Xlavi-s'ciavi co i veneti e łi ebrei ?

Xlavi-s'ciavi co i veneti e łi ebrei ?

Messaggioda Berto » dom mar 02, 2014 9:50 am

Xlavi-s'ciavi co i veneti e łi ebrei ?
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Calke noda so ła s’ciavedù medhoeval:

I secoli degli schiavi slavi

http://www.centrostudilaruna.it/i-secol ... slavi.html

Né è superfluo aggiungere che i mercanti di schiavi più famosi furono gli ebrei detti rahdaniti nel X-XI sec. seguiti poi da Venezia la quale, dal X sec. fino alla scoperta delle Americhe, ne custodì l’esclusiva di vendita e di trasporto ???.


I secoli degli schiavi slavi
22 aprile 2008 (10:45) | Autore: Aldo Marturano


Sappiamo che il Nord Russo era conosciuto ai musulmani che descrivono le Terre Settentrionali del Mondo col nome Paese degli schiavi “bianchi” ossia Bilad as-Saqalibat, e le fonti sono affidabilissime poiché quegli autori scrivono per averle visitate personalmente (più di qualcuno), o per notizie raccolte da altri viaggiatori altrettanto di fiducia, o persino per eredità culturale da autori classici anteriori.

Tuttavia non indicano una regione ben delimitata che ci autorizzi a dire in quale punto geografico tale commercio iniziava o si concentrava. Saqalibat infatti non è che un adattamento del greco Sklavinos o Sklabenos/Stlabenos alla fonetica araba mentre “bianchi” l’abbiamo aggiunto noi in quanto il colore della pelle costituiva un segno distintivo e selettivo nella classificazione della qualità di questa merce umana nei secoli dal IX al XIV d.C. e dunque Bilad as-Saqalibat si può estendere a tutta la cosiddetta Slavia nordica del X sec.

E’ possibile dedurre che fossero proprio i greci (di Costantinopoli e del Levante siriano) ad aver trasmesso ai mercanti la preziosa informazione dove poter comprare gli schiavi da quando i Germani, essendo diventati parte del “popolo romano” e addirittura l’élite dell’Impero Franco, non erano più “merce vendibile”.

Tutta questa storia è già nascosta nella parola che si diffuse intorno al X sec. in quasi tutte le lingue romanze (come in italiano) e che indicava gli schiavi. Schiavi e Slavi non sono che due varianti dell’etnonimo attribuito dai classici greco-romani alle popolazioni che premettero intorno dal V-VII sec. sui confini dell’Impero.

Né è superfluo aggiungere che i mercanti di schiavi più famosi furono gli ebrei detti rahdaniti nel X-XI sec. seguiti poi da Venezia la quale, dal X sec. fino alla scoperta delle Americhe, ne custodì l’esclusiva di vendita e di trasporto.

La prima domanda che dobbiamo porci adesso è: chi era lo schiavo e come diventava tale?

Ci siamo ripromessi di non addentrarci nella giurisdizione alla quale lo schiavo era soggetto nei vari paesi europei e nei paesi limitrofi, in quanto lo giudichiamo un argomento farraginoso e complesso e che va trattato separatamente da quello del traffico commerciale, dove invece si accentra il nostro interesse, e dunque rimandiamo il lettore interessato ai lavori specialistici. In questa sede accenneremo a grandi tratti soltanto a qualche aspetto legale sulla schiavitù, lasciando da parte specialmente i concetti di libertà, di limitazione dei diritti civili etc. che nell’epoca che attraversiamo (IX-XI sec.) hanno definizioni lontanissime da quelle di oggi e richiedono perciò una preparazione culturale notevole al lettore non sia “ben armato”.

Vediamo allora qualche caso tipico di come si può “cadere in schiavitù”. Il primo è il destino di un soldato perdente il quale, se non riusciva a sfuggire alla cattura alla fine dello scontro, era portato via prigioniero dal vincitore (stato di celjad’ in russo). Per questo giovane c’erano poche buone opzioni sul proprio destino futuro. Ad esempio, nel caso più fortunato poteva essere riscattato dai suoi, se il vincitore aveva tempo e voglia di contattare il signore perdente e istallare delle trattative a questo scopo con le persone giuste. Il che accadeva molto raramente per un soldato semplice, mentre era più possibile per una persona di alto rango. Dunque gli schiavi erano una parte del bottino vinto in battaglia e solo se ancora in buona condizione fisica, altrimenti, se feriti o moribondi, venivano abbandonati al loro destino. Capitava pure che, in moltissimi casi, fossero trascinati in schiavitù anche i famigliari dei soldati, se accompagnavano l’armata, ossia donne e bambini. Se poi teniamo presente che nell’epoca che ci interessa la guerra e gli scontri erano pane quotidiano sia d’inverno che nella bella stagione, possiamo facilmente immaginare come gli schiavi ottenuti dopo uno scontro costituivano un approvvigionamento di uomini abili quasi regolare. Non valevano però molto perché erano già “vecchi” secondo gli standard di vita del tempo ed era poi difficile mantenerli o metterli al lavoro, mentre le donne e i bambini erano in realtà più utilizzabili “con profitto”.

Dalle notizie che abbiamo, sappiamo che gli Slavi non erano soliti tenere schiavi per lungo tempo e dopo un certo numero di anni a questi prigionieri veniva concessa la scelta di andarsene per proprio conto o di entrare a far parte della comunità in cui ormai si trovavano, formandosi una famiglia propria. Tuttavia altri autori che scrissero sugli Slavi in epoca ancora anteriore ammettevano che i prigionieri risparmiati alla schiavitù, talvolta erano sacrificati agli dèi!

A parte ciò, è chiaro che nessuno di questi casi interessava i mercanti per farne traffico.

Nella società cittadina – nella Rus’ di Kiev si era appena ai suoi inizi – un modo per trovare lavoro o per vivere meglio, se non si avevano altre possibilità, era quello di vendersi ad un facoltoso padrone in modo da assicurarsi difesa, cibo, rifugio e quanto serviva alla propria vita quotidiana (stato di rab o slugà in russo). Essere specialisti nel saper fare qualcosa, permetteva logicamente di esser accolto meglio dal padrone eventuale come artigiani, sempre con alloggio e vitto (talvolta il padrone si preoccupava di trovare la sposa per il proprio lavorante) inclusi, non esistendo un vero contratto di lavoro come oggi. Questo fu il caso più comune dei lavoranti di Novgorod presso le cascine di città dei bojari della repubblica o dei prigionieri russi ritrovati a Qara Qorum in Mongolia da Giovanni da Pian del Carpine nel XIII sec.

Oppure si diventava schiavi per obblighi non onorati o per debiti pregressi e, addirittura, per debiti ancora da fare ossia per crediti (stato di holop in russo). Era abbastanza comune per i contadini in seguito a qualche mattana naturale, inondazione o incendio o pestilenza e simili, di impelagarsi in accordi di questo genere, talvolta molto rischiosi. Infatti essendo una schiavitù a tempo determinato, c’era il caso di ritrovarsi a servire il creditore furbo per tutta la vita, se non si erano stipulati dei patti molto chiari!

Anche questi schiavi non erano “roba” da traffico, come si capisce bene. E allora dove trovavano i mercanti questa merce da vendere visto che la domanda era in aumento?

In verità abbiamo messo da parte un altro tipo di schiavitù o di vendita di “merce umana” che ancora oggi si fa, sebbene poi la si mascheri sotto altri nomi eticamente più accettabili nella monetizzazione odierna, ossia la vendita dei propri figli.

Prima però di parlarne più in dettaglio, ricordiamo dove andavano a finire e come erano impiegati questi schiavi.

Sull’argomento purtroppo la letteratura è scarsissima perché pochi contemporanei s’interessarono dei destini degli schiavi, salvo che come decoro e ornamento nelle descrizioni delle grandi dimore e delle grandi corti in cui se ne contavano a migliaia oppure nelle molto più tarde considerazioni “etiche” della Chiesa di Roma sulla schiavitù in generale.

In questi secoli di bassissima automazione moltissime attività che oggi sono compiute da macchine erano allora fatte da uomini o donne e non solo perché richiedevano lo sforzo continuo di una o più persone, ma anche perché certe attività e certi lavori erano considerati “inferiori” o troppo impegnativi dall’élite al potere e dai suoi emuli e baciapile e quindi era preferibile che li eseguissero altri individui di rango più basso. E qui entra benissimo il mercante poiché questo era il genere di merce che fruttava di più di ogni altra simile con dei clienti che in principio erano in grado di pagar bene.

Distinguiamo così tre tipi di schiavi principalmente:

1. da mettere in servizio militare permanente;
2. da impiegare per i lavori domestici (compresi i servizi sessuali);
3. per i lavori pesanti e ripetitivi.

Per quanto riguarda il primo tipo, il mercante ne ritrovava presso i popoli della steppa ucraina e asiatica dove i ragazzi già puberi erano “venduti” sapendo già cavalcare e tirare d’arco. Erano considerati schiavi di ottima qualità e, se teniamo presente che costoro riuscirono a fondare addirittura una dinastia di governo “egiziana” ossia i Mammelucchi (dall’arabo mamluk ossia “uomini di proprietà del signore”), possiamo immaginare come fossero apprezzati e che carriere potessero percorrere (vedi il Saladino). In questo caso gli schiavi erano di sesso maschile e il serbatoio di rifornimento era il cosiddetto Paese dei Turchi ossia Bilad al-Atrak ossia il territorio a nordest della Coresmia.

Per quanto riguarda il terzo tipo di schiavi, la fonte primaria era l’Africa Nera (Zinj nelle fonti arabe) e i giovani erano quasi sempre di pelle molto scura, quasi a voler riconoscere subito che tipo di lavoro facessero rispetto ad altre persone di servizio con la pelle più chiara e compiti di maggior prestigio. Erano di entrambi i sessi ed avevano un prezzo più basso rispetto agli altri perché considerati di qualità inferiore.

E finalmente giungiamo agli schiavi slavi che erano inclusi nella stragrande maggioranza nel secondo tipo. Erano di tutt’e due i sessi, di alto prezzo e destinati ad attività varie e particolari, tanto da richiedere spesso interventi corporali.

Naturalmente sull’argomento schiavi occorre abbattere degli stereotipi e noi lo faremo adesso.

Per comprendere meglio questo traffico che durò per secoli (ma non dura ancora oggi?) e che in pratica fu una vera e propria migrazione quasi forzata di migliaia e migliaia di persone da una parte all’altra del continente eurasiatico dobbiamo dire che fruttò fior di quattrini, non solo a chi semplicemente trafficava, ma anche a chi percepiva gabelle e pedaggi.

Che questi ragazzi e ragazze fossero poi trattati male dai mercanti è un’assoluta menzogna. Costavano talmente tanto e il prezzo era riscosso soltanto se la “merce” si presentava bene! Figuriamoci quindi se non venissero curati affinché arrivassero a destino in piena forma! Di certo viaggiavano ben nutriti, ben puliti e in ordine. E il viaggio era pure lungo. Per dare qualche esempio su quest’ultimo punto diremo che da Kiev a Costantinopoli ci voleva circa un mese mentre per giungere a Cordova ce ne volevano anche tre. Si può quindi immaginare quali spese incontrava il mercante per questi ragazzi che doveva tenere in ozio per risparmiarli dalle fatiche.

Un altro quadro sbagliato è quello di vedere sempre gli schiavi esposti al mercato! Al contrario! Quelli destinati alle corti signoriali erano già prenotati e quindi non dovevano neppure essere visti per sbaglio dall’acquirente occasionale. Al limite, soltanto quelli scartati andavano successivamente sul mercato!

Nei dipinti poi a volte vediamo schiavi incatenati o con le braccia legate e il mercante con la frusta in mano che volge loro uno sguardo che sembra minaccioso perché promette di batterli a sangue. Anche questo non è il caso per gli schiavi saqaliba! Erano presentati nudi affinché non si nascondessero eventuali difetti fisici ed erano palpati e guardati in tutti i recessi corporei… questo sì! Alla fine non era un grande scandalo per i costumi dell’epoca, perché i giovani erano già puberi e dunque la loro era una nudità innocente e artistica, se così si può dire.

E vediamo un po’ di capire come e dove venivano raccolti. Nemmeno qui le fonti sono di grande aiuto e tutt’al più possiamo dedurre come avvenisse la “raccolta” dal folclore nordico che probabilmente ne ha conservato nelle favole un lontano ricordo “cristianizzato”. Si può esser sicuri che, dietro le fiabe tedesche di Grimm come Pollicino o delle byline russe sulla Baba Jagà, si è tramandato proprio tutto un complesso di eventi legato giusto alla vendita degli schiavi giovanetti.

Partiamo invece dalla precaria economia contadina, basata sullo sfruttamento d’un appezzamento di terreno che col passar del tempo cala di rendimento. Ad un certo momento la resa agricola non permette che il numero di persone nutrite si accresca oltre e, data l’alta natalità (ma anche tenendo conto della grande la mortalità perinatale e della selezione biologica rispetto alla resistenza alle malattie) bisogna liberarsi delle bocche in soprannumero… pena la penuria di cibo per tutti!

Per le ragazze di solito c’era il matrimonio esogamico che ribaltava il problema della bocca in più ad un’altra famiglia in un altro villaggio (la famosa famiglia allargata degli Slavi del sud, la zadruga, qui nel nord infatti era molto meno diffusa). E presso gli Slavi prendere una moglie in un altro villaggio significava pagare il veno ossia il prezzo “per l’allevamento” ai genitore di lei!

Per i maschi invece occorreva trovare un altro esito e così, per il loro bene, ma anche per il bene di tutti, i ragazzi venivano – addirittura! – portati al mercato per affidarli a chi li volesse… pagando qualcosa. Alla fine di tutti questi percorsi possibili (ricostruiti) ecco che qualche genitore più lungimirante che amava davvero i figli decideva di affidare i propri (e quelli di altri che erano d’accordo con lui) al mercante di bambini. Niente di diverso di quello che si fa oggi ovunque e ancora nel mondo, magari in modo più protervo!

Questi sono dunque gli schiavi che noi chiamiamo qui di seguito saqaliba.

Premesso questo, ipotizziamo di ricostruire dei termini di “consegna”.

Anzitutto è fuorviante pensare a grandi numeri, sebbene i censimenti degli schiavi adulti presenti in ogni corte musulmana, ma anche nel Laterano, citati da M. Lombard parlino di una decina di migliaia di schiavi slavi per corte. A nostro avviso, sono numeri globali relativi ad un certo numero di anni perché, da altri paragoni documentari che abbiamo, un dato più reale è al massimo una cinquantina di ragazzi (e ragazze insieme) per ogni spedizione dal Nord.
Questi sono condotti in un certo luogo dove il mercante (forse dietro l’Uomo Nero delle favole, il bielorusso Kraciùn, si nasconde proprio costui) li esamina, fa un prezzo, lo paga (di solito in natura) al portatore e finalmente può portar via con sé la partita acquistata.

Quanto poi all’immaginare carovane di schiavi giovinetti commerciati dai Rus’ e dai Rahdaniti come una triste processione di ragazzi battuti a sangue o trattati male, è assolutamente irreale! Infatti gli schiavi provenivano anche da altre plaghe slave più a sud del Baltico e dai Balcani e non si riesce a determinare un centro di vendita ben definito localizzato per lungo tempo in un luogo. Altro errore è pensare sempre a catture forzate nei villaggi slavi o finnici o baltici del Nord per ottenerne, benché dobbiamo ammettere che talvolta ciò accadde.

A Costantinopoli (e in generale nel mondo cristiano) lo schiavo era visto, sì, con pietà, ma anche come colui che colpito dal peccato era caduto tanto in basso per volontà di Dio e perciò, quella che fosse la sua funzione, finché non avesse espiato le sue colpe era considerato come un uomo in penitenza perpetua. In questo quadro ideologico perciò rientra bene la descrizione che Costantino VII Porfirogenito fa degli schiavi slavi portati dai Rus’ ossia: incatenati e mandati avanti a spintoni dai padroni. Questo infatti era il modo che i Rus’ erano obbligati a rispettare per portarli in città… secondo le prescrizioni di polizia previste come corollario al Trattato di Olga di Kiev del 947 d.C. L’accesso nella capitale imperiale era possibile esclusivamente ad un certo numero di uomini che non poteva essere superato (50) e perciò gli schiavi da vendere entravano in città solo se legati come animali e in tal modo non contavano come esseri umani veri e propri.

Per il mondo musulmano abbiamo la testimonianza di Ibn Fadhlan del 921 d.C. il quale fra le altre cose ci dice come gli schiavi saqalibat erano alloggiati nella tenda del loro custode dove il compratore poteva andare a guardarseli nudi e trattarne il prezzo. E’ chiaro che gli schiavi più belli e speciali destinati ai clienti altolocati non erano disponibili come ci dimostra la grande reticenza di un mercante Rus’, Dilli, a dare in vendita una ragazza muta già promessa ad altri, nel racconto della Saga degli uomini di Laxdal.

Insomma il destino che attendeva questi slavi giovanetti non era assolutamente negativo, anzi. Perdevano la poca cultura che avevano acquisito durante l’infanzia, ma ne acquistavano un’altra molto più elevata, visto che diventavano membri di famiglie molto abbienti in luoghi d’Europa di alta civiltà. Certo, dimenticavano la loro lingua e persino il luogo dove erano nati e gli unici segni distintivi che denunciavano la loro origine esotica erano il colore della loro pelle, i loro capelli biondi e i loro occhi azzurro cielo. E addirittura, specie nei paesi musulmani, erano quasi sempre circoncisi e sottoposti ad un regime giuridico molto leggero e non oppressivo malgrado la loro attività dipendente, proprio come membri di famiglia…

Inoltre la morale sessuale era diversa a quei tempi e, se una ragazza era adibita esclusivamente ai servizi sessuali nella famiglia che l’aveva comprata, non c’era gran che di male, salvo le lamentele dei soliti benpensanti musulmani che si preoccupavano che queste “slave” dessero al mondo figli malaticci… a causa del colore così pallido della loro pelle! Lo stesso Ibn Fadhlan sorprende un venditore Rus’ in accoppiamento con una delle schiave e si adombra perché costui completa il suo coito prima di rivolgersi al cliente che sta ad attendere guardando! Allo stesso modo non c’era nulla di male che i maschietti, destinati già ad una carriera più prestigiosa, fossero castrati (Samarcanda, Verdun, Ratisbona erano dei centri rinomati per questo, dove i medici ebrei sapevano far bene tali operazioni senza conseguenze per la salute futura dei piccoli pazienti).

Perché evirarli? Evidentemente ciò era fatto con lo stesso criterio con cui si castravano i torelli ossia per calmare i loro bollenti spiriti! Soprattutto lo si faceva affinché non si creassero problemi di prole illegittima con le donne di casa. Tuttavia integri sessualmente erano adibiti tranquillamente agli amori pederastici (o pedofilici che dir si voglia) in voga in tutto il mondo mediterraneo, senza distinzione di religione… salvo l’osservazione poco benevola di qualche moralista cattolico del tempo al quale il mercimonio schiavistico era odioso in sé e per sé.

E allora quali attività erano loro riservate? Per quanto ne sappiamo e mettendo insieme ambienti cristiani e musulmani, le ragazze servivano da domestiche, da badanti, da cuoche, da assistenti alle dame della casa, da compagne di letto, da ballerine o da spogliarelliste. Gli uomini invece ricevevano anche incarichi di fiducia quale dispensiere e magazziniere oppure guardiano, scudiero etc.

Perché ci siamo fermati di più sul mondo musulmano? La risposta è presto data: Le corti musulmane furono le più assidue (durarono più a lungo, come clientela) nella compravendita degli schiavi, rispetto alle cristiane.
D’altronde la conquista musulmana del VII sec. d.C. di gran parte dell’Impero Romano non aveva causato distruzioni dei centri cittadini e dei mercati già esistenti e dunque in queste “nuove” società più progressiste in cui si fondevano il credo islamico con le abitudini bizantine (e sassanidi nella parte più orientale), nelle strutture e negli impianti lo schiavo era già presente: non tanto come strumento vivente che fa girare macine o che rema fino a spossarsi incatenato al banco sulle navi perché questo tipo di schiavitù di solito era assegnato ad un delinquente condannato ai lavori forzati (come il soldato vinto!), quanto piuttosto come persona di servizi domestici. E di questi schiavi si faceva mercato più intensamente, quasi che il mercante fosse una specie di agenzia di collocamento al lavoro! E’ inteso pure che per queste occupazioni i giovani non dovessero soltanto star bene in salute o essere forti e robusti, ma dovessero essere soprattutto belli docili e pronti ad accondiscendere a qualsiasi richiesta del padrone perché li aspettavano attività di fiducia e persino prestigiose. Poco male se certi non hanno appreso un mestiere quando arrivano dal nuovo padre e padrone. Faranno il tirocinio qui!

Certo, se sbagliano, sono puniti e forse più duramente di altri non schiavi, ma questo è naturale e dipende dall’umore e dal carattere dei padroni più che dagli errori commessi…

Comunque sia, nell’Islam erano trattati meglio che in altri posti, seguendo le raccomandazioni di Maometto quando il sant’uomo aveva paragonato gli schiavi ai poveri e ai disabili degni di cura, di misericordia e d’attenzione maggiori da parte di chiunque, credente oppure no. E poi non fu forse la Spagna musulmana (al-Andalus) uno dei mercati di passaggio per gli schiavi (specialmente le belle andaluse) che andavano in acquisto presso l’Europa cristiana via Lione?

Intanto nella cornice della morale cristiana medievale, la schiavitù non era da sopprimere e non rientrava esattamente nel quadro delle deliberazioni dei Concilii, intese al miglioramento delle condizioni materiali e morali delle persone fisiche. La politica della Chiesa Cattolica mirò soprattutto acché questi uomini e queste donne non aumentassero il numero degli infedeli (vista la loro origine prevalente dalle steppe asiatiche già convertite all’Islam) e degli eretici (visto che provenivano da un ambiente pagano o ortodosso come il Grande Nord).
Questa fu la posizione riflessa di Ottone I quando avvertì il Doge Pietro IV Candiano che quel traffico di Venezia con gli schiavi Slavi dal Mar Nero non gli piaceva affatto perché lo metteva in cattiva luce con gli Slavi dell’Elba che stava “evangelizzando”. E’ da dire che i Veneziani però non si attennero alla promessa, ma anzi, per risparmiare i lunghi viaggi dal Mar Nero fino all’Adriatico, si misero a trafficare gli Slavi della vicina Dalmazia dal fiume Neretva (gli schiavi narentini). Per di più, come nel caso dei turchi delle steppe, si rafforzavano le armate militari dei regni musulmani che premevano l’Impero da tutti i lati.

Dunque intorno al X sec., maschi e femmine, erano destinati (e lo ripetiamo) più agli usi domestici e soltanto in minor misura ai lavori agricoli, come era stato sotto l’Impero Romano antico. Pertanto: numero limitato per l’impiego nei lavori logoranti (sotto il sole nei lavori agricoli la pelle si abbronzava e le donne non piacevano più!), lunghi percorsi dal punto di “produzione” ai mercati di vendita e dunque preoccupazione che arrivassero a destino malati o esausti e guadagni notevolissimi per i mercanti (ricordiamolo!) principalmente Rahdaniti e Veneziani.

Quanto costavano all’ultima vendita, detratte le spese di mantenimento, viaggio e gabelle pagate lungo gli itinerari?

Fatti i debiti conti (molto approssimativi) al genitore-venditore andava un ben misero compenso in natura rispetto a quanto metteva in tasca il mercante e tuttavia per l’economia rurale del tempo, quell’arnese o quell’utensile ottenuto in cambio del figlio era abbastanza vantaggioso da ripagargli l’allevamento e soprattutto perché prometteva un futuro molto roseo al ragazzo partito per terre lontane che a casa sua non avrebbe mai potuto avere a causa degli stenti derivati dalla sua presenza.

Vediamo però i prezzi correnti.

L’archeologo F. Schlette, ci dà un prezzo generico per il X sec. in area carolingia: 300 g d’argento che paragona a quello d’un cavallo che ne costava quasi altrettanto o d’una vacca, 100 g, o d’una spada, 125 g. Un altro autore, lo storico americano Y. Rotman, ci dà un prezzo (minimo) di 10 nomismi d’oro o due rotoli di seta in area bizantina nel IX sec. Una schiava negra invece costava soltanto 4 nomismi, sempre a Costantinopoli!

I prezzi dati sopra sono comunque somme molto alte rispetto al tenore di vita del tempo della gente semplice (2 nomismi era il salario d’un intero anno di un uomo libero al lavoro dipendente!) che viveva dove questi schiavi venivano comprati e perciò solo un re o un signore di pari potenza economica poteva permettersi di averne o di usarne. Come esempio, aggiungiamo che per un servizio sessuale con una schiava di un altro padrone il prosseneta incassava dal cliente ben 36 nomismi per una notte!!

Gli acquirenti registrati comunque sono fra i più notevoli: La corte musulmana di Baghdad, Costantinopoli, il Papa di Roma, le corti carolingie, l’Egitto, Palermo, l’Arcivescovato di Magonza, Ingelheim etc. etc.

Ed ecco che si presenta il problema di individuare quali erano gli itinerari mercantili più frequentati che portavano gli schiavi slavi dal Nord russo al Mediterraneo e come erano fra loro collegati e come evolsero, almeno fino al XIV sec.

Prima di addentrarci in questo argomento diciamo subito che qui non lo esauriremo e aggiungeremo che in questi traffici l’unica città russa nel X sec. che ci guadagnò più delle altre fu Kiev con le gabelle (in natura ossia proprio “pagando” qualche schiavo per mercante, di solito poi assegnato alla druzhina del knjaz) e che la raccolta maggiore era nell’attuale Bielorussia in cui Polozk e Druzk mantennero le vendite di schiavi più cospicue fino al 1430! E proprio dalla Bielorussia i traffici di schiavi viaggiavano “via terra” (in realtà viaggiavano lungo affluenti interni del Danubio) e poi entravano nell’Impero Franco attraverso il posto di dogana di Raffelstetten in Austria odierna (passando prima dalla franca Ratisbona, un’altra delle “fabbriche d’eunuchi”) fino al XI sec. Una città slava che fiorì con questo commercio era proprio all’uscita dell’itinerario che passava per Raffelstetten: Praga (anch’essa centro di castrazione). Ce lo dice un visitatore ebreo andaluso interessato a questi traffici, Ibrahim ben Jaqub, che passò da queste parti intorno al 965 d.C.

Val la pena leggerlo in qualche rigo: “Praga è la città più ricca per i traffici … in questo paese. I Russi e gli Slavi portano qui le loro merci passando da Cracovia. Anche i musulmani, gli ebrei (rahdaniti) e i turchi dal Bilad al-Atrak portano le loro merci e i pezzi d’argento per trafficare. … (Qui comprano) schiavi, stagno e vari tipi di pellicce (pregiate)…”

Tuttavia la via preferenziale degli schiavi saqaliba fu il Dnepr e il Mar Nero. Dalle Terre Russe del Nord via Chersoneso in Tauride si andava fino a Costantinopoli. I traffici diretti in Spagna, per al-Andalus, invece usufruivano dei trasporti via mare che collegavano (ce lo dicono le carte della famosa Ghenizà del Cairo) velocemente le coste palestinesi o Alessandria d’Egitto con Almeria sul Mediterraneo o con Siviglia al di là dello Stretto di Gibilterra. Per queste ragioni le carovane dopo aver percorso il Volga non attraversavano il Caucaso da Derbent, ma aggiravano il Mar Caspio lungo la riva orientale nel territorio della Coresmia e poi scendevano verso Baghdad e di qui proseguivano per il litorale mediterraneo. Il Mar Nero era escluso a causa dei nomadi delle steppe ucraine e delle ostilità con Costantinopoli. Alla fine il Mar Mediterraneo fu e si affermò come la strada più frequentata da questo traffico. Infatti sappiamo che anche i rahdaniti risalivano il Rodano fino a Lione con i loro carichi entrando dalla foce con le navi noleggiate…

La concentrazione lungo le coste meridionali baltiche di tesoretti composti di monete d’argento coniate nel Vicino Oriente musulmano ci dicono che gli schiavi passavano anche per di qua, certamente insieme con altre merci altrettanto costose e importanti. Andavano nelle corti del Regno Franco? Non ne abbiamo la certezza, ma visto che i Vichinghi norvegesi trovavano mercato per i loro prigionieri lungo il Mare del Nord, è possibile che anche gli schiavi slavi prendessero le stesse vie visto che le monete coniate in Inghilterra cominceranno ad aumentare nel Baltico intorno alla fine del X sec. Può anche darsi che, dalle coste del Golfo di Biscaglia (allora praticamente disabitata e quindi terra di nessuno), i carichi arrivassero di nuovo in terra musulmana di Spagna.

Una domanda però è d’uopo a mo’ di conclusione: a chi e a che cosa serviva circondarsi di tanti servitori?

Come abbiamo visto i clienti-padroni erano tutti facoltosi e nel Medioevo ciò significava avere potere sugli uomini per poter imporre il diritto di prelievo e l’obbligo di produrre un surplus e questi ricchi, la loro famiglia e il loro gruppo avevano la necessità di mostrare questo potere attraverso l’ostentazione del prestigio e la legittimazione quotidiana attraverso l’ideologia religiosa dominante. Dedicavano tutti i loro sforzi, ideologici e finanziari, a questo scopo: lo spettacolo del potere. Ciò logicamente implicava l’allestimento di continui eventi che richiamassero la gente soggetta ad applaudire e ad approvare (processioni, mercati, sagre, compleanni del signore e simili liturgie) in cui occorreva non solo materiale e oggetti preziosi, ma anche tantissimo tempo perché le cerimonie e la preparazione alle stesse lo richiedevano. Per questi motivi una numerosa servitù era importante per fornire il tempo libero occorrente e ciò era tanto più vero quanto più l’esercizio del potere era concentrato nelle mani di re e reucci, di nobili e signori della Chiesa.

Nel mondo musulmano gli spettacoli del potere erano alquanto meno imponenti e, se possiamo esprimerci così, più popolari poiché la società voluta da Maometto non ammetteva capi o imperatori, ma solo difensori della fede e grandi credenti. Questa differenza è qualitativamente incisiva per distinguere la visione del mondo da quella del Cristianesimo. Nell’Islam sia il ricco notabile sia il califfo o l’emiro dedicavano tutto questo tempo libero… alla cultura! E non solo impegnandosi personalmente, ma anche attraverso elargizioni e fondi. Quel mecenatismo che veniva dai vertici era una specie di zakat (elemosina obbligatoria rituale) verso quelle menti inclini alla ricerca scientifica, ma prive dei mezzi necessari! La ricchezza infatti era un’elargizione divina e veniva affidata a pochi uomini non perché ne disponessero a proprio piacimento, ma per aiutare i più deboli e per spingere nei modi permessi al progresso comune! E qui i nomi di emiri o califfi colti e di uomini indigenti forniti di mezzi dal califfo o, pensate, dai ricchi mercanti per impegnarsi nella scienza pratica sono una lista lunghissima…

Tutto al contrario del mondo “cristiano” che invece amava la pompa e le discussioni vuote sui temi più astrusi vietando alle menti più libere di indagare la natura.

Malgrado ciò, non ci interessa tanto sottolineare che in quel periodo il mondo islamico fosse più avanti nel progresso materiale e spirituale, quanto invece il risultato generale ove tutta l’Europa progredì e una delle cause scatenanti (lasciamo al lettore giudicarne il peso e l’importanza) di questo progresso fu proprio l’aumentare del tempo libero per l’élite… in conseguenza dei servigi resi dagli schiavi!

Le vie degli schiavi slavi secondo W. Durant (a nostro avviso va corretta la via verso Baghdad che non attraversava il Caspio, ma lo aggirava sulla costa est (Choresmia) e KUZARI è da leggersi in forma italiana CAZARI (nota di ACM).


Bibliografia essenziale:

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V. I. Sergeevic’ – Drevnosti Russkogo Prava (repr.), Moskva 2006
D. Quirini-Popławska – Niewolnictwo i niewolnicy w Europie od starożytnosci po csasy nowożytne, Kraków 1998
Y. Rotman – Les Esclaves et l’esclavage, de la Méditerranée antique … VI – XI siècles, Paris 2004
M. Lombard – L’Islam dans sa première grandeur, Paris 1971
I, J. Frojanov – Rabstvo i Dannicestvo, Sankt-Peterburg 1996
V. Dolgov – Byt i Nravy Drevnei Rusi, Moskva 2007
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C. Goehrke – Russischer Alltag. Die Vormoderne, Zürich 2003
J. Attali – Les Juifs, le Monde et l’Argent, histoire économique du peuple juif, Paris 2002
R. Lopez & I. Raymond – Medieval Trade in the Mediterranean World, New York 2001
L. Capezzone – La trasmissione del sapere nell’Islam Medievale, Roma 1998.
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Re: Xlavi-s'ciavi co i veneti e łi ebrei ?

Messaggioda Berto » dom mar 02, 2014 10:30 am

Abołision del trafego de łi s’ciavi
http://it.wikipedia.org/wiki/Abolizione ... li_schiavi
Il primo paese a proibire la tratta degli schiavi fu la Repubblica Serenissima di Venezia nel 960, con la promissione del XXII Doge Pietro IV Candiano.

https://www.facebook.com/FilippiEditore ... 4522309731

VENEZIA E GLI SCHIAVI - Filippi editore Venezia

LA CRONACA DI ANDREA DANDOLO CI FA SAPERE CHE IL DOGE ORSO PARTECIPAZIO GIÀ DALL’876 AVEVA PROMULGATO UNA LEGGE CHE VIETAVA DI VENDERE, COMPRARE, TRASPORTARE PER mare schiavi o comunque prestar denaro a stranieri che esercitassero la tratta in Levante come inTerraferma; esiste poi il testo completo di una constitutio successiva emanata sulla stessa materia nel giugno 960 da Pietro Candiano IV, pene previste, 5 lire d’oro di multa e - per chi non pagava - mutilazione, morte, confisca dei beni, scomunica.

Gli “schiavi” erano utilizzati solo all’interno delle famiglie e la Serenissima non li ha mai impiegati, nonostante lo stato di necessità in cui poteva trovarsi fino alla fine del XVI secolo, neppure come regatanti a bordo delle “Galere” (navi belliche) se non in numero limitato ed in rarissime occasioni.

A Venezia il cosidetto schiavo, a differenza del diritto romano, aveva adottato il diritto in uso nel medio oriente e nella tradizione araba, non credo che sia una casualità che malgrado abbia consultato decine e decine di atti testamentari mai ho trovato iscritto tra i beni successori un solo “Servitus, servum” (termine latino ad indicare il personale di servizio.) pertanto mi sento di affermare per prova deduttiva negativa che non rientrava nel diritto di proprietà, ma nel diritto di famiglia.

Nonostante questa premessa affermare che alcuni commercianti, le cui famiglie entrarono dopo la “Serrata del Maggior Consiglio” a far parte della nobiltà, non svolgessero questa attività è negare la realtà.

Presso l’Archivio di Stato di Venezia, sono conservati documenti che attestano il commercio di schiavi con le popolazioni del Mediterraneo.

Se il doge Pietro Candiano IV nel 960 era giunto a rinnovare ed integrare le leggi contro il commercio degli schiavi è evidente che il problema esisteva, ma attesta anche la sensibilità e l’attenzione in merito da parte dello Stato.

La legge era facilmente elusa: in altre parole alcuni commerciavano in schiavi nei porti del Mediterraneo evitando di portarli fino a Venezia.

Sul finire del XV secolo si era riproposto in città il problema della vendita all’asta.
La Repubblica anche in quest’occasione aveva emesso provvedimenti legislativi atti a contenerla e controllarla.
Presso l’Archivio di Stato di Venezia sono conservati i documenti attestanti numerosi casi d’affrancatura, d’affiliazione, ed anche di riconoscimenti economici sostanziosi in atti testamentari.
Posso pertanto con tranquillità affermare che più di un problema di schiavitù, propriamente intesa come “negriero”, in questo caso si debba parlare di prigionieri di guerra impiegati come servitù domestica.

Il fenomeno della schiavitù si sviluppa soprattutto nell’ambito della proprietà terriera, e il latifondo a Venezia non esisteva.
L’espansione di Venezia verso la terraferma si sviluppa tra la metà del XV e il XVI secolo. In questo lasco di anni i diritti civili sono precipitati e dimenticati nei confronti di tutte le maestranze meno qualificate e più deboli economicamente.

Abbiamo documentazione che a Venezia in più occasioni i Fiorentini e in particolare la famiglia dei Medici abbia acquistato delle schiave Circasse.
Lo stesso Cosimo de’ Medici aveva affidato l’incarico ad un suo agente di comprargli una schiava a Venezia. Cosimo ne fu attratto a tal punto da averne un figlio che, come succedeva in questi casi, peraltro molto comuni, fu allevato assieme agli altri suoi figli dalla legittima moglie e ricevette un’educa-zione classica adeguatamente approfondita.
Divenuto adulto entrò nella chiesa e tramite l’influenza del padre diventò rettore di Prato e protonotario apostolico. Anche il figlio di Cosimo, Giovanni, aveva comperato a Venezia una schiava Circassa.

Solo per coloro cui piacciono le “curiosità” e per rinforzare l’idea che “tutto il mondo è paese”, un’altra storia ben documentata.
All’età di 12 anni, nel 1537, Cecilia Venier (Baffo) figlia di Niccolò, signore di Paros, fu rapita da Kaireddin Barbarossa, comandante supremo dell’armata turca.
Fu destinata all’Harem imperiale; ma per la sua rara bellezza divenne la favorita del Sultano Selim II con il nome di Nur Banu (donna di splendore). Divenne la sposa di Selim e Sultana Validè (imperatrice madre). Alla morte di Selim II, esercitò un gran potere sul figlio Amurat III, tanto da costringerlo a far sospendere il tentativo di conquista dell’isola di Candia, allora possedimento veneziano.

Lo stesso Maometto II “il conquistatore” era figlio di una “schiava” (prigioniera) cristiana e del sultano Murad II.

Esistono anche esempi rovesciati ovvero di donne “turche” sposate con nobili veneziani.
Lo attesta ancor oggi una lapide a pavimento collocata all’interno della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo subito sotto all’organo. “D.O.M. /ANNÆ CORRAIRÆ/ SIC AD SACRUM FONTEM/ ANNO DOMINI. MDCLXXXVIII XXX MAI/ APPELLATÆ/ OLIM INTER TURCAS EMINE/ NOB. VIRI /HIER MAUROCENI FILII/ QANT Q. VINCENTII/ HOC MONUMENTI SIGNUM/ POSUERE/ OBIIT MDCCLVII/ XIV KAL. MARTII”.
Correr Anna così chiamata ad una sacra fonte, era prima chiamata Emina. Fu battezzata il 30 maggio 1688. Il nob. Girolamo Morosini q. Antonio, q. Vincenzo, le procurò questa tomba. Essa morì il 14 marzo 1767.

Ancora una volta ci viene in aiuto il Tassini: infatti, al ponte, calle, fondamenta, delle Turchette ci ricorda che molto probabilmente sorgevano degli edifici dove le prigioniere ottomane dette turchette venivano “confinate per condurle alla religione di Cristo.” Dove per la religione non va intesa unicamente la conversione, ma anche una forma di educazione.
Indubbiamente la conversione in parte forzata non è rappresentativa di uno stato di libertà, ma è anche vero che in qualche modo era fornita un’assistenza e che questo trattamento non è di solito adottato nei confronti degli schiavi.
Il signor Payen era uno dei numerosi viaggiatori che avevano visitato Venezia e ricorda con molta meraviglia la gran libertà che vi si godeva e l’imparzialità con cui era applicata la legge.
Un padrone, scrive: non aveva il diritto di battere il suo servo, qualunque cosa avesse commesso; poteva solo rimproverarlo, scacciarlo o denunciarlo alla giustizia.
Se avveniva che un servo battesse il padrone, poteva essere assolto provando di averlo fatto per legittima difesa. Monsier Payen, Les voyages à Monseigneur de Lionne.

Da altre fonti ricaviamo:
che il numero complessivo delle domestiche e degli schiavi tra il 1300 e il 1509 era pari al 16% delle minoranze orientali presenti a Venezia; queste presenze assommavano globalmente a 1372.
che la vendita degli schiavi tra privati fino alla metà del Trecento era all’asta pubblica, più avanti, nel Cinquecento, fu proibita e si localizzava attorno a Rialto in forma molto contenuta.
Che gran parte di questi uomini e donne ridotti in schiavitù provenivano da regioni interne e il loro livello culturale era bassissimo. Non di rado erano prigionieri di guerra. Nel caso le ragazze fossero state oggetto di violenza sessuale (e questo valeva per tutte le donne fossero, schiave o normali abitanti) la magistratura imponeva o il matrimonio o un vitalizio o un risarcimento a volte anche molto cospicuo.
Che in tempo di guerra, quando la flotta aveva bisogno di uomini, si mettevano al remo in catena prigionieri nemici od anche schiavi che venivano presi e imbarcati a forza durante gli assalti fatti ad isole e città nemiche o che si catturavano in seguito a combattimento su unità avversarie. I prigionieri mussulmani incatenati al remo, nel caso desiderassero il battesimo, potevano esser tolti dalle galere e messi al remo nelle fuste, come venne concesso nel 1690, perchè potessero essere istruiti nella religione cristiana. Gli schiavi turchi avevano 18 oncie di biscotto al giorno a differenza dei condannati che ne avevano 22. che sulle galere dove erano imbarcati i condannati lo Scrivano doveva tener registrate le condanne di ciascuno, nome, cognome, tempo, il nome dello Stato a cui apparteneva, il giorno d’imbarco, ecc. Che gli sforzati che si trovavano allo stesso banco di uno che fuggisse venivano condannati a servire in vita al banco e veniva loro amputato il naso.
Che dai corsari cristiani in tempo di guerra si acquistavano gli schiavi per interzare le galere. Abbiamo trovato infatti che nel 1685 il Capitano delle Navi disponeva di un fondo di 2000 zecchini per l’acquisto.
Questa consuetudine però vigeva da molto tempo prima ed infatti abbiamo trovata una terminazione del 1571 colla quale si autorizzava il Capitano Generale a comperare per conto pubblico schiavi turchi per interzare le galere pagandoli da 15 a 20 ducati l’uno.
Gli schiavi nemici che venivano messi al remo in tempo di guerra avevano lo stesso trattamento dei condannati ed i medicinali al medesimo prezzo. Se in combattimento venivano liberati dei cristiani messi in catena dai Turchi, si offriva loro di servire come uomini di libertà sulle galere veneziane.
Spesso avveniva che fossero presi come schiavi dei turchi di condizione sociale elevata. Il celebre corsaro Dragut servì infatti al remo sulla galera di Andrea Doria e Janun Cogia, Capitan Pascià della flotta turca nel 1715, aveva durante la guerra di Morea vogato per sette anni nelle galere della Serenissima.
Questo avveniva perché quando si catturava una unità nemica, tutti quelli che erano a bordo diventavano schiavi a meno che non pagassero riscatto in denaro. Non sempre però ciò si concedeva e specialmente in tempo di guerra. Avveniva così che non solo dei comandanti, ma anche dei Bey o dei Pascià potessero trovarsi fra gli schiavi.

Note: Sotto il nome di “servi” i Romani comprendevano i nemici fatti prigionieri, in quanto venivano conservati per poi essere venduti. Nel medio evo persone addette alla gleba., che non potevano disporre delle loro persone, né dei beni. Sparita ad opera della civiltà cristiana la servitù come l’intendevano i Romani rimase la voce servo nel senso di famiglio e Servigio.
Di questa opinione è anche Heirich Kretescmayr che nella sua monumentale storia di Venezia scrive. … gli schiavi, trattati del resto come i domestici e dei quali si fece largo impiego fino al XVI secolo, dai paesi Balcanici e dall’oriente. … che in Venezia stessa gli schiavi fossero ben trattati è manifestamente provato che vi furono per tutto il Medio Evo schiavi “volontari” a pagamento e per determinato periodo di tempo, …”
Anche in questo caso ritengo utile precisare che pur essendo stato effetuato un commercio va anche detto che il prezzo pagato era relativo al costo di trasferimento dalla nazione di provenienza ed era legato alla rivalutazione, ovvero da bassa manovalanza a diremmo operaio qualificato. In pratica non vendo l’uomo ma le sue specializzazioni in cui ho investito. Ovvero un rimborso delle spese sostenute.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Xlavi-s'ciavi co i veneti e łi ebrei ?

Messaggioda Berto » dom mar 02, 2014 10:33 am

La schiavitù a Venezia tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna

http://www.nevermoredst.paesi.com/La_sc ... enezia.htm

“Perciò che riguarda le persone fisiche, cominciamo dal più umile grado, i servi.
Nelle case era vecchio retaggio lo schiavo, e continuò molto a lungo, benchè, sul finire, dell'età di mezzo, l'uso degli schiavi andasse sempre più restringendosi. Anche a Venezia lo schiavo era una cosa ed un oggetto di lusso.
Vero è che la presenza di schiavi e di schiave, nelle famiglie patrizie ed agiate, era sì una ostentazione di grande agiatezza, ma era pure, una necessità dinanzi all'esodo dei servi, sottrattisi ai vincoli servili conseguendo la piena libertà giuridica.
Gli schiavi accudivano ai più umili servizi domestici ed intorno ad essi ruzzavano i fanciulletti. La loro condizione non era molto dura, quantunque pur a Venezia il servo si dicesse in dominio dell'acquirente, che lo considerava come res sua propria (62).
Nè erano ridotti all'estrema umiliazione dell'essere umano; una certa personalità era anche ad essi riconosciuta: adivano il tribunale comune, avevano famiglia propria e facoltà di obbligarsi, di acquistare, di possedere (63).
Insomma il sentimento rispetto ad essi si andava interamente mutando: essi più che altro costituivano un espediente economico. Gli schiavi sostituivano i servi per diminuire il carico e la spesa di locazione di domestici liberi.
Per ciò nei possessori non erano lievi le cure che si avevano per cotesta merce umana, giacchè ciascuno degli schiavi rappresentava un capitale che, per esser utile e fruttifero, doveva anzitutto esser garantito dal ben conservare la persona di cui era investito.
E primieramente si doveva tutelare l'onore della femmina, sia perchè da esso dipendeva il valore venale di lei, sia perchè in Venezia rimase sempre vigile lo spirito della umana solidarietà: la consuetudine concedeva al padrone di esercitare contro chi avesse usato violenza a una schiava, la medesima azione di tutela attribuitagli per l'onore dei propri famigliari ; nè la tutela della legge mancava agli schiavi anche per offese di lieve momento (64).

Tali circostanze, in cui lo spontaneo esercizio della carità cristiana cercava conciliare contraddittori elementi di vita, non potevano evitare contrasti fra taluni atteggiamenti e cert'altre condizioni di fatto. In quanto era danaro posto a frutto, lo schiavo doveva essere riguardato sotto l'aspetto della continua e diretta utilità, ed egli era utile infatti finchè era giovane; invecchiando invece fruttava sempre meno, veniva diventando un peso ed allora l'affrancazione riesciva più facile e sollecita.
Ma ancora è necessario tener presente una somma di diverse considerazioni per spiegarci al giusto punto il contegno dei vecchi veneziani a tal proposito. È umano che l'interesse materiale fosse ognora prevalente, ma su di esso potevano e la lunga consuetudine che allentava o distruggeva l'iniquità d'una relazione giuridica, contraria affatto allo spirito dei tempi, e il legame affettuoso che tra lo schiavo, non condannato ad obbedire ciecamente e supinamente al padrone, ed il padrone si veniva stabilendo, premio allo schiavo di uno zelo assiduo che riusciva a cattivarsi il benefizio della fiducia e ad attirare su di sè un più vivo senso di pietà ed una giusta estimazione del suo valore personale.

Inoltre nel contatto fra i servi liberi e i servi schiavi, conviventi sotto il medesimo tetto, nascevano comunioni di sentimenti che facevano ai vari componenti la famiglia padronale preferire i servizi della schiava fedele e devota a quelli della fantesca loquace, pettegola, talvolta maligna. Dall'affetto e dal particolare gradimento al prezioso dono della libertà personale il passo era breve. Sempre più frequenti andavano facendosi le francationes causa mortis, che liberavano il servo col testamento (pagina testamenti), o per atti fra vivi mediante cartulae libertatis, nelle quali perduravano, benchè spesso prive di senso ne' tempi nuovi, le antiche formule pregiustinianee, conservatesi nei formulari notarili. Vi si diceva, per esempio, che il servo inter liberos vadat cum omnibus heredibus libere quocumque ei placuerit a modo in antea civisque efficiatur Romanus, ita quod nullus eum amplius audeat servitutis vinculo subiugare (65).

I manomessi formavano una classe superiore a quella degli schiavi, inferiore a quella dei liberi.

I servi stranieri erano però in condizione peggiore di quella degli indigeni: essi erano i veri schiavi.
Gli schiavi, comprati dai privati slavi e saraceni (66), erano per la maggior parte tartari, russi, saraceni, mongoliani, bosniaci, greci, de genere Avogassiorum (circassi), de genere Alanorum (67), e si rivendevano, nonostante i divieti e graves poenas contrafacientibus, come scrive Andrea Dandolo, al pubblico incanto a San Giorgio e a Rialto.
Le donne circasse, georgiane e delle regioni circonvicine, giovani di dodici, quattordici e sedici anni, dichiarate sane delle loro membra e prive di magagne occulte e manifeste (68), teneri fanciulli, uomini maturi erano venduti, nel secolo XIV, ad un prezzo che andava dai sedici ducati d'oro, pari a lire trecentottantadue circa, agli ottantasette ducati, pari a lire duemilanovantatrè (69).

La Chiesa, nonostante tutte le condanne minacciate, lasciava correre, e la pratica del notariato veneziano, che sì a lungo lasciò agli ecclesiastici questo delicato ufficio, metteva costoro in contraddizione con la loro coscienza, e li spingeva a partecipare a quel traffico inumano che i canoni dei concili e le disposizioni curiali severamente proibivano.”

Da Pompeo Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, Bergamo, 1927
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Re: Xlavi-s'ciavi co i veneti e łi ebrei ?

Messaggioda Berto » sab ago 23, 2014 7:00 pm

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