. Sono tutti ossessionati dall’entrare in Regione e in Parlamento, per poi passare all’incasso di lucrosi vitalizi.

Molto affollato è il gruppo di coloro che senza avere subito pene giudiziarie passano all’incasso di oltre 40.000 euro l’anno di vitalizio, e ciò malgrado che secondo alcuni i Consiglieri regionali siano la classe politica più corrotta in Italia. [ http://www.affaritaliani.it/coffee/vide ... classe-piu–corrotta-in-italia-fermiamo-riforma.html ] Quasi tutti sembrano aver preso lezioni dalle tre sagge scimmie i cui nomi sono: “Mizaru”, “scimmia che non vede”, “Kikazaru”, “scimmia che non sente il male” e “Iwazaru”, “scimmia che non parla del male”.

Non c’è niente di cui stupirsi, Gianfranco Miglio, in un famoso discorso tenuto a Bologna nel 1994 [ https://www.youtube.com/watch?v=qYpSabxloL8 ], sosteneva che in in ogni comunità politica di tutti i tempi e di tutti i luoghi, c’è sempre una certa percentuale di cittadini che vivono alle spalle degli altri.

Poiché la natura dell’etica è che niente le può prevalere; in alcuni ambienti indipendentisti ci si chiede: a quale etica politica fa riferimento il comportamento di chi è nel gruppo consigliare alla Regione Veneto in quota “Indipendenza Noi Veneto con Zaia”, e non appena l’unico Consigliere eletto: Antonio Guadagnini s’è dimesso da tale gruppo per formare il Gruppo consiliare: “Siamo Veneto”, (con apprezzamenti non certo commendevoli da parte degli ex alleati) è rimasto al suo posto? Purtroppo ai peones dei sedicenti partiti o movimenti indipendentisti non è ancora possibile dire:”Acta est fabula, plaudite!” (la commedia è terminata, applaudite).

Non basta, ci sarebbero altre lezioni di responsabilità civica da acquisire. Abbiamo infatti colloquiato con più Sindaci – alcuni sedicenti indipendentisti – circa gli istituti di partecipazione popolare inseriti in ogni Statuto comunale, provinciale (dove le Province esistono ancora) e regionale.

Ebbene, queste pubblici amministratori hanno una spiccata cultura “rappresentativa”, mentre quella democratica lascia sconcertati. Si attaccano strenuamente al “mandato” ricevuto attraverso il voto, e non sentono ragioni circa l’esiguità di tale “rappresentanza”. Luca Zaia governatore del Veneto, per esempio, è stato eletto con circa il 50% dei voti espressi dal circa 50% degli aventi diritto. Se ne ricava che se proprio vogliamo accettare questo principio “democratico”, egli rappresenta un cittadino su quattro. E pensare che Alexis de Tocqueville, in “La democrazia in America” (pubblicato in due volumi, nel 1835-1840), paventava il dispotismo popolare, e la tirannia della maggioranza. È dunque più che lecito chiedersi se questo non sia un regime, e chi vuole amministrare Enti del regime sicuramente non è un gran democratico, né un credibile indipendentista.

Tra le infinite imbecillità [dal latino imbecillis (variante del più comune imbecillus) «debole» fisicamente o mentalmente] non c’è solo quella del referendum “consultivo”, ma anche quella per cui i rappresentanti sono tali perché con il voto ricevuto hanno anche l’obbligo di rispettare il programma politico attraverso il quale hanno ricevuto il consenso elettorale. Quasi che il programma debba essere immune da ripensamenti della maggioranza degli elettori-contribuenti. Ovvero, mi hai votato, non hai il diritto di ripensarci, perché è più importante il “mio” programma che la volontà della maggioranza dei cittadini.

Di amenità in amenità si trovano gli imbecillis che paventano l’uso compulsivo dei referendum, quando in realtà la loro funzione è primariamente deterrente. Infatti i rappresentanti inseguono ossessivamente la rielezione. Domanda: che chance avrebbero se i cittadini bocciassero le loro leggi o delibere? Conseguentemente il rappresentante sarebbe indotto a verificare attentamente se quella legge o delibera è veramente in sintonia con la popolazione che pretende di rappresentare. Di qui la deterrenza. Svizzera docet.

Ancora sanciscono l’applicazione di inutili quorum che nel cosiddetto Occidente non esistono. Quorum che è inesistente per le elezioni amministrative come per quelle politiche. Esse, infatti, sono valide anche se a votare si recassero solo tre elettori. Ma il ridicolo (per non definirlo furto di democrazia) si raggiunge dove esiste il referendum “consultivo”, al quale si aggiungono normative come la seguente: «L’esito referendario non può impegnare direttamente l’Amministrazione, la quale ha comunque sempre il dovere di valutare le ragioni di pubblico interesse e le connesse implicazioni economico finanziarie in ordine alla eventuale adozione o revoca di atti, non potendosi trasferire e riassorbire nella espressione della volontà popolare, la discrezionalità e la responsabilità connesse alle funzioni proprie ed esclusive dell’amministrazione pubblica.» (1) O ancora in un altro Statuto dove il referendum “consultivo” non appare, ma ci si preoccupa di statuire: «Il mancato recepimento delle indicazioni approvate dai cittadini nella consultazione referendaria deve essere adeguatamente motivato e deliberato dalla maggioranza assoluta dei consiglieri comunali.» che è un modo surrettizio di reintrodurre il “consultivo”.(2)

Su questa lunghezza d’onda potremmo continuare sino a scrivere un libro. Analogamente potremmo dissertare infinitamente sull’ossessiva ricerca di unità tra le varie forze indipendentiste. Cosa quantomeno discutibile considerato che la storia dell’indipendentismo nel mondo è costellata di frazionismi e distinguo. Oppure della maniacale ricerca di un leader, ignorando bellamente che un vero leader non cerca consensi, li plasma.

Insomma se l’indipendentismo veneto – e non solo quello – vorrà decidere cosa fare da grande, innanzi tutto dovrà abbandonare le persone che parlano per slogan, e cominciare a valorizzare coloro che prospettano in quale nuovo assetto istituzionale si vuole condurre l’autodeterminazione.

Spesso alcuni pseudo leader si riempiono la bocca di promesse che materializzeranno un sistema federale di tipo svizzero, ma costoro, come tutti i politici, non debbono essere valutati per quello che dicono, bensì per quello che fanno. Ed alcuni di essi, quando sono stati eletti pubblici amministratori, perché sedicenti federalisti, di ciò non hanno fatto nulla.

Luigi Einaudi (“Il buongoverno, Via il prefetto”, p. 53, Edizioni Laterza, Bari, 1955), scriveva: «Gli svizzeri sanno che la democrazia comincia dal Comune, che è cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro Consiglieri o Sindaci o Presidenti o Borgomastri, ma da sé, senza intervento e tutela e comando di gente posta fuori dal Comune od a questo sovrapposta, se lo amministrano, se lo mandano in malora o lo fanno prosperare. L’autogoverno continua nel Cantone, il quale è un vero Stato, il quale da sé si fa le sue leggi, se le vota nel suo Parlamento e le applica per mezzo dei suoi Consiglieri di stato, senza ottenere approvazione da Berna…»

* * *

NOTE:

(1) ART. 67 – EFFETTI DEL REFERENDUM, Comma 3, dello Statuto del Comune di Santa Lucia di Piave (TV).
(2) ART. 37 – Referendum, Comma 8, dello Statuto del Comune Costabissara (VI)
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Re: Coała xeła l'etega de l'endependenteixmo veneto?

Messaggioda Berto » sab dic 10, 2016 5:39 pm

Secedere si può, mancano gli indipendentisti!
10 Dec 2016
http://www.lindipendenzanuova.com/seced ... dentisti-2

Alessandro Vitale, antico allievo del professor Gianfranco Miglio, osserva «Quando una comunità storica ha il diritto di andarsene?» (Vedi Quaderni Padani n. 4 [marzo-aprile] 1996) «Il diritto di “andarsene” è una forma di resistenza che deve essere adottata da una singola parte del territorio di uno Stato, quando questa parte, accortasi della tirannide dei detentori del potere politico, non trova negli altri membri dello Stato la disponibilità a prendere misure comuni.»

Già da questo semplice passo è messa in luce la scarsa o nulla credibilità di una classe politica che pretende d’essere eletta (nel nostro caso alla Regione Veneto), per indire un referendum per l’indipendenza. Infatti, la Corte costituzionale di quello Stato di cui la Regione è emanazione, ha già sentenziato in merito. Non è quindi attraverso le istituzioni statali italiane che si otterrà il diritto di “andarsene”. Del resto la Lega Nord, con la sua storia, è la dimostrazione del fatto che “dal di dentro” dello Stato italiano non ha mai ottenuto nulla di quello che predicava. Oggi, poi, per sola brama di “careghe” la Lega Nord s’è trasformata addirittura in un partito nazionalista del “Belpaese”.

Ed anche a dar buona l’ipotesi di un referendum non è detto che vincerebbero gli indipendentisti, infatti che informazione presso l’opinione pubblica hanno fatto sinora? Attraverso quale innovativo progetto istituzionale porterebbero il popolo veneto in un nuovo “paradiso”? Eppoi quale sarebbe il programma di governo? Questi nuovi delegati che esperienza possono vantare? Qual è la loro formazione? Come possiamo valutare le loro migliori competenze? Come riusciranno a farsi riconoscere come buoni amministratori e non come “i soliti politicanti”?

Daniel J. Elazar (Idee e forme del federalismo – Milano – Mondadori, 1998) osserva che, nei sistemi politici federali, «La non centralizzazione assicura che, a prescindere dal modo in cui certi poteri possano essere condivisi dai governi generale e costitutivi, il diritto di “andarsene” nel momento in cui il consenso svanisce, emerge il diritto di secessione».

Anche qui, che consenso hanno avuto i tre ultimi governi italiani mai legittimati dal cosiddetto popolo ‘sovrano’? Di più: che legittimità hanno mai avuto tutti i governi repubblicani se la stessa Costituzione del 1948 non è mai stata votata dallo stesso popolo ‘sovrano’? [qui un nutrito elenco, non esaustivo, di Costituzioni volute e votate dal popolo http://www.miglioverde.eu/costituzioni- ... -il-mondo/ ] Che strumenti hanno i cittadini di questa penisola per influire su un esecutivo che non gode più del consenso generale? La centralizzazione dell’attuale Stato italiano non è forse il contrario di quelle presunte riforme federaliste che il Parlamento ha preteso e/o pretende di emanare? E quando gli indipendentisti veneti parlano di federalismo, di quale si tratta? Come valutarlo se non c’è nemmeno una bozza per un nuovo patto federale da consultare?

Con citazioni e considerazioni di questo genere potremmo continuare, e fatta salva la legittimità ad “andarsene”, perché il governo non risponde più alle esigenze dei cittadini, o di una parte si essi, che credibilità politica hanno quei sedicenti indipendentisti che hanno concorso alle elezioni del 2015 per andare a governare in un Ente subordinato a quello Stato che a parole vogliono abbandonare? Come concedere credibilità a quei politicanti che continuano a propagandare similitudini con la situazione di Scozia e Catalogna che secondo alcuni studiosi non esiste. Si veda qui [http://www.lalligatore.com/la-stagione-dellindipendenza-tra-scozia-e-catalogna/ ] la loro opinione.

Dopo un lungo excursus su i due esempi, per osservare i meccanismi giuridici e politici alla base delle esperienze indipendentiste, tale studio conclude che i due percorsi costituzionali sono antitetici, anche se da essi è possibile ricavare diversi insegnamenti. Volendo infatti spostare lo sguardo sull’ordinamento italiano, sarebbe ipocrita ritenere che questo sia immune da tali questioni. La secessione, poi, è giusta non in base a una rivendicazione priva di ragioni, ma in seguito alla decisione razionale – nel nostro caso dei veneti – di prendere su di sé il fardello di autogovernarsi.

Le considerazioni qui svolte hanno un grande peso nella determinazione dei rapporti che devono intercorrere tra il cittadino e le istituzioni politiche. Affermare che quello ha dei diritti, significa anche riconoscere che queste hanno dei limiti. D’altra parte, non ha alcun senso né pare ragionevole scagliarsi contro gli antichi sovrani “per diritto divino” e poi riconoscere ai moderni parlamenti poteri ancora superiori, solo perché legittimati dal voto.

Orbene cosa hanno fatto i sedicenti indipendentisti alla Regione Veneto? Ci hanno forse messo a disposizione degli istituti di partecipazione popolare degni di questo nome? No! Al contrario, non hanno ancora risposto a due Petizioni [https://piudemocraziavenezia.wordpress.com/2015/11/20/consegnate-le-petizioni-alla-regione-veneto-per-la-democrazia-diretta/ ] recentemente depositate da numerosi Comitati ed associazioni civili attivatesi a questo scopo. Eppure «I popoli liberi e meglio ordinati – scriveva Miglio concludendo il proprio saggio sulla Disobbedienza civile – sono quelli che si permettono ogni tanto di ribellarsi: che non temono di impugnare le decisioni del loro governo, ma che tornano poi ogni volta a rifondare, con più solida persuasione, l’ordinamento in cui vivono.»

Dobbiamo allora chiedere scusa per tutti quelli che da secoli han quozienti d’intelligenza inferiori alle loro intelligenze, e non riescono nemmeno a pentirsi delle loro ignoranze? Chiediamo scusa anche a coloro che non riescono a dimostrare che il processo di identificazione tra cittadino e l’attuale classe dirigente non esiste? Per esempio, come si conciliano i circa 104mila voti dati alle formazioni sedicenti indipendentiste venete alle regionali del 2015, che sono un’inezia, se raffrontato al 55% del corpo elettorale che secondo i sondaggi [vedi qui: http://www.demos.it/a00970.php ] si dichiara favorevole all’indipendenza del Veneto? Non è forse il giudizio elettorale a dimostrare la loro inadeguatezza?

Arriviamo così alla questione chiave: la “disobbedienza civile”, che indica un comportamento volto a disattendere un obbligo che invece si sarebbe tenuti a rispettare. «Questo comportamento – scriveva Gianfranco Miglio – non contesta la procedura con cui l’obbligo è stato stabilito, ma rifiuta il contenuto dell’obbligo stesso, e vuole mostrare a chi comanda la concreta possibilità di perdere il potere: vuole far capire che l’obbedienza passiva non è virtù di uomini liberi. Disobbedire a un ordine ingiusto, anzi, non è soltanto un atto legittimo, ma addirittura un dovere morale. D’altra parte, la disobbedienza implica una condotta pacifica e non violenta: rappresenta una sfida e una rivendicazione, dunque, piuttosto che una dichiarazione di guerra. Tale aspetto è ribadito e rafforzato dall’aggettivo “civile”: il quale “colloca il comportamento nella sfera delle prerogative del cittadino”. In altre parole, si vuole chiarire che qui la disobbedienza è soltanto espressione del diritto, posseduto da ogni individuo, di partecipare alla statuizione degli obblighi giuridici che lo riguardano».

Ora come possiamo affidarci a persone che hanno – al momento dell’insediamento in Regione Veneto – giurato fedeltà a quella Costituzione italiana mai votata dal popolo ‘sovrano’?

Intervistato su questo tema da Carlo Stagnaro (“Miglio: lo Stato moderno è superato”, 4 luglio 2000) Gianfranco Miglio affermò che lo Stato moderno non è solo inefficiente e immorale, ma anche superato: «Lo Stato moderno è in pieno declino. Il nostro compito è saper riprendere la tradizione autentica dell’Europa delle città, dell’Europa del periodo anseatico… si trattava di città indipendenti che facevano capo al Sacro Romano Impero soltanto per dirimere conflitti tra di loro. L’Europa dell’avvenire non è l’Europa dello Stato moderno, che ha prodotto le guerre spaventose del nostro secolo. Tutto questo è da dimenticare».

Secondo l’intera dottrina politica occidentale, il diritto di resistenza sorge quando un governo assume atteggiamenti tirannici verso i propri cittadini. Esso può addirittura divenire diritto alla resistenza armata – all’insurrezione – se non vi è altra via per eliminare l’oppressione cui il popolo è sottoposto. «In tutti gli ordinamenti “liberi” – scriveva Miglio – viene generalmente riconosciuto il diritto dei cittadini a “resistere” a una costrizione illegittima. Ma questo “diritto di resistenza” – che si trasforma presto in “diritto di insorgere” – è giustificato soltanto nei confronti di una autorità tirannica, verso detentori del potere che non riconoscano ai cittadini (trasformati in sudditi) le garanzie e le prerogative rispettate invece negli altri paesi civili: e che tale comportamento iniquo assumano originariamente oppure violando i patti conclusi e sospendendo l’ordinamento vigente.»

Il comportamento iniquo è dimostrato dall’inferno fiscale in cui siamo precipitati, dagli assurdi privilegi della “Casta” cui fa fronte un debito pubblico in costante ascesa, dall’inefficienza di quasi tutti i servizi per cui uno Stato pretende d’esistere. Piuttosto, le domande che bisogna porsi sono più stringenti e più profonde: «Quando i cittadini sono moralmente giustificati a violare o a resistere con tutti e ciascuno i mezzi necessari, alle leggi del proprio paese? Quando l’intero governo – e non semplicemente questa o quella legge in particolare – diviene tirannico e illegittimo?» Così formula il problema Jeff Snyder in “Nation of Cowards. Essays on the Ethics of Gun Control, Lonedell”, MO: Accurate Press, 2001 –,

Non sono dunque le argomentazioni, le giustificazioni, e la necessità che mancano a chi vuole l’indipendenza di un popolo e di un territorio. Piuttosto a mancare sono gli autentici indipendentisti; coloro che riusciranno a prefigurare un nuovo “patto sociale”, magari attingendo all’opera del professore lombardo raccolta nella collana di scienza della politica “Arcana imperii”.
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Re: Coała xeła l'etega de l'endependenteixmo veneto?

Messaggioda Berto » mar gen 17, 2017 9:25 am

IN ITALIA NON SI CAMBIA IL REGIME ENTRANDO NELLE ISTITUZIONI
17 Jan 2017
di ENZO TRENTIN
http://www.lindipendenzanuova.com/in-it ... stituzioni

L’unico che ci riuscì fu Benito Mussolini. Aveva una sua idea di Stato, anche se fu costretto a “plasmarla” vai via nel tempo. Conquistò dapprima alcuni seggi parlamentari, poi anche con l’uso della forza trasformò le istituzioni. La chiamò: rivoluzione fascista. La Repubblica che nasce con il referendum del 2 giugno 1946, e che si dota di una nuova costituzione nel 1948, è un’imposizione degli Alleati che vinsero la II GM. Con questa repubblica nata dalla Resistenza per essere “occupata” della partitocrazia, non è possibile.

All’incirca negli ultimi tre decenni alcuni soggetti hanno provato a cambiare il volto della politica italiana, ma senza riuscirvi. Qui per brevità prenderemo in esame solo tre soggetti. Il primo di questi era un perfetto sconosciuto, per di più rozzo: Umberto Bossi. Dapprima nessuno lo prese in considerazione; tuttavia il suo triviale linguaggio arrivò ad una parte dell’elettorato. In principio fu premiato con alcune decine di Consiglieri comunali sparsi qua e là, poi arrivò in Parlamento con una rappresentanza esigua, e via via più consistente.

In seguito, sulla scia della visibilità acquistata come giudice del pool “Mani Pulite”, anche Antonio di Pietro ottenne una rappresentanza locale e poi nazionale. Mentre l’ultimo in ordine di tempo è Beppe Grillo; “megafono” e assieme volto noto grazie alla sua professione e al taglio di alcuni suoi spettacoli, del suo più “defilato” mentore: il fu Gianroberto Casaleggio. Anche qui in principio fu premiato con alcune decine di Consiglieri comunali sparsi qua e là, poi arrivò in Parlamento con una consistente rappresentanza.

Tutti: Lega Nord, Italia dei Valori, Movimento cinque Stelle, hanno ottenuto il consenso dell’elettorato grazie alle loro promesse di rivoluzionare le istituzioni italiane. Abbiamo visto com’è andata a finire. La LN da partito “nordista” è diventata nazionalista. Collabora con la francese Marine Le Pen, Presidente del Fronte Nazionale. Il M5* sta probabilmente iniziando la sua fase declinante anche grazie alla gaffe materializzata nell’UE dove gli è stato rifiutato il cambio di gruppo parlamentare, per non parlare della storia infinita del Sindaco di Roma: Virginia Raggi. Il sistema politico italiano è così una sommatoria. Un impasto di cooptazione, corruzione e conflitti d’interessi volutamente ignorati e mai risolti.

Quegli indipendentisti veneti che credono alla via istituzionale per mezzo di leggi regionali sulle minoranze etniche, e su referendum consultivi, e quant’altro affine, sembrano ignorare del tutto la storia. Danno l’impressione d’essere inconsapevoli di giocare con gli strumenti (truccati) di un soggetto che nella sua storia ha sempre cambiato le carte in tavola. In realtà sono “accecati” da alcuni pseudo leader sedicenti indipendentisti, ma lautamente compensati dallo Stato italiano, e che pertanto non dovrebbero raccogliere gran credito, soprattutto perché se si ottenesse ora l’indipendenza, sarebbero loro a occupare i ruoli più importanti del nuovo soggetto istituzionale, perché i soli che oggi possono vantare un’esperienza istituzionale.

Gli indipendentisti veneti ignorano anche la capacità di subornazione. E quando si parla di subornazione, è importante tenere a mente che si parla di una corruzione studiata: il subornato viene montato, con la prospettazione più o meno esplicita di un vantaggio, a compiere atti contrari a quello che sarebbe il proprio dovere. Basta costatare come iniziano ad apparire interventi giornalistici a favore del referendum consultivo per l’autonomia, segno evidente che il potere politico-economico che detiene i mezzi d’informazione ha scelto la “lunga via” dell’autonomia al rischio dello strappo derivante dall’indipendenza. E per costatare quanto lunga sia questa via, basta guardare proprio alla storia di quell’autonomia dell’Alto Adige che è sbandierata ad ogni occasione dagli Zio Tom dell’indipendentismo veneto.

Invece, il dovere di un sincero indipendentista dovrebbe essere quello di prefigurare le nuove istituzioni in cui vorrebbe vivere, non nel modificare quelle altrui. Scriveva Antoine De Saint-Exupéry: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito.» Gli indipendentisti veneti non dovrebbero raccogliere uomini e talenti per cambiare uno Stato italiano mal costruito sin dall’inizio ed irriformabile; ma prospettare la bellezza del mare infinito in cui vogliono far navigare in libertà e prosperità il popolo veneto.
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Re: Coała xeła l'etega de l'endependenteixmo veneto?

Messaggioda Berto » mar feb 28, 2017 10:22 am

INDIPENDENZA? LA NOSTRA UNICA ABILITÀ DEV’ESSERE QUELLA DI RIUSCIRE A CAMBIARE
28 Feb 2017
ENZO TRENTIN

http://www.lindipendenzanuova.com/indip ... a-cambiare

Ci sono articoli che prendono spunto da altri. In questo caso l’elemento promotore è una frase che Marcello Ricci ha recentemente scritto in un intervento apparso in questo giornale: «La moderazione è propria di stili di vita, nel mangiare, nel bere o altro. Non ha senso essere “moderati” nel rivendicare la propria libertà, nel reclamare l’indipendenza. La Lombardia e il Veneto hanno la voglia di affrancarsi dal dominio di Roma, ma nonostante il diffuso e profondo sentimento non riescono ad andare oltre il placebo referendario. È per moderazione? La libertà non la si conquista con sentimenti tiepidi…».

Confermo! Anche dal mio punto di vista nel lombardo-veneto ci sono tra la popolazione diffusi sentimenti di insoddisfazione; di disaffezione; di voglia di cambiamento. Tra i tanti mali dell’Italia di un tempo c’era il partito unico; oggi c’è la congrega di una partitocrazia rissosa, inconcludente, corrotta e corruttibile; completamente avulsa dal perseguimento del cosiddetto “bene comune”. E, purtroppo, in questo discredito generale dei partiti, alcuni sovranisti non vanno oltre la prefigurazione dell’ennesimo partito; sia pure in salsa indipendentista!

Sull’indipendenza non c’è tuttavia un’informazione diffusa, credibile, “spendibile”. Oltre a questo periodico on line ce n’è un altro, e niente più. Ma ambedue non hanno un considerevole numero di lettori. Uno dei due poi è anche – comprensibilmente – a pagamento, ed io conosco indipendentisti che rifiutano di abbonarsi a 25 € l’anno. A prescindere da ciò, l’argomento indipendenza è oggettivamente ghettizzato. Ovvero, ci leggiamo tra di noi. Se alcuni appaiono nelle TV private sono quasi sempre gli indipendentisti a fare da telespettatori. E costoro non hanno certo bisogno di essere persuasi. Si riducono a tifare.

Ha ragione Marcello Ricci laddove scrive che la moderazione non basta; che non ha senso essere “moderati” nel rivendicare la propria libertà, nel reclamare l’indipendenza. Dunque non c’è da dare molto credito ai sedicenti leader dei partiti indipendentisti, poiché essi predicano la moderazione e reclamano il voto per entrare nelle istituzioni italiane (profumatamente pagati), per chiedere… “il placebo referendario”. Marcello Ricci Ipse dixit.

È fuorviante, se non peggio, rivendicare a propria giustificazione i comportamenti degli scozzesi e dei catalani. In primo luogo perché costoro hanno dei Parlamenti le cui competenze fanno impallidire i Parlamentini delle nostre Regioni. Eppoi c’è un’etica sconosciuta da noi. Per esempio, Alex Salmond quando perse per un pelo il referendum sull’indipendenza scozzese, il 19 settembre 2014 annunciò che non avrebbe corso per la riconferma come leader del Partito nazionale scozzese.

Qui nel profondo nord si dà vita ad un nuovo soggetto politico e lo si cavalca. E nel lombardo-veneto abbiamo pseudo leader che spaccano il partito per le poltrone, per la formazione di correnti, per bullismi, rancori, rivincite e vendette. Viene formato un nuovo soggetto in competizione con il precedente, e tutti questi pseudo partiti indipendentisti sono funzionali ad alcuni solo per poter continuare a “mettere il cappello” sulla nuova aggregazione. Perché lo fanno? Al di la’ dell’ambizione personale di pochi (cosa in certa misura accettabile) lo fanno per poter essere in cima alla lista delle elezioni. Vogliono assidere sullo scranno per fare questo e quello; ma le percentuali di voto che raccolgono sono da prefisso telefonico, perché il retro-pensiero dell’elettore è: «costoro vogliono accaparrarsi le prebende e i privilegi che la politica del “bel paese” elargisce in barba a qualsiasi crisi.»

C’è da crederci considerando che quando i “rappresentanti” sedicenti indipendentisti manifestano solidarietà ai catalani, si guardano bene dall’assumere quelle deliberazioni che hanno portato Carme Forcadell, Artur Mas, Carles Puigdemont ed altri membri del Parlament de Catalunya, davanti alle Corti di giustizia spagnole per “disobbedienza” e “abuso di potere”, dove come minimo rischiano l’interdizione dai pubblici uffici.

Nelle Regioni Lombardia e Veneto, nessuno si sogna di rischiare nulla. Solo belle parole, solidarietà e poco altro. Si gabellano “Risoluzioni” (che sono “raccomandazioni” e “pareri”) per importanti atti deliberativi. Tutto questo è il risultato di una proposta per l’indipendenza priva di un progetto istituzionale innovativo, e soprattutto concertato a priori. Non si approda a nulla e, peggio, si rimanda ad un imprecisato futuro. Del resto in Veneto, il Consiglio regionale presieduto da Luca Zaia, nemmeno prende in esame le petizioni popolari tese ad ottenere strumenti di democrazia diretta.
Si veda qui:
https://piudemocraziavenezia.wordpress. ... ia-diretta

Lo sanno bene quei militanti di partito che allestiscono gazebo per raccogliere firme per questa o quella causa; oppure per distribuire volantini, vendere bandiere, gadget et similia. Perché l’uomo qualunque risponde più o meno in questo modo: «Sì sarebbe bello; ma dopo che anche voi sarete entrati nella stanza dei bottoni vi comporterete alla stessa maniera.» Infatti che alternativa gli si prospetta? Nessuna!

È vero che negli anni scorsi ci sono stati personaggi che hanno battuto il territorio per tenere diverse conferenze e incontri. Bisogna prendere atto che molte volte le sale erano piene di pubblico. Ma si trattava in prevalenza di militanti di partito delusi delle proprie esperienze, e speranzosi di poter cooperare con un organismo più aderente alle loro aspettative. Ciò nonostante nessun soggetto politico importante è emerso, e quando costoro si sono presentati alle elezioni, malgrado le auto-assoluzioni e l’auto-compiacimento per il risultato comunque ottenuto, non sono mai stati premiati da un sistema italiano chiuso, e dove per entrare si debbono superare infiniti ostacoli.

Alle platee di cui sopra è stata ammannita l’interpretazione di questa o quella legge, di questo o quel diritto. Mai si è scesi a dimostrare in base a quali rivoluzionarie normative l’indipendenza agognata sarebbe migliore del presente. Oppure in base a cosa il cittadino lavoratore, l’imprenditore, il pensionato, la massaia sarebbero vissuti meglio. Al massimo si è gabellata l’idea del residuo fiscale – una frottola che ancor oggi qualcuno continua a raccontare – che certamente esiste, ma per conservare il quale si dovrebbe mantenere la stessa persecutoria imposizione fiscale, che notoriamente non favorisce il rilancio dell’economia. Men che meno si è pensato ad imitare, per esempio, il britannico “governo ombra” per poter dire all’universo mondo: «Vedete? Questo è quello che produce la partitocrazia italiana. Se noi avessimo l’indipendenza, con le sue nuove regole il problema sarebbe risolto in quest’altra maniera.»

Insomma senza farla tanto lunga, poiché non è la prima volta che mi soffermo su questo tema, i vantaggi di un progetto istituzionale innovativo, e concertato a priori, possono essere così evidenziati:

Un coinvolgere la cosiddetta Intelligencija. Ci sono numerosi ed apprezzabili studiosi; ma nessuno ha ancora trovato la forza e la formula per riunirli in una specie di “costituente” che abbozzi un progetto. C’è necessità di un’Intelligencija che operi attivamente per l’indipendentismo, perché, come scriveva José Ortega y Gasset [La ribellione delle masse]: «…la storia, il progresso, si attuano ad opera delle minoranze. Se vi deve essere un rinnovamento, dunque, questo deve avvenire ad opera dei migliori, che vanno, comunque, reclutati in maniera liberal-democratica.»
I politici dovrebbero assumere posizioni più defilate, meno competitive e più collaborative con la predetta Intelligencija, almeno nella fase iniziale. Ciò non toglie che i cittadini possano scegliere i propri rappresentanti. Il problema è che questi ultimi debbono rimanere dei “delegati”, ed essere pertanto sempre controbilanciati dalla cosiddetta sovranità popolare per mezzo degli strumenti della democrazia diretta: istanze, petizioni, referendum, iniziativa di leggi e delibere, revoca degli eletti laddove ricorrano determinate condizioni.
In questo scenario verrà comunque fuori una minoranza eletta. Vi dovrebbero appartenere persone che continuamente si sforzano di uscire dal coro e diventare attori protagonisti, qualunque sia il loro ceto e il loro censo.
Una volta in possesso di una bozza di progetto istituzionale, si usi quella per una capillare azione informativa e di “conquista dei cuori e delle menti” della popolazione lombardo-veneta. Alla massa dei cittadini si deve far comprendere che se può godere di certi vantaggi ciò è dovuto al progresso: ma per progredire ci vogliono sforzi, ci vuole l’opera di singoli individui, usciti dal coro, diventati attori protagonisti.
Dimostrare con la bozza di progetto istituzionale alla mano, che veramente si realizzerà un cambiamento. E dev’essere qualcosa che assomigli a quanto Buckminster Fuller sosteneva: «Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta.»
In questa prospettiva la politica richiede mediazione e ragionamento, mentre l’uomo-massa concepisce la politica solo come azione diretta. Non rispetta, cioè, chi discute, non è disposto a mettere in gioco le proprie idee. La politica invece richiede mediazione e ragionamento, e disposizione a mettere in gioco le proprie idee. Sbaglia, quindi, chi pensa che lo Stato possa risolvere tutti i problemi, e l’individuo-massa sbaglia se pensa di continuare a rilasciare “deleghe in bianco”.

Sarebbe quindi auspicabile che la bozza di progetto istituzionale facesse proprie, tra l’altro, le indicazioni di Pierre–Joseph Proudhon: «Affinché il contratto politico rispetti la condizione sinallagmatica e commutativa suggerita dall’idea di democrazia [perché, in parole povere, sia vantaggioso ed utile per tutti. Ndr], bisogna che il cittadino, entrando nell’associazione:

abbia tanto da ricevere dallo Stato [da preferirsi la definizione: «governo», che è un’altra cosa. Ndr.] quanto ad esso sacrifica;
che conservi tutta la propria libertà, sovranità ed iniziativa, meno ciò che è la parte relativa all’oggetto speciale per il quale il contratto è stipulato e per il quale chiede la garanzia allo Stato. Così regolato ed inteso il contratto politico è ciò che io chiamo una federazione.»



INFINE C’È LA SOGGETTIVITÀ GIURIDICA NEL DIRITTO INTERNAZIONALE



Nel diritto internazionale per soggettività giuridica s’intende l’astratta attitudine di un ente a diventare titolare di diritti e obblighi previsti dalle norme di diritto Internazionale: ciò si verifica quasi automaticamente non per effetto di una norma (come nel diritto interno), ma in quanto uno Stato-[«governo»] afferma la sua effettiva autonomia e indipendenza, cioè il suo potere sovrano. Cosa che dovrebbe essere più agevole con il consenso popolare derivante dall’accettazione di una bozza di nuovo assetto istituzionale quale conditio sine qua non per la secessione. L’Italia non darà l’autonomia al lombardo-veneto, figuriamoci l’indipendenza.

Per lungo tempo tale capacità di autonomia e indipendenza è stata attribuita esclusivamente allo Stato, ovvero a quella forma di organizzazione politica realizzatasi compiutamente nel 1648, anno del Trattato di Westphalia che segnò il definitivo tramonto di Impero e Papato che erano al vertice della cosiddetta «Res publica christiana». Ma oggi si può benissimo invocare la cosiddetta “sovranità popolare” che si esprime nell’accettazione di un nuovo “patto sociale”, codificato ed accettato – eventualmente per mezzo di un referendum – con un nuovo progetto istituzionale.

Convinciamoci del fatto che viviamo in un mondo meraviglioso e pieno di bellezza, fascino e avventura. Non c’è fine alle avventure che possiamo avere se solo le cerchiamo con gli occhi aperti.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Coała xeła l'etega de l'endependenteixmo veneto?

Messaggioda Berto » mer apr 05, 2017 9:00 pm

L’IDEA INDIPENDENTISTA PER CRESCERE HA NECESSITÀ DI FORNIRE RISPOSTE CHIARE
5 Apr 2017
ENZO TRENTIN

http://www.lindipendenzanuova.com/lidea ... ste-chiare

C’è un mondo indipendentista che poggia le proprie rivendicazioni sui princìpi fondanti dell’ONU, ma ignora che alle belle parole non sempre seguono i fatti. Se ciò avvenisse non avremmo, per esempio, il popolo sahrawi che vive in esilio in campi profughi malgrado abbia tutte le risoluzioni ONU a favore della sua indipendenza. Ne ho scritto qui: http://www.lindipendenzanuova.com/lindi ... -miraggio/ ; né ci sarebbero i palestinesi che vivono in quella sorta di campo di concentramento che è Gaza, il cui territorio è impunemente e costantemente eroso dagli insediamenti di coloni israeliani.

Altri indipendentisti reclamano l’attuazione del dettato di vari Trattati internazionali fatti propri dalla legislazione italiana, per rivendicare la propria autodeterminazione, e nel far ciò fanno ricorso alla La Corte europea dei diritti dell’uomo ignorando il pensiero di Bartolo di Sassoferrato. Una celebrità solo per i cultori della storia del diritto beninteso, che ciò nonostante tutti dovrebbero conoscere almeno in questa sua coraggiosa confessione che cito a memoria: «Ogni volta che mi si propone un problema giuridico, prima sento quale deve essere la soluzione, poi cerco le ragioni tecniche per sostenerla». E se questo era vero per un simile luminare, figurarsi per il magistrato qualunque. Dunque aspettarsi dal giudice un giudizio asettico, pressoché meccanico, come una macchina in cui si infila il fatto e viene sputata fuori la sentenza, è del tutto fuori luogo. Il diritto cerca di mettere ordine e razionalità nelle vicende, tipizzandole in quadri astratti, ma poi in concreto quel diritto viene maneggiato da un essere umano, con la sua cultura (o incultura), la sua affettività, i suoi principi e, perché no? i suoi pregiudizi. Si spiega così che la parola “sentenza” si ricolleghi a “sentire”, cioè alla stessa radice di “sentimento”, non a “sapere”.

bartoloAltri indipendentisti, ancora, rivendicano il diritto a…, ignorando che un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto.

Riproposte ancora una volta queste premesse, debbo affermare che generalmente evito d’invischiarmi in polemiche di sorta, e specialmente nelle discussioni che si accendono in Facebook. Tuttavia, in deroga a questa mia regola, prendendo atto che c’è stato un approfondimento che ha ricevuto decine di condivisioni, centinaia di “mi piace”, e circa 150 interventi, ho apportato il contributo che qui sotto propongo alla riflessione della più vasta platea dei lettori di questo quotidiano per alimentare la discussione:

Barbara Benini: 2 aprile 2017 – ore 12,45 https://www.facebook.com/barbara.benini ... 2191160390

Da un sondaggio in VENETO risulta che l’11% vorrebbe l’INDIPENDENZA, oltre il 70% sceglierebbe AUTONOMIA… Dalla mia esperienza personale risulta che almeno 4 su 5 non conoscono la differenza tra i due termini… il che significa che se “si prepara” una CORRETTA INFORMAZIONE, con un progetto serio e fattibile, il dato potrebbe anche triplicare… Se riusciamo ad organizzarci come “si deve”, lavorando in tanti, costantemente costruttivamente, uomini e donne di qualsiasi estrazione sociale – o politica -, (che rappresentano diverse categorie di persone e tutte dovrebbero essere coinvolte)

Se vogliamo provare… considerando che l’invasione selvaggia e le rapine quotidiane da parte dello stato italiano attraverso tasse e accise e leggi assurde non si fermeranno… Auspico che si crei una squadra FORTE per le prossime regionali 2020. Così da poter fare il famoso referendum popolare su un AUTOGOVERNO.

Trentin: PREMESSO CHE SPERO DI NON DOVERMI PENTIRE D’ESSERE INTERVENUTO IN QUESTO POST CON INTENTO COSTRUTTIVO… Barbara Benini, ha aperto la discussione sollecitando la formazione di un organismo collaborativo che dia corpo ad un “progetto per l’indipendenza”.

Scorrendo i vari interventi ho tratto la sensazione che ci sia una ridondanza di significati e di visioni risolutive. Per esempio: Barbara Benini afferma che ci vuole una corretta informazione, e che non c’è molto tempo da qui al 2020 (anno di elezioni regionali in Veneto) per preparare un “progetto indipendentista”.

L’interpretazione che ho dato io è che si voglia un “progetto” per concorrere alle elezioni regionali (cosa più che lecita), che tuttavia è cosa diversa da un “progetto che indichi QUALE indipendenza”. Ovverosia: quali vantaggi avranno i veneti dall’autodeterminazione?

Uno Stato indipendente del Veneto dovrà assolvere a molti compiti. Come saranno svolti tali compiti per il cosiddetto “bene comune” che giustifichi un miglioramento della situazione attuale, e quindi il voto a favore di chi vorrà candidarsi alla guida dell’autodeterminazione?

Faccio un solo esempio, tra i tanti possibili:

1. Il Veneto ha 1.293.133 di pensionati, su una popolazione di 4.937.854 abitanti.
2. Le pensioni erogate sono 1.809.632.
3. I pensionati sono il 26,2% della popolazione della regione.

LE PENSIONI ITALIANE SONO TASSATE CENTO VOLTE QUELLE TEDESCHE (di Roberto Reale – testo in https://www.facebook.com/groups/1011216088931339/)

2.4.2017 – Secondo uno studio della Confesercenti, le tasse sulle pensioni in Italia sono follemente più alte che nel resto d’Europa: su una pensione di 1.500 euro lordi (tre volte il minimo, circa 20 mila euro all’anno) si pagano in Italia 4.000 euro di imposte contro 39 euro in Germania (cento volte di meno!!), 1.900 in Spagna, 1.400 in Gran Bretagna e 1.000 in Francia. E in quattro Paesi – Ungheria, Slovacchia, Bulgaria e Lituania – le pensioni sono addirittura esenti da tasse. Lo studio ha effettuato simulazioni su due tipologie di assegni (applicabili a 16,5 milioni di pensionati italiani): 1,5 volte il minimo (750 euro lordi al mese) e 3 volte il minimo (1.500 euro lordi al mese). Sono stati presi in considerazione pensionati fra 65 e 75 anni senza carichi di famiglia, residenti a Roma (con relative addizionali regionali e comunali). Un pensionato italiano che prende 750 euro al mese è l’unico a pagare le tasse (il 9,17%), mentre un “collega” francese, tedesco, spagnolo e inglese non paga nulla. Chi prende 1.500 euro al mese, in Italia paga comunque il doppio (20,73%) di imposte rispetto alla Spagna (9,5%), il triplo rispetto al Regno Unito (7,2%) e il quadruplo rispetto alla Francia (5,2%). In Germania la stessa fascia di reddito è praticamente esentasse (0,2%).

NATURALMENTE non saranno i Consiglieri regionali veneti (sedicenti indipendentisti) che potranno risolvere la questione delle pensioni. Ciò nonostante, convincere della bontà di un “progetto indipendentista” il 26,2% della popolazione veneta, non sarebbe cosa da perseguire sin d’ora? E trovata una soluzione a questo problema, come ad altri inerenti, non sarebbe cosa da perseguire sin d’ora per ottenere quella CORRETTA INFORMAZIONE che è oggetto degli auspici di Barbara Benini? S’intende che questa non vuole assolutamente essere una provocazione, bensì il suggerimento per una corretta impostazione del problema sollevato.

Benini: Certo, corretto l’esempio dell’INPS come ci sono altri temi importanti… io non sono economista e mi limito a “creare coscienza veneta”. Mi è stato riferito che l’INPS veneta è in utile per quanto si versa e si distribuisce attualmente. Di fatto si devono garantire almeno gli stessi servizi e trattamenti… il valore aggiunto lo troviamo subito dal disavanzo che il Veneto attualmente ha con Roma di circa 20 miliardi… pertanto si dovranno distribuire le risorse al sociale, potendo non tassare pensioni (già tassate all’epoca) e tutelare fasce più deboli… bisogna sicuramente sviluppare tutti i punti principali e adeguare a quanto giustamente debba essere… ovvio che vitalizi, doppie pensioni anche a due cifre non hanno senso, come le pensioni d’oro… riducendo solo le ultime voci si crea un disavanzo ulteriore… Urge un’assemblea costituente che valuti tutti i settori, impostando con onestà e logica tutto il sistema… è ovviamente un mio semplice pensiero dettato dalla logica dei fatti… grazie dei consigli, per me son sempre ben accetti se sono naturali giustificati e pertinenti

Trentin: I sondaggi che citi nella partenza di questa discussione sono da prendere con il beneficio d’inventario, perché tutti i sondaggi sono eterodiretti. Se, come dici, sono quelli forniti da Antonio Guadagnini & Co. NON possiamo ignorare il fatto che il predetto Consigliere regionale è sodale di Luca Zaia, il quale sproloquia di indipendenza del Veneto, ma opera per l’AUTONOMIA del Veneto.

Va bene laddove scrivi: «Urge un’assemblea costituente che valuti tutti i settori…»; ma chi la promuove? Chi sarà chiamato a farne parte? Quali titoli (non intendo solo i titoli accademici) dovrà avere per accedervi?

Un po’ carente mi sembra il discorso: «il Veneto attualmente ha con Roma di circa 20 miliardi…». Infatti per avere lo stesso residuo fiscale si dovrà mantenere la stessa persecutoria imposizione, e allora come avverrà il rilancio dell’economia?

Sul: «Mi è stato riferito che l’INPS veneta è in utile per quanto si versa e si distribuisce attualmente…», con l’indipendenza non credo potrà esistere un’INPS veneta. L’istituto rimarrà italiano, i soldi da esso incamerati, PURE. Secondo quali accordi pagherà le pensioni ai cittadini di un altro Stato? E l’equivalente veneto (indipendente) dell’INPS, opererà con le stesse norme di quello italiano? Oppure come sarà configurato? Quali garanzie offrirà? Che oneri richiederà? A carico di chi saranno tali oneri?

Ora una precisazione; e sia detta con tutto il rispetto: io non ho alcun interesse a dare “Consigli” a te o a chiunque altro. Il mio era il suggerimento che si dà a una discussione per risolvere i problemi connessi all’autodeterminazione. L’intento è di procurare un vantaggio competitivo alla causa indipendentista.

Coloro che hanno in animo di candidarsi a cariche pubbliche (e qui volutamente sorvolo sulla questione che sarebbe molto ampia), HANNO IL DOVERE di formulare proposte credibili a soluzione di OGNI ASPETTO riguardante l’indipendenza, perché è ora di smetterla di concedere la fiducia e il voto a seguito di promesse. TUTTI I POLITICI vanno giudicati per quello che fanno, non per quello che dicono.

Infine, laddove scrivi: «e mi limito a “creare coscienza veneta”…», per ottenere ciò è necessario usare un linguaggio che NON possa essere travisato o equivocato. Per creare tale coscienza è indispensabile fare INFORMAZIONE DOCUMENTABILE.

Benini: io faccio l’arredatrice e gestisco un’azienda, non ho mai fatto politica partitica e non so tutto (anzi ghe ne’ asse’ da saver, de tutto de più) e cerco di informarmi… quando posso, di fatto se l’INPS chiudesse domattina e saltasse tutto il sistema per intenderci, il Veneto dovrà arrangiarsi comunque, pertanto meglio studiare qualcosa già da ora. (che se è vero che c’è un disavanzo di 20 miliardi non vedo neanche grossi problemi, calcolando che ci sono “sprechi” anche in Veneto da tagliare). Per l’assemblea costituente si parte da delle bozze “sulla ragione della logica” per perfezionarla a quello che dovrà essere… si cerca di costruire, di seminare di porre… e comunque si cercherà di coinvolgere più gente competente possibile per la migliore riuscita… tra non molto verrà resa anche pubblica la presentazione di intergruppi, confederazione di sigle che sono in accordo sul preparare “il Veneto indipendente” del dopo, oltre che del come arrivare (tramite referendum autogestito)… buon proseguimento.

La discussione, dopo altri tre stringati post (che non sono entrati nel merito) si è esaurita a questo punto. Ora noi tutti dobbiamo prendere atto dell’onestà intellettuale di Barbara Benini. Ammette di non essere una tuttologa, di non avere le risposte per il caso sopra affrontato, né per tutti gli altri. Tuttavia insiste cocciutamente su un dato economico (il residuo fiscale) tutto da dimostrare, e rimanda ad un immediato futuro le soluzioni che potranno scaturire dall’ennesimo tentativo di coalizione di soggetti indipendentisti veneti. Staremo a vedere!

Per intanto notiamo incidentalmente che Barbara Benini è moglie di Lucio Chiavegato. Una personalità che a differenza degli yes-man che i partiti politici infilano nelle istituzioni a qualsiasi livello, assume le proprie responsabilità e partecipa in maniera compulsiva alla vita politica.
Infatti, nel tempo, è stato tra l’altro:

Componente del direttivo LIFE (Liberi Imprenditori federalisti Veneti).
Presidente dell’estinto partito indipendentista Veneto Stato.
Esponente e candidato di svariati movimenti e partiti indipendentisti.
Animatore di un presidio stradale del movimento “9 Dicembre Forconi”.
“Ospite” (Tsz!) delle galere dello Stato italiano per mezzo della magistratura bresciana che ha avviato il caso del cosiddetto TANKO II. Un processo che è ai suoi esordi, e che al momento appare come un processo alle idee, constatato che al momento non sono noti atti di violenza di nessun tipo.

Insomma, è più che lecito che qualcuno voglia candidarsi a qualcosa, ma gli elettori devono sapere esattamente, e con prove documentali, il motivo per cui votare. O no?
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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