L'ultima fase della serenissima - La politica: LA MUNICIPALITA DEMOCRATICAStoria di Venezia (1998)
di Giovanni Scarabello
capitolo iv
http://www.treccani.it/enciclopedia/l-u ... Venezia%29...
Domenica 14 maggio si pubblicò un proclama con il quale si rese noto alla popolazione il cambiamento di regime e il prossimo ingresso in città delle truppe francesi (16).
Il 15 ci si dedicò soprattutto alla stesura di un fondamentale manifesto: quello con cui si intendeva formalizzare il passaggio dei poteri dal vecchio regime alla municipalità democratica provvisoria. La bozza fu stesa dal Villetard e discussa con il Donà, con lo Spada e qualche altro e anche con l'ex doge. Il Villetard voleva che ad emanarlo figurasse ancora il vecchio governo (il "Serenissimo Principe").
Si riuscì a scindere il testo in due proclami: uno, più breve, in cui il vecchio governo informava che da quel momento il potere era nelle mani della municipalità, e uno, più consistente, che comprendeva tra l'altro la lista dei membri dell'assemblea municipalista (concordata tra il Villetard e i democratici riuniti a casa sua). Nel corso delle discussioni era stata declinata l'offerta del Villetard e dei democratici di porre l'ex doge Ludovico Manin come presidente dell'assemblea municipalista.
I due proclami furono pubblicati il 16.
Il primo si intitolava ancora al "Serenissimo Principe" e il secondo era intitolato semplicemente "Manifesto" (17).
Quello intitolato (sarebbe stato per l'ultima volta) "il Serenissimo Principe fa sapere che" era assai stringato. Diceva che da quel momento il governo sarebbe stato "amministrato da una Municipalità Provisionale"; che essa s'era installata nella sala dell'ex maggior consiglio; che quel giorno stesso, 16 maggio, alle ore 12, tutti i militari con grado di ufficiale si dovevano portare in quella sala a prestare il giuramento di fedeltà nelle mani della municipalità.Il proclama intitolato "Manifesto", recante in calce la lista dei sessanta membri dell'assemblea municipalista, appare assai ben congegnato.
Nella prima parte si proclamava che il vecchio regime, "desiderando di dare un ultimo grado di perfezione al sistema repubblicano" ch'era stato per secoli la gloria di Venezia, annunciava all'Europa e ai Veneti di aver attuato la riforma "libera e franca" della costituzione. Nella seconda parte si notificava, come esito di tale riforma, la creazione di una struttura di governo provvisoria per Venezia chiamata municipalità, composta da rappresentanti di tutte le "classi" sociali, e si prospettava la possibile creazione di una "amministrazione centrale" (chiamata "dipartimento") incaricata di curare gli interessi generali della Repubblica e costituita da rappresentanze di Venezia, dei territori veneti di Terraferma, dell'Istria, della Dalmazia, dell'Albania e delle isole del Levante.
Sempre in questo manifesto si accennava allo stabilimento della libertà con annessa salvaguardia della religione, dei diritti individuali, nonché della proprietà; si chiariva che la municipalità doveva intendersi come provvisoria sino a che il popolo non avesse potuto riunirsi per elezioni "a norma delle forme democratiche"; si menzionava l'aiuto che i Francesi avrebbero dato perché Venezia legasse le sue sorti a quelle dei popoli liberi d'Italia; si ricordava la spontanea e benemerita rinuncia che gli ex patrizi avevano fatto della loro esclusività di potere e dei loro privilegi.
Era chiaro che la rivoluzione istituzionale avveniva sulla base di una sorta di "compromesso" per il quale i vecchi governanti cedevano il potere e liquidavano il regime aristocratico e i Francesi e i municipalisti subentravano a gestire e garantire trapassi verso situazioni democratiche rispettose dei membri dell'ex corpo dirigente, della sostanza degli assetti sociali esistenti e di una qualche prospettiva per la statualità veneta.
Intanto a Milano i deputati veneziani avevano continuato a trattare con Napoleone assistito dal Lallement.
Essi erano all'oscuro dell'evolvere della situazione a Venezia mentre i Francesi, sia pure con qualche ritardo, ricevevano informazioni dal Villetard e dal generale Baraguey d'Hilliers.
Napoleone li tenne sulla corda con proposte e considerazioni contraddittorie fino a quando, il 14, essi conobbero la decisione finale del maggior consiglio del 12 e a Milano giunse il generale Henry Guillaume Clarke con la ratifica da parte del direttorio dei preliminari di Leoben. A quel punto si convenne che sarebbe stato opportuno formalizzare un trattato di pace tra la Repubblica di Venezia e la Francia. Non ci fu molto da trattare sulla bozza proposta da Napoleone. Il 16 si procedette alla firma del trattato (le sottoscrizioni sono di Napoleone, del Lallement e dei deputati veneziani Francesco Donà, Leonardo Giustinian, Alvise Mocenigo). Ci si chiese subito quale organismo avrebbe dovuto procedere per parte veneziana alla ratifica. Napoleone tagliò corto: il consesso che aveva sostituito il maggior consiglio avrebbe ratificato e avrebbe demandato a tre suoi membri la ratifica degli articoli segreti.
Il trattato di pace constava di 7 articoli palesi e 5 articoli segreti e figurava intervenire tra la Repubblica francese e la Repubblica di Venezia rappresentate rispettivamente dal direttorio e dal maggior consiglio.Nella parte palese si dichiaravano cessate le ostilità e si conveniva che il maggior consiglio rinunciava al diritto di sovranità, ordinava "l'abdicazione dell'aristocrazia ereditaria", riconosceva la sovranità dello stato nell'assieme dei cittadini che l'avrebbero esercitata attraverso un governo espresso democraticamente. Tale governo si sarebbe impegnato a garantire il debito pubblico, a sostentare gli ex patrizi poveri e a continuare a corrispondere gli assegni vitalizi in essere. La Repubblica di Francia, di ciò richiesta, acconsentiva a stanziare a Venezia una divisione di truppe per mantenere l'ordine e la sicurezza delle persone e della proprietà e per aiutare "i primi passi" del nuovo governo il quale, peraltro, quando lo avesse ritenuto opportuno, avrebbe potuto richiedere il ritiro delle truppe stesse.
Gli altri contingenti militari francesi avrebbero evacuato i territori veneti di Terraferma "alla conclusione della pace continentale".
Il nuovo governo democratico restava impegnato a proseguire il processo ai tre ex inquisitori di stato e al comandante del forte del Lido per l'insurrezione di Verona e l'affondamento del Libérateur d'Italie. Il direttorio, per mezzo di Napoleone, restava impegnato a concedere un'amnistia generale per i reati commessi contro i Francesi e a liberare i prigionieri di guerra.
Nel primo degli articoli segreti si stabiliva che la Repubblica di Francia e quella di Venezia si sarebbero intese "per il cambio di differenti territori". Nel secondo, terzo, quarto e quinto si stabiliva che la Repubblica di Venezia avrebbe corrisposto in tre rate ai Francesi 3.000.000 di lire tornesi, attrezzature di marina fra quelle esistenti nell'Arsenale veneziano, tre vascelli di linea, due fregate, inoltre, a scelta di Napoleone, venti dipinti e cinquecento manoscritti (18).
4. Esordio e struttura della municipalità democratica di VeneziaI membri della municipalità democratica provvisoria si riunirono per la prima volta in palazzo Ducale nella sala dell'ex maggior consiglio il 16 maggio 1797 sotto la presidenza di Nicolò Corner.
Erano sessanta. Tra di loro, parecchi erano gli ex patrizi (quasi tutti ricchi); molti i grossi commercianti, gli imprenditori, gli uomini di affari; molti i professionisti (in prevalenza avvocati); non pochi gli ex alti burocrati della Repubblica; qualche ecclesiastico; qualche militare; qualche raro uomo del popolo come Vincenzo Dabalà, il gastaldo dei pescatori di San Nicolò (19).
Di fatto, la stragrande maggioranza era costituita da uomini che socialmente ed economicamente avevano avuto posizione di rilievo anche nel passato regime.
Nella sua composizione, l'assemblea mostrava di essere frutto di quel "compromesso" fra discontinuità e continuità che aveva presieduto confusamente al trapasso dalla Repubblica aristocratica alla democrazia.
Il primo intervento, di saluto al popolo e ai capi militari che erano venuti a prestare giuramento di fedeltà, fu del municipalista, avvocato, Giuseppe Andrea Giuliani. Raccolto il giuramento, Vincenzo Dandolo, un farmacista e chimico destinato a diventare uno dei municipalisti più conseguenti ed attivi, propose un proclama da lanciare al popolo "sovrano" per chiamarlo a stringersi attorno alla municipalità e a sostenerla in nome di parole d'ordine come "libertà", "uguaglianza", "ragione", "giustizia".
Poco dopo giunsero i capi dei lavoratori dell'Arsenale, anch'essi a giurare fedeltà.
Andrea Sordina, un greco che aveva lavorato nell'alta burocrazia della Repubblica, propose che si organizzasse un simbolico "amplesso fraterno" tra i municipalisti e una rappresentanza di soldati francesi.
Francesco Mengotti, un nobile feltrino studioso di idraulica e di economia, pronunciò un discorso in cui, tra l'altro, sostenne che il popolo veneto, tornando alla democrazia, non aveva fatto altro che tornare all'antico ordine repubblicano poi sovvertito dalle degenerazioni e deviazioni aristocratiche.
In quest'ottica, rivoluzione significava riordino, riordinamento.
Un "dotto" discorso che si deliberò di far stampare a spese della municipalità (20).
A questo punto i municipalisti - su invito di Rocco Melancini, un medico - si portarono in piazza San Marco per presentarsi direttamente al popolo. In piazza, tra gli evviva, il Giuliani lesse un proclama pubblicato quel giorno.
In esso si dichiarava "benemerito della patria" l'ex maggior consiglio che aveva "abdicato".
Si annunciava un'amnistia solenne per qualsiasi passato comportamento politico che - nel nuovo regime - avesse potuto esser valutato delittuoso; un'amnistia che escludeva solo i così detti "saccheggiatori del 12", cioè coloro che avevano partecipato alla chiassata popolare del 12 maggio a favore della vecchia Repubblica.
Si chiedeva benevolenza anche per gli ex inquisitori di stato e per Domenico Pizzamano per i quali era in corso un processo. Si promettevano concrete provvidenze (garantite dai beni nazionali e da apposite lotterie) per gli ex patrizi e patrizi poveri e per i pensionati dello stato.
Si assicuravano risarcimenti a coloro che avevano subito danni dall'insurrezione popolare del 12.
Ci si assumevano i debiti della Zecca, del bancogiro e del pubblico erario verso chicchessia.
Si concludeva indicando nella prosperità della patria, nella tutela della religione, della proprietà e della sicurezza, e nel mantenimento della democrazia e della libertà, gli obiettivi principali della municipalità (21).
La prima preoccupazione dei municipalisti fu quella di far funzionare l'amministrazione. Provvisoriamente si mantennero in vita le vecchie strutture con il personale burocratico esistente. Ovviamente fu tolta ai patrizi - che prima la detenevano in esclusiva - la direzione politica di ciascun organismo. Le strutture che non poterono essere assolutamente mantenute in vita furono quelle dell'amministrazione della giustizia. Ad esse il vecchio regime aveva conferito caratterizzazioni di sostanza e di forma talmente originali da renderne impossibile un qualsiasi sia pur transitorio utilizzo. Era un settore in cui occorreva veramente rivoluzionare. Non restò altro che "sospendere il foro" per quindici giorni in attesa di dare ad esso una nuova e moderna configurazione.
Già il 18 si varò lo schema della nuova struttura di amministrazione.
All'assemblea municipalista (che aveva presidente, vicepresidente e quattro segretari) furono affiancati otto comitati, una sorta di ministeri o, se si vuole, di assessorati municipali cui si assegnarono come luogo di riunione le sedi delle ex magistrature della Repubblica per lo più in palazzo Ducale (ribattezzato "Casa della Comune").
Tali organismi furono:
il comitato di salute pubblica (politicamente il più importante);
il comitato militare;
il comitato finanze e zecca;
il comitato bancogiro, commercio, ed arti;
il comitato sussistenze e pubblici soccorsi;
il comitato di sanità;
il comitato arsenale e marina;
il comitato istruzione pubblica.
Ciascuno dei comitati ereditava le funzioni di parecchie delle magistrature della ex Repubblica. Sul momento, vennero mantenuti in vita gli apparati burocratici delle antiche magistrature, ma era nei programmi di smantellarli e sostituirli a poco a poco. Certamente la rivoluzione, semplificazione, razionalizzazione delle strutture fu radicale e non avrebbe potuto essere altrimenti, se non altro per ragione della vetustà degli apparati amministrativi con i quali la vecchia Repubblica era giunta fin alle soglie dell'età contemporanea.
Dei sessanta municipalisti, buona parte si distribuirono nei comitati, due rimasero fuori da incarichi specifici e i rimanenti entrarono in una sorta di comitato aggiuntivo detto "delle istanze" incaricato di ricevere, vagliare ed inoltrare ai comitati competenti le istanze dei cittadini (22).
Il presidente veniva eletto ogni quindici giorni (23).
Quattro erano i segretari il cui compito principale era quello di stendere i verbali delle sedute.
Ci furono delle aggregazioni a fine maggio, delle aggregazioni in agosto con rappresentanti di Cavarzere, Torcello, Murano, Mestre, Pellestrina, Loreo, Chioggia, e Gambarare e Oriago, per cui a fine estate il numero complessivo dei municipalisti si aggirò sull'ottantina.
Ai primi di giugno vennero nominati anche quattro supplenti (24).
Lo schema organizzativo era simile a quello adottato nelle municipalità già formatesi nei territori dell'ex stato veneto e nella Lombardia democratizzata e ricalcava gli schemi amministrativi della Francia postrivoluzionaria (25).
Le sedute dell'assemblea furono pubbliche, private, segrete.
Nelle prime era ammesso il pubblico (fino a trecento persone con biglietti di ingresso distribuiti in egual misura nei sestieri), delle seconde erano pubblici solo i verbali, delle terze si tenevano riservate anche le verbalizzazioni. Pressoché ogni giorno assemblee e comitati si riunivano: l'impegno e il lavoro dei municipalisti furono subito intensissimi.
Come si è visto, il trattato di pace con la Francia era stato firmato a Milano il 16 di maggio dai deputati della ex Repubblica e si era convenuto che la ratifica sarebbe stata effettuata dalla nuova municipalità (26). I tre ex deputati che avevano firmato, tornati a Venezia, vennero a riferire ai municipalisti il 20 maggio e l'assemblea, pur acclamando al trattato, decise di inviare a Milano Tommaso Pietro Zorzi e Pietro Turrini, che si aggiunsero al Giuliani e al Fontana già sul posto, per concordare con Napoleone le modalità per la ratifica (27), la quale venne perfezionata il 29 maggio (28) e presentata al Bonaparte da Francesco Mengotti il quale era stato nominato (27 maggio) rappresentante della municipalità presso di lui.
Tale ratifica era stata approvata dalla municipalità riunita in comitato segreto.
Il governo francese, per parte sua, nonostante gli sforzi veneziani presso Napoleone e a Parigi, non perfezionerà mai la ratifica e ciò, soprattutto, onde conservare le mani libere nelle trattative, già iniziate, per arrivare a quel trattato di pace per il quale a Leoben erano stati firmati i preliminari.
Sul piano del consenso si partiva quasi da zero. I cittadini francamente democratici erano assai pochi. Appartenevano ai ceti medio alti, ma non avevano in quei ceti una sicura base di appoggio. La gente dei ceti medio bassi non appariva per niente schierata con la municipalità e, in certa misura, l'osteggiava.
Moltissimi erano coloro che restavano psicologicamente condizionati dall'attaccamento all'antica Repubblica.
Moltissimi coloro che sentivano i Francesi come degli usurpatori.
Si posero in atto delle decretazioni volte a mantenere i calmieri e a diminuire i prezzi dei prodotti di prima necessità e, sestiere per sestiere, si nominarono dei cittadini per vigilare sull'applicazione dei decreti stessi.
Si prelevarono 12.000 ducati in Zecca per farne distribuzione tra i ceti popolari. Fu disposto che i capi del centinaio e più di corporazioni che compattavano il mondo degli operatori del piccolo commercio, degli artigiani, degli imprenditori e addetti di molte manifatture, degli addetti a certi servizi, rimanessero al loro posto.
Soprattutto si organizzarono una serie di manifestazioni per celebrare la libertà e per incominciare a divulgare immagini atte a diffondere tra la popolazione stimoli alla lettura critica della storia della ex Repubblica, stimoli alla conoscenza dei principi di libertà e democrazia, stimoli per la conoscenza dei programmi della municipalità e per l'adesione ad essi, stimoli alla "rigenerazione" come allora si diceva.
La prima manifestazione propagandistica importante fu l'erezione in piazza San Marco dell'albero della libertà. Un rito appartenente all'esperienza rivoluzionaria di Francia che si era generalizzato nelle città e territori italiani dove erano arrivate le truppe napoleoniche. La festa ebbe luogo domenica 4 giugno in piazza San Marco. C'erano tre loggiati provvisori, uno posto davanti alla chiesa di San Geminiano per i municipalisti e sormontato dalla scritta "La libertà si conserva con l'osservanza delle leggi" e gli altri due disposti ai lati davanti alle Procuratie (ribattezzate "Gallerie Nazionali") destinati agli ufficiali italiani e francesi e sormontati dalle scritte "La libertà nascente è protetta dalla forza delle armi" e "La libertà stabilita conduce alla pace universale". Un'altra scritta dominava sulle tre appena citate e recitava "Rigenerazione italiana".
All'intorno si incontravano simulacri rappresentanti la libertà col berretto frigio e con i fasci in atto di scacciare la tirannide, il tempo che scopriva la verità, ecc. (gran parte della scenografia fu opera di Neumann Rizzi). C'erano anche quattro orchestre.
All'ora stabilita si formò una sorta di processione: ufficiali francesi capeggiati dal generale Baraguey d'Hilliers comandante militare della piazza, i municipalisti con sciabola e cappello alla nuova moda, soldati italiani, due fanciulli con fiaccole accese in mano e due con gonfaloni su cui si leggeva "Crescete speranze della patria", due giovani coppie di promessi sposi che recavano il motto "Fecondità democratica", un vecchio e una vecchia con attrezzi agricoli, i componenti della Guardia nazionale di recente costituita, i rappresentanti degli stati esteri (quelli che avevano ricevuto l'invito e avevano consentito a presentarsi), le rappresentanze delle corporazioni, i municipalisti ecc. In mezzo alla Piazza, mentre i cannoni sparavano a salve e mentre le campane mandavano i loro rintocchi e i musici suonavano e i coristi de La Fenice cantavano un "Coro patriottico" scritto da Domenico Casotto con musica di Vittorio Trento, si innalzò l'albero della libertà con alla sommità il berretto frigio.
Attorno stavano altri simulacri come le statue con in mano la fiaccola della libertà e dell'uguaglianza. Sventolavano i gonfaloni tricolori sui tre pennoni della Piazza, vibravano con il vento gli addobbi con scritte inneggianti ai Francesi nella Piazzetta, dove una delle due colonne era parata a lutto per commemorare i morti per la democrazia, primi fra tutti quelli del Libérateur d'Italie affondato al Lido in aprile.
Il presidente della municipalità Talier pronunciò il discorso ufficiale ("Democrazia o morte! Ho detto", fu la sua conclusione) ed indi tutti si recarono nella chiesa di San Marco per il Te Deum di ringraziamento. Ritornati in Piazza, dopo un nuovo discorso di Vincenzo Dandolo, incominciarono le danze intorno all'albero della libertà. Si bruciò una copia del Libro d'oro in cui erano un tempo testificati i membri del patriziato, cioè coloro che detenevano in esclusiva il potere politico. Si bruciarono le ex insegne del doge.
A sera, la festa continuò sia in Piazza, sia al teatro La Fenice con un'opera, con allegrezze, con sfoggio di bei vestiti, coccarde, fiori, bandiere, ingresso gratis ai gondolieri, ballo degli arsenalotti a simboleggiar la fratellanza se non l'uguaglianza sociale. Le manifestazioni continuarono per due giorni ancora pur disturbate dal cattivo tempo e con un concorso popolare che - lo si ammise anche nelle gazzette - fu inferiore a quello sperato.
Si sentì il bisogno di avere a disposizione un completo quadro socio-economico della popolazione.
Il comitato di salute pubblica per bocca dell'attivissimo Dandolo lanciò alla municipalità l'invito a procedere all'allestimento di nuove anagrafi.
Incaricati delle rilevazioni erano i parroci ai quali veniva affidato il compito di descrivere in appositi registri la popolazione con curiosi criteri di classificazione: "gran signori"; "benestanti proprietari"; "benestanti bottegai"; bottegai e artigiani sufficientemente provveduti; operai e salariati; disoccupati; oriundi dell'ex stato veneto da più di dieci anni a Venezia, o da meno; oriundi di stati stranieri allo stesso modo; "forestieri ignoti, sospetti, o perturbatori".
Si era alla fine di maggio, il lavoro dovette andar avanti a rilento se in agosto troviamo autorizzata una spesa di 1.966 lire per acquisto dei registri. La rilevazione, nella intenzione dei proponenti, aveva fini di controllo e sicurezza, ma anche fini socio-fiscali in quanto si voleva avere una buona informazione sulle categorie alle quali ci si sarebbe potuto maggiormente rivolgere per portar denaro alle casse dello stato. Fini analoghi ebbero i decreti di metà giugno coi quali si cercò di riportare in patria tutti i cittadini possidenti e benestanti assenti, si cercò di rendere difficile la concessione dei passaporti per lasciare la città ed ancor di più di lasciarla portandosi dietro denaro e valori (29). Fini "filosofici" avrà invece il piano di ridisegno delle suddivisioni sestierali della città che verrà lanciato dal comitato di istruzione pubblica alla fine di ottobre.
Assieme a una riduzione e riconfigurazione delle parrocchie in termini di omogeneizzazione delle consistenze di ciascuna, tale piano proporrà l'eliminazione dei vecchi sestieri e la suddivisione della città (una "esatta divisione democratica, prudente, e filosofica") in otto "sezioni" pressappoco di uguali dimensioni. La sezione comprendente la zona di Castello e l'Arsenale sarebbe stata denominata "Marina"; quella comprendente le sedi della municipalità sarebbe stata chiamata "Legge"; quella comprendente i teatri sarebbe stata denominata "Spettacoli"; quella comprendente le dogane sarebbe stata denominata "Commercio"; quella comprendente San Nicolò e Santa Marta, contrade di pescatori, sarebbe stata denominata "Pesca"; quella comprendente San Polo, dove era la casa Ferratini sede dei cospiratori democratici, sarebbe stata denominata "Rivoluzione"; quella comprendente le sedi delle scuole superiori sarebbe stata denominata "Educazione"; quella comprendente le zone di Cannaregio affaccianti alla laguna verso la terraferma sarebbe stata denominata "Viveri" e in essa la zona dell'ex Ghetto sarebbe stata denominata "Riunione" (30).
Il Ghetto, infatti, era stato aperto con solenne cerimonia ai primi di luglio e ogni discriminazione nei confronti degli Ebrei era stata eliminata.
Alcuni di essi sedettero nell'assemblea municipalista ed assolsero importanti funzioni in taluni dei comitati.Il calendario venne modificato con l'abolizione dell'uso veneziano di far iniziare l'anno dal 1° di marzo e farlo finire al termine di febbraio (le datazioni more veneto). Inoltre venne adottato, ma solo sussidiariamente, il calendario rivoluzionario francese.
Per le ore del giorno venne abbandonato il vecchio computo che aveva il suo perno nel tramonto del sole (incominciava in quel momento l'ora una di notte) e quindi comportava tutta una variabilità in rapporto alle stagioni, e venne adottato il sistema francese imperniato sulla divisione del giorno in ventiquattr'ore uguali.
Venne anche battuta moneta: le 10 lire veneziane d'argento con l'immagine della Libertà, e alcune scritte sul dritto e sul verso come: "Anno primo della libertà italiana 1797", "Libertà", "Uguaglianza", "Zecca V.". Abbastanza intensa fu l'opera di demolizione e cancellazione dei simboli del passato regime, specie dei leoni di San Marco.
La Guardia nazionale e i battaglioni di lineaFra le prime preoccupazioni della municipalità vi fu quella di continuare la smobilitazione dei corpi dell'esercito oltremarini, di riorganizzare e snellire i corpi di truppe italiane e di lavorare per la costituzione di battaglioni di linea sull'esempio delle legioni cisalpine da poter offrire in campo a Napoleone in caso di riapertura delle ostilità. Un tentativo in giugno di arruolare volontari per tali battaglioni dette scarsissimi risultati.
In ogni caso verso la fine di agosto la municipalità poté avere a disposizione un migliaio di soldati ben equipaggiati ed addestrati. Sempre poco rispetto alle richieste francesi di una forza di seimila uomini. A fine settembre, nel quadro delle mosse atte a mostrare una determinazione francese alla guerra nel caso di improduttività delle trattative di pace, anche il battaglione di linea veneto partì per il Friuli.
Per tutto quel che atteneva al mantenimento dell'ordine repubblicano, dopo le prime settimane in cui si attivarono delle pattuglie di cittadini, si procedette alla costituzione della Guardia nazionale. Una sorta di corpo, una "forza interna", da portare a un certo grado di addestramento militare attraverso esercitazioni periodiche, vincolato da un giuramento alla democrazia, tenuto a una disciplina, incaricato di funzioni varie (per lo più a turno) di vigilanza in città, specie in difesa degli ordinamenti democratici contro ogni eversione, eventualmente ed in certa misura in grado di funzionare anche come riserva di uomini addestrati su cui, all'occorrenza, i corpi più propriamente militari avrebbero potuto attingere. Già ai primi di giugno si lanciò il piano di organizzazione che prevedeva l'arruolamento di tutti i cittadini maschi dai 16 ai 50 anni che fossero stati fisicamente abili, eccettuati i funzionari pubblici, i medici, i servitori, gli ecclesiastici, i questuanti. Erano previsti un'uniforme e depositi di armi. Sulle prime il servizio venne configurato come gratuito e solo in un secondo momento sarà previsto un tenue indennizzo. Tre ufficiali delle truppe di linea (il tenente colonnello Bucchia, il maggiore Verlato e il capitano Mattei), con il grado di generali di brigata e con adeguato stipendio, vennero preposti all'organizzazione, addestramento e comando delle formazioni. Ognuno di essi comandava le formazioni della
Guardia di due sestieri della città.Sulle prime si registrò la buona disposizione al servizio da parte di un discreto numero di cittadini. Figurare nella Guardia nazionale dava occasione a un certo protagonismo soprattutto di facciata (l'uniforme, il prendere parte con distinzione e proprio ruolo ritualizzato alle numerosissime cerimonie pubbliche, l'esser investiti di immagini di autorità, ecc.). Ben presto però la non chiarezza dell'evolvere della situazione generale, un certo fastidio per i pesi imposti, il tempo che veniva sottratto alle occupazioni ordinarie e altre ragioni ancora determinarono molti a escogitare pretesti per farsi esentare (soprattutto compiacenti attestazioni mediche) e spinsero altri a sottrarsi francamente agli obblighi.
In agosto la presenza delle truppe francesi in città si alleggerì e sembrò che la Guardia nazionale dovesse compensare tale alleggerimento con un suo maggior protagonismo, viceversa vennero spedite a Venezia delle milizie cispadane che si acquartierarono al Lido. Per di più, i Francesi intensificarono l'asporto di tutte le armi dall'Arsenale, compresi i duemila fucili che dovevano servire per i tre battaglioni della Guardia di cui due già completamente organizzati (compagnie di granatieri, fucilieri, cacciatori e banda musicale). La prospettiva organizzativa prevedeva una strutturazione in legioni come nella Cisalpina. Nel momento di massima espansione l'organico della Guardia nazionale si aggirò sui quindici, diciottomila uomini.
I rapporti con il cleroIl "compromesso" mediante il quale si erano configurate forme e sostanze del trapasso dagli assetti aristocratici a quelli municipalisti democratici aveva fissato ben fermo ed esplicito anche il punto della salvaguardia della religione cattolica e delle sue strutturazioni nella società veneziana e veneta. Pertanto sia ai municipalisti che al patriarca si propose subito l'esigenza di dare continuità, in concreto, alla consueta intesa/alleanza tra autorità civile e autorità religiosa (31).
Non ci furono problemi. La municipalità - la quale, oltre a tutto, non contava nel suo seno uomini dagli umori eversivi in fatto di religione e di Chiesa - mostrò immediatamente di far molto conto sul corpo ecclesiastico come su uno degli strumenti da utilizzare per la creazione del consenso popolare, che si presentava scarsissimo. Il patriarca di Venezia, Federico Maria Giovanelli, così come gran parte dei vescovi veneti (fra l'altro va ricordato che quasi tutti provenivano dall'ex patriziato veneziano) (32), avute le assicurazioni più ampie sulle buone disposizioni dei nuovi governanti in fatto di religione e di clero, non ebbe difficoltà a perseguire il mantenimento di un buon dialogo con le nuove autorità. Una linea prudente di tal fatta era del resto consigliata anche dalla situazione politica generale in forte movimento e dal fatto che poco chiari permanevano i destini che si preparavano per Venezia e per il Veneto.
Con una pastorale del 17 maggio, il patriarca esortò la popolazione alla subordinazione al nuovo governo provvisorio sottolineando che i "cambiamenti erano successi con il previo concorso del Maggior Consiglio che rappresentava allora la Veneta Repubblica". Era più un avallo alla legittimità del nuovo governo che non un avallo alla democrazia in sé. Il primicerio, cioè il prelato che gestiva la chiesa di San Marco, la ex cappella dogale, dette disposizione perché la pastorale venisse letta tre volte ogni mattina nella chiesa stessa. Pochi giorni dopo, il patriarca, il primicerio e il clero vennero convocati a prestar "civico giuramento alla municipalità" nonché a presenziare al successivo "banchetto patriottico". Il 25 maggio, solennemente, il giuramento venne pronunciato dal provicario del patriarca Bartolomeo Zender. Il 4 di giugno, festa di Pentecoste, ma anche festa dell'innalzamento in piazza San Marco dell'albero della libertà, si trovò un accordo per non sovrapporre l'orario delle due celebrazioni e l'albero fu innalzato dopo le 16 a funzioni religiose esaurite. Il patriarca non partecipò alla festa, ma vi presenziò invece il primicerio che, dal 1787, era Paolo Alvise Foscari, e non mancò un Te Deum in chiesa.
Sostanzialmente, l'accordo tra la municipalità e il patriarca non conobbe momenti di grave rottura anche se qualche attrito e contraddizione ci fu. I municipalisti si mossero - e con prudenza - sul solco della politica giurisdizionalistica che era stata della Repubblica e non certo nella direzione delle politiche nuove della Francia rivoluzionaria.
Verso la fine di giugno, quando nell'assemblea municipalista si discuteva sulla libertà di stampa, il patriarca fece sentire la sua voce preoccupata circa i pericoli che, se "smodata", essa poteva comportare (33). Nello stesso periodo, ad iniziativa del municipalista abate Collalto, membro del comitato di istruzione pubblica, si discusse una decretazione che dava nuova configurazione alla scelta dei parroci della città. Essi avrebbero dovuto essere eletti a maggioranza di voti da parte di coloro che risiedessero nella parrocchia ed avessero più di 21 anni di età. La novità forse più rilevante era data dal fatto che con il passato regime votavano solo coloro che avevano possessioni in parrocchia, anche nel caso non fossero stati residenti. A fine agosto vennero in discussione questioni come quella della riduzione del numero delle parrocchie cittadine, che - si pensava - potevano passare da settanta a quaranta o a trenta, e questioni relative a blocchi da porre alla eccessiva espansione del numero dei secolari e dei regolari (34).
A parlare di riduzione del numero dei preti si era incominciato già da fine luglio quando il Dandolo aveva proposto l'allontanamento di quelli forestieri. Il grosso della discussione si sviluppò dopo i primi di settembre partendo da un progetto del comitato di istruzione pubblica. Vari emendamenti addolcirono questo o quell'aspetto dell'assai drastico progetto iniziale (35) e certamente, agli effetti di tale addolcimento, non fu ininfluente l'azione del patriarca, il quale, a dibattito iniziato, chiese con una lettera direttamente a Napoleone di intervenire per sospendere il progetto onde consentire una più maturata valutazione dei vari aspetti delle questioni sul tappeto.
Un'aperta contrattazione tra patriarca e municipalità presiedette invece alla elaborazione di un progetto di sistemazione dei monasteri femminili. Il 10 ottobre la deputazione all'amministrazione generale delle cause pie, dopo aver descritto la situazione di grave degrado economico di parecchi monasteri, presentò un piano per accorparne parecchi. In pratica si chiedeva di ridurre il numero di essi da trentasette a quindici concentrando in questi ultimi le millecentoquarantasei monache esistenti. Inoltre si proponevano vari interventi per funzionalizzarne l'amministrazione con l'ottimistica previsione di ridurre in tal modo le spese annue da 1.500.000 a 725.000 lire. Il piano venne presentato al patriarca il quale, dopo aver lodato le intenzioni di risanamento, abilmente entrò nel merito di esso e dopo pochi giorni presentò una sorta di contropiano per mezzo del quale egli riproponeva l'autorità ecclesiastica come l'unica legittimata a decidere e gestire provvedimenti in materia di strutture ecclesiastiche e controproponeva che, ferma la salvaguardia di tutti i beni dei monasteri, fosse appunto l'autorità ecclesiastica a provvedere con propri criteri alla concentrazione dei monasteri stessi e all'accentramento e ripartizione delle loro risorse (36).
Nel mentre che, con qualche resistenza, continuava - a pro delle fusioni della Zecca esausta - il drenaggio degli ori ed argenti delle chiese che non fossero direttamente serviti ai riti ecclesiastici e si coinvolgeva nelle consegne obbligatorie anche il tesoro di San Marco, fu prospettata la soppressione della figura del primicerio e dell'ex cappella dogale la quale, come si è detto, faceva da secoli tutt'uno con la chiesa di San Marco. Nei progetti, tale chiesa sarebbe dovuta diventare la sede della "parrocchia centrale" della città, cioè la nuova sede patriarcale al posto di San Pietro di Castello (37).
Come si vede, si trattò di moderati progetti di razionalizzazione. In ogni caso non ci fu tempo per nessuna realizzazione.
Taluni progetti saranno ripresi ed attuati nel primo Ottocento con il napoleonico Regno d'Italia in un contesto ben più ampio e radicale di interventi sistematori e anche liquidatori di non poche delle strutturazioni ecclesiastiche veneziane che avevano attraversato i secoli della Repubblica.
L'amministrazione municipalista contò tre ecclesiastici: l'abate Signoretti, l'arciprete Talier e l'abate Collalto. Nella sostanza, tre intellettuali. Il Signoretti, ex gesuita e massone, e il Talier si mossero su posizioni moderate. Più impegnato fu il Collalto, uno studioso di matematica e fisica, il quale si collocò contiguo all'ala radicale della municipalità guidata dal Dandolo. A lui si devono alcuni dei progetti di riforma delle strutture ecclesiastiche veneziane di cui si è detto. Tutti e tre agirono all'interno dell'assemblea municipalista a titolo personale e senza fili di rapporto con il patriarcato.
Fra i membri del clero ci fu un diverso atteggiarsi rispetto ai nuovi assetti politici determinatisi a Venezia dopo il 12 maggio. Moltissimi si allinearono alle direttive della gerarchia e mantennero atteggiamenti esteriori di conciliante prudenza ed attesa (su questo versante, punti di riferimento furono, pur con accentuazioni diverse, il vicario del patriarca Bartolomeo Zender, don Giovanni Giuseppe Piva e don Scipione Bonifacio).
Alcuni, pochi, non seppero resistere al bisogno di esternare posizioni di rifiuto rispetto a questo o quell'aspetto del nuovo corso delle cose. Dichiaratamente ostili al nuovo governo fin dal primo momento furono i preti Antonio Moroni, Lorenzo Guizzetti, Giuseppe Zappella e Giuseppe Driuzzi. Tutti erano parroci meno il Guizzetti. Degli umori di fronda di altri sappiamo sia dai rapporti dei commissari di polizia, sia dalle prese di posizione contro di loro di qualche municipalista come il Dandolo, sia dalle "liste nere" compilate in alcune occasioni come, per esempio, in ottobre nei giorni della "congiura Cercato".
Fra coloro (anch'essi pochi) che non seppero resistere alla voglia di mostrarsi protagonisti di entusiasmi e di ben proclamate adesioni alle idee democratiche, ci furono, da una parte, quelli che semplicemente ottemperarono agli inviti della municipalità di cooperare con la predicazione a sollecitare i fedeli "al rispetto delle leggi e all'intima conoscenza del libero governo" e, dall'altra, ci furono quelli che si fecero organici all'attività politica della municipalità. Fra questi ultimi, oltre ai tre membri della municipalità già nominati, occorre ricordare Giuseppe Valeriani, prete della parrocchia di San Maurizio, il quale fu direttore dell'ufficioso "Il Monitore Veneto" e più tardi abbandonerà l'abito talare, e don Antonio Zalivani, parroco della popolare parrocchia di San Nicolò dei Mendicoli, il quale aderì alla società di istruzione pubblica e fu autore di un Catechismo cattolico-democratico (38) che ebbe grande successo presso i municipalisti, venne stampato in gran numero di copie e venne diffuso largamente e d'imperio nelle parrocchie e nelle scuole.
Il Catechismo dello Zalivani, suddiviso in otto capitoli, utilizzando la forma dialogica propria dei catechismi, ma anche di molti altri pamphlets dell'epoca, si soffermava in forma semplice e rapida sui concetti di popolo, governo, società, nazione, legge, rappresentanza politica, si soffermava sui valori democratici ben sposati ai valori cattolici, sui diritti dell'uomo individuati nella libertà, uguaglianza, sicurezza e proprietà, sui suoi doveri individuati nell'ubbidienza alle leggi e al governo, nel servizio e difesa della società.
Nel complesso campeggiava l'idea di sovranità del popolo (tutti i cittadini uniti in società) esercitata tramite la democrazia rappresentativa, l'idea della conciliabilità delle forme democratiche con i valori evangelici, l'idea dell'uguaglianza di tutti indistintamente di fronte alla legge intesa come volontà sociale. Esplicita era però la legittimazione delle diseguaglianze economico-sociali in quanto derivata dalla naturale diseguaglianza delle capacità e dei meriti. Solenne era la riaffermazione perentoria del diritto inviolabile della proprietà privata.
Per lo Zalivani la fine della municipalità aprì un periodo di mortificanti imposte autocritiche e comportò il suo allontanamento da Venezia e l'emarginazione. Stessa sorte, ma meno dura, conobbero altri preti che si erano esposti a sostenere tesi "giacobine", come Stefano Sala, autore di una Istruzione al popolo sopra lo spirito della religione cristiana (39).