Re: Censimento dei nomadi o seminomadi (rom, sinti e altri)

Re: Censimento dei nomadi o seminomadi (rom, sinti e altri)

Messaggioda Berto » gio apr 27, 2023 12:25 pm

13)
Legittima difesa da questi predatori umani criminali, disumani e incivili.



Vieta l'ingresso agli zingari, "ma non è per razzismo"
21 febbraio 2012
https://www.vicenzatoday.it/cronaca/zin ... cenza.html

Cartello shock su un negozio di contrà XX Settembre, la commessa di origini marocchine si difende: "Entrano in gruppo e rubano tutto - dice - Gli altri negozianti non lo scrivono ma non li fanno entrare"
È destinato sicuramente a far discutere il cartello esposto da una giovane commessa di origine marocchina sulla vetrina del piccolo bazar in contrà XX Settembre, in città. "Vietato l'ingresso agli zingari" ha scritto Fatima, aggiungendo in piccolo "ma non è per razzismo".
Sul Giornale di Vicenza, la ragazza si lamenta che spesso gruppi di zingari entrano nel suo negozio, riuscendo così a sottrarre diversa merce. Lei, da sola nel punto vendita, non può far altro che constatare i furti, quando si sono allontanati. "Anche gli altri negozianti la pensano come me ma non lo scrivono sulla vetrina - si lamenta - Semplicemente non li fanno entrare".



Da Roma per rubare in tutto il Centro Italia: la strategia dei rom
I carabinieri di Orte (Viterbo) hanno denunciato per tentato furto e ricettazione quattro rom, ma le indagini condotte in un secondo tempo avrebbero appurato il loro coinvolgimento in furti denunciati in negozi di tutto il Centro Italia
Giovanni Fiorentino
12 Ottobre 2022

https://www.ilgiornale.it/news/cronache ... 74993.html
Avrebbero messo in piedi una vera e propria banda, che da Roma si spostava in tutto il Centro-Italia (soprattutto fra l'Umbria e il Lazio) per compiere furti negli esercizi commerciali. E, a dispetto della serie di denunce per furto e ricettazione rimediate negli ultimi mesi, le manette non sono mai scattate. Protagonisti dei fatti, quattro persone di etnia rom di età compresa fra i 21 e i 28 anni (due uomini ed altrettante donne) che vivono in un campo nomadi della capitale ed avrebbero alle spalle numerose precedenti. I carabinieri di Orte (in provincia di Viterbo) li avrebbero infatti fermati nelle scorse ore mentre tentavano di nascondere alcuni prodotti con il chiaro intento di rubarli in un supermercato del paese.

Il ricco bottino

Una volta scoperti dai militari dell'Arma, i quattro avrebbero tentato di sbarazzarsi di parte della refurtiva per darsi alla fuga. Il tentativo si sarebbe però rivelato vano e nel corso della successiva perquisizione del loro veicolo sono stati rinvenuti e sequestrati numerosi prodotti, a quanto pare frutto di precedenti attività illecite, tra cui cinque confezioni di champagne e numerosi cosmetici (profumi, creme viso, trucchi, spazzolini elettrici, lamette da barba, olio per i capelli nonché crema per dentiere). Un bottino dal valore complessivo superiore ai 7mila euro, considerando anche quanto arraffato nelle precedenti azioni. Già, perché in base a quanto riportato poi dai media locali, ulteriori accertamenti condotti in un secondo tempo dalle forze dell'ordine avrebbero consentito di far emergere il coinvolgimento del gruppo in altri atti analoghi portati a termine nelle province di Terni e Perugia, oltre che nel viterbese e sul territorio romano.

Con un "modus operandi" ormai consolidato: secondo gli inquirenti, i rom partivano dal campo situato nella periferia romana alla ricerca di negozi da colpire e non esitavano a percorrere centinaia di chilometri per arrivare agli obiettivi, in diversi casi. Dopo aver scelto l'obiettivo, due di loro provvedevano ad occultare la merce negli zaini o nelle tasche degli indumenti, mentre gli altri osservavano la situazione ed avvertivano tempestivamente i complici in caso di pericolo. Già in passato erano stati scoperti, ma il "passo falso" compiuto ad Orte ha perso consentito a chi indaga di assimilare quel tentativo di furto (sventato) ad altri atti predatori avvenuti in tre punti vendita della catena "Acqua & Sapone" situati fra Roma e Perugia. Le denunce presentate dai responsabili dei suddetti negozi combaciavano oltretutto con gli oggetti trovati nel mezzo con cui i sospettati si spostavano. Dopo esser stati denunciati a piede libero però, questi ultimi hanno avuto modo di fare ritorno al campo.



Casal Bruciato, nuova protesta contro i rom. L’assenza dello Stato è un pugno nello stomaco
Carlo Stasolla
7 maggio 2019

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/0 ... o/5159084/

Era l’estate del 1935 quando la propaganda nazista anti-ebraica assestava un altro colpo e nei negozi e nei ristoranti tedeschi apparvero i famigerati cartelli “vietato l’ingresso agli ebrei”. Nell’Italia del pre-fascismo si sta preparando qualcosa del genere, basta sostituire parole e contesti. A Roma è ormai il terzo caso, negli ultimi due mesi, in cui è possibile affermare che per quanto riguarda le case popolari “è vietato l’ingresso ai rom”.

Non è stato neanche sufficiente ricorrere a quell’esercizio mentale proposto dieci anni fa da Lorenzo Guadagnucci che, davanti all’imminente emergenza nomadi proclamata da Silvio Berlusconi, invitò a sostituire nella narrazione mediatica – ma anche nei documenti ufficiali – la parola “ebreo” con la parola “rom” per vedere il tipo di effetto che l’esperimento avrebbe procurato. Ora siamo oltre e dall’immaginazione siamo precipitati alla tragica realtà.

Il trampolino della caduta libera è stato costruito con gli eventi di Torre Maura che, non a caso, non avevo esitato a definire uno spartiacque fondamentale per la città di Roma. In via Codirossoni il Comune aveva deciso di trasferire 77 rom da un centro di accoglienza a un altro. Frange xenofobe e razziste hanno dettato legge e il Comune ha dovuto fare un passo indietro. Ai manifestanti è stato concesso per tre giorni di inveire contro gli ospiti della struttura e tutte le famiglie rom sono state trasferite altrove. Due di esse sono addirittura state costrette, dietro indicazione della stessa amministrazione comunale, a spostarsi in “campi nomadi” nei quali non erano mai state.

Poi, l’8 aprile, mentre in giro per il mondo si celebrava la Giornata internazionale per i diritti dei rom, una famiglia bosniaca, inserita nel progetto gestito dalla Croce rossa italiana per la fuoriuscita dall’insediamento La Barbuta, ha visto il suo ingresso nella nuova abitazione assegnata dal Comune di Roma, accompagnato dalle grida e dalle minacce provenienti dal presidio degli attivisti di Casapound e Forza Nuova. Altra marcia indietro del Comune di Roma: il presidio non autorizzato dei militanti non si tocca, mentre i rom tornano nel “campo” al confine con il Comune di Ciampino. Quella famiglia non ha visto riconosciuto il suo sacrosanto diritto di avere un’abitazione e dopo un mese è ancora nel container del “campo”, condannata dall’arrendevolezza di una giunta piegata alle minacce dei manifestanti.

Ieri, altro episodio. Una famiglia, anch’essa bosniaca e sempre proveniente da La Barbuta, regolare assegnataria di un alloggio dell’edilizia residenziale pubblica, si è ritrovata il giorno dell’ingresso in casa il solito presidio, che al grido di “prima gli italiani” l’ha costretta a barricarsi in casa. Non conosciamo l’epilogo della vicenda.

La sera stessa mi sono recato presso quell’abitazione. Sotto il cortile il presidio permanente e sopra la famiglia terrorizzata. Non era questo che colpiva. Il pugno allo stomaco l’ho ricevuto dall’assenza totale dello Stato: né assistenti comunali, né Polizia Municipale. La resa dell’amministrazione comunale è evidente: incapacità nel gestire la “questione rom” e nel dare attuazione alle sue azioni, mancanza di coraggio di fronte alle pulsioni fasciste che si moltiplicano nella città, cedimento totale sul fronte dei diritti.

La china è presa e sarà da vedere, dopo le case popolari vietate ai rom, quale sarà il passo che ci attende. Sapendo che la responsabilità non è solo di chi avvelena di razzismo la città di Roma, ma anche e soprattutto di chi consente ai suoi cittadini di continuare a respirare quest’aria tossica senza assumere posizione. Del resto è proprio l’indifferenza, come scrisse Alberto Moravia, a generare il fascismo.


Sputi, minacce e insulti: zingari seminano panico tra i commercianti di Ceriale. Petizione pro-sicurezza
Federica Pelosi
20 luglio 2012

https://www.ivg.it/2012/07/sputi-minacc ... sicurezza/

Ceriale. Una signora che si è rifiutata di fare l’elemosina s’è vista sputare in faccia. Una commerciante, invece, è stata spintonata con tanto di minacce solo per aver offerto loro una brioche invece dei soldi richiesti, peraltro con una certa prepotenza.

Sono una trentina i negozianti del “budellino” di Ceriale che, da tempo, non vivono sonni – né veglie – tanquilli. Visite sgradite costellano le loro giornate, con stranieri che entrano nei loro esercizi commerciali, pretendendo denaro senza tanti complimenti e reagendo nei modi più imprevedibili davanti ai rifiuti ricevuti. Insulti, minacce (“se non mi dai i soldi torno a rubare”) e piccole violenze che impediscono ai negozianti di vivere e lavorare con tranquillità.

In particolare sarebbe un gruppo di zingari a preoccupare: qui raccontano che ci sono settimane in cui i “bulletti” stranieri entrano nei bar e nei negozi anche quattro o cinque volte al giorno, e altri periodi, come in queste ultime 48 ore, in cui non si vedono affatto. Quando ci sono, però, sono guai.

“L’altra mattina ho offerto loro una brioche e, per tutta risposta, mi hanno rivolto parole sgradevoli per poi gettare il dolce nel bidone della spazzatura – dice Luca, del bar latteria di piazza della Vittoria – Vogliono i soldi e basta. E, se non li accontenti, ti minacciano esplicitamente. Molti di noi hanno subito piccoli furti: approfittano dei momenti in cui vi sono altri clienti per rubare”.

“Io sono stata anche spintonata solo per aver chiesto di non disturbare gli altri avventori del locale – dice la compagna del titolare del bar – ‘Ma chi ti credi di essere? Mica è casa tua questa!’ mi hanno perfino detto. Si tratta di una famiglia di zingari e di qualche altro soggetto di colore. Ci sono settimane in cui non passa un solo giorno senza vederli”.

E’ per questo che i commercianti del centro storico di Ceriale hanno sottoscritto una petizione per chiedere maggiori controlli. “I vigili passano, ma spesso non a piedi, e non si accorgono di ciò che accade. Bisognerebbe avere un vigile di quartiere” è il pensiero comune.

“Pensi che proprio loro ci accusano di essere razzisti! – aggiunge il signor Vito, titolare del negozio di abbigliamento “Ciao Ciao” nel “budellino” – Cioè: vengono nei nostri negozi, infastidiscono i clienti, rubano e poi, se reagiamo, ci accusano di razzismo? Assurdo. Ad una signora hanno perfino sputato in faccia. Noi siamo per l’accoglienza, sì, ma pretendiamo rispetto e di lavorare tranquilli”.

“Ormai dobbiamo organizzarci tra noi commercianti e guardarci le spalle a vicenda – continua il signor Vito – Eppure basterebbe che chi di dovere vigilasse. Non ce l’abbiamo con nessuno, ma vogliamo essere tutelati. Se così non sarà, dovremo prendere provvedimenti da soli”.




Rom sorprese a rubare nel negozio: «Torneremo, siete razzisti»
Stefano Cortelletti
3 dicembre 20222

https://ilcaffe.tv/articolo/186062/rom- ... e-razzisti

“Torneremo”. Una frase che ha lasciato l’amaro in bocca ai titolari del negozio “Emporio Abate” di Ardea che hanno sorpreso due donne rom mentre rubavano dei vestiti.

Dopo aver intimato loro di restituire la merce sottratta, le donne, di origine rom, si sono rivolte alla proprietaria dicendole: «Torneremo, non puoi non farci entrare», ripetendo una serie di insulti e accuse di razzismo. Il danno e la beffa. Il tutto sotto l’occhio attento delle telecamere di videosorveglianza del negozio che hanno ripreso ogni attimo della incredibile scena.

«Dietro la scusa del razzismo questi delinquenti ogni giorno fanno piangere qualcuno», si sfoga sui social Salvatore Abate, titolare. La donna insultata e minacciata era sua madre.

«In un anno mi hanno completamente devastato, a volte evito di raccontare la quotidianità ma qui queste cose in ogni attività sono all’ordine del giorno. Questo territorio è diventato ormai terra di nessuno – racconta – I controlli sono quasi inesistenti, siamo colmi di persone Rom che entrano nelle case , nelle attività commerciali e si sentono libere di rubare».

Abate si è anche detto sfiduciato rispetto alle forze dell’ordine. Quando sale la sfiducia, è come se lo Stato avesse perso.




Pompei, famiglia rom deruba 3 negozi in centro: bloccati dai vigili urbani
Susy Malafronte
Domenica 22 Maggio 2022,

https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca ... 06196.html

Hanno utilizzato i 3 figli minori per rubare nei negozi del centro cittadino, a pochi passi dal santuario di Pompei. Hanno portato a segno 3 colpi in 15 minuti. La polizia locale ha arrestato 2 rom e fermato i 3 bambini. La refurtiva - bigiotteria preziosa e capi griffati - è stata recuperata e consegnata ai legittimi proprietari. Plauso del sindaco Carmine Lo Sapio agli uomini e alle donne del comandante Gaetano Petrocelli. Chiamati da uno dei negozianti che ha subito il furto, gli agenti municipali intervenuti hanno estrapolato, in pochi minuti, le immagini dal video di sorveglianza. I caschi bianchi si sono messi subito alla ricerca dei volti della famiglia di ladri, trasmettendo, nell'immediatezza dei fatti, le foto dei ricercati ai carabinieri impegnati nei controlli in piazza Bartolo Longo. I militari avevano visto i soggetti dirigersi verso la stazione della Circumvesuviana di Pompei-Santuario. I caschi bianchi si sono diretti alla stazione bloccando i rom e consegnandoli ai carabinieri.


???
Per la Cassazione tutti i nomadi sono ladri
FULVIO VASSALLO 2 07 2008

http://www.terrelibere.org/3615-per-la- ... sono-ladri

La clamorosa assoluzione del sindaco leghista di Verona Fabio Tosi ha dato occasione alla Corte di Cassazione di ridurre ulteriormente l’ambito di applicabilità della legge Mancino contro la discriminazione razziale, ed ha sostanzialmente strappato importanti principi costituzionali che non possono essere trascurati neppure dalla Cassazione.

Nel 2001 Fabio Tosi era capogruppo della Lega Nord nel consiglio regionale veneto e durante una riunione aveva detto tra l`altro che “gli zingari dovevano essere mandati via perché dove arrivavano c`erano furti”. Dopo una condanna in corte di Appello, il verdetto della Corte definisce come lecito il comportamento di Tosi, annullando la precedente sentenza e rinviando ad altro giudice per la decisione definitiva.

Nella nostra legge fondamentale esistono principi immediatamente precettivi che non possono essere violati neppure quando le persone che commettono reati o sono denunciati per avere commesso reati sono appartenenti ad una categoria o ad un gruppo etnico particolare . La presunzione di innocenza, affermata dall’art.27 per tutti, cittadini e non cittadini, stabilisce che “ l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Non si può quindi definire come ladro una persona che non sia stata condannata con sentenza passata in giudicato. Sembra ovvio, ma per il sindaco leghista di Verona ed adesso per la Corte di Cassazione, tutti i nomadi, anche sinti, quindi cittadini italiani, sono ladri, anche prima di una condanna definitiva, addirittura anche prima di una denuncia, o di un qualsiasi accertamento dei fatti.

E ancora l’art. 27 della Costituzione afferma che “la responsabilità penale è personale”, ribadendo poi la funzione rieducativa della pena. Anche questa norma vale per tutti, quale che siano lo stato di soggiorno ed i precedenti penali. Anche i ladri, dopo avere scontato una pena possono inserirsi nella società ed hanno diritto a non essere discriminati, ed anzi a livello locale, gli ex detenuti (italiani) godono di particolari aiuti per il loro reinserimento sociale. Ma sono numerosi anche i casi di reinserimento sociale di rom e migranti che ahnno commesso un reato e poi, dopo avere scontato la pena, sono riusciti a trovare una loro strada nella legalità. Ma questa possibilità di reinserimento, evidentemente, per la Corte di Cassazione vale per gli italiani, ma non per i sinti, che sono pure cittadini italiani, ed è del tutto da escludere per tutti coloro che vengono definiti zingari senza avere neppure la cittadinanza italiana, come appunto i rom.

In pratica la Corte di Cassazione ritiene, come il sindaco leghista Tosi, che gli zingari, tutti gli zingari, in quanto tali sono ladri, affermando una sorta di responsabilità collettiva, ed è quindi legittima la discriminazione ai loro danni. Poco importa che, dopo avere scontato una pena, chiunque, soprattutto se cittadino italiano come i sinti, ha diritto alla tutela del suo onore, della sua privacy ed agli altri diritti fondamentali, comunque affermati dall’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione anche per gli stranieri privi di permesso di soggiorno, sulla base del principio di parità con i cittadini italiani.

Secondo la Cassazione “la discriminazione per l`altrui diversità è cosa diversa dalla discriminazione per l`altrui criminosità. In definitiva un soggetto può anche essere legittimamente discriminato per il suo comportamento ma non per la sua qualità di essere diverso”. La corte suggerisce quindi ai giudici di merito della corte d`Appello di Verona che esaminerà di nuovo il caso, in sede di rinvio, di non considerare reato le iniziative politiche che hanno come obiettivo i comportamenti illegali di appartenenti alle minoranze etniche e non le etnie in sé. Non sembra più rilevare per i giudici della Cassazione che queste “iniziative politiche” hanno attribuito a tutti i rom la definizione di ladro, una colpa collettiva che ripugna alla tradizione democratica del nostro paese e ci riporta indietro nel tempo allo sterminio delle minoranze (ebrei, rom, oppositori politici) praticato dal nazismo e dal fascismo.

La Suprema Corte aggiunge che “la frase pronunciata da Tosi non esprimeva alcuna idea di superiorità o almeno non superiorità fondata sulla semplice diversità etnica, ma manifestava solo un`idea di avversione non determinata dalla qualità di zingari delle persone discriminate ma dal fatto che tutti gli zingari erano ladri”. E questo, per i supremi giudici, “non è un concetto di superiorità o odio razziale, ma un pregiudizio razziale”. Punibile se “contiene affermazioni categoriche non corrispondenti al vero”.
E dunque per la suprema Corte, che afferma la non punibilità di Tosi, è “corrispondente al vero” che “tutti gli zingari sono ladri”.

I giudici della Cassazione sono particolarmente “premurosi” nei confronti dei politici leghisti che, dopo avere incassato il successo elettorale conquistato alimentando per anni la paura e la xenofobia, stanno attuando una vera e propria pulizia etnica ai danni dei rom e dei sinti con ordinanze contingenti da stato di emergenza, di dubbia legittimità costituzionale.

Per la Corte di Cassazione, “la discriminazione si deve fondare sulla qualità del soggetto (nero, zingaro, ebreo ecc) e non sui comportamenti. La discriminazione per l`altrui diversità è cosa diversa dalla discriminazione per l`altrui criminosità”. “In definitiva – conclude la Corte, condividendo la linea difensiva del sindaco leghista – un soggetto può anche essere legittimamente discriminato per il suo comportamento ma non per la sua qualità di essere diverso”. “Tuttavia su un tema acceso come quello della sicurezza che crea forti tensioni emotive – argomenta la Cassazione – non si può estrapolare una frase poco opportuna per attribuire all`autore idee razziste senza esaminare il contesto e valutare gli elementi a discolpa”.

Tra questi elementi “a discolpa” evidentemente, il giudizio sommario condiviso dalla stessa Corte che tutti gli zingari sono ladri.
Ma noi vogliamo proprio richiamare il “contesto” che i giudici della corte sembrano ignorare.

La Corte dimentica che i leghisti, proprio a partire da questa “legittima discriminazione”,perpetrata nel 2001, con centinaia di successive iniziative, che sono giunte fino ad appiccare il fuoco a campi abitati da donne e bambini indifesi, come nel caso del rogo di Opera vicino Milano, hanno sempre confuso i comportamenti devianti di una parte dei rom con la qualità di diversi che si riassume nel linguaggio corrente con l’attribuzione dei termini “nomadi” o “zingari”. Anche quando si tratta di colpire persone incensurate, nate e cresciute in Italia, addirittura cittadini italiani, come nel caso dei Sinti, o che in condizioni di irregolarità lottano giorno per giorno per garantire ai loro figli un futuro diverso da quello che tocca a loro.

A fronte della espansione delle sanzioni penali verso tutti quei comportamenti che esprimono opposizione sociale, fulcro del pacchetto sicurezza e dei provvedimenti emergenziali che il governo sta frettolosamente facendo approvare dalle Camere, contro rom e migranti, ma anche contro quei cittadini italiani che praticheranno forme di protesta e di resistenza civile non violente come occupazioni e blocchi stradali, quali saranno le conseguenze del ragionamento della Corte di Cassazione?

Quali altre categorie di imputati per diversi reati, italiani o stranieri, magari per resistenza a pubblico ufficiale o per una occupazione, oppure per violazioni delle norme contenute nel nuovo pacchetto sicurezza, potranno essere oggetto di “legittime discriminazioni” in nome della sicurezza?

Ringraziamo la Corte di Cassazione per avere precisato “quando la discriminazione è lecita”. Purtroppo la sentenza della Corte si potrebbe definire una decisione di regime, anche se è stata adottata alla fine dello scorso anno ed oggi se ne conoscono le motivazioni. Ma le prove tecniche di discriminazione erano in corso da tempo, con i patti per la sicurezza concordati da Amato con i sindaci. Una sentenza, questa della Corte, che rischia oggi di sprofondare ulteriormente il nostro paese in una situazione di discriminazione generalizzata ai danni delle minoranze. Tra breve sarà attaccato il diritto di difesa con patrocinio gratuito, e poi il diritto alla salute, e poi si profila già la messa in discussione del diritto alla famiglia. Anche per i sinti cittadini italiani viene negato il diritto all’abitazione e vengono tagliati tutti i finanziamenti a favore delle comunità rom ed immigrate, come il fondo di solidarietà nazionale.

Il diritto alla libertà personale, già affermato dall’art. 13 della Costituzione italiana è tradito ogni giorno, in ogni occasione in cui un agente di polizia arresta e trattiene una persona priva di un permesso di soggiorno, e se comunitaria, priva di residenza e di mezzi di sostentamento, in base ai cd. “motivi imperativi di pubblica sicurezza”. Ma se si possono discriminare gli zingari perché sono ladri, perché non si potrebbero discriminare i migranti irregolari perché sono pericolosi delinquenti? Ed infatti, ecco pronto il reato di immigrazione clandestina e la detenzione amministrativa persino per i minori, lo vuole l’Europa, fino a diciotto mesi..

La decisione della Corte, anche per il clamore mediatico con il quale è stata resa pubblica, produrrà effetti devastanti, e contribuirà ad accrescere il dilagare di atti discriminatori posti in essere da privati e da rappresentanti istituzionali ai danni delle popolazioni rom e sinte, se non ci sarà un tempestivo intervento sulle nuove norme da stato di emergenza da parte della Corte costituzionale o delle autorità internazionali, a partire dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Le associazioni dovranno moltiplicare le loro denunce per atti di discriminazione, diretta ed indiretta, anche se posta in essere da agenti istituzionali, agendo in sede civile e penale, se necessario al posto delle vittime che sono spesso minacciate da vere e proprie ritorsioni, anche da parte di agenti di polizia, come si è verificato ancora di recente a Milano.

La posizione assunta dalla Corte darà copertura ad i peggiori interventi discriminatori che i sindaci “sceriffi”, che si potranno avvalere anche della polizia municipale in armi. I commissari straordinari nominati da Maroni con le ordinanze sull’emergenza “nomadi “potranno perpetrare andando all’assalto dei campi rom con i blindati dell’esercito e le ruspe scortate dalla polizia. Magari con la copertura “caritatevole” della Croce Rossa militare. E con la benedizione della Corte di Cassazione. Tanto, si tratta soltanto di ladri da allontanare dalle nostre “tranquille” città. I cittadini italiani scopriranno presto, sulla loro pelle, quanto questa deriva securitaria riprodurrà insicurezza e devianza, alimentando la clandestinità che a parole tutti proclamano di volere combattere.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Censimento dei nomadi o seminomadi (rom, sinti e altri)

Messaggioda Berto » gio apr 27, 2023 12:25 pm

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Re: Censimento dei nomadi o seminomadi (rom, sinti e altri)

Messaggioda Berto » gio apr 27, 2023 12:25 pm

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Re: Censimento dei nomadi o seminomadi (rom, sinti e altri)

Messaggioda Berto » ven apr 28, 2023 3:10 am

14)
La demenziale e falsa argomentazione vittimistica dopo quella altrettanto menzognera sulla discriminazione degli perché diversi e nomadi, è quella che vorrebbe gli zingari vittime del progresso/sviluppo/evoluzione tecnologico-economico industriale delle antiche attività artigianali e commerciali a cui questi nomadi non avrebbero saputo adeguarsi e integrarsi perché nomadi e potuto farlo perché discriminati in quanto nomadi.



Le cronache medievali non riportano notizie sistematiche e diffuse di attività artigianali e commerciali specializzate, regolari e ambulanti svolte dagli zingari.
Le attività lecite che oggi si racconta svolgessero gli zingari nomadi in epoca preindustriale sono solo fantasie: stagnini, ramai, calderai, arrotini, commercianti di bestiame e di cavalli, fabbri, argentieri e orefici, la verità più verosimile è che commerciassero tutto quello che ricettavano e rubano nelle case isolate, nei paesi e nelle città. Rubavano di tutto, monete, oro, gioielli, argenti, animali, cibo, vestiti e altri oggetti di valore come attrezzature agricole e artigianali in ferro, secchi in rame. né più né meno come fanno anche oggi.


Avevano fama di "mendicanti pellegrini", di ladri, di briganti, di rapinatori, di violenti, di bugiardi, di truffatori e negromanti, fin dalle prime cronache che li citano nel XIV secolo, si presentavano con documenti falsi e mentivano alla grande come fanno anche oggi. La gente aveva paura come ha paura oggi, ieri come oggi li sentivano e sperimentavano come malvagi e un pericolo vero e reale e non certo dovuto a un pregiudizio.



L’ARRIVO DEGLI ZINGARI: CITTÀ, PRINCIPI E NOMADI
DAVID ABULAFIA
file:///C:/Users/Alberto/Downloads/7928-Articolo-24330-1-10-20180322.pdf
...
La raccolta di testi compilata da Reimer Gronemeyer dedicata allo studio dei gitani in quei territori, con inclusi i facsimili delle prime fonti a stampa, è fondamentale per tracciare la reazione dei cronisti del tardo medioevo e della prima età moderna rispetto all’avvento degli zingari. Eppure è ancora molto il lavoro di ricer ca da svolgere presso gli archivi, alla ricerca di atti delle varie assemblee cittadine e di altre corporazioni che riportano le risoluzioni prese verso l’ospitalità agli zingari.
Questo saggio non pretende di esaminare tutte queste fonti. Lo scopo, piuttosto, è quello di fornire le prove di un’evoluzione della pubblica opinione riguardo agli zingari.
...
Una caratteristica curiosa della storia più antica degli zingari è che es si, ritenuti tradizionalmente nomadi, sembrano essersi insediati stabilmente in alcune parti dell’Europa orientale, inclusa la Grecia. Fu nella Grecia quattrocentesca che osservatori veneziani fecero il primo incontro con degli zingari radunati a Nauplion, nel Peloponneso nord-orientale, eva Modone, nella sua punta meridionale, così come a Corfù, dove (se Fraser riporta correttamente) la presenza di fabbri zingari è precedente allavconquista veneziana dell’isola nel 1386. Sia Modone che Nauplion eranovin mani veneziane, e la prima chiara attestazione della presenza zingaresca a Modone risale già al 1384, quando Leonardo di Niccolò Frescobaldi, un fiorentino, passò da lì durante il suo viaggio verso la Terrasanta ed ebbe notizia che nel luogo ove era appena giunto vi era un popolo chiamato Romiti, accampato fuori delle mura cittadine. Solo una persona estremamente scettica potrebbe negare che si trattasse di zingari del gruppo Rom. Messer Leonardo pensò comunque che, come lui, fossero dei pellegrini. Questo può essere il primo riferimento di una storia che gli stessi zingari sarebbero poi stati smaniosi di diffondere nel secolo successivo, dato che il loro stato di penitenti garantiva loro la simpatia del governatore locale. Dalla fine del XIV secolo, pare che gli zingari di Nauplion abbiano acquisito privilegi dal governatore veneziano e che siano stati riconosciuti come una comunità autogovernantesi sotto un proprio drungarios o comandante militare. L’esistenza di un leader proprio degli zingari diede conferma all’idea che costoro erano qualcosa di simile a crociati-pellegrini i quali vivevano seguendo un regime di disciplina militare. D’altro canto, il coinvolgimento di zingari di Corfù nell’attività metallurgica suggerisce che essi in parte fossero capaci di sostentarsi con le abilità specializzate che possedevano; peraltro un resoconto del loro insediamento di Modone della fine del XV secolo li dipinge come stagnini e lavoratori di metalli. La loro presenza a Modone fu paradossalmente sia duratura - erano ancora lì attivi un secolo dopo Frescobaldi - sia nomade, perché vivevano in quelle che Arnold von Harff descrisse come duecento “casette dal tetto di canne” fuori dalle mura. Lo stesso autore li definì “povera gente nera e nuda” e, a giudicare dai suoi
racconti sui salvacondotti papali e imperiali, egli era già influenzato dalle storie e dagli atteggiamenti che essi avevano sviluppato nell’Europa occidentale nel XV secolo. D’altronde, egli non credeva realmente che essi fossero van kleynem Egypten, piuttosto pensò che venissero da un posto che egli chiamava Gyppe, a quaranta miglia da Modone, città che era stata occupata dai Turchi (infatti, come si vedrà in seguito, proprio in questo periodo gli zingari che giunsero in Spagna si presentavano spesso come rifugiati “Greci”). Egli ne studiò la situazione nel corso del 1497, solo pochi anni prima che gli ottomani cacciassero i veneziani da questo importante porto. Dopo che i Turchi ne ebbero preso il controllo, gli zingari non rimasero fermi. Nel 1519 c’erano appena trenta capanne di zingari alla periferia di Modone, città che aveva perso la sua importanza commerciale e quindi la sua attrattiva per gli abili artigiani zingari.
Verso il 1400 gli zingari sarebbero apparsi ai veneziani, signori di “un quarto e mezzo dell’impero di Romania”, come uno dei tanti gruppi erranti, ancor più scuri ed esotici forse, ma facilmente confusi con i Valacchi e gli Albanesi che allo stesso modo facevano costanti apparizioni in Grecia. Le relazioni con gli zingari cambiarono in maniera significativa quando questi iniziarono ad entrare nella stessa Europa occidentale a partire dal 1417. In questo periodo zingari nomadi sono registrati anche in Transilvania, a Bra ş ov, dove nel 1416 fu loro concessa l’elemosina. La loro truppa era composta da 120 persone al seguito di Emaus “signore dell’Egitto” 13 che li condusse ai confini sudorientali del vasto regno ungherese retto da Sigismondo di Lussemburgo. E fu proprio in Ungheria che iniziarono ad affermare di aver ricevuto un privilegio da Sigismondo, emesso prima che entrassero nell’altro suo regno, quello di Germania.
La loro entrata in Europa occidentale fu accompagnata da elaborati racconti sulle ragioni dei loro spostamenti, cosa che influenzò la risposta europea riguardo al loro arrivo. I registri dalla città sassone di Hildesheim riportano nel 1407 una visita di “tartari”, probabilmente zingari: essi si presentarono all’ufficio del segretario comunale, dove mostrarono delle lettere di accreditamento che vennero esaminate; e infine ricevettero l’elemosina. Nel 1417 lo stesso archivio riporta di un’altra elemosina offerta ai “tartari dell’Egitto, per l’onore di Dio” 14. Nel 1414, dei “miscredenti” (Heiden), ricevettero doni dalla città di Basilea e attorno a questo periodo anche altre città tedesche sarebbero state visitate. Il termine Heiden cominciò a diffondersi ampiamente (venne usato per descriverli an-
che quando raggiunsero Deventer in Olanda nel 1429) e resistette, malgrado che questi “miscredenti” continuassero ad affermare di essere cristiani penitenti. Malgrado l’apparente generosità mostrata a Basilea e altrove, essi furono trattati con sospetto e a Hildesheim vennero messi sotto scorta. La distanza tra offrire protezione e imporre la segregazione non era così ampia; così come non era troppo grande la distanza tra fare la carità disinteressata e versare una somma a scopo di protezione. Non appena si diffuse la reputazione degli zingari sulla loro propensione al furto, alcune città forse sperarono di ingraziarseli con i doni, distogliendoli dal furto e incoraggiandoli ad andar altrove.
Nell’Europa occidentale questi nomadi erano ben organizzati: è generalmente accettato che il loro arrivo in quelle regioni coincise con un mutamento nel loro modo di operare. Per citare Fraser: “immediatamente, vediamo che gli zingari presero a comportarsi in un modo che non aveva precedenti. Essi non erano più appartati, ma quasi ricercavano attenzione. Non erano una marmaglia scoordinata, ma si muovevano apparentemente secondo uno scopo agli ordini di capi dai titoli altisonanti”.
Non è chiaro se truppe di zingari comandate da “duchi” o “conti” e menzionate in un certo numero di cronache tedesche del XV secolo rappresentassero un singolo gruppo di nomadi peregrini, o se essi fossero già divisi in diversi rami prima del loro apparire in Europa occidentale.
Spesso il termine “duca” è usato al singolare, mentre “conti” al plurale, e talvolta legato al termine “piccolo [o basso] Egitto”, come nel caso di Tournai nel 1429. Eppure il nome di questi duchi varia: un tal duca Michele apparve tra il 1418 e il 1422 e di nuovo a Utrecht nel 1429, mentre il duca Andrea era attivo nel 1419, 1420 e 1422.
Un buon punto di partenza è la cronaca del frate domenicano Hermann Korner di Lubecca, che giunge sino al 1435: Korner fece un vasto ricorso ad altre fonti, ma la sua testimonianza dell’arrivo degli zingari nella Germania settentrionale nel 1417 riflette sicuramente la reazione a quel che vide . Egli insiste sulla novità degli zingari: “quaedem extranea et praevie non visa vagabundaque moltitudo hominum” 19: una moltitudine vagabonda che giunse in Germania dalle terre più orientali, a partire da Luneburgo e passando per Amburgo, Lubecca, Rostock, Greifswald e altre città. Viaggiavano in colonne, alcuni a piedi altri a cavallo, e avrebbero passato la notte al di fuori delle mura cittadine, cosa per loro migliore dato che erano ladri e temevano di venir arrestati se si fossero aggirati all’interno delle mura. Le donne erano le peggiori malfattrici e molte di loro vennero arrestate per furto e messe a morte (il senso sembra essere che esse sarebbero state messe a morte secondo qualche forma di processo legale, piuttosto che uccise a caso, ma è impossibile esserne sicuri). Quanto al loro numero, si aggiravano attorno alle trecento unità, uomini e donne con i loro bambini. Erano “forma turpissimi, nigri ut tartari”. Il paragone ai tartari, che in verità non avevano la pelle nera, è uno dei primi e più importanti esempi di dell’uso di categorie preesistenti per classificare gli zingari, che - come si è già visto - non era un uso esclusivo di questo cronista. Eppure i commenti proseguono, insistendo sul collegamento tra la loro presenza considerata sgradevole e il loro cattivo carattere; la relazione tra carattere e aspetto era qualcosa che avrebbe ossessionato coloro che fecero l’incontro con i popoli dell’Africa occidentale e del Nuovo Mondo nel corso del secolo successivo. Korner ci riferisce che gli zingari si facevano chiamare Secani; uno scrittore a lui coevo, Andrea di Ratisbona, usa la forma Cigani o, nello “Specchio Quotidiano”, Cigäwnär, la parola dalla quale deriva il loro nome attuale in tedesco, Zigeuner; il nome ungherese era cigáni 20. Korner provò anche ad adattare gli zingari in categorie preesistenti in altre maniere: sottolinea che loro avevano i loro propri capi o principes, cioè “duca” o “conte”, che esercitavano la giustizia al loro interno e i cui comandi seguivano; si diceva anche che essi avessero i loro “vescovi”. Mentre possiamo aspettarci che le bande di zingari fossero organizzate gerarchicamente, non è chiaro se avessero assunto i loro titoli dagli abitanti europei, imitando le società con cui entravano in contatto, oppure se questi titoli fossero semplicemente un modo di esprimersi tra coloro che rilevarono il loro sopraggiungere, cercando di definirli entro categorie sociali già presenti. La risposta più probabile è una commistione di entrambe queste spiegazioni. I nomadi studiarono le società con cui entrarono in contatto e si sforzarono di presentarsi in termini facilmente comprensibili agli europei d’Occidente. La loro rete di informazione era notevole.
Come vedremo tra poco, essi sapevano chi era il re di Germania e Ungheria, erano a conoscenza di almeno un aspirante al trono papale ed erano persino capaci di riprodurre documenti che sembravano emanati dalla corte di questo o di quel sovrano. Per questo forse si basarono sulla complicità di europei occidentali, forse notai cittadini capaci di produrre i documenti a loro necessari. Non ci fu un’azione concertata contro di loro, perché portavano con sé lettere di protezione apparentemente emanate da diversi prìncipi, e soprattutto da Sigismondo, re di Germania e Ungheria. Così non appena arrivavano in città e castelli venivano presto accettati dal governo cittadino, dal vescovo o dal signore laico, e humaniter tractati. La spiegazione del loro stile di vita errante era messa in relazione al fatto di aver abbandonato la cristianità in favore del paganesimo (paganismum); quando essi erano tornati alla vera fede sarebbero stati sottoposti dai loro vescovi alla pena di un pellegrinaggio di sette anni. Tale
spiegazione sarebbe ricorsa molte volte, ben dopo che i primi sette anni erano trascorsi.
Questo racconto deve essere comparato con quello di Andrea di Ratisbona, già brevemente menzionato. Il suo riferimento alla presenza degli zingari a Ratisbona data al 1424, 1426 e 1433; da allora gruppi di zingari erano apparsi molto più a sud della Germania rispetto a quelli incontrati da Korner. Secondo i suoi editori, Oefelius e Leidinger, Andrea parla solo di trenta zingari (e anche meno negli anni successivi), ma nella sua traduzione dal latino Gronemeyer ottimisticamente ingigantisce ad XXX personas fino a “300 Personen”. Trenta persone, seguite da un numero anche minore, non avrebbe sicuramente attirato l’attenzione che Andrea avrebbe poi dedicato ai Cigäwnär. D’altro canto, è anche possibile che dall’insieme di trecento adulti si siano poi divisi gruppi più piccoli. Andrea parla dei loro sforzi per insediarsi nei campi fuori città, perché a questi non era consentito vivere tra le mura: non è chiaro se questa sia stata una regola che essi si autoimposero essendosi autoproclamati pellegrini vaganti, oppure una legge imposta dalle pubbliche autorità in base alla loro fama di ladri. Eppure Andrea insiste sul fatto che essi fossero abili come ladri. Sapeva che giungevano dall’Ungheria, ma non spiega oltre sulle loro origini. Quello che egli crede di poter spiegare è la ragione del loro vagabondaggio: essi avevano scelto di migrare dalle loro terre natie a ricordo della fuga in Egitto di Giuseppe, Maria e del bambino Gesù, quando Erode aveva cercato di uccidere il fanciullo. Ma si diceva anche che essi fossero esperti in cose segrete, elemento questo ripetuto continuamente dagli scrittori posteriori che avrebbero insistito sul ruolo degli zingari (specialmente le donne) quali negromanti.
Andrea, come Korner, sapeva che gli zingari recavano lettere di presentazione da parte dell’imperatore sigismondo; vediamo brevemente qualcosa di più del loro contenuto. Sembra che costoro nel 1417 circa erano a Lindau e nel lago di Costanza, dove ottennero privilegi da Sigsmondo, il quale era in quella regione durante il concilio di Costanza, benché in quella circostanza la sua mente fosse più preoccupata per la soluzione allo scisma papale e per l’elezione del nuovo papa, Martino V, per non parlare della minaccia hussita verso la Chiesa cattolica e dell’espansione ottomana ai confini dell’Ungheria. Tra coloro che presero parte ai lavori del Concilio vi erano, stando a quanto riporta Ulrich von Richental, membri di molte chiese esotiche, incluse “le due Indie, la maggiore e la minore, governate dal prete Gianni, il regno di Etiopia, dove vivono i mori, il regno di Egitto e il regno di Ninive”. Tutti questi cristiani asiatici e africani furono assegnati alla “nazione inglese”, insieme a scozzesi e irlandesi . Effettivamente la cronaca di Richental è ambigua e non è chiaro se gli etiopi parteciparono veramente, come si è spesso pensato (benché etiopi e copti furono in seguito presenti al concilio di Firenze, giungendovi nel 1441). Tuttavia è probabile che gli zingari, in qualità di nativi del “basso Egitto”, furono considerati originari di un qualche luogo vicino all’Etiopia e furono ben accolti in qualità di pellegrini penitenti. Come vedremo, simile confusione fu presente probabilmente anche in Spagna, dove si giunse alla stessa conclusione pochi anni dopo. Se non erano etiopi, probabilmente erano copti, indiani o nativi di alcune altre parti vicine all’Etiopia e conosciute più che altro per sentito dire.
Essi infatti programmarono bene la loro visita al lago di Costanza 24. La carità di Sigismondo verso coloro che si proclamavano nomadi poteva pertanto derivare dalla volontà di aiutare quelli che insistevano a essere considerati figli leali della vera Chiesa e che sembravano aver origine nelle terre invase dai turchi e dai tartari. Era passato solo poco tempo da quando Timur Leng (Tamerlano) aveva portato rovina all’Asia centrale e in Anatolia. Avere riguardi nei confronti degli zingari era un piccolo modo per opporsi ai pericoli che incombevano da Oriente. Con il racconto delle loro pene, gli zingari sembravano molto adatti alla carità cristiana.
Essi furono abili a imparare e svilupparono la propria storia di disgrazia e redenzione per appellarsi ai prìncipi e alle città cristiane in tutta l’Europa occidentale.
I rapporti tra il privilegio agli zingari e gli hussiti emerge anche in altri modi. Korner racconta il rogo di Hus al concilio di Costanza nel 1417 e passa a descrivere le azioni di un ebreo chiamato Jacobus che “in una certa città” rubò un’ostia consacrata e trovò la figura di un bambino dentro di essa. Provò a mangiare l’ostia, ma l’immagine del piccolo divenne dura e ossuta ed egli non ci riuscì. Dopo l’incontro con un demonio, cercò di sotterrare il fanciullo ma tutti i suoi sforzi di nascondere il corpo fallirono; la storia finisce con la conversione sua insieme a quella di molti altri ebrei. Nel raccontare ciò, Korner difendeva il magistero della Chiesa sulla transustanziazione, rispetto al rifiuto di questo concetto da parte degli hussiti. Motivi simili possono essere rintracciati nello sviluppo del culto del Santo Sangue a Wilsnack, nella Germania settentrionale, studiato da Caroline Walter Binum 26. Poi, dopo aver raccontato questa storia, Korner torna alla storia degli hussiti. Non fa paragoni tra gli ebrei in quanto stranieri e gli zingari, ma c’è un parallelo tra gli ebrei che si convertono in seguito a un atto sacrilego verso l’ostia e gli zingari che sono comparsi da est (le terre degli eretici e dei saraceni) appena dopo essere ritornati alla loro fede. Nel racconto di Korner, sia gli ebrei convertiti che gli zingari penitenti rappresentano un nuovo ordine in cui svanirà l’incredulità.
Non è stato identificato alcun privilegio a favore degli zingari risalente all’anno 1417; per trovare un documento è necessario rivolgersi alle prove del 1423-24, secondo quanto riportato da Andrea di Ratisbona. Dato che essi erano giunti dall’Ungheria, uno dei domini di Sigismondo, l’idea che questi avesse emesso per loro lettere di protezione da Sepus (il castello di Spiš, che è adesso in Slovacchia orientale), nel 1423 aveva un senso compiuto. Non solo Andrea aveva sentito di queste lettere, ma ne aveva anche visto almeno una e l’ha copiata nella sua cronaca. Probabilmente si trattava di una lettera originale, oppure di una copia di una lettera autentica. La sua attendibilità è stata accettata in una recente biografia su Sigismondo, il quale, oltretutto, era presente in Slovacchia proprio nel momento in cui la lettera sembra essere stata emessa. Il documento si apre affermando di rivolgersi a tutti i sudditi di Sigismondo nei suoi molti regni - Germania, Ungheria, Boemia, Dalmazia e Croazia - e specificamente ai suoi nobili, ufficiali, castelli e città. Il privilegio riporta che “Ladislao, waynoda dei cigani, giunse di persona insieme ad altri alla nostra presenza” per ottenere il favore di Sigismondo, e a lui e ai suoi accompagnatori fu promesso che, ogniqualvolta essi fossero giunti in una città all’interno dei suoi domini, sarebbero stati protetti da ogni interferenza, offesa od ostacolo, e che qualsiasi problema sorto quando essi fossero stati presenti sarebbe stato giudicato non dai tribunali cittadini o dagli ufficiali regi, ma dal capo degli zingari, Ladislao (e non è chiaro se si riferisca solo a dispute interne oppure anche con la popolazione locale).
Ancora una volta si dà per scontato che gli zingari si muovessero agli ordini di un capo, anche se il termine slavo voivode è stato utilizzato, al posto di dux o comes, nella forma waynoda (nei manoscritti del Trecento ‘n’ e ‘u/v’ vengono spesso confusi). Anche il nome del waynoda, Ladislao, è slavo e – per quanto non fosse improbabile che truppe di zingari vaganti fossero presi sotto l’ala protettiva di soldati dell’Europa dell’est - l’uso del nome e dell’epiteto può essere meglio compreso se inserito in un processo di acculturazione tra gli zingari. Essi infatti si sforzarono di adattarsi al linguaggio politico e alle posizioni religiose degli europei, in maniera tale da potersi assicurare sufficiente accettazione e aiuto. Ma non avevano intenzione di abbandonare il loro stile di vita errabondo, che lungo i secoli era diventato un tratto distintivo della loro identità culturale. Nello specifico, essi volevano giudicarsi secondo le loro norme di vita e questo diritto fu esplicitamente confermato dall’imperatore. Si possono trovare paralleli a questa esenzione anche altrove, ad esempio nelle garanzie di re e prìncipi verso gli ebrei per permettere di seguire le loro leggi nelle dispute internazionali. Anche così, è difficile dimostrare l’autenticità del diploma. Eppure, se anche fosse stato contraffatto, dimostrerebbe una buona comprensione dei movimenti dell’imperatore. Il documento doveva essere anche abbastanza plausibile per convincere molte città tedesche e svizzere del loro dovere di ospitalità verso gli zingari.
Andrea ricorda anche le altre visite a Ratisbona. Nel 1426 “lo stesso popolo” (eadem gens) montò le tende in un’area chiamata inter waiteras: la località è abbastanza facile da identificare, in un’isola situata sul Danubio, proprio vicino all’ospedale di Santa Caterina e allo Stadtamhof, e dalla parte opposta nei pressi delle isole danubiane più note adesso come Oberer e Unterer Wöhrd. Tecnicamente questi sobborghi isolani di Ratisbona non appartenevano alla città-stato imperiale; ma erano edificabili e per di più avevano il vantaggio di esser vicinissimi al ponte in pietra che conduceva, come fa ancora, a Ratisbona. Andrea ricorda l’arrivo degli zingari anche in altri lavori: nella Chronica pontificum et imperatorum Romanorum racconta che nel 1424 quedam gens Ciganorum qui volgariter Cygänwäs in terris nostris vaga exulabat 30; ed essi riapparvero nel 1433; proclamavano di venire dall’Egitto, ma Andrea aveva sicuramente dei dubbi e riferì che questo era quello che loro proclamavano [dicebant se esse ex Egypto], senza sostenere che da lì venissero veramente 31. Molte storie avrebbero parlato del “basso Egitto”, una terra distinta dall’Egitto vero e proprio: e fu ovviamente per queste presunte origini egiziane che essi furono spessochiamati “egiziani” (Egyptiens), e da qui “gitani” (Gypsies). Andrea ci fornisce dunque una notevole prova che le storie che questi nomadi raccontavano riguardo loro stessi stavano iniziando ad apparire improbabili.


Gli zingari nel sistema imperiale spagnolo.
Soldati, banditi e vagabondi tra Milano, Napoli e la Castiglia, (secc. XVI- XVII).

Università di Pavia
Dipartimento di Studi Umanistici
Dottorato di Ricerca XXXI ciclo in: Società, politica e istituzioni in età moderna e contemporanea
file:///C:/Users/Alberto/Downloads/M.+G.+Tumminelli-Tesi+Dottorato.pdf


Vagabondi, zingari e mendicanti.Leggi toscane sulla marginalità sociale tra XVI e XVIII secolo
Alessandro Dani
Firenze, 2018
https://asstor.it/pubblicazioni/studi-e ... vagabondi/

I Granduchi di Toscana, tanto nel periodo mediceo quanto in quello lorenese, si trovarono ad affrontare i problemi della mendicità dilagante, del vagabondaggio, della marginalità di soggetti in vario modo non inseriti nell’ordine sociale, come gli zingari.
Si trattò, come in tutti gli Stati italiani ed europei del tempo, di una lotta principalmente condotta con le armi della dissuasione e della repressione, ma anche dell’assistenza mirata e del tentativo di integrazione tramite il lavoro. Similitudini ed emulazioni normative emergono nettamente tra i vari contesti, ma anche diversità significative, che rendono necessario lo studio delle esperienze nei diversi ordinamenti, prima di poter giungere a delineare un quadro d’insieme. L’indagine proposta in questo libro muove dall’analisi della legislazione granducale, con i necessari riferimenti alle altre fonti giuridiche, ma non rinuncia ad un continuo dialogo con la storiografia sociale ed economica che da tempo dedica ampia attenzione a fenomeni cruciali in atto nell’Europa moderna, come le dinamiche di impoverimento dei ceti subalterni, le strategie di disciplinamento sociale, lo sviluppo di iniziative assistenziali.




Anche il Ducato di Milano, la Serenissima, lo Stato Pontificio giustamente perseguivano gli zingari e non per pregiudizio etnico culturale ma perché erano dediti al crimine, checché ne scriva l'Avvenire politicamente corretto che omette di considerarlo e di sottolinearlo, aderendo alla falsa narrazione che vuole gli zingari vittime innocenti, onesti lavoratori discriminati per razzismo etnico culturale.
Le simpatie iniziali furono dovute al fatto che gli zingari al loro arrivo nell'Europa centro occidnetale e in Italia si sono presentati ingannevolmente ai paesi cristiani europei come cristiani dei Balcani perseguitati dai nazi maomettani ottomani invasori dei loro paesi e anche come pellegrini penitenti diretti a Roma e nei vari santuari della cristianità; per questo inizialmente furono benevolmente accolti, ospitati ed elemosinati come pellegrini, ma poi manifestarono tutta la loro malvagità criminale e furono per questo e solo per questo rigettati, malvisti e perseguiti poliziescamente, giudiziariamente e politicamente.

Venezia metteva come rematori ai banchi delle galere, i detenuti e i condannati per crimini vari ai lavori forzati.


???

Gli zingari, perseguitati da cinquecento anni in tutta Europa

Alessandro Marzo Magno
23 giugno 2018
https://www.avvenire.it/agora/pagine/gl ... tta-europa

Fuggiti dagli ottomani, si diffondono in tutto il continente suscitando simpatie. Poi vengono accusati di furti e rapine e cacciati da ogni governo
Il primo a volerli cacciare è stato Ludovico il Moro: nel 1473 stabilisce che gli zingari vengano allontanati dal territorio del ducato di Milano, pena la morte. Da lì comincia una lunga serie di editti - "grida", come ci ha insegnato Alessandro Manzoni - contro i gitani che termineranno soltanto ai tempi di Maria Teresa. Anche con lei, però, non avranno piena cittadinanza, semplicemente si passerà dalla persecuzione all’assimilazione.
Un po’ in tutta Italia, e pure nel resto d’Europa, dal Cinquecento in poi gli zingari diventano oggetto di bandi e persecuzioni, ma da nessuna parte accade con tanta ossessività come a Milano. Con gli spagnoli si arriverà a una sessantina di grida sul tema. Il che, in un paio di secoli, fa una media di una legge ogni poco più di tre anni, con un crescendo di pene talmente esagerato da rivelarne l’assoluta inefficacia.
E pensare che all’inizio gli zingari vengono accolti con simpatia: sono costretti a lasciare i Balcani dopo le conquiste ottomane del XV secolo e sciamano un po’ in tutta Europa. Quando già a Milano li si perseguitava, a Venezia attorno al 1505 Giorgione dipinge un quadro, La Tempesta, destinato a cambiare la storia dell’arte: è il primo dove il paesaggio diventa protagonista. Viene descritto come "paesetto in tela cum la tempesta, cum la cingana et sodato" e se una zingara aveva un tale posto di prestigio all’interno dell’opera di uno degli artisti più celebri dell’epoca, significa che non era ancora stata colpita dalla riprovazione sociale. Mancava poco. «È finito quel brevissimo lasso di tempo in cui lo zingaro, esotico e misterioso, incuriosiva la gente e commuoveva con la sua triste storia di pellegrino: inizia ora la caccia allo zingaro ladro, pigro e imbroglione», scrive Giorgio Viaggio nel suo Storia degli zingari in Italia.
La Serenissima non vede l’ora di prendere gli zingari e incatenarli ai remi delle proprie galee. Il decreto papale del 1557 stabilisce che «gli zingari debbino uscire di Roma e suo territorio» e concede tre giorni di tempo, pena la galera per gli uomini e la frusta per le donne. Nel 1570 a Cremona un gruppo di ventidue zingari viene assalito dalla popolazione cittadina che ne brucia la casa provocando la morte degli occupanti. Nel 1572 trecento zingari nella provincia di Parma vengono attaccati e sterminati dai soldati del duca, accompagnati da una folla inferocita.
A Milano dopo la fine della dinastia Sforza (1498) i francesi ribadiscono le norme anti gitani che vengono riprese e rafforzate dagli spagnoli. Col duca di Terra Nova (1568) e Carlo d’Aragona (1587) inizia la repressione vera e propria, con la condanna a cinque anni di remo per gli uomini e alla «pubblica frusta» per le donne; nel decreto del 1587 si parla di «cingheri, gente pessima, infame, data solo alle rapine, ai furti e ogni sorte di mali». Una grida del 1605 comanda invece che «niuna persona, ancora privilegiata o feudataria, ardisca alloggiare, dare ricetto, aiuto o favorire in alcun modo a detti cingari».

Nel 1624 in una legge contro le delinquenza comune gli zingari vengono definiti i più pericolosi tra i malfattori e si dichiara lecito derubarli delle loro cose, senza tener conto di permessi e licenze da essi posseduti (spesso avevano autorizzazioni all’accattonaggio e al girovagare emesse in Germania). Inoltre si intima il divieto di frequentarli. Evidentemente le autorità del ducato di Milano non riescono a fare nulla di concreto contro i nomadi, visto che autorizzano la giustizia fai da te: nel 1657 si concede alle popolazioni di riunirsi al suono della campane a martello «e perseguitare detti cingari prenderli e consignarli prigioni».
Non si riesce a farli star buoni? E allora che non entrino nemmeno: il 15 marzo 1663 una nuova grida vieta l’accesso agli zingari nel ducato, pena sette anni di galera agli uomini e alle donne di essere pubblicamente frustate e mutilate di un orecchio (la pena della galera non significa andare in prigione, ma diventare "forzati da remo" a bordo delle unità militari: Milano "affittava" vogatori forzati a Venezia). Trent’anni dopo, nell’agosto 1693, è prevista l’impiccagione immediata per gli zingari che fossero trovati nel territorio milanese. Di più: qualunque cittadino ha diritto di «ammazzarli impune» e poi di «levar loro ogni sorta di robbe, bestiami denari che gli trovasse», in regime di esenzione fiscale, «senza che s’habbia a interessare il regio fisco». Si ha diritto di ammazzare e di far bottino come se si fosse in guerra, ma il nemico, in questo caso, non sono i soldati stranieri, bensì gli zingari.



La galera
(nave a remi spesso mossa da rematori che avevano subito la condanna ai lavori forzati per crimini e atti delinquenziali; usanza penale istituita come legge da Carlo V nei Paesi Bassi nel XVI secolo e poi estesasi anche negli stati italiani, ma già in uso da prima )
https://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/20343.pdf

Governatore dei condannati
https://it.wikipedia.org/wiki/Governato ... condannati
Il governatore dei condannati era un alto comandante della marina della Repubblica di Venezia istituito nel 1542 .Tale ruolo era al comando della ciurma della galera composto da detenuti e prigionieri piuttosto che da uomini di bordo liberi.
Solamente a partire del 1542 i condannati e i prigionieri musulmani iniziarono ad essere impiegati come vogatori nella marina veneziana in maniera istituzionale creando la carica di governatore dei condannati. Nelle altre marine erano invece già in uso. L'uso di detenuti per remare le galee aumentò nel tempo, con l'eccezione delle navi ammiraglie e delle galeazze.
Successivamente il numero delle galee con un importante uso dei remi all'interno della flotta veneziana diminuì a favore dei Vascelli. A partire del 1721 tutte le galee veneziane erano presidiate esclusivamente da detenuti (galeotti).
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Censimento dei nomadi o seminomadi (rom, sinti e altri)

Messaggioda Berto » ven apr 28, 2023 3:11 am

Stagnini e calderai.
Gli stagnini e i calderai professionali e stabili in Italia non erano certo zingari nomadi, ma artigiani locali a cui qualche calderaio zingaro faceva concorrenza squalificata e sleale, perché la sua professionalità nomade non gli consentiva di portarsi dietro tutte le attrezzature necessarie per fare un lavoro fino e poi perché non si giocava la reputazione essendo un foresto che poi se ne andava, e perché non pagava tributi. Parte (probabilmente la maggior parte) dei manufatti in rame che vendevano era stata rubata in altri luoghi e da loro manipolata e trattata per non essere più riconoscibile, gran parte della loro opera consisteva nel rimodellare le forme e nel alterare i marchi di fabbrica.

I calderai
http://www.storiatifernate.it/allegati_ ... lderai.pdf
Il calderaio fabbricava manufatti in rame per uso domestico: paioli e caldaie, pentole e casseruole, tegami e marmitte, teglie e stampi per dolci, brocche per l’acqua, scaldini e scaldaletto; e inoltre bacinelle, cuccume da caffé, bricchi, boccali, mestoli e imbuti. Un tempo le famiglie benestanti tenevano bene esposte nelle rastrelliere intere batterie di utensili da cucina in rame, con pezzi di varie dimensioni; quelle di condizioni sociali più modeste, invece, si potevano permettere solo gli essenziali.
Metallo molto duttile, il rame veniva facilmente modellato in qualsiasi forma con abili colpi di martello 1. Gli oggetti di tal fatta, anche perché facilmente riparabili, erano diffusissimi e il calderaio aveva un suo prestigio nel variegato ambiente artigianale. Talvolta si usavano come sinonimi i termini di calderaio e di stagnino, ma quest’ultimo generalmente indicava il semplice esecutore di riparazioni.
Nel folclore locale resta vivida l’immagine degli zingari calderai. Quando giungevano in città, si accampavano con i loro lunghi carri coperti con tendoni e trainati da cavalli a ridosso delle mura, ai Frontoni, vicino alla ruota del funaro. Lì, in improvvisate officine ambulanti, fabbricavano i paioli e caldari che le loro donne provvedevano a vendere nel centro abitato. Inoltre stagnavano i recipienti in rame affidati loro dai cittadini, che ne apprezzavano la maestria e l’economicità del servizio.
Quindi, obbedendo alla natura gitana, si muovevano verso altre località. Si ha traccia di essi anche in alcuni documenti comunali. Nel 1887 il sindaco si lamentò del contegno dei calderai “attendati fuori porta al Prato”, tanto che il delegato di Pubblica Sicurezza intimò loro di allontanarsi. Più di trent’anni dopo l’artigiano tifernate Angelo Bongiovanni denunciò la “concorrenza continua esercitata da girovaghi, i quali liberamente sfuggono a qualsiasi tassa, arrecando infine non lieve danno alle poche piccole industrie locali” .
Benché la figura dell’ambulante caratterizzasse in modo accentuato tale professione fino agli anni ’30 del Novecento, a Città di Castello si annovera una lunga tradizione di stabili botteghe di calderai e stagnini



Il calderaio - “u callaroir”
Michele Gismundo
https://www.gravinaoggi.it/il_calderaio ... roir_.html
A Gravina in Puglia di calderai, "callaroir" o "stagnoir", ce n'erano parecchi. La produzione in rame interessava maggiormente arnesi da cucina: "la calloir", " u scola past", "la sartascjn", "la frascioir", "la rasaul du tav'lier", ecc. Alcuni di questi oggetti venivano rifiniti in stagno, per evitare che si arrugginissero nel tempo. Il calderaio, era l'artigiano che fabbricava e riparava caldaie e pentole. C'era a Gravina un bravo calderaio, "Mest Giuan u callaroir", (alias Giovanni Antico). Raccontano gli anziani che "Mest Giuan" era un artigiano affabile, competente. Calderai e ramai infatti erano tutti valentissimi da noi. Un mestiere molto antico. Inventato, forse, con la scoperta stessa dei metalli e con il loro utilizzo nella vita quotidiana. Era un mestiere che necessitava, oltre che di una buona forza fisica, anche di molta pazienza, infatti la buona riuscita di un oggetto di rame dipendeva essenzialmente da come era stato lavorato, compresa l'attaccatura dei manici. Il calderaio, mentre lavorava, faceva molto rumore, rumore assordante e continuo, prodotto dalla battitura del martello sul foglio di rame. Infatti molte botteghe di calderai erano concentrate in luoghi ben distanti dalle abitazioni. Questi artigiani si guadagnavano da mangiare adoperando strumenti necessari a riparare pentole in rame e il loro lavoro era particolarmente apprezzato perché, in passato, le stoviglie accompagnavano una famiglia per tutto il periodo della sua esistenza. Entrando nelle botteghe dei calderai ciò che colpisce di più è il grande numero di martelli che in esse si conservano, mentre il rame veniva acquistato sotto forma di foglio, da qui con l'utilizzo di veri e propri martelli fuori dal comune, per la loro forma, gli artigiani ricavavano magnifici manufatti. Il calderaio o ramaio esponeva i propri lavori anche in fiere e mercati, dal più grande al più piccolo e, con una bella lucidatura acquistavano la coloritura ramata. Era prezioso il mestiere del calderaio "u callaroir", perché realizzava oggetti indispensabili alla vita quotidiana e aveva cura di ricoprire internamente i recipienti di rame con uno strato di stagno per evitare che si ossidassero, rendendo tossiche le pietanze. Questi oggetti lavorati dal calderaio venivano appesi in cucina, a bella vista. Si appendevano ai chiodi di un telaio rettangolare di tavola appeso alla parete. Oggi quei vecchi recipienti sono stati sostituiti dalle pentole di acciaio inossidabile. D'inverno questi artigiani lavoravano all'interno della bottega. Ma, appena arrivava la primavera, con il primo sole caldo, uscivano fuori con la fornace per lavorare. A volte succedeva che una caldaia si sfondava o si ammaccava in più punti sia per qualche caduta che per il troppo uso. I calderai intervenivano per rimetterla a nuovo. Se era rotta ci voleva una "pezza" che ricavavano da una caldaia vecchia o in disuso e che, con i chiodini, applicavano dalla parte esterna. Per sagomarla, poi, la mettevano sulla fiamma dei carboni accesi nella fornace, la giravano e rigiravano finché la parte da riparare era arroventata al punto da poter essere lavorata comodamente, essendo la lamiera divenuta docile. Le pentole vecchie erano nere di fuliggine e i calderai, di conseguenza, non potevano non sporcarsi le mani e con esse il naso, la fronte e il fazzoletto. C'erano famiglie numerose che, per evitare la rottura del piatto in terracotta e le ripetute riparazioni, usavano il piatto di rame di grandi dimensioni, dove genitori e figli, seduti attorno al tavolo (lungo e stretto), mangiavano tutti insieme. Lo stagnino riparava non solo le pentole d'uso quotidiano, ma anche grossi recipienti alti quasi mezzo metro dentro cui i pastori scaldavano il latte per fare ricotta, mozzarelle, caciocavalli, ecc. E questo lavoro spesso veniva eseguito a domicilio", cioè direttamente nelle masserie dove si produceva latte e suoi derivati. Bei ricordi. Ricordi d'altri tempi, che ci aiutano a riflettere sulla fatica dei nostri antenati. Certo i nostri antenati avevano il senso del sacrifico. Per un futuro migliore da tramandare ai propri figli.


Quello strano legame tra Piemonte e Calabria in nome delle caldaie (e della polenta)
Fabio Molinari
7 settembre 2022

https://www.repubblica.it/il-gusto/2022 ... 364437570/

Tornare a casa con molta miwàina era il sogno di tutti i lavoratori migranti. Un termine che può essere compreso in qualche paese del cosentino o da qualche lussemburghese di lontane ascendenze calabresi, magari un pronipote di quel Salvatore che costituì lì una prima colonia di dipignanesi.

Miwàina significa denaro in ammaskante, gergo talmente ricco da essere definito lingua dal professor Trumper, utilizzato dai calderai di Dipignano, piccolo centro in provincia di Cosenza, per non essere compresi da clienti e concorrenti. È il linguaggio di quei maestri che con i loro garzoni si muovevano ogni anno dal coscu, la casa, per aucciare, andare, in tutto il centro sud Italia, a stagnare le pentole di rame e che un giorno arrivarono sino a Ponti, nell’Alta Langa alessandrina, dando origine a un legame tra questi territori esistente ancora oggi. L’incontro, attestato storicamente, si è presto ammantato di leggenda.

Nel 1571 i calderai di Dipignano giunsero a Ponti per incontrare il marchese Cristoforo Del Carretto che regnava su quelle terre, noto per la sua benevolenza. Stanchi, infreddoliti e affamati chiesero ospitalità a palazzo e il marchese promise loro cibo e accoglienza se avessero aggiustato un enorme paiolo di rame. I dipignanesi riuscirono a renderlo come nuovo e il marchese tenne fede alla sua promessa portandogli farina da polenta sufficiente a riempire quel grande recipiente.

Questo incontro, dal 1965, viene ricordato da un Gemellaggio che si celebra ogni anno, a Dipignano e a Ponti ad anni alterni, con una polenta da record, una frittata big size e una grande festa di piazza. Nel 2022 i festeggiamenti saranno nel paese cosentino e inizieranno l’8 settembre mentre il polentone di piazza sarà cucinato domenica 11 dai cuochi provenienti direttamente da Ponti che porteranno la farina di mais locale. Il risultato sarà una polenta di dieci quintali accompagnata da una frittata di 3000 uova con 150 chilogrammi di merluzzo e 300 chilogrammi di cipolle per un pranzo a cui parteciperanno circa tremila persone. La tradizione del polentone, oltre che a Ponti, viene celebrata anche a Monastero Bormida e Bubbio, paesi confinanti, a segnalare probabilmente la presenza di un consistente commercio tra Piemonte e Calabria. Il mestiere di stagnino itinerante, infatti, è solo una parte di una fiorente e plurisecolare industria che portò i manufatti di Dipignano ben oltre i confini della Calabria, facendone uno dei maggiori centri di lavorazione del rame in Italia.


“Dipignano - spiega lo storico locale Franco Michele Greco - è stata la capitale della lavorazione del rame nella Calabria Citeriore fin dall’anno Mille, un’arte portata qui probabilmente dalla comunità ebraica”. La lavorazione di questo metallo fa la fortuna del borgo dove si crea un vero e proprio distretto che porta prosperità e ricchezza alle famiglie. “Un quartiere prende il nome di Napoli Piccola tante erano le botteghe presenti e fin dal Seicento ci sono alcune famiglie di calderai che possono permettersi di far studiare i figli all’Università, privilegio solo dei benestanti”. A Dipignano le forge firmano manufatti di valori, pezzi unici che spesso arrivavano nelle case dei nobili e del clero. “Le campane prodotte qui diventano famose in tutto il regno e anche oltre” - spiega Greco - “e forgiare una campana significava avere conoscenze di fisica, chimica, acustica, non indifferenti”.

Eppure proprio in questo benessere si nascondeva la radice della fine. Da un lato infatti i figli dei proprietari delle forge più importanti, grazie ai loro studi, intrapresero professioni redditizie emigrando altrove. Dall’altra il valore di queste tecniche di lavorazione portò i maestri a isolarsi sempre di più. Le botteghe invece che aprirsi all’esterno si chiusero, non soltanto in senso metaforico: le officine spesso erano senza finestre con solo piccole aperture per comunicare con l’esterno. “I maestri erano gelosi del mestiere e non ci fu passaggio di conoscenze al di fuori della linea famigliare” spiega Greco. All’inizio degli anni Venti del Novecento era rimasta in attività solo una forgia, appartenente alla famiglia Valentini, che terminò quando gli eredi presero un’altra strada.

Da allora fino al Dopoguerra resistettero gli stagnini itineranti, che riparavano le pentole piazza dopo piazza: “Era un mestiere duro sempre per strada, con un garzone che girava il mastice, per riparare qualunque cosa fosse di rame”. Rientravano a Dipignano, in occasione delle feste più importanti come Natale, Pasqua, San Francesco. “In quei momenti il paese era doppiamente in festa, le cantine si riempivano di cibo e di storie” - spiega Greco - “l’economia risentiva della loro presenza come della loro assenza”. L’arrivo delle stoviglie d’alluminio determinò la crisi finale di questo mestiere, accentuata dall’emigrazione dei giovani che scelsero il lavoro nelle fabbriche del nord.

Oggi a Dipignano è presente un Museo del rame che raccoglie strumenti, manufatti e stoviglie: i caccavi a forma di imbuto, piccole caldaie che servivano a produrre il pecorino, la quadara grande utilizzata per le frittole cioè le frattaglie recuperate dalla mattanza del maiale, i quadarotti più piccoli e le tielle impiegate per la ricetta con pasta e patate che proprio da qui trae il suo nome.

La giovane amministrazione continua a preservare le tradizioni, la lingua, le testimonianze di questa storia, promuovendo il Gemellaggio, il museo e gli studi sul tema. Il mestiere, però, è perso. “Il sottotitolo del mio libro Gente Calderaia - spiega Greco - recita proprio il vuoto del presente perché di quell’epopea di artigiani viaggiatori non è rimasto pressoché nulla”. La vera ricchezza dei calderai era infatti un sapere rinchiuso tra le quattro mura di una forgia senza finestre e in una lingua per iniziati, sopravvissuta in canzoni e poesie. A Dipignano è rimasto solo Roberto a praticare l’arte del rame, continuando il lavoro di suo padre, maestro Franchino, con l’obiettivo di conservare quelle tecniche e quei gesti che altrimenti andrebbero dispersi. Ultimo maestro di una dinastia millenaria.




Naice, l'ultimo stagnino, parla una misteriosa lingua di 200 parole
Paola Treppo
17 luglio 2018

https://www.ilgazzettino.it/nordest/por ... 60736.html

TRAMONTI DI SOTTO (Pordenone) - Giuseppe Rugo, per tutti Naice, 79 anni, di Tramonti di Mezzo, borgo dove è nato e dove vive ancora oggi, è l'ultimo stagnino della Val Tramontina. «Spero di restare ancora per tanti anni "l'ultimo"» dice sorridendo mentre spiega a cosa funzionava un attrezzo e come viveva un tempo lo stagnino, che qui, sulle montagne del Pordenonese, si chiama arvâr.

Impara il mestiere a 8 anni col padre?
«Sì, ho cominciato a girare con mio padre, che era un bravo stagnino, che avevo 8 anni - racconta -; quando finivo la scuola partivo con lui. Giravamo in Veneto e anche un po' nella Bassa del Friuli. Io facevo l'apprendista che, nel nostro gergo, il taplâ par tarònt, si dice gamel. Ci si svegliava presto, la mattina, alle 5. Io avevo il compito di andare con la bicicletta a cercare il lavoro a casa dei contadini; li trovavi solo a quell'ora, perché poi andavano nei campi. Se avevano oggetti e padelle da riparare te li consegnavano. Poi papà, di solito nell'arco di una giornata, li aggiustava. Ed ero sempre io che li riportavo ai "clienti", sempre in bici, e ritiravo i soldi a pagamento».

La "cresta" per pagare la scuola?
«Mio padre mi diceva di proporre un prezzo, che potevano essere 550 lire, e in caso, se sentivo brontolare, di fare uno sconto. Lo sconto non l'ho mai fatto, ma dicevo di farlo, così tenevo per me qualche lira e, tornato a casa, avevo un gruzzoletto per comprarmi le cose di scuola. Costava, studiare. Credevo che mio padre non se ne fosse mai accorto invece poi ho scoperto che passava anche lui, di casa in casa, per sapere se ero stato educato e se il lavoro fatto andava bene. Un giorno mi ha detto: “Guarda che lo so, cosa fai. Lo facevo anche io”. Una bella lezione anche quella per me».

Si partiva a marzo e si tornava a Natale
Gli stagnini partivano in marzo, da Tramonti di Mezzo, e tornavano a Natale. «All'inizio usavano un carretto che tiravano loro stessi e non partivano soli. Erano sempre in due o tre, per darsi una mano. Poi si è passati alle biciclette. Noi si lavorava tanto anche per gli ospedali e per le caserme, oltre che per i contadini. Dove c'era rame lì c'eravamo anche noi. Una volta si riparava tutto. A contatto con gli alimenti, il rame si danneggiava, o durava di meno. Allora, con uno speciale procedimento, lo si ricopriva con uno strato di stagno. Si usava un acido. E tra quello e gli altri metalli, questi poveri stagnini si intossicavano; la loro non era mai una vita lunga».

Le fonderie di Thiene?
«Quando si spaccava il fondo della cjalderia della polenta dovevamo andare a Bassano del Grappa, Thiene, Marostica, in una fonderia a prendere il pezzo già pronto; lì serviva più di un giorno per la riparazione e ricordo che prendevo le misure molto semplicemente, con un rametto. Si calcolava la pronfondità a occhio, e andava sempre bene».

«In orgine, gli stagnini lavoravano un po' dove gli capitava: sotto una tettoia di fortuna, per ripararsi dal sole o dalla pioggia. Io e mio padre, invece, che erano già tempi "moderni" si stava in una pensione, a Mason Vicentino: per me pagava 400 lire al giorno, e lui, papà, 420 lire al giorno, perché in uno dei suoi due pasti era compreso anche un bicchiere di vino rosso».

L'emigrazione in Svizzera - Dopo alcune stagioni trascorse con il padre, Giuseppe è emigrato all'estero. Aveva 17 anni ed è andato a lavorare in Svizzera, vicino a Zurigo, in una fabbrica che si occupava un po' di tutto: carpenteria, falegnameria, edilizia. Nel 1974 è rientrato in Friuli e per 12 mesi Naice ha lavorato ancora in fabbrica. Poi ha vinto un concorso pubblico e fino alla pensione ha fatto il portinaio dell'ospedale di Maniago. Ha sempre mantenuto la conoscenza del mestiere di stagnino e ha sempre collezionato strumenti e oggetti di quei tempi andati.

L'alambicco e gli scaldaletto
In casa mostra un quadro di Otto D'Angelo, pittore friulano di Fagagna, che lo ritrae con il padre e con il fratello, anche quest'ultimo stagnino, mentre è in sella a una bici con le padelle di rame. Nel cortile di casa, per la festa del paese, ha messo in mostra tutti i suoi "gioielli". C'è anche l'alambicco per la distillazione della grappa, oltre agli scaldaletto di rame, dove si mettevano le braci ardenti «che a volte facevano prendere fuoco tutto».

Il gergo degli stagnini
Spiega, a chi non lo sa, come si viveva una volta, facendo l'arvâr, e con alcuni amici parla il gergo degli stagnini che per tutti è incomprensibile. Si tratta di una parlata che conta circa 200 vocaboli e che accomuna gli stagnini di questa zona del Friuli con quello dei calderai di Isili, in Sardegna.

La misteriosa polvere
Gli stagnini, così come gli arrotini, i gue, questi ultimi prettamente resiani, vivevano di fatto costantemente in viaggio. Questo li ha portati a stringere contatti con altri ambulanti e nomadi. Si dice che gli stagnini di Tramonti avessero appreso il loro mestiere dagli zingari e che, sempre da loro, avessero ereditato una "ricetta" per realizzare una strana e misteriosa polvere usata poi per la stagnatura.

(Nota mia: non erano stati certo gli zingari a difondere 'l'arte artigiana del ramaio, del calderaio e dello stagnino)
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Censimento dei nomadi o seminomadi (rom, sinti e altri)

Messaggioda Berto » ven apr 28, 2023 3:11 am

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Re: Censimento dei nomadi o seminomadi (rom, sinti e altri)

Messaggioda Berto » ven apr 28, 2023 12:30 pm

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Re: Censimento dei nomadi o seminomadi (rom, sinti e altri)

Messaggioda Berto » dom apr 30, 2023 7:49 am

15)
Il lavoro degli zingari, nomadi seminomadi e stanziali, con la cittadinanza italiana e senza, clandestini e profughi dai Balcani:
lavori presunti e lavori veri, predazione criminale, lavoro nero e concorrenza sleale, caporalato, evasione fiscale e contributiva totale, esportazione dei capitali illegalmente accumulati
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Re: Censimento dei nomadi o seminomadi (rom, sinti e altri)

Messaggioda Berto » dom apr 30, 2023 7:49 am

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Re: Censimento dei nomadi o seminomadi (rom, sinti e altri)

Messaggioda Berto » dom apr 30, 2023 8:21 am

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