L’antiebraismo e l’antisraelismo di certi veneti marciani

L’antiebraismo e l’antisraelismo di certi veneti marciani

Messaggioda Berto » mar gen 20, 2015 10:18 am

L’antiebraismo e l’antisraelismo di certi veneti marciani
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 167&t=1338


Io non potrò che stare, sempre dalla parte di Israele e dei suoi ebrei che si difendono come possono e con estrema moderazione e misericordia dai nazisti maomettani palestinesi;
mai e poi mai potrei stare con i nazisti maomettani che sterminano ebrei e cristiani e ogni diversamente religioso e pensnate, ovunque sulla terra;
io sarò sempre contro il nazismo maomettano, religione e politica dell'orrore e del terrore, con il suo maledetto profeta idolatra e assassino Maometto e il suo idolo di morte Allah. Io, per indole e natura sto con le vittime che con i carnefici e in Medio Oriente le vittime sono gli ebrei e Israele e i carnefici i nazisti maomettani palestinesi.




Amare e rispettare gli ebrei e Israele è una gioia, una necessità, un dovere, fondamento di libertà
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 131&t=2785


Io veneto sto con Israele e i suoi ebrei che sono tra gli uomini più umani e civili della terra
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 197&t=2759
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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L’antiebraeixmo e l’antisemetixmo de çerti veneti marciani

Messaggioda Berto » mar gen 20, 2015 10:21 am

Łi sasini de l’ebreo Cristo - I romani
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Catołeghi Tradisionałisti

Ciao Berto
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From: mgruggiero@gmail.com
To: mgruggiero@gmail.com
Sent: Sunday, April 20, 2014 10:02 AM
Subject: AUGURI!

Voi già sapete, o cristiani, che la notte della domenica in cui risuscitò Gesù Cristo, un angelo discese dal cielo e, suscitato un grande terremoto e rovesciata la pietra del sepolcro, vi si assise al di sopra con un aspetto fulminante; sicché le guardie poste dai Giudei al sepolcro, atterrite a quella vista, restarono tutte come morte. Voi sapete parimenti che il sepolcro fu poi visitato e rivisitato dalle sante donne e dai discepoli. […] Dove intanto si trovassero le guardie, l’Evangelio non lo dice. Esso dice solamente che, partite le donne dal sepolcro, Quae cum abiisent, alcuni soldati della guardia andarono in città a riferire ai sommi sacerdoti tutto quello che era avvenuto […] vale a dire riferirono loro non solamente che il terremoto e l’aspetto minaccioso e terribile dell’angelo li aveva fatti dallo spavento tramortire, ma inoltre che, rovesciata dall’angelo la pietra del sepolcro, il corpo di Gesù Cristo non vi si trovava più. […] Ora i sacerdoti, assicurati così dalle guardie che il corpo di Gesù Cristo tra mezzo a inauditi prodigi era da sé sparito dal sepolcro, che dovevano essi pensare? Che dovevano fare? Essi dovevano pensare che Gesù Cristo era veramente risuscitato, come aveva promesso […] Allora fu che i capi de’ Giudei ebbero ben a pentirsi d’aver posta al sepolcro quella guardia di cui tanto dapprima si gloriavano. O consigli degli uomini, quanto siete voi ciechi contro i consigli di Dio! Senza quella guardia, sarebbe stato facile ai capi de’ Giudei il dire che i discepoli avevano rubato il corpo di Gesù Cristo: ma con quella guardia era loro ben difficile il dirlo e più difficile ancora il provarlo.

Difatti che cosa far credere al popolo di quella guardia? Forse che i soldati fossero stati forzati dai discepoli? Ciò li avrebbe disonorati nel punto per loro delicato della bravura; ed essi lo avrebbero costantemente negato. Forse ch’essi, quando fu rubato il corpo di Gesù Cristo, si trovassero tutti addormentati? Ciò era cosa evidentemente ridicola a dire, ma pur più facile a farla dai soldati attestare. Per qual mezzo adunque ottenere da loro la testimonianza? Per mezzo del danaro. Guai, cristiani, infelice danaro! Quanti delitti ha esso mai cagionati nel mondo! Guai a chi lo dà per render gli altri complici del proprio peccato; e guai a chi lo riceve per rendersi complice del peccato altrui! […]

L’avarizia era una delle passioni favorite dei capi de’ Giudei; […] Chiamati pertanto i soldati, i capi de’Giudei diedero loro una grossa somma di danaro, pecuniam copiosam dederunt militibus; ma col patto che andassero dicendo che i discepoli avevano rubato il corpo di Gesù Cristo mentre essi dormivano, vobis dormientibus.

Ma qui restava ancora un’altra difficoltà. Un soldato di guardia che si fosse lasciato prendere dal sonno era reo di morte. Quei soldati adunque, col dire che si erano tutti addormentati, si esponevano a pericolo d’esser tutti dal Governatore puniti di morte. Ma in tal caso i capi de’ Giudei presero sopra di loro stessi tutto questo affare: essi avrebbero acquietato il Governatore e messi i soldati al coperto d’ogni pena […]. Quanti delitti, o cristiani, e quanti deliri insieme in tutto questo procedere dei capi de’ Giudei! Si conosce la verità e si vuol farla passare per un’impostura; s’inventa un’impostura e si vuol farla passare per una verità; si fa attestare da guardie corrotte a prezzo d’oro ciò che non possono aver veduto, si fa dire a queste guardie ciò che le fa ree di morte e se ne promette loro l’impunità; insomma, purché l’odio contro di Gesù Cristo resti soddisfatto, si fanno passare per ragionevoli e giuste le assurdità più ridicole, insieme e le più esecrabili empietà. Tanto è vero, o cristiani, che le passioni talvolta arrivano a soffocare negli uomini ogni principio di retta coscienza e insieme di sana ragione.

Preso allora il danaro, i soldati andarono francamente spacciando la favola ch’era loro stata suggerita, sicut fuerant edocti: e questa favola si divulgò tra i Giudei e vi fu lungamente creduta: Et divulgatum est verbum istud apud Judaeos usque in hodiernum diem.

Insensati Giudei! Stupida credulità! I soldati, posti con tanta gelosia alla guardia del sepolcro, si sono addormentati tutti; e allo strepito inevitabile fatto per rovesciarne la pietra non se ne risvegliò neppure un solo; e i discepoli furono quelli che, rovesciata la pietra, hanno rubato il corpo di Gesù Cristo; e i testimoni irrefragabili ne sono i soldati, che tutti allora dormivano; e i soldati stessi sono quelli che pubblicano questo loro fallo degno di morte e fanno sapere a tutti che i discepoli hanno rubato quel corpo perché essi dormivano; e questi soldati non si accusano, non son fatti punire, anzi vengono assicurati dell’impunità, premiati, pagati profusamente; e i discepoli stessi, che per rubare il corpo di Gesù Cristo hanno infranti i sigilli pubblici e rubando quel corpo hanno cagionato un errore peggior del primo, un errore che rovescia sino dai fondamenti tutta la religione giudaica, questi discepoli si lasciano tranquilli nella città santa, in Gerusalemme, sotto gli occhi del Governatore insieme e dei sommi sacerdoti, senza perquisizioni, senza minacce, senza supplizj: ah! veramente mentita est iniquitas sibi, ps. XXV I, 12; si, cristiani, l’iniquità si smentisce da sé medesima, e la verità da tutte le parti si manifesta. […]

Divino Gesù, se la favola inventata contro di voi, dopo risorto, dai capi de’ Giudei e fatta credere al popolo giudaico ne ha fatti perire tanti tra loro eternamente, ah! non sia cosi di noi che crediamo e crediamo di tutto cuore la verità della vostra risurrezione. Deh! anzi questa fede, animata in noi dalle opere della santa carità e vincitrice per conseguenza di tutte le nostre passioni, che ce la potrebbero far perdere, questa fede ci tenga tutti a nostra santificazione e salute uniti inseparabilmente a voi, per viver tutti con voi la vita della vostra grazia sulla terra e la vita della vostra gloria nel cielo; vita che, al pari della vita vostra dopo risorto, sarà per tutti i secoli dei secoli immortale.

Spiegazione pastorale ordinata degli Evangelj, di Francesco Molena, già parroco de’ Santi Rocco e Domenico di Conegliano, dedicata a S.E. illustrissima e reverendissima Monsignor Giovanni Ladislao Pyrker von Felső-Eőr, già Patriarca di Venezia ed ora Arcivescovo d’Erlau. 2a edizione riveduta. Milano 1837, tomo V, pp. 211-217.


Con i migliori auguri di una Santa Pasqua in Domino Jesu Christo,

Maurizio-G. Ruggiero
e gli altri amici tradizionalisti veronesi

Il giorno 20 aprile 2014 11:11, pentoalb <pentoalb@pentoalberto.191.it> ha scritto:
Cristo el jera on judeo, n'ebreo: i cristiani li xe i seguaçi de l'ebreo Cristo.
A copar Cristo xe sta li romani e no li ebrei e mi no a go gnaona senpatia par el catoleghexemo roman.
A mi me piaxe Cristo l'Ebreo e no li catoeghi-romani.

Bona Pascoa, Berto.
----- Original Message -----
From: Maurizio Ruggiero
To: pentoalb
Sent: Sunday, April 20, 2014 6:56 PM
Subject: Re: AUGURI!
Intanto a uccidere Gesù Cristo furono gli ebrei, i romani eseguirono la sentenza. "E tutto il popolo rispose: ricada il suo sangue su di noi e sui nostri figli" (Mt. 27, 25). Cristo era ebreo per parte di madre, ma era Dio per parte di Padre. E Dio non ha nazioni. Inoltre, dopo il deicidio, tutto l'antico Testamento è riassunto nel nuovo e i riti giudaici non hanno più senso (terremoto, velo del tempio squarciato, successiva distruzione del tempio ecc.). Per di più i giudei osservano adesso una religione talmudica, che nulla ha a che fare con l'antica legge. E, comunque, bisogna salvarsi. L'unica religione per salvarsi è il Cristianesimo cattolico. Ma bisogna conoscerlo, non agire sentimentalmente. Né basta scegliersi ciò che piace per salvarsi. Ciao. M.G.R.


Il giorno 20 aprile 2014 19:14, pentoalb <pentoalb@pentoalberto.191.it> ha scritto:
Me dexpiaxe par le to credense ma a condanar Cristo xe sta el roman Pilato e a metarlo so la croxe a xe sta li soldà romani, no li ebrei.
Ke li ebrei li gapia sernesto de salvar el Pareota/Patriota Baraba anvençe ke l'eretego o raxiante Cristo no vol dir ke xe sta li ebrei a coparlo.
I romani anvense de coparghene do li ghi nà copa ono e grasià staltro ente l'ocaxion de la Pascoa.
Gnente ghe cava ai romani la so colpa.
Par mi a Roma e entel catolesexemo roman no ghè gnaona salvesa. La salvesa caxo mai la xe en Cristo.

Va bene. Cosa vuoi che Ti dica? Ti sei fatto una ricostruzione Tua che non è quella corretta, che non è quella della Chiesa e neppure quella che la Repubblica Marciana seguiva. L'anima è la Tua ... Ti mando un vecchio testo sul deicidio e un testo su Venezia e gli ebrei, che Ti fa vedere quanto si era convinti un tempo dell'unicità salvifica del cattolicesimo (quello tradizionale, si capisce, non quello deformato dele parrocchie di oggi, uscite dal concilio vaticano II): al punto da sanzionarsi, a Venezia, le prostitute che si concedevano a non cattolici. Ciao. M.G.R.
http://www.traditio.it/PASQUE%20VERONES ... /Ebrei.pdf

Chi ha ucciso Gesù Cristo (par i catoleghi romani tradisionalisti)
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... U4R2M/edit


Ghe sovegno a sti catołego-romani ke łi apostoli łi jera tuti ebrei-judei, anca Piero e Marco e ke gran parte dei disepołi de Palestina łi jera judei, ebrei come Cristo.

Basta co sto antiebraeixmo dei catołego-romani!

Sti catołego-romani pur de negar ke Cristo el fuse ebreo-judeo łi riva a negar ła nadura omana del Cristo.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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L’antiebraeixmo e l’antisemetixmo de çerti veneti marciani

Messaggioda Berto » mar gen 20, 2015 10:24 am

Ła persecousion creistian-romana de łi ebrei:


Persecusion dei cristiani, dei pagani, de łi ebrei, dei musulmani, de łi atei e de łi apostati, de łi raxianti (ereteghi), dei coki.
viewtopic.php?f=24&t=1331


Persecusion de łi ebrei


Li sasini de l’ebreo Cristo - I romani
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... dtS1k/edit
viewtopic.php?f=176&t=342

Cronologia delle principali persecuzioni subite dagli Ebrei nell'Europa “cristiana”
http://ideadiversa.blogspot.com.es/2011 ... ipali.html

Di Corrado Maggia

325 d.C. CHIESA. Dopo il Concilio Ecumenico di Nicea (Asia Minore - Turchia), la Chiesa cristiana stabilisce il suo atteggiamento verso gli Ebrei: essi devono continuare ad esistere, in reclusione e umiliazione, per gli scopi del Cristianesimo.

380 ITALIA. Sant'Ambrogio vescovo di Milano, non solo approva l'incendio di una sinagoga da parte di cristiani istigati dal loro vescovo, ma minaccia di scomunicare l'imperatore Teodosio che voleva punire i colpevoli e far ricostruire la sinagoga a spese del vescovo. Teodosio rinuncia a difendere i diritti degli Ebrei.

386-387 CHIESA. Giovanni Crisostomo, Padre della Chiesa orientale, pronuncia sermoni violentemente antiebraici: «Per il deicida nessuna indulgenza, nessun perdono possibile», «essi massacrano i loro figli e li sacrificano al diavolo».

438 CHIESA. Teodosio II, imperatore romano di Costantinopoli, legalizza l'inferiorità civile degli Ebrei.

535-553 IMPERO ROMANO. L'imperatore Giustiniano I, pubblica il «Corpus Juris Civilis», espressione della sua politica antiebraica.

589 SPAGNA. Il III Concilio di Toledo proibisce agli Ebrei disposare Cristiani e di esercitare funzioni pubbliche.

612 SPAGNA. Il re Visigoto Sisebut, inaugura una politica di conversione forzata di tutti gli Ebrei del regno.

628 FRANCIA. Dagoberto I espelle gli Ebrei dal Reame Franco.

632 BISANZIO. L'imperatore Heraclius decreta il battesimo forzato di tutti gli Ebrei del suo impero.

633 SPAGNA. Viene formulata la dottrina ufficiale della Chiesa sulla conversione degli Ebrei.

638 CHIESA, SPAGNA. Il VI Concilio di Toledo ordina l'espulsione dalla Spagna di tutti gli Ebrei che rifiutano il Battesimo.

672 SPAGNA. VIII Concilio di Toledo. Interdizioni, formalità, prescrizioni di ogni genere si moltiplicano nei confronti degli Ebrei convertiti.

681 CHIESA. Il re Visigoto Erwig, preoccupato di estirpare con le radici la «peste giudaica», fa adottare dal XII concilio di Toledo 28 leggi repressive nei confronti degli Ebrei convertiti.

694-711 SPAGNA. Gli Ebrei spagnoli vengono dichiarati schiavi, i loro figli all'età di 7 anni tolti ai genitori e affidati a famiglie cristiane.

722 BISANZIO. L'imperatore Leone III emana un editto che impone il battesimo forzato.1012 GERMANIA. L'imperatore Enrico II espelle gli Ebrei da Magonza. È l'inizio di persecuzioni contro gli Ebrei anche in Germania.

1096-1099 PRIMA CROCIATA.

GERMANIA. I crociati massacrano gli Ebrei della Renania. (Per molti uccidere un Ebreo equivaleva ad espiare i propri peccati.) Intere comunità vengono distrutte perché gli Ebrei posti davanti all'alternativa di lasciarsi battezzare o di essere uccisi, preferiscono la morte all'apostasia. Molti Ebrei di Worms, cercando rifugio in un castello locale, furono massacrati mentre recitavano le preghiere del mattino.

1099 GERUSALEMME. CROCIATE.

Entrati in Gerusalemme, tutti gli Ebrei sono rinchiusi nella sinagoga che viene incendiata. I crociati circondarono la sinagoga cantando «Cristo, ti adoriamo!». L'evento segnò la fine della comunità ebraica di Gerusalemme, sebbene un limitato numero di Ebrei vi ritornò dopo la riconquista musulmana nel 1187.

1144 INGHILTERRA. Norwich. Per la prima volta gli Ebrei vengono falsamente accusati di assassinio rituale di bambini. Queste calunnie scatenano ogni volta reazioni popolari violente e spesso sanguinose nei confronti degli Ebrei.

1146 SECONDA CROCIATA.

GERMANIA. I Crociati perseguitano e uccidono gli Ebrei della Renania.

ISRAELE. Gli Ebrei di Gerusalemme sono bruciati vivi nella loro sinagoga.

1147 GERMANIA. Würzburg. Massacro di Ebrei per falsa accusa di omicidio rituale.

1171 FRANCIA. Blois. Tutta la comunità ebraica e massacrata a causa di una falsa accusa di omicidio rituale.

1182 FRANCIA. Il re Filippo Augusto di Francia decreta l'espulsione degli Ebrei dal suo regno e la confisca delle loro proprietà.

1189-92 TERZA CROCIATA.

AUSTRIA. Persecuzioni e assassini di Ebrei.

1190 INGHILTERRA. Massacri a York e altre città.1191 FRANCIA. Bray-sur-Seine. Falsa accusa di omicidio rituale: un centinaio di Ebrei sono uccisi.

1215 CHIESA. Il IV Concilio Lateranense introduce per gli Ebrei l'obbligo di portare una stella gialla sul vestito.

1235 GERMANIA. Fulda. Falsa accusa di omicidio rituale. 34 Ebrei massacrati.

1236 FRANCIA. Persecuzioni antiebraiche nella Francia occidentale.

1240 FRANCIA. Dispute dottrinali a Parigi, culminate col rogo del Talmud.

1242 FRANCIA. Rogo del Talmud a Parigi.

1255 INGHILTERRA. Lincoln. Falsa accusa di omicidio rituale.


El rasixmo, łe colpe e łe responsabełetà de łi ebrei
viewtopic.php?f=25&t=468


“L’anticristianesimo alle origini dell’antigiudaismo” di Don Nicola Bux
Pubblicato 16 maggio 2010 | Da Libertà e Persona
Una storia che nessuno ricorda. La Chiesa delle origini, composta anche da molti ebrei convertiti al cristianesimo, fu perseguitata dai Giudei. Al punto che le autorità dell’impero romano dovettero emanare norme per difendere i cristiani.
Da il Timone – Aprile 2010

http://www.libertaepersona.org/wordpres ... a-bux-1807

Nel suo saggio Ebrei e cristiani. Il mito di una tradizione comune (San Paolo, 2009), il noto studioso ebreo Jacob Neusner demolisce appunto l’idea, diffusasi soprattutto tra i cattolici dopo il Concilio Vaticano Il, che le due religioni abbiano molto in comune. L’autore lo aveva già fatto con un altro testo, Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù, nel quale affermava che «Secondo la Torah, molto di ciò che Gesù ha detto è sbagliato». Joseph Ratzinger nella prefazione lo definiva come «Il saggio più importante per il dialogo ebraico-cristiano dell’ultimo decennio». Neusner ha ragione?
Prendiamo le Scritture: è vero che noi cristiani abbiamo quelle ebraiche che chiamiamo Vecchio Testamento, ma gli ebrei non hanno il nostro Nuovo Testamento; inoltre, la comprensione delle Scritture per noi passa attraverso Gesù. C’è poi un altro aspetto non secondario: la religione giudaica al tempo di Gesù passava attraverso l’interpretazione dei Farisei, invece Gesù si richiamava ai Patriarchi e ai Profeti.
L’attuale religione giudaica è quella rinata dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d C, filtrata attraverso il Talmud – monumentale studio della Torah, la legge divina, compilato tra IV e V secolo, dove il ruolo dei Profeti è minimo – perché proprio i Profeti avevano preso le distanze dalle interpretazioni insopportabili intervenute al tempo della divisione dei regni e degli esili.

Nella recente visita alla sinagoga di Roma, papa Benedetto XVI ha rinnovato il rispetto per l’interpretazione che gli ebrei hanno dell’Antico Testamento: sappiamo che questa è diversa da quella cristiana, soprattutto perché la Torah, come dice Neusner, è filtrata attraverso il Talmud che è il giudaismo. Ma basterebbe solo un punto a marcare la differenza: la fine del Tempio, cioè il luogo della Shekinah, la Presenza divina. Resta il fatto che «La Chiesa, popolo di Dio, della nuova Alleanza, scrutando il proprio mistero, scopre il proprio legame con il popolo ebraico, che Dio "scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola"» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 839).
I Padri della Chiesa erano convinti che l’antica Alleanza si fosse compiuta in Cristo e se ne sentivano i veri eredi; non solo era avvenuto il passaggio dal giudaismo al cristianesimo, anzi al giudeo-cristianesimo, ma, quasi contemporaneamente, anche quello alla Chiesa dei gentili, ovvero le genti pagane che si convertivano a Cristo. L’Ecclesia ex circumcisione e l’Ecclesia ex gentibus si possono ancora oggi ammirare a Roma come due figure femminili nel mirabile mosaico di S. Sabina all’Aventino.

Allora, perché tanta insistenza da parte cattolica sulla comunanza, quando poi gli stessi ebrei continuamente prendono le distanze, ora sulla persona e l’opera del Venerabile Papa Pio XII, ora sulla "Preghiera per gli ebrei" approvata dal Benedetto XVI per l’uso nella celebrazione della forma straordinaria del rito della Santa Messa, ora sulla revoca della scomunica alla Fraternità San Pio X e così via?
E malgrado le spiegazioni, non sembrano mai appagati? A mio avviso, il motivo di fondo è l’anticristianesimo. Negli Atti degli Apostoli i "nazareni" – così erano chiamati i cristiani dagli ebrei – non pensavano di costituire una religione a parte, malgrado le vessazioni subite dagli stessi Apostoli e dalle comunità; quando furono cacciati dalle sinagoghe, infatti, misero insieme nel primo giorno dopo il sabato – chiamato kyriakè, cioè domenica – la lettura della Torah, che si faceva di sabato, e la celebrazione dell’Eucaristia.
Attorno a tale polo, si può osservare in Palestina la differenziazione progressiva della suppellettile liturgica cristiana da quella giudaica, per esempio nei simboli: il sacrificio di Isacco nelle sinagoghe è reso con tutti i dettagli figurativi, invece nelle chiese è ridotto all’agnello legato all’albero posto sotto o dietro l’altare; l’altare dei sacrifici nel cortile del Tempio e la tavola delle offerte all’interno, nelle chiese vengono sintetizzati nell’altare a cui si addossa una mensa. In occidente, molto evidente prima del Vaticano Il.
Si può intravedere in ciò una sorta di antigiudaismo cristiano?
Certamente no, ma solo la consapevolezza del compimento delle figure antiche nelle nuove. Dagli ebrei ciò è ritenuta ancora oggi una eresia. Che il cristianesimo fosse "vino nuovo in otri nuovi", lo provano alcuni altri fatti. Gesù aveva detto: «Quando poi vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua desolazione è vicina. Allora coloro che sono in Giudea fuggano ai monti, quelli che sono nella città si allontanino...» (Lc 21,20-21). Così fecero i seguaci di Gesù nel 70, in gran parte giudei divenuti cristiani, dissociandosi dalla sanguinosa rivolta antiromana. I cristiani non parteciparono nemmeno alla rivolta del 132-135 capitanata da Bar Kochba, anzi pagarono caramente.

Alcuni decenni dopo, Giustino di Nablus scriveva: «I Giudei ci considerano loro nemici e loro avversari. Come voi, anch’essi ci perseguitano e ci mettono a morte quando possono farlo [.. .]. Ne potete avere le prove. Nell’ultima guerra di Giudea, Bar Kochba, il capo della rivolta, faceva subire ai soli cristiani gli stessi supplizi se non rinnegavano Cristo» (Apologia 1,31,6). Eusebio aggiunge: «se non lo bestemmiassero» (Storia Ecclesiastica IV,8). Alcuni ritornarono da Pella, in Transgiordania, ove si erano rifugiati e si stabilirono, secondo la testimonianza di Epifanio nel Trattato dei pesi e delle misure, attorno alla "piccola chiesa" del Sion, nella parte meridionale di Gerusalemme.
La rottura tra cristianesimo e giudaismo si consumò a Yamnia, centro a sud di Jaffa, dove i rabbi farisei presero in mano le redini della nazione, per ridare fiducia ai sopravvissuti al massacro compiuto dai romani e alle deportazioni, prendendo decisioni ardue al fine di riorganizzare la comunità ormai priva del Tempio e delle autorità sacerdotali e nazionali.
Si confrontarono posizioni moderate e conciliazioniste, come quelle di rabbi Johanan ben Zakkai e Rabbi Joshua ben Hananyah, e posizioni dure e intransigenti, come quelle di Rabbi Eliezer ben Hircanos e di rabbi Gamaliel. Queste ultime, maggioritarie, prevalsero al momento di definire e approvare le cosiddette 18 Decisioni vincolanti per la comunità, e di passare alla stesura delle 18 Benedizioni, con l’aggiunta di quella dei Minim, ossia gli apostati – invero una maledizione (Birkat-haMinim) -inclusiva dei giudeo-cristiani.
Nella Mishna – compilazione della legge orale fatta da rabbi Juda agli inizi del III sec. d.C. a Tiberiade – si afferma perentoriamente: «Queste sono alcune delle decisioni che furono prese nella camera superiore di Hananyah ben Hiskiah ben Gurion, quando i saggi salirono per fargli visita. Essi votarono e i saggi della Scuola di Shammay (l’ala dura difesa da un buon manipolo di gente armata pronta a far valere la ragione della forza) si trovarono in maggioranza. Quel giorno furono prese le 18 Decisioni» (Shab 1 ,4).

Nel Talmud babilonese si legge: «Quel giorno Hillel (rabbi simbolo dei moderati in opposizione a Shammay) sedette umilmente come un discepolo davanti a Shammay. Quel giorno fu così penoso come il giorno in cui fu fatto li vitello d’oro» (Shab 171). La Birkat-haMinim finì per sancire la rottura tra l’ebraismo farisaico rappresentato dai Sapienti e la Chiesa Madre di Gerusalemme: sia gli uni che gli altri, infatti, la considerarono una vera e propria scomunica. Il testo, conservato nella ghenizah del Cairo (luogo della sinagoga dove si conservano i libri sacri) recita: «Che gli apostati non abbiano speranza e che il regno dell’insolenza sia sradicato ai nostri giorni.
Che i Nozrim (i nazareni) e i Minim spariscano in un batter d’occhio. Che siano rimossi dal libro dei viventi e non siano scritti tra i giusti. Signore che abbassi gli orgogliosi». Con tale scomunica vennero così colpite tre categorie: i Giudei collaborazionisti del vincitore romano, l’impero romano in quanto tale e i Giudei seguaci di Gesù. Veniva sancita la rottura definitiva tra la Sinagoga e la Chiesa nascente.
Tale posizione causò la caccia al giudeo divenuto cristiano. AI punto che l’imperatore Costantino nel 315 promulgava alcune leggi, come quella indirizzata ai capi giudei, in cui proibiva di molestare quanti avevano abbracciato la nuova religione, ribadendo la legislazione precedente che proibiva agli incirconcisi di diventare ebrei, insieme all’abolizione del supplizio della croce, del crurifragio – lo spezzar le gambe ai condannati a morte – e del marchio a fuoco sulla fronte degli schiavi.
Nel 329, il 18 ottobre, l’imperatore promulgava una legge per proteggere i convertiti dal giudaismo, condannando a morte i Giudei che avessero lapidato chiunque «era fuggito dalla setta omicida e aveva rivolto gli occhi al culto di Dio (diventato cristiano». Viene alla memoria il protomartire Stefano, ucciso tre secoli prima dagli ebrei ellenisti. Ancora il 21 ottobre del 335, Costantino decretava la punizione per i Giudei che avessero perseguitato un ebreo convertito al cristianesimo. Anche Valentiniano III e Teodosio II l’8 aprile 426 emanarono una legge con cui proibivano alle famiglie giudee e samaritane di diseredare i loro membri convertiti al cristianesimo.
AI tempo dell’imperatore Focas, gli Ebrei o almeno i più fanatici tra loro non perdevano occasione per ripagare autorità e popolazione cristiana con ogni genere di offese, come descrive Giacobbe, un convertito dal giudaismo: «io odiavo la legge dei cristiani e il ricordo di Cristo, e non volevo udire la profezia di profeti che avevano profetizzato a riguardo di lui; ma restavo a macchinare contro i cristiani in ogni sorta di mali e li oltraggiavo enormemente» (Sargis d’Aberga 63).
Tutto questo doveva portare malauguratamente al desiderio di vendetta dei cristiani, al punto che Focas si adoperò per la conversione forzata di tutti gli ebrei dell’impero alla religione di Stato, sebbene già in precedenza papa Gregorio Magno avesse scritto ai vescovi proibendo di battezzare gli ebrei contro la loro volontà e in altro momento ingiungeva al vescovo di Cagliari di far restituire la sinagoga che un neoconvertito dall’ebraismo aveva sottratta ai suoi antichi correligionari.
L’intolleranza cristiana si alimentava con la continua rivalsa giudaica.
Fermiamoci qui alle soglie del Medioevo. Per fortuna oggi uno spirito nuovo da parte cattolica, ma anche da non pochi gruppi di ebrei, ci porta a considerarli come "fratelli maggiori", sebbene talvolta tentati da invidia come quello della parabola del figlio prodigo perché il padre compassionevole ne aveva festeggiato il ritorno ammazzando il vitello grasso.

Don Nicola Bux
Ricorda «Anche noi, abbracciando con la fede il Cristo che viene da Betlemme, divenimmo da pagani popolo di Dio. Egli, infatti, è la salvezza di Dio Padre. Vedemmo con gli occhi il Dio fatto carne. E proprio per aver visto il Dio presente fra noi ed averlo accolto con le braccia dello spirito, ci chiamiamo nuovo Israele". (S. Sofronio, patriarca di Gerusalemme, Discorso 3 su//"’Hypapante", 6,7; PG 87,3, 3293).
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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L’antiebraeixmo e l’antisemetixmo de çerti veneti marciani

Messaggioda Berto » mar gen 20, 2015 11:23 am

Ła bastiema pì granda ke l’omo el posa dir lè dirse Dio o Alah o on so prefario o predileto! Dio o Alah lè el Pare Celeste e Creador de l'Ogneverso e nol ga prefarense par ki ke sipia e gnanca mai el ga mandà coalkedon (o lu memo fatose omo e ciamà fiolo) a morir en croxe par salvar el mondo, anca se xe vero ke da la morte dapò vien senpre la vida e ke Dio o Alah lè vida sagra, santa, enfeneda e eterna.

On credente el ga el dirito de credar e on ke nol crede el ga dirito de no credar.

Se on credente el va en volta a contar kel so credo lè veretà, on ke nol ghe crede el ga el memo dirito de ndar en volta a contar ke kel credo no la xe na veretà ma na bàla.

Se no ghe fuse i credenti no ghe saria gnanca ki ke no crede e no ghe saria gnanca le goere de relixon e la persecusion de le credense de li altri e de ki ke no crede.
Se no ghe fuse ki ke no crede e pì credense, i credenti li rivaria a de ke li asoloutixmi orendi ke se pol ben "apresar" ente li paexi totalidari endoe xe bandeste e persegoità le altre credense e tuti coeli ke no crede: le tere de l'abomegno endoe kel sangoe de li enoçenti el score come acoa.

Se ga lomè da rengrasiar ki ke no crede e ke ne porta e ke ne tien co li pie par tera, anca co le so crue cargadure e desagrasion.

Łe ognołe credense bone łe xe coełe ogneversałi ke łe va ben par tuti parké łe xe veretà ke tuti pol recognosar e ke no se pol no recognasar parké łe xe viste/sentie/apresà/condivixe da tuti.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Messaggioda Berto » dom nov 29, 2015 8:37 pm

Ixlam, pałestinexi, ebraixmo, ebrei, Ixraełe
viewtopic.php?f=188&t=1924

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... eliani.jpg


Mussulmani e ebrei, Palestina e Israele
https://www.facebook.com/permalink.php? ... 0147022373
Un'incompatibilità che nasce con Maometto e si protrae sino a oggi
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L’antiebraeixmo e l’antisemetixmo de çerti veneti marciani

Messaggioda Berto » gio dic 31, 2015 9:18 am

Na discusion entel vecio fiłò de raixe venete:


Xanon el gheva scrito

Calma e gesso!
No xè assolutamente vero che i Ebrei sia stai contro Venexia!
Ansi! çerte volte i ghe gà fato prestiti par le so guere che gnanca i cristiani ghe fava!
In confronto de le antre nassion o paesi, quà a Venexia i Ebrei i xè sempre stai acetai e benvolui, sepur emargiani e serai denntro al gheto.
Ma sto quà jera el voler de la ciesa de Roma che obligava tuti i stati a perseguitarli e mandarli via.
Ghe xè in archivio di intieri scafai alti 5 metri e longhi 10, de documenti e de imposission che la cesa ghe fava al governo de la Serenissima acciò che la rispetasse la so volontà.
Tanto più che a Venexia i ghe gà permesso di costruirse adiritura 5 Sinagoghe e de ampliarse anca al de fora del gheto.
L'unica restrission che i gaveva jera quela de essar dentro al gheto de note e de no poder aver case o beni immobili.
I fasseva la mercatura, la medicina, e tanti antri mestieri.
I partecipava a le carature de la mercansia de le navi e nei porti indove che Venexia gaveva quartieri o la jera parona, i gaveva le so case come i cristiani.
Par chi che no lo savesse, le carature le jera le parti de un carico de 'na nave.
Le navi le andava via in "mude" o flotte de 12-15 a la volta.
El paron del carico, par divider le spese e i danni in caso che la nave andasse a fondo, el lo divideva in tante parti e le vendeva a che che le crompava.
Uno podeva crompar carature in diverse navi par risciar de manco e divider la spesa. Essendo quasi impossibile che le andasse a fondo tute, i soldi i tornava quasi sempre indrìo anca sensa ave fato vadagno.
E i Ebrei i partecipava sempre a ste forme de comercio.
E i soldi che i vadagnava, no podendo aver beni immobili, i li re-investiva in comercio o a prestito su usura (i la ciamava "fenerazione" o "fenerare") al tasso masimo del 5% de interesse e controlà da 'na aposita magistratura.
Quando che ogni tanto el papa ghe imponeva a la Repubblica de alontanarli da Venexia, i li mandava a Mestre e dopo poco tempo (co se calmava le aque) i li fasseva tornar.
Ai primi tempi i li fasseva abitar tuti a l'isola de la Judeca (da Judeo), e verso el 1400 i li gà fati vegnir in città, a Cannaregio, in un posto indove che ghe jera 'na fonderia "indove che i "getava" metali, e da quà el nome de Gheto).
No dovè a fermarve solo su un livro... gavè da lezar anca antri livri, specie queli de Ricardo Calimani, o del Cessi, o del Romanin, e antri ancora.
E chi che gà salvà diverse opere d'arte che el boia napoleon jera drìo portarse in franza, xè stà i Ebrei che le riscatava dai so generaloni fin che i le predava e le vegniva sconte, par tornar sul mercà o a l'Academia passada la sfuriada.
Se pò parlè par simpatia-antipatia o par partito preso o solo parchè i xè Ebrei, questo xè nantro conto.
Ma no podaràè MAI modificar la storia...


El bravo

Che nel 1796 i ebrei qua i fose a favore de Napoleone xe storicamente provà: basta anca solo vardare i nomi dei municipalisti.
E no xe che i fose tratai male a Venesia. Sicuramente i jera tratai mejo dei Gesuiti, che invese jera sta espulsi (riprova che Venesia no jera par gente servile verso el Papa).
L'astio dei ebrei al tenpo jera dovù soratuto al fato che dopo la metà del '700 i gheva ciapà in man oltre el 50% del comercio maritimo. El Senato Veneto jera intervegnesto, e gheva limità de paca le atività economiche che i gheva, e da là jera nato un forte risentimento.
Dopo l'unità di'italia i se ga inposesà dela gran parte del patrimonio che jera dei Patrisi Veneti e dela Ciexa. Infati el governo italian sequestrava e meteva a l'asta. La Ciexa ordinava de far ndare le aste dexerte, i ebrei (che anca qua i ga dimostrà de fare i so intaresi e non queli dela comunità indove che i viveva) i se ga conprà le mejo vile venete (cambiandoghe dopo nome tipo Villa Lion a Albigansego deventà Villa salom, e tante altre) , e anca le mejo proprietà teriere co 4 palanche, canbiando subito el tipo de condusiòn de chi che lavorava, non più paternalistico, ma capitalistico contribuendo non poco ala situasiòn che ga cauxà la gran emigrasiòn de fine '800.
Comunque la cultura ebraica, come quela islamega, va conosuda, e dopo uno poe farse n'idea de quanto de belo e de amnco belo che le ga e quanto che le poe esare conpatibili co la nostra cultura. Basta lexare el Coran, e el Talmud.


Xanon el gà scrito

Do robe no xè zuste: la municipalità e el comercio dopo la metà del '700.
I capi de la municipalità i jera Zorzi e Spada, e no i jera Ebrei, cussì come che de Ebrei ghe ne jera solo 2 su 14.
Dopo la metà del '700 Venexia gaveva ripreso in pieno el comercio, rivando quasi al peregio, grassie a la rivolussion americana che gaveva dirotà par quele perti tuto el comercio europeo lassando libera Venexia de trafegar da sola.
Al punto che a Istanbul el 52% de le navi bateva bandiera Venexiana.
I Ebrei no podeva essar paroni de calcossa, parchè le legi ghe lo impediva, però i podeva partecipar a le carature de i trafeghi maritimi.
Infin la Republica, nel 1786, la gaveva emanà i novi statuti nautici par el comercio e la navigassion, che ancora adesso i xè in parte in vigor in tuto el mondo, e là de çerto no ghe centre i Ebrei.
Che dopo lori, avendo tanti soldi liquidi, i gabìa fato le so brave speculassion, no ghe piuove sora...


El bravo

Gigio, go scrito robe che se poe risocntrare, no robe sbagliade.
Xe el 2 de Otobre del 1777 che vien emanà forti limitasiòn al comercio dei ebrei, proibendoghe tuta na serie de mercati e proibendogehe la posibilità de avere cristiani ale so dipendense, oltre a altre varie robe.
Sto fato parchè dala seconda metà del '700 el comercio jera sta senpre più monopolixà dai ebrei che gheva superà el 50% dela quota de mercato, e condisionava el marcà.
Sti dati oltre che sparsi so vari libri te poi catarli so uno de n'autore che te consarè ben (che anca se come storico el xe de parte e poco serio, e anca anti-veneto, el riporta notisie reali e documentabili).
El libro xe:
NAPOLEONE NEL VENETO
Venezia e il generale Bonaparte 1796-1797
l'autor xe WALTER PANCIERA


El bravo

Par Nono Gigio:
So la nova Municipalità de Venesia, ciapava i posti più importanti la comunità ebraica: Mosè Luzzatto deventava titolare del Comitato delle Finanze (te pareva..) co 2 asistenti, Isach Grego e Isach Treves.
Vita Vivante invese ciapava la gestion del Banco Giro, na specie de banca nasionale veneta (te pareva..) , del comercio e dele Arti.
Tra i municipalsiti ghe jera anca Michele Salom, anca se le jera da Padova.
Comunque l'acaparamento dei posti che conta jera generalixà co el disolvimento del Stato Veneto anca in teraferma. A Rovigo par exenpio tre ebrei gheva el controlo del Comitato di Economia, Finanze e Commercio.
Sti posti vegenva da non certo parchè i se jera distinti ne l'ostegiare i invaxori... te permetarè.



Saria da profondirle ben ste robe, cofà łe responsabiłità de łi ebrei en Xermagna, però anca se no łi se fuse conportà purpio ben ente sti caxi non vol dir ke łi ebrei łi xe el mal asoludo pì del mal ke pol vegner da tanta altra xente, altre etnie, altre rełixon.

Parké i todeski łi se ła ga ciapà tanto co łi ebrei?
viewtopic.php?f=130&t=443

El rasixmo, łe colpe e łe responsabełetà de łi ebrei
viewtopic.php?f=25&t=468

Ƚe colpe, ƚe responsabeƚetà e ‘l tradimento dei venesiani
viewtopic.php?f=167&t=1277

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... nesian.jpg
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Messaggioda Berto » gio dic 31, 2015 9:38 am

Ente ogni caxo no se pol far come he łi fa i musulmani e i pałestinexi, encolpar łi ebrei de Ixrael de tute łe dexgràsie del mexorente, del mondo musulman e del mondo, ste robe no łe se fa parké no łe xe vere:


Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... raeghi.jpg



Anca i musulmani łi ła ga co łi ebrei e łi łi encolpa de tuto el mal:


https://www.facebook.com/62157122124071 ... hoto_reply


Silvia Layla Olivetti

Se volete conoscere le storie di Giulia, Lucia, Zoe, Nathalie, Abderrahmane e Marco, leggete il mio nuovo libro "Isis, diario di un jihadista italiano" (David and Matthaus editore). Per riflettere e approfondire senza giudicare


Ouiel Oviel Bensad

Sorella Silvia, spero che il libro non fa il gioco del sistema Nwo giudaico che vogliono favi credere che l'isis wahabita sia L' Islam vero, e saremo tutti manipolati come vorrebbero i nemici di Dio, e siamo dei perdenti moralmente e senza dignità.


Alberto Pento

Ouiel Oviel Bensad, l'attribuzione di islamicità a l'IS non è dovuta a una diffamazione sistematica degli "odiati e odiosi" ebrei o giudei ma alle dichiarazioni degli esponenti islamici dell'IS, alla tipicità delle loro orrende azioni che coincidono perfettamente con la tradizione islamica wahabita e non solo (vedasi salafiti), a cominciare dalle "sante razzie predatorie e omicide" di Maometto e dei suoi seguaci, nonché a quella degli Assassini della Montagna del Grande Vecchio e alle prescrizioni della Sharia o legge islamica applicata in molti paesi a dominio politico-religioso islamico. Incolpare gli ebrei è un'assurdo e uno stravolgimento della realtà storica e delle vicende odierne che dimostra chiaramente l'odio dei mussulmani più "credenti, integralisti e fondamentalisti" verso gli ebrei e verso tutti i diversamente religiosi e la loro natura menzognera e totalmente inaffidabile. Chi non sa assumersi le sue responsabilità e riconoscere i propri errori non è un uomo e non è degno di alcun rispetto. Dio non è schiavo dell'islam e prigioniero dei mussulmani. I mussulmani non sono il popolo eletto di Dio, non sono l'umanità pura i migliori tra gli uomini. Dio il Creatore dell'universo non appartiene ai mussulmani e non ha bisogno di profeti. Il Dio dell'islam è soltanto un idolo e gli idoli sì che appartengono agli uomini, ai popoli e alle bande di ladroni e di assassini. Sono gli idoli che hanno bisogno del terrore e dell'orrore e di bande di assassini per imporsi e non certo Dio il Creatore dell'universo. Perché dovunque arriva l'islam e gli islamici, "questi portatori di pace, di amore fraterno e di rispetto della diversità religiosa e culturale", iniziano i conflitti e le guerre sociali, religiose e politiche?


Ouiel Oviel Bensad

Alberto Pento Il wahabismo takfiri è la setta Saud origine ebrei, hanno stessa dottrina come la logica Talmudista ebraico satanico, uccidere, bruciare, e atti terroristici contro l'umanità, tutto ciò che proibisce l'islam loro lo fanno! nient altro d'aggiungere, e senza copia ed incolla. Grazie.


Alberto Pento

Non credo assolutamente che il Talmud ebraico sia satanico e che ordini il terrorismo e lo sterminio dei non ebrei di tutto il mondo; sono soltanto menzogne musulmane o solo di certi musulmani (?).

Talmud, ke łe sipia vere ste robe?
viewtopic.php?f=197&t=2065


Alberto Pento

Mi dispiace, Ouiel Oviel Bensad, ma questo tuo genere di "controinformazione" appartiene alla tradizione dolosa o malata della "disinformazione o deformazione della realtà", attribuire la responsabilità dell'IS all'occidente americano, europeo, cristiano e ai sionisti ebrei nonché ai loro amici e complici mussulmani sauditi è come attribuire alla CIA e al governo degli Stati Uniti la strage delle Twin Towers e l'attacco a Pearl Harbor: assurdità assolutamente demenziali.
Il tuo odio per gli ebrei e gli altri mussulmani è così grande che arrivi a definire ebrea anche la tribù dei ben Saud che hanno dato origine all'Arabia Saudita. Che lungo i millenni vi possano essere stati ebrei convertitisi all'islam è possibilissimo, però questi ex ebrei sono divenuti islamici come tutti gli altri e in ogni caso non mi pare proprio che i ben Saud (Rabīʿa e adaniti) abbiano origine ebraiche.
Dalle tue parole emerge una mentalità malata di grande presunzione, di grandissima ignoranza e di un ancor più grande vittimismo dove i mussulmani veri come te sarebbero i buoni i puri e santi mentre tutti gli altri esseri umani sarebbero invece bestie impure e preda del male a cominciare dagli altri mussulmani, passando per i cristiani e tutti i diversamente religiosi, terminando con gli ebrei sionisti di Israele che sarebbero il male assoluto e figli di satana e figli di satana anche se nipoti di Abramo e di Isacco come gli islamici sono nipoti di Abramo e di Ismaele; se sono figli di satana gli ebrei allora lo sono anche i mussulmani loro cugini.
Dovete avere il coraggio di affrontare le radici violente dell'islam, del salafismo, del wahhabismo e dei Fratelli Mussulmani, degli assassini del Vecchio della Montagna, che affondano nelle azioni e nelle parole di Maometto più che in una interpretazione errata degli insegnamenti del Corano e dell'esempio del "Profeta" e più che nelle azioni e nelle parole degli ebrei, dei cristiani, degli altri diversamente religiosi, degli europei e degli americani.
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Messaggioda Berto » sab gen 02, 2016 4:27 pm

Marino Berengo - Gli ebrei veneziani alla fine del Settecento
http://www.storiadivenezia.net/sito/sag ... eziani.pdf
estratto dal volume ITALIA JUDAICA – 1989.
“Gli ebrei in Italia dalla segregazione alla prima emancipazione”
Atti del III Convegno Internazionale – Tel Aviv 15-20 giugno 1986

Alla fine del Settecento entro i confini de l ghetto di Venezia risulta stanziata una popolazione che da alcuni decenni è stabile in torno ai 1600 abitanti e che ha conosciuto, in manifesta concomitanza con la ricondotta del 1777, una flessione di poco inferiore al 10% che, negli anni seguenti, si viene lentamente riassorbendo.

Sull’origine nazionale degli ebrei veneziani l’Anagrafe del 1797 ci appare dunque molto sicura; e la particolare attenzione che dedica ai capifamiglia, ci suggerisce di concentrare su di essi il nostro approccio demografico. A ssai minore fiducia ci sembra di poter riporre nelle qualifiche professionali, perché gli ebrei, esclusi dalle corporazioni, dalle professioni liberali e dal pubblico impiego, esercitano mestieri e attività difficili da definire: il diligente e accurato scrivano Saul Mortera rispecchia fedelmente nel suo registro il ristagno sociale provocato dalla legislazione aristocratica.
In effetti, degli 85 “senseri di strazze” (o “strazzeri” o “bottegheri di strazze” o simili), dei molti che sono qualificati con un generico “compra e vende” o “vive d’industria” è facile supporre una molteplice rete di attività integrative. Li divide dai “benestanti negozianti e bottegai” un confine che era nitido agli occhi del contemporaneo Mortera, ma riesce assai più fluido per noi. Se non abbiamo dubbi che i Treves, i Vivante, i Curiel, i Todesco, i Malta, che scambiano grandi partite di frumento, zucchero, olio, generi coloniali, ma anche di drappi e di panni con Corfù, Alessandria, Livorno e gli altri porti mediterranei, sono grandi mercanti internazionali, la densa folla degli operatori intermedi che ogni giorno escono dal ghetto e vanno a Rialto, ci riesce difficile da allineare in categorie distinte e precise.
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Messaggioda Berto » sab gen 02, 2016 5:14 pm

L'ultima fase della serenissima - La politica: LA MUNICIPALITA DEMOCRATICA
Storia di Venezia (1998)
di Giovanni Scarabello
capitolo iv

http://www.treccani.it/enciclopedia/l-u ... Venezia%29

...

Domenica 14 maggio si pubblicò un proclama con il quale si rese noto alla popolazione il cambiamento di regime e il prossimo ingresso in città delle truppe francesi (16).

Il 15 ci si dedicò soprattutto alla stesura di un fondamentale manifesto: quello con cui si intendeva formalizzare il passaggio dei poteri dal vecchio regime alla municipalità democratica provvisoria. La bozza fu stesa dal Villetard e discussa con il Donà, con lo Spada e qualche altro e anche con l'ex doge. Il Villetard voleva che ad emanarlo figurasse ancora il vecchio governo (il "Serenissimo Principe").
Si riuscì a scindere il testo in due proclami: uno, più breve, in cui il vecchio governo informava che da quel momento il potere era nelle mani della municipalità, e uno, più consistente, che comprendeva tra l'altro la lista dei membri dell'assemblea municipalista (concordata tra il Villetard e i democratici riuniti a casa sua). Nel corso delle discussioni era stata declinata l'offerta del Villetard e dei democratici di porre l'ex doge Ludovico Manin come presidente dell'assemblea municipalista.

I due proclami furono pubblicati il 16.
Il primo si intitolava ancora al "Serenissimo Principe" e il secondo era intitolato semplicemente "Manifesto" (17).

Quello intitolato (sarebbe stato per l'ultima volta) "il Serenissimo Principe fa sapere che" era assai stringato. Diceva che da quel momento il governo sarebbe stato "amministrato da una Municipalità Provisionale"; che essa s'era installata nella sala dell'ex maggior consiglio; che quel giorno stesso, 16 maggio, alle ore 12, tutti i militari con grado di ufficiale si dovevano portare in quella sala a prestare il giuramento di fedeltà nelle mani della municipalità.

Il proclama intitolato "Manifesto", recante in calce la lista dei sessanta membri dell'assemblea municipalista, appare assai ben congegnato.
Nella prima parte si proclamava che il vecchio regime, "desiderando di dare un ultimo grado di perfezione al sistema repubblicano" ch'era stato per secoli la gloria di Venezia, annunciava all'Europa e ai Veneti di aver attuato la riforma "libera e franca" della costituzione.
Nella seconda parte si notificava, come esito di tale riforma, la creazione di una struttura di governo provvisoria per Venezia chiamata municipalità, composta da rappresentanti di tutte le "classi" sociali, e si prospettava la possibile creazione di una "amministrazione centrale" (chiamata "dipartimento") incaricata di curare gli interessi generali della Repubblica e costituita da rappresentanze di Venezia, dei territori veneti di Terraferma, dell'Istria, della Dalmazia, dell'Albania e delle isole del Levante.

Sempre in questo manifesto si accennava allo stabilimento della libertà con annessa salvaguardia della religione, dei diritti individuali, nonché della proprietà; si chiariva che la municipalità doveva intendersi come provvisoria sino a che il popolo non avesse potuto riunirsi per elezioni "a norma delle forme democratiche"; si menzionava l'aiuto che i Francesi avrebbero dato perché Venezia legasse le sue sorti a quelle dei popoli liberi d'Italia; si ricordava la spontanea e benemerita rinuncia che gli ex patrizi avevano fatto della loro esclusività di potere e dei loro privilegi.

Era chiaro che la rivoluzione istituzionale avveniva sulla base di una sorta di "compromesso" per il quale i vecchi governanti cedevano il potere e liquidavano il regime aristocratico e i Francesi e i municipalisti subentravano a gestire e garantire trapassi verso situazioni democratiche rispettose dei membri dell'ex corpo dirigente, della sostanza degli assetti sociali esistenti e di una qualche prospettiva per la statualità veneta.

Intanto a Milano i deputati veneziani avevano continuato a trattare con Napoleone assistito dal Lallement.
Essi erano all'oscuro dell'evolvere della situazione a Venezia mentre i Francesi, sia pure con qualche ritardo, ricevevano informazioni dal Villetard e dal generale Baraguey d'Hilliers.
Napoleone li tenne sulla corda con proposte e considerazioni contraddittorie fino a quando, il 14, essi conobbero la decisione finale del maggior consiglio del 12 e a Milano giunse il generale Henry Guillaume Clarke con la ratifica da parte del direttorio dei preliminari di Leoben. A quel punto si convenne che sarebbe stato opportuno formalizzare un trattato di pace tra la Repubblica di Venezia e la Francia. Non ci fu molto da trattare sulla bozza proposta da Napoleone. Il 16 si procedette alla firma del trattato (le sottoscrizioni sono di Napoleone, del Lallement e dei deputati veneziani Francesco Donà, Leonardo Giustinian, Alvise Mocenigo). Ci si chiese subito quale organismo avrebbe dovuto procedere per parte veneziana alla ratifica. Napoleone tagliò corto: il consesso che aveva sostituito il maggior consiglio avrebbe ratificato e avrebbe demandato a tre suoi membri la ratifica degli articoli segreti.

Il trattato di pace constava di 7 articoli palesi e 5 articoli segreti e figurava intervenire tra la Repubblica francese e la Repubblica di Venezia rappresentate rispettivamente dal direttorio e dal maggior consiglio.

Nella parte palese si dichiaravano cessate le ostilità e si conveniva che il maggior consiglio rinunciava al diritto di sovranità, ordinava "l'abdicazione dell'aristocrazia ereditaria", riconosceva la sovranità dello stato nell'assieme dei cittadini che l'avrebbero esercitata attraverso un governo espresso democraticamente.

Tale governo si sarebbe impegnato a garantire il debito pubblico, a sostentare gli ex patrizi poveri e a continuare a corrispondere gli assegni vitalizi in essere. La Repubblica di Francia, di ciò richiesta, acconsentiva a stanziare a Venezia una divisione di truppe per mantenere l'ordine e la sicurezza delle persone e della proprietà e per aiutare "i primi passi" del nuovo governo il quale, peraltro, quando lo avesse ritenuto opportuno, avrebbe potuto richiedere il ritiro delle truppe stesse.
Gli altri contingenti militari francesi avrebbero evacuato i territori veneti di Terraferma "alla conclusione della pace continentale".
Il nuovo governo democratico restava impegnato a proseguire il processo ai tre ex inquisitori di stato e al comandante del forte del Lido per l'insurrezione di Verona e l'affondamento del Libérateur d'Italie. Il direttorio, per mezzo di Napoleone, restava impegnato a concedere un'amnistia generale per i reati commessi contro i Francesi e a liberare i prigionieri di guerra.
Nel primo degli articoli segreti si stabiliva che la Repubblica di Francia e quella di Venezia si sarebbero intese "per il cambio di differenti territori". Nel secondo, terzo, quarto e quinto si stabiliva che la Repubblica di Venezia avrebbe corrisposto in tre rate ai Francesi 3.000.000 di lire tornesi, attrezzature di marina fra quelle esistenti nell'Arsenale veneziano, tre vascelli di linea, due fregate, inoltre, a scelta di Napoleone, venti dipinti e cinquecento manoscritti (18).


4. Esordio e struttura della municipalità democratica di Venezia

I membri della municipalità democratica provvisoria si riunirono per la prima volta in palazzo Ducale nella sala dell'ex maggior consiglio il 16 maggio 1797 sotto la presidenza di Nicolò Corner.

Erano sessanta.


Tra di loro, parecchi erano gli ex patrizi (quasi tutti ricchi); molti i grossi commercianti, gli imprenditori, gli uomini di affari; molti i professionisti (in prevalenza avvocati); non pochi gli ex alti burocrati della Repubblica; qualche ecclesiastico; qualche militare; qualche raro uomo del popolo come Vincenzo Dabalà, il gastaldo dei pescatori di San Nicolò (19).
Di fatto, la stragrande maggioranza era costituita da uomini che socialmente ed economicamente avevano avuto posizione di rilievo anche nel passato regime.
Nella sua composizione, l'assemblea mostrava di essere frutto di quel "compromesso" fra discontinuità e continuità che aveva presieduto confusamente al trapasso dalla Repubblica aristocratica alla democrazia.

Il primo intervento, di saluto al popolo e ai capi militari che erano venuti a prestare giuramento di fedeltà, fu del municipalista, avvocato, Giuseppe Andrea Giuliani. Raccolto il giuramento, Vincenzo Dandolo, un farmacista e chimico destinato a diventare uno dei municipalisti più conseguenti ed attivi, propose un proclama da lanciare al popolo "sovrano" per chiamarlo a stringersi attorno alla municipalità e a sostenerla in nome di parole d'ordine come "libertà", "uguaglianza", "ragione", "giustizia".
Poco dopo giunsero i capi dei lavoratori dell'Arsenale, anch'essi a giurare fedeltà.
Andrea Sordina, un greco che aveva lavorato nell'alta burocrazia della Repubblica, propose che si organizzasse un simbolico "amplesso fraterno" tra i municipalisti e una rappresentanza di soldati francesi.
Francesco Mengotti, un nobile feltrino studioso di idraulica e di economia, pronunciò un discorso in cui, tra l'altro, sostenne che il popolo veneto, tornando alla democrazia, non aveva fatto altro che tornare all'antico ordine repubblicano poi sovvertito dalle degenerazioni e deviazioni aristocratiche.
In quest'ottica, rivoluzione significava riordino, riordinamento.
Un "dotto" discorso che si deliberò di far stampare a spese della municipalità (20).

A questo punto i municipalisti - su invito di Rocco Melancini, un medico - si portarono in piazza San Marco per presentarsi direttamente al popolo. In piazza, tra gli evviva, il Giuliani lesse un proclama pubblicato quel giorno.
In esso si dichiarava "benemerito della patria" l'ex maggior consiglio che aveva "abdicato".
Si annunciava un'amnistia solenne per qualsiasi passato comportamento politico che - nel nuovo regime - avesse potuto esser valutato delittuoso; un'amnistia che escludeva solo i così detti "saccheggiatori del 12", cioè coloro che avevano partecipato alla chiassata popolare del 12 maggio a favore della vecchia Repubblica.
Si chiedeva benevolenza anche per gli ex inquisitori di stato e per Domenico Pizzamano per i quali era in corso un processo. Si promettevano concrete provvidenze (garantite dai beni nazionali e da apposite lotterie) per gli ex patrizi e patrizi poveri e per i pensionati dello stato.
Si assicuravano risarcimenti a coloro che avevano subito danni dall'insurrezione popolare del 12.
Ci si assumevano i debiti della Zecca, del bancogiro e del pubblico erario verso chicchessia.
Si concludeva indicando nella prosperità della patria, nella tutela della religione, della proprietà e della sicurezza, e nel mantenimento della democrazia e della libertà, gli obiettivi principali della municipalità (21).

La prima preoccupazione dei municipalisti fu quella di far funzionare l'amministrazione. Provvisoriamente si mantennero in vita le vecchie strutture con il personale burocratico esistente. Ovviamente fu tolta ai patrizi - che prima la detenevano in esclusiva - la direzione politica di ciascun organismo. Le strutture che non poterono essere assolutamente mantenute in vita furono quelle dell'amministrazione della giustizia. Ad esse il vecchio regime aveva conferito caratterizzazioni di sostanza e di forma talmente originali da renderne impossibile un qualsiasi sia pur transitorio utilizzo. Era un settore in cui occorreva veramente rivoluzionare. Non restò altro che "sospendere il foro" per quindici giorni in attesa di dare ad esso una nuova e moderna configurazione.

Già il 18 si varò lo schema della nuova struttura di amministrazione.
All'assemblea municipalista (che aveva presidente, vicepresidente e quattro segretari) furono affiancati otto comitati, una sorta di ministeri o, se si vuole, di assessorati municipali cui si assegnarono come luogo di riunione le sedi delle ex magistrature della Repubblica per lo più in palazzo Ducale (ribattezzato "Casa della Comune").

Tali organismi furono:

il comitato di salute pubblica (politicamente il più importante);
il comitato militare;
il comitato finanze e zecca;
il comitato bancogiro, commercio, ed arti;
il comitato sussistenze e pubblici soccorsi;
il comitato di sanità;
il comitato arsenale e marina;
il comitato istruzione pubblica.

Ciascuno dei comitati ereditava le funzioni di parecchie delle magistrature della ex Repubblica. Sul momento, vennero mantenuti in vita gli apparati burocratici delle antiche magistrature, ma era nei programmi di smantellarli e sostituirli a poco a poco. Certamente la rivoluzione, semplificazione, razionalizzazione delle strutture fu radicale e non avrebbe potuto essere altrimenti, se non altro per ragione della vetustà degli apparati amministrativi con i quali la vecchia Repubblica era giunta fin alle soglie dell'età contemporanea.

Dei sessanta municipalisti, buona parte si distribuirono nei comitati, due rimasero fuori da incarichi specifici e i rimanenti entrarono in una sorta di comitato aggiuntivo detto "delle istanze" incaricato di ricevere, vagliare ed inoltrare ai comitati competenti le istanze dei cittadini (22).
Il presidente veniva eletto ogni quindici giorni (23).
Quattro erano i segretari il cui compito principale era quello di stendere i verbali delle sedute.
Ci furono delle aggregazioni a fine maggio, delle aggregazioni in agosto con rappresentanti di Cavarzere, Torcello, Murano, Mestre, Pellestrina, Loreo, Chioggia, e Gambarare e Oriago, per cui a fine estate il numero complessivo dei municipalisti si aggirò sull'ottantina.
Ai primi di giugno vennero nominati anche quattro supplenti (24).

Lo schema organizzativo era simile a quello adottato nelle municipalità già formatesi nei territori dell'ex stato veneto e nella Lombardia democratizzata e ricalcava gli schemi amministrativi della Francia postrivoluzionaria (25).

Le sedute dell'assemblea furono pubbliche, private, segrete.
Nelle prime era ammesso il pubblico (fino a trecento persone con biglietti di ingresso distribuiti in egual misura nei sestieri), delle seconde erano pubblici solo i verbali, delle terze si tenevano riservate anche le verbalizzazioni. Pressoché ogni giorno assemblee e comitati si riunivano: l'impegno e il lavoro dei municipalisti furono subito intensissimi.

Come si è visto, il trattato di pace con la Francia era stato firmato a Milano il 16 di maggio dai deputati della ex Repubblica e si era convenuto che la ratifica sarebbe stata effettuata dalla nuova municipalità (26). I tre ex deputati che avevano firmato, tornati a Venezia, vennero a riferire ai municipalisti il 20 maggio e l'assemblea, pur acclamando al trattato, decise di inviare a Milano Tommaso Pietro Zorzi e Pietro Turrini, che si aggiunsero al Giuliani e al Fontana già sul posto, per concordare con Napoleone le modalità per la ratifica (27), la quale venne perfezionata il 29 maggio (28) e presentata al Bonaparte da Francesco Mengotti il quale era stato nominato (27 maggio) rappresentante della municipalità presso di lui.
Tale ratifica era stata approvata dalla municipalità riunita in comitato segreto.
Il governo francese, per parte sua, nonostante gli sforzi veneziani presso Napoleone e a Parigi, non perfezionerà mai la ratifica e ciò, soprattutto, onde conservare le mani libere nelle trattative, già iniziate, per arrivare a quel trattato di pace per il quale a Leoben erano stati firmati i preliminari.

Sul piano del consenso si partiva quasi da zero. I cittadini francamente democratici erano assai pochi. Appartenevano ai ceti medio alti, ma non avevano in quei ceti una sicura base di appoggio. La gente dei ceti medio bassi non appariva per niente schierata con la municipalità e, in certa misura, l'osteggiava.
Moltissimi erano coloro che restavano psicologicamente condizionati dall'attaccamento all'antica Repubblica.
Moltissimi coloro che sentivano i Francesi come degli usurpatori.

Si posero in atto delle decretazioni volte a mantenere i calmieri e a diminuire i prezzi dei prodotti di prima necessità e, sestiere per sestiere, si nominarono dei cittadini per vigilare sull'applicazione dei decreti stessi.
Si prelevarono 12.000 ducati in Zecca per farne distribuzione tra i ceti popolari. Fu disposto che i capi del centinaio e più di corporazioni che compattavano il mondo degli operatori del piccolo commercio, degli artigiani, degli imprenditori e addetti di molte manifatture, degli addetti a certi servizi, rimanessero al loro posto.
Soprattutto si organizzarono una serie di manifestazioni per celebrare la libertà e per incominciare a divulgare immagini atte a diffondere tra la popolazione stimoli alla lettura critica della storia della ex Repubblica, stimoli alla conoscenza dei principi di libertà e democrazia, stimoli per la conoscenza dei programmi della municipalità e per l'adesione ad essi, stimoli alla "rigenerazione" come allora si diceva.

La prima manifestazione propagandistica importante fu l'erezione in piazza San Marco dell'albero della libertà.

Un rito appartenente all'esperienza rivoluzionaria di Francia che si era generalizzato nelle città e territori italiani dove erano arrivate le truppe napoleoniche. La festa ebbe luogo domenica 4 giugno in piazza San Marco. C'erano tre loggiati provvisori, uno posto davanti alla chiesa di San Geminiano per i municipalisti e sormontato dalla scritta "La libertà si conserva con l'osservanza delle leggi" e gli altri due disposti ai lati davanti alle Procuratie (ribattezzate "Gallerie Nazionali") destinati agli ufficiali italiani e francesi e sormontati dalle scritte "La libertà nascente è protetta dalla forza delle armi" e "La libertà stabilita conduce alla pace universale". Un'altra scritta dominava sulle tre appena citate e recitava "Rigenerazione italiana".
All'intorno si incontravano simulacri rappresentanti la libertà col berretto frigio e con i fasci in atto di scacciare la tirannide, il tempo che scopriva la verità, ecc. (gran parte della scenografia fu opera di Neumann Rizzi). C'erano anche quattro orchestre.

All'ora stabilita si formò una sorta di processione: ufficiali francesi capeggiati dal generale Baraguey d'Hilliers comandante militare della piazza, i municipalisti con sciabola e cappello alla nuova moda, soldati italiani, due fanciulli con fiaccole accese in mano e due con gonfaloni su cui si leggeva "Crescete speranze della patria", due giovani coppie di promessi sposi che recavano il motto "Fecondità democratica", un vecchio e una vecchia con attrezzi agricoli, i componenti della Guardia nazionale di recente costituita, i rappresentanti degli stati esteri (quelli che avevano ricevuto l'invito e avevano consentito a presentarsi), le rappresentanze delle corporazioni, i municipalisti ecc. In mezzo alla Piazza, mentre i cannoni sparavano a salve e mentre le campane mandavano i loro rintocchi e i musici suonavano e i coristi de La Fenice cantavano un "Coro patriottico" scritto da Domenico Casotto con musica di Vittorio Trento, si innalzò l'albero della libertà con alla sommità il berretto frigio.

Attorno stavano altri simulacri come le statue con in mano la fiaccola della libertà e dell'uguaglianza. Sventolavano i gonfaloni tricolori sui tre pennoni della Piazza, vibravano con il vento gli addobbi con scritte inneggianti ai Francesi nella Piazzetta, dove una delle due colonne era parata a lutto per commemorare i morti per la democrazia, primi fra tutti quelli del Libérateur d'Italie affondato al Lido in aprile.
Il presidente della municipalità Talier pronunciò il discorso ufficiale ("Democrazia o morte! Ho detto", fu la sua conclusione) ed indi tutti si recarono nella chiesa di San Marco per il Te Deum di ringraziamento. Ritornati in Piazza, dopo un nuovo discorso di Vincenzo Dandolo, incominciarono le danze intorno all'albero della libertà. Si bruciò una copia del Libro d'oro in cui erano un tempo testificati i membri del patriziato, cioè coloro che detenevano in esclusiva il potere politico. Si bruciarono le ex insegne del doge.

A sera, la festa continuò sia in Piazza, sia al teatro La Fenice con un'opera, con allegrezze, con sfoggio di bei vestiti, coccarde, fiori, bandiere, ingresso gratis ai gondolieri, ballo degli arsenalotti a simboleggiar la fratellanza se non l'uguaglianza sociale. Le manifestazioni continuarono per due giorni ancora pur disturbate dal cattivo tempo e con un concorso popolare che - lo si ammise anche nelle gazzette - fu inferiore a quello sperato.

Si sentì il bisogno di avere a disposizione un completo quadro socio-economico della popolazione.
Il comitato di salute pubblica per bocca dell'attivissimo Dandolo lanciò alla municipalità l'invito a procedere all'allestimento di nuove anagrafi.
Incaricati delle rilevazioni erano i parroci ai quali veniva affidato il compito di descrivere in appositi registri la popolazione con curiosi criteri di classificazione: "gran signori"; "benestanti proprietari"; "benestanti bottegai"; bottegai e artigiani sufficientemente provveduti; operai e salariati; disoccupati; oriundi dell'ex stato veneto da più di dieci anni a Venezia, o da meno; oriundi di stati stranieri allo stesso modo; "forestieri ignoti, sospetti, o perturbatori".
Si era alla fine di maggio, il lavoro dovette andar avanti a rilento se in agosto troviamo autorizzata una spesa di 1.966 lire per acquisto dei registri. La rilevazione, nella intenzione dei proponenti, aveva fini di controllo e sicurezza, ma anche fini socio-fiscali in quanto si voleva avere una buona informazione sulle categorie alle quali ci si sarebbe potuto maggiormente rivolgere per portar denaro alle casse dello stato. Fini analoghi ebbero i decreti di metà giugno coi quali si cercò di riportare in patria tutti i cittadini possidenti e benestanti assenti, si cercò di rendere difficile la concessione dei passaporti per lasciare la città ed ancor di più di lasciarla portandosi dietro denaro e valori (29). Fini "filosofici" avrà invece il piano di ridisegno delle suddivisioni sestierali della città che verrà lanciato dal comitato di istruzione pubblica alla fine di ottobre.
Assieme a una riduzione e riconfigurazione delle parrocchie in termini di omogeneizzazione delle consistenze di ciascuna, tale piano proporrà l'eliminazione dei vecchi sestieri e la suddivisione della città (una "esatta divisione democratica, prudente, e filosofica") in otto "sezioni" pressappoco di uguali dimensioni. La sezione comprendente la zona di Castello e l'Arsenale sarebbe stata denominata "Marina"; quella comprendente le sedi della municipalità sarebbe stata chiamata "Legge"; quella comprendente i teatri sarebbe stata denominata "Spettacoli"; quella comprendente le dogane sarebbe stata denominata "Commercio"; quella comprendente San Nicolò e Santa Marta, contrade di pescatori, sarebbe stata denominata "Pesca"; quella comprendente San Polo, dove era la casa Ferratini sede dei cospiratori democratici, sarebbe stata denominata "Rivoluzione"; quella comprendente le sedi delle scuole superiori sarebbe stata denominata "Educazione"; quella comprendente le zone di Cannaregio affaccianti alla laguna verso la terraferma sarebbe stata denominata "Viveri" e in essa la zona dell'ex Ghetto sarebbe stata denominata "Riunione" (30).

Il Ghetto, infatti, era stato aperto con solenne cerimonia ai primi di luglio e ogni discriminazione nei confronti degli Ebrei era stata eliminata.
Alcuni di essi sedettero nell'assemblea municipalista ed assolsero importanti funzioni in taluni dei comitati.


Il calendario venne modificato con l'abolizione dell'uso veneziano di far iniziare l'anno dal 1° di marzo e farlo finire al termine di febbraio (le datazioni more veneto). Inoltre venne adottato, ma solo sussidiariamente, il calendario rivoluzionario francese.
Per le ore del giorno venne abbandonato il vecchio computo che aveva il suo perno nel tramonto del sole (incominciava in quel momento l'ora una di notte) e quindi comportava tutta una variabilità in rapporto alle stagioni, e venne adottato il sistema francese imperniato sulla divisione del giorno in ventiquattr'ore uguali.

Venne anche battuta moneta: le 10 lire veneziane d'argento con l'immagine della Libertà, e alcune scritte sul dritto e sul verso come: "Anno primo della libertà italiana 1797", "Libertà", "Uguaglianza", "Zecca V.". Abbastanza intensa fu l'opera di demolizione e cancellazione dei simboli del passato regime, specie dei leoni di San Marco.


La Guardia nazionale e i battaglioni di linea

Fra le prime preoccupazioni della municipalità vi fu quella di continuare la smobilitazione dei corpi dell'esercito oltremarini, di riorganizzare e snellire i corpi di truppe italiane e di lavorare per la costituzione di battaglioni di linea sull'esempio delle legioni cisalpine da poter offrire in campo a Napoleone in caso di riapertura delle ostilità. Un tentativo in giugno di arruolare volontari per tali battaglioni dette scarsissimi risultati.
In ogni caso verso la fine di agosto la municipalità poté avere a disposizione un migliaio di soldati ben equipaggiati ed addestrati. Sempre poco rispetto alle richieste francesi di una forza di seimila uomini. A fine settembre, nel quadro delle mosse atte a mostrare una determinazione francese alla guerra nel caso di improduttività delle trattative di pace, anche il battaglione di linea veneto partì per il Friuli.
Per tutto quel che atteneva al mantenimento dell'ordine repubblicano, dopo le prime settimane in cui si attivarono delle pattuglie di cittadini, si procedette alla costituzione della Guardia nazionale. Una sorta di corpo, una "forza interna", da portare a un certo grado di addestramento militare attraverso esercitazioni periodiche, vincolato da un giuramento alla democrazia, tenuto a una disciplina, incaricato di funzioni varie (per lo più a turno) di vigilanza in città, specie in difesa degli ordinamenti democratici contro ogni eversione, eventualmente ed in certa misura in grado di funzionare anche come riserva di uomini addestrati su cui, all'occorrenza, i corpi più propriamente militari avrebbero potuto attingere. Già ai primi di giugno si lanciò il piano di organizzazione che prevedeva l'arruolamento di tutti i cittadini maschi dai 16 ai 50 anni che fossero stati fisicamente abili, eccettuati i funzionari pubblici, i medici, i servitori, gli ecclesiastici, i questuanti. Erano previsti un'uniforme e depositi di armi. Sulle prime il servizio venne configurato come gratuito e solo in un secondo momento sarà previsto un tenue indennizzo. Tre ufficiali delle truppe di linea (il tenente colonnello Bucchia, il maggiore Verlato e il capitano Mattei), con il grado di generali di brigata e con adeguato stipendio, vennero preposti all'organizzazione, addestramento e comando delle formazioni. Ognuno di essi comandava le formazioni della

Guardia di due sestieri della città.
Sulle prime si registrò la buona disposizione al servizio da parte di un discreto numero di cittadini. Figurare nella Guardia nazionale dava occasione a un certo protagonismo soprattutto di facciata (l'uniforme, il prendere parte con distinzione e proprio ruolo ritualizzato alle numerosissime cerimonie pubbliche, l'esser investiti di immagini di autorità, ecc.). Ben presto però la non chiarezza dell'evolvere della situazione generale, un certo fastidio per i pesi imposti, il tempo che veniva sottratto alle occupazioni ordinarie e altre ragioni ancora determinarono molti a escogitare pretesti per farsi esentare (soprattutto compiacenti attestazioni mediche) e spinsero altri a sottrarsi francamente agli obblighi.
In agosto la presenza delle truppe francesi in città si alleggerì e sembrò che la Guardia nazionale dovesse compensare tale alleggerimento con un suo maggior protagonismo, viceversa vennero spedite a Venezia delle milizie cispadane che si acquartierarono al Lido. Per di più, i Francesi intensificarono l'asporto di tutte le armi dall'Arsenale, compresi i duemila fucili che dovevano servire per i tre battaglioni della Guardia di cui due già completamente organizzati (compagnie di granatieri, fucilieri, cacciatori e banda musicale). La prospettiva organizzativa prevedeva una strutturazione in legioni come nella Cisalpina. Nel momento di massima espansione l'organico della Guardia nazionale si aggirò sui quindici, diciottomila uomini.


I rapporti con il clero
Il "compromesso" mediante il quale si erano configurate forme e sostanze del trapasso dagli assetti aristocratici a quelli municipalisti democratici aveva fissato ben fermo ed esplicito anche il punto della salvaguardia della religione cattolica e delle sue strutturazioni nella società veneziana e veneta. Pertanto sia ai municipalisti che al patriarca si propose subito l'esigenza di dare continuità, in concreto, alla consueta intesa/alleanza tra autorità civile e autorità religiosa (31).

Non ci furono problemi. La municipalità - la quale, oltre a tutto, non contava nel suo seno uomini dagli umori eversivi in fatto di religione e di Chiesa - mostrò immediatamente di far molto conto sul corpo ecclesiastico come su uno degli strumenti da utilizzare per la creazione del consenso popolare, che si presentava scarsissimo. Il patriarca di Venezia, Federico Maria Giovanelli, così come gran parte dei vescovi veneti (fra l'altro va ricordato che quasi tutti provenivano dall'ex patriziato veneziano) (32), avute le assicurazioni più ampie sulle buone disposizioni dei nuovi governanti in fatto di religione e di clero, non ebbe difficoltà a perseguire il mantenimento di un buon dialogo con le nuove autorità. Una linea prudente di tal fatta era del resto consigliata anche dalla situazione politica generale in forte movimento e dal fatto che poco chiari permanevano i destini che si preparavano per Venezia e per il Veneto.
Con una pastorale del 17 maggio, il patriarca esortò la popolazione alla subordinazione al nuovo governo provvisorio sottolineando che i "cambiamenti erano successi con il previo concorso del Maggior Consiglio che rappresentava allora la Veneta Repubblica". Era più un avallo alla legittimità del nuovo governo che non un avallo alla democrazia in sé. Il primicerio, cioè il prelato che gestiva la chiesa di San Marco, la ex cappella dogale, dette disposizione perché la pastorale venisse letta tre volte ogni mattina nella chiesa stessa. Pochi giorni dopo, il patriarca, il primicerio e il clero vennero convocati a prestar "civico giuramento alla municipalità" nonché a presenziare al successivo "banchetto patriottico". Il 25 maggio, solennemente, il giuramento venne pronunciato dal provicario del patriarca Bartolomeo Zender. Il 4 di giugno, festa di Pentecoste, ma anche festa dell'innalzamento in piazza San Marco dell'albero della libertà, si trovò un accordo per non sovrapporre l'orario delle due celebrazioni e l'albero fu innalzato dopo le 16 a funzioni religiose esaurite. Il patriarca non partecipò alla festa, ma vi presenziò invece il primicerio che, dal 1787, era Paolo Alvise Foscari, e non mancò un Te Deum in chiesa.

Sostanzialmente, l'accordo tra la municipalità e il patriarca non conobbe momenti di grave rottura anche se qualche attrito e contraddizione ci fu. I municipalisti si mossero - e con prudenza - sul solco della politica giurisdizionalistica che era stata della Repubblica e non certo nella direzione delle politiche nuove della Francia rivoluzionaria.
Verso la fine di giugno, quando nell'assemblea municipalista si discuteva sulla libertà di stampa, il patriarca fece sentire la sua voce preoccupata circa i pericoli che, se "smodata", essa poteva comportare (33). Nello stesso periodo, ad iniziativa del municipalista abate Collalto, membro del comitato di istruzione pubblica, si discusse una decretazione che dava nuova configurazione alla scelta dei parroci della città. Essi avrebbero dovuto essere eletti a maggioranza di voti da parte di coloro che risiedessero nella parrocchia ed avessero più di 21 anni di età. La novità forse più rilevante era data dal fatto che con il passato regime votavano solo coloro che avevano possessioni in parrocchia, anche nel caso non fossero stati residenti. A fine agosto vennero in discussione questioni come quella della riduzione del numero delle parrocchie cittadine, che - si pensava - potevano passare da settanta a quaranta o a trenta, e questioni relative a blocchi da porre alla eccessiva espansione del numero dei secolari e dei regolari (34).
A parlare di riduzione del numero dei preti si era incominciato già da fine luglio quando il Dandolo aveva proposto l'allontanamento di quelli forestieri. Il grosso della discussione si sviluppò dopo i primi di settembre partendo da un progetto del comitato di istruzione pubblica. Vari emendamenti addolcirono questo o quell'aspetto dell'assai drastico progetto iniziale (35) e certamente, agli effetti di tale addolcimento, non fu ininfluente l'azione del patriarca, il quale, a dibattito iniziato, chiese con una lettera direttamente a Napoleone di intervenire per sospendere il progetto onde consentire una più maturata valutazione dei vari aspetti delle questioni sul tappeto.
Un'aperta contrattazione tra patriarca e municipalità presiedette invece alla elaborazione di un progetto di sistemazione dei monasteri femminili. Il 10 ottobre la deputazione all'amministrazione generale delle cause pie, dopo aver descritto la situazione di grave degrado economico di parecchi monasteri, presentò un piano per accorparne parecchi. In pratica si chiedeva di ridurre il numero di essi da trentasette a quindici concentrando in questi ultimi le millecentoquarantasei monache esistenti. Inoltre si proponevano vari interventi per funzionalizzarne l'amministrazione con l'ottimistica previsione di ridurre in tal modo le spese annue da 1.500.000 a 725.000 lire. Il piano venne presentato al patriarca il quale, dopo aver lodato le intenzioni di risanamento, abilmente entrò nel merito di esso e dopo pochi giorni presentò una sorta di contropiano per mezzo del quale egli riproponeva l'autorità ecclesiastica come l'unica legittimata a decidere e gestire provvedimenti in materia di strutture ecclesiastiche e controproponeva che, ferma la salvaguardia di tutti i beni dei monasteri, fosse appunto l'autorità ecclesiastica a provvedere con propri criteri alla concentrazione dei monasteri stessi e all'accentramento e ripartizione delle loro risorse (36).

Nel mentre che, con qualche resistenza, continuava - a pro delle fusioni della Zecca esausta - il drenaggio degli ori ed argenti delle chiese che non fossero direttamente serviti ai riti ecclesiastici e si coinvolgeva nelle consegne obbligatorie anche il tesoro di San Marco, fu prospettata la soppressione della figura del primicerio e dell'ex cappella dogale la quale, come si è detto, faceva da secoli tutt'uno con la chiesa di San Marco. Nei progetti, tale chiesa sarebbe dovuta diventare la sede della "parrocchia centrale" della città, cioè la nuova sede patriarcale al posto di San Pietro di Castello (37).
Come si vede, si trattò di moderati progetti di razionalizzazione. In ogni caso non ci fu tempo per nessuna realizzazione.
Taluni progetti saranno ripresi ed attuati nel primo Ottocento con il napoleonico Regno d'Italia in un contesto ben più ampio e radicale di interventi sistematori e anche liquidatori di non poche delle strutturazioni ecclesiastiche veneziane che avevano attraversato i secoli della Repubblica.
L'amministrazione municipalista contò tre ecclesiastici: l'abate Signoretti, l'arciprete Talier e l'abate Collalto. Nella sostanza, tre intellettuali. Il Signoretti, ex gesuita e massone, e il Talier si mossero su posizioni moderate. Più impegnato fu il Collalto, uno studioso di matematica e fisica, il quale si collocò contiguo all'ala radicale della municipalità guidata dal Dandolo. A lui si devono alcuni dei progetti di riforma delle strutture ecclesiastiche veneziane di cui si è detto. Tutti e tre agirono all'interno dell'assemblea municipalista a titolo personale e senza fili di rapporto con il patriarcato.

Fra i membri del clero ci fu un diverso atteggiarsi rispetto ai nuovi assetti politici determinatisi a Venezia dopo il 12 maggio. Moltissimi si allinearono alle direttive della gerarchia e mantennero atteggiamenti esteriori di conciliante prudenza ed attesa (su questo versante, punti di riferimento furono, pur con accentuazioni diverse, il vicario del patriarca Bartolomeo Zender, don Giovanni Giuseppe Piva e don Scipione Bonifacio).
Alcuni, pochi, non seppero resistere al bisogno di esternare posizioni di rifiuto rispetto a questo o quell'aspetto del nuovo corso delle cose. Dichiaratamente ostili al nuovo governo fin dal primo momento furono i preti Antonio Moroni, Lorenzo Guizzetti, Giuseppe Zappella e Giuseppe Driuzzi. Tutti erano parroci meno il Guizzetti. Degli umori di fronda di altri sappiamo sia dai rapporti dei commissari di polizia, sia dalle prese di posizione contro di loro di qualche municipalista come il Dandolo, sia dalle "liste nere" compilate in alcune occasioni come, per esempio, in ottobre nei giorni della "congiura Cercato".
Fra coloro (anch'essi pochi) che non seppero resistere alla voglia di mostrarsi protagonisti di entusiasmi e di ben proclamate adesioni alle idee democratiche, ci furono, da una parte, quelli che semplicemente ottemperarono agli inviti della municipalità di cooperare con la predicazione a sollecitare i fedeli "al rispetto delle leggi e all'intima conoscenza del libero governo" e, dall'altra, ci furono quelli che si fecero organici all'attività politica della municipalità. Fra questi ultimi, oltre ai tre membri della municipalità già nominati, occorre ricordare Giuseppe Valeriani, prete della parrocchia di San Maurizio, il quale fu direttore dell'ufficioso "Il Monitore Veneto" e più tardi abbandonerà l'abito talare, e don Antonio Zalivani, parroco della popolare parrocchia di San Nicolò dei Mendicoli, il quale aderì alla società di istruzione pubblica e fu autore di un Catechismo cattolico-democratico (38) che ebbe grande successo presso i municipalisti, venne stampato in gran numero di copie e venne diffuso largamente e d'imperio nelle parrocchie e nelle scuole.

Il Catechismo dello Zalivani, suddiviso in otto capitoli, utilizzando la forma dialogica propria dei catechismi, ma anche di molti altri pamphlets dell'epoca, si soffermava in forma semplice e rapida sui concetti di popolo, governo, società, nazione, legge, rappresentanza politica, si soffermava sui valori democratici ben sposati ai valori cattolici, sui diritti dell'uomo individuati nella libertà, uguaglianza, sicurezza e proprietà, sui suoi doveri individuati nell'ubbidienza alle leggi e al governo, nel servizio e difesa della società.

Nel complesso campeggiava l'idea di sovranità del popolo (tutti i cittadini uniti in società) esercitata tramite la democrazia rappresentativa, l'idea della conciliabilità delle forme democratiche con i valori evangelici, l'idea dell'uguaglianza di tutti indistintamente di fronte alla legge intesa come volontà sociale. Esplicita era però la legittimazione delle diseguaglianze economico-sociali in quanto derivata dalla naturale diseguaglianza delle capacità e dei meriti. Solenne era la riaffermazione perentoria del diritto inviolabile della proprietà privata.
Per lo Zalivani la fine della municipalità aprì un periodo di mortificanti imposte autocritiche e comportò il suo allontanamento da Venezia e l'emarginazione. Stessa sorte, ma meno dura, conobbero altri preti che si erano esposti a sostenere tesi "giacobine", come Stefano Sala, autore di una Istruzione al popolo sopra lo spirito della religione cristiana (39).
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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L’antiebraeixmo e l’antisemetixmo de çerti veneti marciani

Messaggioda Berto » sab gen 02, 2016 6:16 pm

La memoria dei padri: cronaca, storia e preistoria di una famiglia ebraica ...
Di Cesare Vivante

https://books.google.it/books?id=8WxSSS ... A0&f=false

http://storiamestre.it/2015/03/cesarevivante-1920-2014
...

Torniamo al 1792: grazie agli inventari preparati al momento dello scioglimento della fraterna, e soprattutto grazie a Cesare Vivante e ad alcuni suoi collaboratori che li hanno studiati, possiamo avere un’idea abbastanza completa della fortuna, dei gusti e del mondo culturale dei Vivante.
Gli inventari contengono liste di case, diciassette bastimenti, capitale liquido, oggetti preziosi, gondole, libri, arredi e corredi, merci, strumenti musicali, quadri e oggetti di culto. In particolare, gli inventari dei libri (cinque inventari comprendenti le biblioteche delle quattro famiglie e quella di Giuseppe Emanuele) ci permettono, soprattutto quando sono dettagliati, di avere un’idea sulle conoscenze delle lingue, sugli argomenti che interessavano i loro proprietari, sui loro orizzonti culturali e sulle loro sensibilità.
La biblioteca di Lazzaro Vivante comprendeva circa 150 titoli (e molti più volumi, visto che c’erano collezioni di decine di volumi ciascuna) in ebraico, italiano francese e inglese, relativi a materie molto svariate, caratterizzata da una presenza notevole della cultura dell’Illuminismo, con grande spazio alla letteratura e alle opere classiche, rinascimentali e settecentesche.
Alcuni libri trattano argomenti marittimi e commerciali, come il Dizionario di Comerzio del Savari, il Codice della Veneta mercantile marina, il Consolato del mare, e le Lezioni di Comerzio del Genovesi. La lista dei libri ebraici della stessa biblioteca è oggetto di un’analisi separata, curata da Piergabriele Mancuso, in Appendice al libro. Le altre biblioteche, pur essendo descritte con meno dettagli, presentano simili caratteristiche, con qualche preferenza personale, come per esempio una certa inclinazione per argomenti di carattere inglese nella biblioteca di Jacob Vita.
Il possesso delle navi era senza dubbio l’espressione più cospicua del successo economico dei Vivante.
Un’altra Appendice del libro, curata da Gilberto Penzo, è dedicata a questo argomento. Sei navi erano di intera proprietà, cinque per la maggioranza dei “carati” (cioè quote), due per la metà, e quattro con quote di minoranza. Erano di tipi diversi: una fregata, quattro “navi”, due brigantini, un trabaccolo, mentre le altre erano cecchie e pollache. I
l valore complessivo dei carati tenuti dalla fraterna Vivante era di 86.800 ducati. Con lo scioglimento della fraterna, queste navi furono divise tra gli ex soci, con reciproci compensi.

Al posto della fraterna, si crearono tre società indipendenti: una, di Lazzaro, Jacob Vita e nipoti Vivante (i discendenti di Menachem e di Maimon), centrata a Venezia; un’altra, gestita da Leon e Aron (figli di Menachem), il cui centro di attività era Trieste; e quella di Leon Vita, figlio di Maimon, che si occupava soprattutto degli scambi con Corfù. Quest’isola continuava a costituire un perno delle attività marittime dei Vivante, ma le loro navi raggiungevano anche San Giovanni d’Acri (per l’esportazione del cotone palestinese), Alessandria d’Egitto (per lo zucchero e il caffè), i porti del Maghreb, Livorno, Genova, Marsiglia, Barcellona, Lisbona e Londra.

8. In seguito alla caduta della Repubblica nel 1797 e all’istituzione della cosiddetta “Municipalità provvisoria” sotto la tutela francese, gli ebrei veneziani ottennero, per la prima volta, pieni diritti civili e politici. Alcuni esponenti della famiglia Vivante non tardarono a svolgere varie funzioni pubbliche.
Il più in vista fu Jacob Vita Vivante (ossia il nonno del nonno dell’Autore), uno dei i tre esponenti dell’Università degli ebrei che fecero parte della nuova amministrazione cittadina, all’interno della quale era anche membro della Commissione commercio e arti.


La ditta capeggiata da Jacob Vita aveva già avuto prima della caduta della Repubblica l’incarico (secondo lo stesso Jacob Vita, impostogli) dell’approvvigionamento delle armate francesi, e lui stesso continuò a occuparsene anche dopo il 1797. Raffaele e Momolo (Maimon) Vivante diventarono ufficiali nella nuova Guardia nazionale. In questa prima fase dell’era post-aristocratica, la ricchezza dei Vivante appare ancora molto rilevante. In occasione della prima tansa attribuita dalla Municipalità provvisoria, nella categoria degli esercenti e mercanti, essi pagano la cifra più alta di tutta la città.

Pare che Jacob Vita fosse ben cosciente della precarietà della situazione politico-militare nel nord-est italiano, e soprattutto di un possibile passaggio alla dominazione austriaca. Approfittando della possibilità, nuova per gli ebrei, di acquistare beni fondiari, la ditta si affrettò a comprare imponenti proprietà nel padovano e nel Veronese, quest’ultime appartenenti in passato a due grandi abbazie – quella di San Zeno Maggiore e quella della Santissima Trinità – soppresse da Napoleone e messe all’incanto pubblico. Vedere famiglie ebree tra i grandi proprietari terrieri, un settore dal quale erano esclusi da sempre, era un fenomeno del tutto nuovo in questa parte del mondo.
Ma la precarietà della condizione degli ebrei si fece presto palese quando, nel 1798, Venezia e il Veneto (fino all’Adige) passarono sotto il regime austriaco. Pur non ripristinando la segregazione nei ghetti, il regime imperiale abolì il diritto degli ebrei di possedere beni fondiari. Quindi i Vivante dovettero rinunciare al possesso delle terre acquisite, soprattutto dopo il 1799, quando si completò l’annessione ai territori austriaci della riva destra dell’Adige.

Ma dopo la vittoria francese a Austerlitz (dicembre 1805) e il breve ritorno dell’egemonia francese nel nord d’Italia, i diritti civili degli ebrei furono ripristinati, e le tre ditte dei Vivante colsero di nuovo l’occasione per grandi investimenti in immobili a Venezia e in fondi rurali in terraferma. Tali acquisti potevano anche risultare da iniziative governative. Per esempio, nel 1807, fu imposto alle ditte commerciali di Venezia, tramite la Camera di commercio, di acquistare dal Demanio proprietà ex-feudali. Quindi, le tre famiglie veneziane dei Vivante si misero d’accordo per acquistare circa 1356 campi a San Polo di Piave, nel Trevigiano, già proprietà della famiglia patrizia Gabriel, estintasi durante il primo dominio austriaco.

Tuttavia, le imprese marittime continuarono a costituire un elemento centrale dell’attività familiare. A queste fu legata un’occasione spettacolare nel 1806, quando il principe Eugenio e la sua consorte, Amalia di Baviera, visitarono Venezia: gli ospiti regali parteciparono al varo di una nuova nave della ditta di Jacob Vita, che avrebbe portato di seguito i nomi della regal coppia.

Ma questi momenti di gloria sarebbero durati poco. La crisi economica dell’area adriatica finì per colpire vari rami della famiglia, soprattutto in seguito della diminuzione dell’attività marittima e commerciale a causa delle frequenti guerre e dei blocchi marittimi, e per la difficoltà di recuperare crediti. Nel secondo decennio dell’Ottocento il ramo triestino si trovava in grande ristrettezza finanziaria, e dovette cedere agli altri rami dei Vivante una serie di proprietà in diverse località di Venezia e terraferma in cambio del loro aiuto.
Ma ormai anche i tre rami veneziani, benché ancora facoltosi, non figuravano più tra le più ricche casate della città, e il prolungarsi della crisi non tardò a colpire anch’essi. Il loro crollo avvenne abbastanza rapidamente, in seguito a un’iniziativa che a distanza di tanti anni pare piuttosto folle: l’acquisto di grandi beni demaniali, finanziato con somme cospicue prese a prestito.
La crisi economica non permise di ottenere guadagni tali da permettere la restituzione del debito e degli interessi che si erano accumulati, e a partire del 1813 i tre rami veneziani furono costretti a svendere la gran parte dei loro possedimenti: case a Venezia, proprietà terriere in terraferma, navi eccetera.

Solo un ramo dei Vivante, quello dei due figli di Lazzaro – Mandolin (Menachem) e Sabbato – riuscì a superare la lunga crisi dell’economia veneziana: anzi, come scrive l’Autore, l’attraversarono “sulla cresta dell’onda”. Uno dei fattori di questo successo fu la politica matrimoniale della famiglia, che si unì a un’altra importante famiglia ebraica di alto livello socio-economico – i Treves de’ Bonfil (loro stessi esito di una simile alleanza matrimoniale): due figlie di Mandolin si sposarono infatti con due figli del barone Giuseppe Treves de’ Bonfil. Anche questo ramo dei Vivante era impegnato nel settore marittimo e assicurativo. Dopo la morte del fratello, Sabbato continuò a dirigere le imprese, diventando, tra l’altro, nel 1832, uno tra i soci fondatori delle Assicurazioni Generali (allora denominate Assicurazioni Generali Austro-Italiche).
Nel 1848, un anno prima della sua morte, lo troviamo, assieme a Spiridione Papadopoli (al quale aveva già venduto un terzo della tenuta di San Polo di Piave), alla direzione della Veneta Società degli Assicuratori.

Come spiegare la differenza tra la fortuna di questo ramo e quella degli altri rami dei Vivante? Il nostro Autore non trova soddisfacente una spiegazione generica che l’attribuirebbe a un diverso tipo di comportamento imprenditoriale: una maggiore prudenza nelle scelte e un maggior senso della misura, un maggior realismo e una capacità di adeguarsi al mutamento dei tempi, una maggior abilità nel coglier le occasioni, combinata con una giusta dose di coraggio. A me pare, invece, che tali elementi potrebbero almeno servire da ipotesi da sottoporre a un’ulteriore indagine.

In ogni modo, mi pare abbastanza significativo il fatto che nei momenti drammatici della rivoluzione del 1848-49, nella quale diversi ebrei veneziani parteciparono svolgendo un ruolo importante, non si trova nessun Vivante tra i protagonisti di queste vicende.

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Mosè Luzzato, Isach Grego, Vita Vivante
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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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