Ła storia contà da Etore Bejato

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Messaggioda Berto » mar apr 22, 2014 7:10 am

Ła storia contà da Etore Bejato
viewtopic.php?f=148&t=793


Il tanko, il referendum e la questione veneta

La “questione veneta” è ritornata prepotentemente alla ribalta nelle ultime settimane: prima il referendum digitale, poi l’inchiesta della procura di Brescia con ben 24

arrestati, hanno riportato l’attenzione dei mass-media italiani e internazionali sul Veneto; e, secondo diversi commentatori, la crisi economica è stata la molla, il fattore scatenante di quanto è successo.

Non condivido affatto questa lettura.

Da sempre il popolo veneto lotta per accrescere il proprio livello di autogoverno, e, a seconda dei momenti storici, l’obiettivo è diverso: indipendenza, autonomia, federalismo, autodeterminazione.

Il 22 marzo 1848, la Repubblica Veneta viene nuovamente proclamata a Venezia in piazza San Marco, e “Viva la Repubblica!” (Veneta, naturalmente), “Viva San Marco” sono gli slogan che caratterizzano quella splendida stagione.

"Quali erano i veri obiettivi dell'insurrezione veneziana?" fu chiesto a Daniele Manin negli anni del suo esilio parigino
"Preferivamo essere una Repubblica indipendente confederata con gli altri stati italiani" la risposta del protagonista principale di quella straordinaria esperienza durata quasi un anno e mezzo, dal 22 marzo 1848 al 24 agosto 1849.
Saltiamo al primo dopoguerra e Luigi Luzzatti, già presidente del consiglio dei ministri, sente la necessità di scrivere al nuovo primo ministro, Vittorio Emanuele Orlando, il 7 febbraio 1919, una lettera densa di preoccupazione nella quale descrive il profondo malessere e il senso di ribellione contro il Regno d’Italia che agita la nostra società. La guerra, combattuta in larga parte nel territorio veneto, aveva lasciato devastazioni, distruzioni e profonde ferite nel morale dei veneti.

Luigi Luzzatti denuncia il pericolo che in Italia potesse sorgere “un'Irlanda Veneta, mutando i paesi più patriottici e più sobri nel chiedere, in ribelli della disperazione"

Negli stessi anni il prefetto di Treviso segnala al ministero la possibilità che nel Trevigiano si crei un movimento separatista tendente a staccare il Veneto dall’Italia.

Ed è un parlamentare repubblicano, Guido Bergamo di Montebelluna (Tv) che denuncia:

“Il governo centrale di Roma, questo governo di filibustieri, di ladri e camorristi organizzati, non si accorgerà di noi se non ci decideremo a far da noi" e ancora "Ora basta! Il problema veneto è così acuto che noi da oggi predicheremo la ribellione dei veneti. Cittadini, non paghiamo le tasse, non riconosciamo il governo centrale di Roma, cacciamo via i prefetti, tratteniamo l'ammontare delle imposte dirette nel Veneto"
"L'unità d'Italia è un non senso" scrive il 15 maggio 1920 "La Riscossa", periodico repubblicano trevigiano, e un anno dopo, il 15 ottobre 1921, si chiede se il Governo andava bene che "il sentimento autonomista dei Veneti si trasformasse in aperta ribellione ed assumesse carattere nettamente separatista"

Ma anche subito dopo la seconda guerra mondiale ci sono nel Veneto segnali di inquietudine: sono in possesso di un volantino originale dell’associazione “San Marco par forza” nel quale si parla di “Autonomia e Indipendenza di tutte le terre di San Marco” e di una “Confederazione di Repubbliche o Regioni”; non a caso il 12 giugno 1945 il Ministero dell’Interno, da sempre particolarmente attento a tutto quello che succede nel Veneto, chiede alla Prefettura di Venezia informazioni su “persone che tendano ad una autonomia integrale del Veneto e alla costituzione di una Repubblica di San Marco”.

Per non parlare dell’insorgenza veneta del 1809 e di tanti altri momenti di rivendicazione (pensiamo solo ai Serenissimi nel maggio 1997); quello che i commentatori “foresti” ma anche veneti, per la verità, non riescono a capire è la mai sopita aspirazione del nostro popolo all’autogoverno, la nostra forte, fortissima identità, il nostro riconoscersi in un simbolo, il Leone di San Marco, che è molto di più di una bandiera, e un simbolo, si sa ha varie sfaccettature, ci sono quelle materiali ma ci sono anche quelle invisibili, imperscrutabili…è questo che a Roma non capiscono, e tutto quello che non si capisce finisce per far paura…


ETTORE BEGGIATO
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Re: Ła storia contà da Etore Bejato

Messaggioda Berto » mar apr 22, 2014 7:19 am

Il processo delle terre liberate
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... 9RYkE/edit
Immagine

Malavita a Trevixo
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... p5Ymc/edit

Łi tałiani dapò ver desfà ła tera veneta e copà xentenara de miłara de veneti łi ciamava el Veneto:
Veneto bubbone d’Italia

https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... pTaUE/edit
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Re: Ła storia contà da Etore Bejato

Messaggioda Berto » mar apr 22, 2014 8:44 am

Anesion del Veneto a la Tałia - el plebesito trufa o farsa?
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =139&t=518


"La vera storia del 1866: il Veneto subì l'annessione" * 21-22 OTTOBRE 1866: "LA GRANDE TRUFFA"  Il plebiscito di annessione del Veneto all'Italia"
(in fondo: "1859: IL VENETO COME IL LUSSEMBURGO?"


E' l'esplicito titolo di un agile e documentato libro di ETTORE BEGGIATO ( Editoria Universitaria Venezia )

http://cronologia.leonardo.it/storia/a1866a.htm

l libro racconta una storia vicinissima eppure inaudita, la storia del Veneto che è stata negata e sostituita dalla propaganda sabauda, che fatta l'Italia pretese di fare gl'italiani cancellandone le diverse identità. La scuola e gli intellettuali, come sempre, si prestarono alla bisogna: buttate i testi e le antologie di Storia e Letteratura Veneta, generazioni di veneti impararono che la loro lingua non era che ridicolo dialetto di servette migranti, e il loro millenario passato di nazione indipendente, onorata e rispettata tra le grandi potenze europee, non era che miserabile folclore di repubblichetta marinara.
1866: l'anno della cessione del Veneto ai Savoia. Ci insegnarono che quel plebiscito fu una specie di festa nella quale un popolo esultante ed unanime si riunì alla patria.
Beggiato smonta la menzogna lasciando parlare i documenti, ci racconta una storia veneta che nessuno ci ha mai raccontato. E la prefazione di Sabino Acquaviva che impreziosisce il volume (che riportiamo sotto) ha il merito di riconoscere la dignità di queste posizioni, talvolta oggetto d'ingiusta e spesso ignorante derisione, e di porre un problema di verità: tanti anni dopo, nell'Unione Europea, è tempo che nelle scuole e fuori si racconti finalmente la verità sul Veneto e sul Risorgimento, sulla forzata annessione all'Italia di un popolo che voleva restare veneto. Ed è tempo che su questa verità si costruisca quell'Italia "federazione di popoli" per la quale si battè l'insorta Venezia di DANIELE MANIN (Al.F. recensione su Il Gazzettino, 2.12.1999).
La Prefazione di SABINO ACQUAVIVA


ANNO 1866 I PLEBISCITI "con gioia" o "con mano tremante" ?

" ..il SI .... lo si vota a fronte alta, sotto lo sguardo del sole, colla benedizione di Dio.... 
il NO ....con mano tremante, di nascosto, come chi commette un delitto..."

http://cronologia.leonardo.it/storia/a1866b.htm

Immagine

Sulla libertà del voto e sulla segretezza dello stesso ci illumina la lettura di "Malo 1866" di Silvio Eupani:
"Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei viglietti col SI e col NO di colore diverso; inoltre, ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il viglietto al presidente che lo depositava nell'urna".

"il viglietto del SI"

L'urna del SI era a destra, quella del NO a sinistra.

Federico Bozzini così descrive in L'arciprete e il cavaliere quanto avvenne a Cerea:
"Come già si disse, vi dovevano essere due urne separate, una sopra un tavolo, l'altra sopra l'altro. Se per caso non avesse urne apposite, potrà adoperare un quartarolo del grano (una specie di secchio per la misura del grano. Ndr.) Sopra una sarà scritto ben chiaro il SI e sopra l'altra il NO".

E PER LO SPOGLIO?
"I protocolli (registri dove si scrivono i nomi dei votanti) sono due, uno per i votanti che presentano il viglietto del SI , l'altro per il viglietto  del NO, in modo che il numero complessivo dei viglietti, finita l'operazione del voto, rende inutile lo spoglio di ciascheduna urna. Nel protocollo dei viglietti  del NO si dirà: votarono negativamente i seguenti cittadini. Alla fine la Commissione concluderà gridando "Viva l'Italia unita sotto lo scettro della Casa di Savoia".

Poi c'era il manifesto che non lasciava dubbi in quanto "serenità" di come votare.
Poi i giornali citati sopra: La Gazzetta di Verona del 17 ottobre era chiarissima: "...SI vuol dire essere italiano ed adempiere al voto dell'Italia. NO, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell'Italia".
Una sottolineatura importante: già allora qualcuno aveva capito che una cosa erano i veneti e un'altra gli italiani e che gli interessi degli uni raramente coincidevano con gli interessi degli altri.

Illuminante il seguente dialogo tratto da Le elezioni comunali in villa  nelle quali Domenico Pittarini (non un austriacante, ma un membro liberale, perfino arrestato dagli austriaci) descrive i fatti tragicomici che caratterizzarono le "elezioni" post 1866, per andare "sotto" il governo monarchico sabaudo:

"Primo contadino: "Ciò, chi ghetu metesto ti sulle schede?"
(cosa hai messo sulla scheda?)
Secondo contadino: "Mi gniente, me la ga consegnà el cursore scrite e tutto"
(me l'ha consegnato lo scrutatore già scritta)
Primo contadino: "E anca mi isteso, manco fatiga"
(io lo stesso, così meno fatica).
Secondo contadino: "Manco secade"
(meno seccature).
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Re: Ła storia contà da Etore Bejato

Messaggioda Berto » dom mag 04, 2014 7:40 am

Insorgensa veneta

http://www.beggiato.itgo.com/insorgenza_veneta.html

Immagine


E’ USCITO IL NUOVO LIBRO DI ETTORE BEGGIATO:
“1809: l’insorgenza veneta.
La lotta contro Napoleone nella Terra di San Marco”
Editrice Veneta – Vicenza


INTRODUZIONE: Banditi o patrioti veneti ?

Giuseppe Boerio nel suo “Dizionario del dialetto veneziano” stampato a Venezia nel 1856 parla dei “briganti” in questi termini: “Con tale nome erano comunemente chiamati nell’anno 1809 coloro che nelle varie nostre provincie si sollevarono”; lo storico trentino Aldo Bertoluzza anticipa l’utilizzo del termine, almeno per quanto riguarda il Veneto, al 1797: “La denominazione di briganti che verrà riportata da gran parte degli storici risale al mese di aprile 1797, quando avvenne l’emigrazione nel Trentino di fuoriusciti veneti antifrancesi e la formazione di quei primi nuclei che Napoleone stesso battezzava briganti, e che diventeranno poi gli affiancatori dei malcontenti tirolesi e di Andreas Hofer nel 1809” Attraverso il concetto di “brigante” si tentava, e si tenta, di screditare chi lottava comunque per un’idea, per difendere la propria terra, la propria casa, la propria tradizione. E così “briganti” furono tutti coloro che in tantissimi comunità della penisola italiana resistettero alle orde napoleoniche e giacobine, “briganti” furono chiamati i Vandeani che pagarono con il sangue la difesa della loro identità, “briganti” divennero più tardi coloro che si ribellavano nei confronti dei “liberatori” sabaudi e che vedevano i loro paesi rasi al suolo da certi figuri che ora campeggiano nelle nostre piazze. L’insorgenza del 1809 assume il carattere di una vera e propria ribellione contro il conquistatore, contro l’Infame Napoleone. Si può certamente parlare di una guerra di liberazione contro l’invasore straniero e i suoi collaborazionisti locali (i giacobini veneti) in un contesto che assume una caratteristica europea e che parte dalla Vandea tocca il Tirolo incendia la Spagna e coinvolge, in forme diverse, l’intero continente Da una parte i popoli decisi a difendere la loro terra, la loro storia, le loro tradizioni dall’altra Napoleone e i suoi alleati; da una parte la difesa della propria religiosità dall’altra l’offensiva del laicismo; da una parte le “piccole patrie” dall’altra l’espansionismo francese, da una parte la battaglia autonomista dall’altra il centralismo più ottuso e rapace che affama la nostra gente con nuove tasse particolarmente odiose come quella sul macinato.. Si calcola che dal 1796 al 1815 le varie insorgenze coinvolsero nella sola penisola italiana più di 300.000 persone; sicuramente ne morirono più di centomila. Ed anche nel nostro Veneto ci sono numeri impressionanti che testimoniano una partecipazione straordinaria: ad Orgiano piccolo centro del bassovicentino, fonti della polizia parlano di quindicimila persone in piazza, ma sono le piazze dell’intero Veneto ad infiammarsi, sono i campanili delle nostre comunità che diventano il simbolo della rivolta (non ci avevo mai pensato: dalle campane a martello del 1809 al campanile di San Marco dei Serenissimi del maggio 1997…..). Una sollevazione straordinaria come partecipazione, come coinvolgimento generale dell’intera popolazione, interclassista si direbbe oggi (altro che rivoluzione degli straccioni!), come riaffermazione della propria identità veneta e come lotta per riconquistare la libertà perduta (la bandiera con il leone di San Marco sventola in tante piazze e a Schio viene anche insediato un Governo Veneto…) alla quale si reagisce con brutalità impressionante con centinaia e centinaia di patrioti veneti fucilati e impiccati; certo, ci fu anche chi si dedicò alla razzia: ma fu comunque una esigua minoranza. Sicuramente mancò la capacità “politica”, mancarono i capi, non certo l’ardore e l’eroismo della nostra gente. Ma tutto questo nei libri della scuola italiana non compare e nella pubblicistica del “regime” viene censurato o minimizzato. E d’altra parte basta pensare a chi “controlla” le università venete, o meglio le università italiane nel Veneto per rendersi conto di come la storia veneta sia ostaggio di logiche e di “culture” estranee alla nostra terra e al nostro popolo. Possiamo chiedere a questi “storici” sfornati dalle università italiane del Veneto come mai in Spagna gli insorti antinapoleonici vengono considerati degli eroi, immortalati nel famoso quadro di Fransisco Goya, e nella nostra terra veneta gli stessi insorti antinapoleonici vengono ignorati o trattati come delinquenti comuni? Ed è la stessa storiografia che continua a presentare il Veneto polentone, abituato a dire “comandi!” a chiunque passi per questa terra. Nulla di più sbagliato! Il nostro popolo ha sempre lottato per riacquistare la propria sovranità, la propria libertà. C’è un filo rosso (o meglio azzurro che è il colore nazionale di noi veneti) che unisce tante pagine della nostra storia nelle quali è costante la lotta del nostro popolo per l’autonomia, per l’autogoverno.
Vediamole, schematicamente e senza pretesa di completezza.

1) Nel 1797 i Veneti lottano strenuamente per difendere la Serenissima. Eroica la difesa dei veronesi durante le “Pasque” ma in tutto il Veneto ci sono manifestazioni di fedeltà alla Repubblica di San Marco e di resistenza contro i francesi;

2) Nel 1809 i Veneti, come vedremo, insorgono contro Napoleone

3) Nel 1848, il 22 marzo inizia la grande rivoluzione veneta; viene ricostituita la Repubblica Veneta e Venezia sarà l’ultima città d’Europa a cadere, il 23 agosto 1849, sotto l’impressionante offensiva dell’esercito asburgico. Per le cinque giornate cinque di Milano ci sono interi scaffali di volumi, un anno e mezzo di indipendenza veneta viene sistematicamente ignorata. Dieci anni dopo Napoleone III propone a Francesco Giuseppe di assimilare la questione veneta a quella del Lussemburgo. Nel 1866 attraverso un plebiscito-truffa il Veneto viene annesso all’Italia.

4) Nel 1920 subito dopo la fine della grande guerra quasi interamente combattuta nel nostro Veneto e che ha portato lutti, tragedie e disperazione a non finire, Luigi Luzzatti, già presidente del Consiglio dei Ministri, profondo conoscitore della nostra gente, scrive al suo successore Vittorio Emanuele Orlando il 7 febbraio 1919 del timore che potesse sorgere 'un'Irlanda Veneta, mutando i paesi più patriottici e più sobri nel chiedere, in ribelli della disperazione e il prefetto di Treviso segnala al Ministero la possibilità che nel Trevigiano si crei un movimento separatista tendente a staccare il Veneto dall'Italia.

E Guido Bergamo parlamentare trevigiano scrive 'Il governo centrale di Roma, questo governo di filibustieri, di ladri e camorristi organizzati, non si accorgerà di noi se non ci decideremo a far da noi e ancora 'Ora basta! Il problema veneto è così acuto che noi da oggi predicheremo la ribellione dei veneti. Cittadini, non paghiamo le tasse, non riconosciamo il governo centrale di Roma, cacciamo via i prefetti, tratteniamo l'ammontare delle imposte dirette nel Veneto.

5) Nel 1945, nell’immediato dopoguerra il ministro dell’interno chiede informazioni alla prefettura di Venezia su “persone che tendano ad una autonomia integrale del Veneto e alla costituzione di una Repubblica di San Marco”

6) Nel 1970 nascono le regioni e il Veneto è l’unica regione che si da uno statuto nel quale si parla di “popolo”: l’articolo due recita: “L’autogoverno del popolo veneto si attua in forme rispondenti alle caratteristiche e tradizioni della sua storia”

7) Nel 1983 alle elezioni politiche per la prima volta in una regione a statuto ordinario una forza politica autonomista riesce a far eleggere due rappresentanti al parlamento italiano: è la Liga Veneta, la madre di tutte le leghe.

8) Nel 1997, il 9 maggio otto “serenissimi” si impossessano del campanile di S. Marco e issano la bandiera veneta. Un gesto e un sacrificio determinanti a far risvegliare nel popolo veneto la coscienza della propria identità e dei propri diritti.
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Re: Ła storia contà da Etore Bejato

Messaggioda Berto » lun mag 05, 2014 6:43 am

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Re: Ła storia contà da Etore Bejato

Messaggioda Berto » gio ago 21, 2014 1:35 pm

Veneti smemorati! Intitoliamo all’eroe don Marini le nostre strade

http://www.lindipendenzanuova.com/fucil ... poleoniche

di ETTORE BEGGIATOdon Marini 01
Il 19 agosto 1809 le orde napoleoniche fucilavano a Vicenza in Campo Marzo don Giuseppe Marini giovane cappellano di ventinove anni di Carrè (provincia di Vicenza, diocesi di Padova).
Ecco quanto scrive il Tornieri nelle sue Memorie:
“1809, 19 agosto….Giorno infaustissimo per essersi, per la prima volta in Vicenza, veduto fucilare un sacerdote. Questo atroce spettacolo si è eseguito questa mattina in Campo Marzo, un’ora dopo terza (le dieci circa). Ritornata la formidabile Commissione Militare alle sue missioni ha condannato ieri, e perciò furono fucilati questa mattina per la solita accusa di sollevazione, i seguenti: Don Giuseppe Marini d’anni 29 di Carrè sacerdote e capellano di Carrè, diocesi di Padova e Pietro Nicolati, d’anni 39, nativo dell’Ospedaletto di Valsugana di professione muratore.”
Di don Giuseppe Marini la storia non dice niente altro.
Carlo Bullo, l’autorevole storico autore della più completa opera sui movimenti insurrezionali veneti nel 1809 scrive che: “Già nel 12 luglio, presso le sorgenti del Bacchiglione, aveano i militari fatto prigione assieme ad altri sollevati un parroco armato di pistole e di stili aveva indosso una bandiera di San Marco”: chissà se siamo in presenza della stessa persona.
Nel 1809 ci furono sollevazioni violentissime in tutto il Veneto e, in particolare, nell’alto vicentino. Intere vallate furono per diversi giorni in mano dei rivoltosi che, il più delle volte, innalzavano la bandiera di San Marco.
Napoleone aveva portato la nostra regione in condizioni di miseria e disperazione come mai nella storia veneta; il nostro popolo reagì con particolare vigore: i francesi, in nome della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità, riportarono l’ordine con centinaia e centinaia di morti.
Una pagina, quella del 1809, che meriterebbe di essere conosciuta dal popolo veneto; mancò una figura leggendaria come il tirolese Andreas Hofer che guidasse il nostro popolo, e mancò anche chi, come il grande pittore spagnolo Francisco Goya tramandasse ai posteri l’eroismo di chi lottava per la propria libertà e contro i crimini dell’occupante napoleonico.
Per tutto questo, per ricordare l’eroico sacrificio di un giovane prete veneto, mi permetto di avanzare una modesta proposta ai comuni veneti: intitoliamo una via, una piazza, una biblioteca a Don Giuseppe Marini come ha fatto il comune di Carrè; e la mia proposta ha un significato particolare per la città di Vicenza, teatro della fucilazione.


Comento ==============================================================================================================================


Alberto Pento 19 agosto 2014 at 8:13 am #

Bejato el ga scrito:
Don Giuseppe Marini d’anni 29 di Carrè sacerdote e capellano di Carrè, diocesi di Padova e Pietro Nicolati, d’anni 39, nativo dell’Ospedaletto di Valsugana di professione muratore.”

E parké no entitolar na via al muraro?
No xelo forse degno coanto el preve!
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Re: Ła storia contà da Etore Bejato

Messaggioda Berto » dom dic 14, 2014 8:10 am

VENEZIA, 13/12/1815: l’imperatore FRANCESCO I° d’Austria alla “VENETA NAZIONE”

Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... -cavaj.jpg

https://www.facebook.com/ettore.beggiat ... 15802784:0


“Il giorno di mercoledì 13 corrente è destinato da S.M. l’Augustissimo Nostro Sovrano per dare alla VENETA NAZIONE la più generosa testimonianza della Sua Paterna affezione col ricondurre un prezioso monumento dell’antica gloria veneziana.

I quattro celebrati cavalli ch’esistevano sulla Chiesa di San Marco, ricordando i fasti di Enrico Dandolo, e che furono in non lontana dolente epoca rapiti all’onor Nazionale, ricompariranno ….” Così si legge sul programma per la celebrazione del ripristino dei cavalli sulla Chiesa di San Marco che si trova sul volume “L’arte contesa nell’età di Napoleone, Pio VII e Canova”.

Dopo diciotto anni di esilio francese, i cavalli erano stati rimossi dalla soldataglia francese il 13 dicembre del 1797, l’imperatore d’Austria Francesco I° riconsegna alla città di Venezia e alla Veneta Nazione uno dei tanti capolavori rapinati da Napoleone; fondamentale fu, in questo contesto, l’opera del grande scultore Antonio Canova; la giornata fu immortalata dal pittore vedutista Vincenzo Chilone in una delle sue opere più riuscite.
Ma tralasciamo in questa sede la questione relativa alla indecente rapina compiuta da Napoleone ai danni del patrimonio artistico veneto, una questione che non va comunque considerata chiusa, per soffermarci sul riconoscimento che l’imperatore Francesco I° fa al nostro popolo, ci chiama, giustamente, “VENETA NAZIONE” un riconoscimento che non mi risulta sia in seguito venuto né da Casa Savoja né tantomeno dall’Italia Repubblicana.
Poche righe più avanti si ribadisce il concetto parlando di “Onor NAZIONALE”; va altresì ricordato come ci furono da parte degli Asburgo altre attestazioni di rispetto nei confronti nella nostra nazione veneta: non a caso fino al 1848 la marina austriaca si chiamava ufficialmente “Imperial Regia Veneta Marina”, quella marina che sconfisse qualche anno dopo gli italiani a Lissa nell’indimenticabile 20 luglio 1866, in quella che è stata definita “l’ultima vittoria della Serenissima”…
Ma ritorniamo al concetto di “nazione” per ribadire come il Veneto abbia tutte le caratteristiche per definirsi, appunto, nazione; nei dizionari ci viene spiegato che nazione è un insieme di individui che, avendo in comune storia, lingua, territorio, cultura, si identifica in una comune identità.
E il Veneto possiede ampiamente le caratteristiche sopra citate e tante altre, e penso alle comuni forme di religiosità, al modello economico (il famoso modello veneto), ai millecento anni di indipendenza veneta; manca, in questo momento storico, la consapevolezza. Ma questa mancanza è il frutto di quasi centocinquantanni di unità d’Italia nei quali è stato fatto di tutto per annacquare la nostra identità veneta e il nostro senso di appartenenza al Veneto, nazione storica d’Europa.
Sono dinamiche che conosciamo e che hanno colpito altre nazioni storiche europee, pensiamo per esempio alla nazione catalana: nel tristissimo periodo franchista la lingua catalana era ridotta a dialetto minoritario, l’identità catalana era sistematicamente calpestata dal governo di Madrid; oggi, nella Costituzione della Catalunya, l’articolo uno parla di “La Catalunya, come nazionalità, esercita il suo autogoverno…” e solo un mese fa la nazione catalana ha mostrato al mondo con quanta determinazione sta lottando per arrivare all'indipendenza...
E tante altre sono le nazioni storiche d’Europa, dalla Scozia alla Bretagna dalla Baviera alle Fiandre che vogliono e devono ritrovare la giusta dimensione per risollevare la nostra vecchia Europa mortificata dall’essere diventata un’Eurolandia in balia di speculatori senza scrupoli…

ETTORE BEGGIATO
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Re: Ła storia contà da Etore Bejato

Messaggioda Berto » sab apr 11, 2015 8:25 am

On Novo livro de Bejato senpre e lomè sol Veneto venesian (mai kel diga calcosa sol Veneto ke no xe venesian):

Immagine

Ecco come lo presenta l’autore:

INTRODUZIONE

Ti rendi conto, amico
Da molti anni ormai,
ci nascondono la nostra storia,
dicono che noi non ne abbiamo;
che la nostra storia è la loro storia
ti rendi conto amico…

Raimon Sanchis - poeta catalano


Questa mia ricerca vuole essere fondamentalmente una provocazione, la terza, dopo “1866:la grande truffa. Il plebiscito di annessione del Veneto all’Italia” e “Lissa, l’ultima vittoria della Serenissima”.

Devo ammettere, con una certa soddisfazione, che le precedenti provocazioni hanno comunque ottenuto i risultati sperati, per cui confido che nemmeno questa cadrà nel vuoto.

“1866:la grande truffa” uscito nel 1999, aveva l’obiettivo di far conoscere ai Veneti una pagina così poco conosciuta della loro storia, quella del plebiscito-truffa del 1866 con il quale il Veneto fu annesso all’Italia; credo di aver dato un contributo come pochi al fatto che ora tanti Veneti non solo conoscono il plebiscito-truffa ma si dimostrano indignati dal trattamento subito.

Con “Lissa, l’ultima vittoria della Serenissima”, pubblicata nel 2012, desideravo portare a conoscenza del nostro popolo la dimensione “Serenissima” della flotta che sconfisse la marina tricolore, citando, come al solito, documenti inattaccabili, basti pensare all’elenco dei veneti decorati dall’impero asburgico; anche in questo caso mi sembra di aver raggiunto l’obiettivo.

Questa nuova “provocazione” potrebbe prendere le mosse da una semplice domanda:

che cosa hanno in comune Silvio Trentin e Illuminato Checchini, Daniele Manin e Francesco Pesaro, Massimo Cacciari e Ferruccio Macola, Goffredo Parise e Domenico Pittarini, i “Serenissimi” e i partigiani di “San Marco Par Forza” ?
Poco, pochissimo, tranne l’essere tutti espressione di quella Terra che oggi si chiama Veneto, che fin dal x secolo a. C. era abitata dai "Venetkens" cioè Genti Venete, che subito dopo la nascita di Cristo divenne "Venetia et Histria" e che per 1.100 anni fu indipendente (Serenissima Repubblica Veneta).
I mondialisti e gli ultras della globalizzazione vogliono farci credere che nascere nel Veneto, nell'Oklaoma, nell’Azawad o nella Tasmania sia la stessa cosa...non è così...e tutti i protagonisti della "questione veneta" sono lì a dimostrarlo....

Chi nasce, cresce, vive nel Veneto assorbe una serie di influssi, acquisisce una serie di valori, dalla solidarietà, all’attaccamento alla propria Terra, alla propria identità, dal rifiuto all’omologazione all’ostilità, più o meno radicale, nei confronti di uno stato centralista sempre più lontano, ostile, ottuso, nei confronti di una Roma sentita sempre come capitale straniera. (1)

Il nostro popolo veneto non è il popolo del "comandi sior paron" come cercano disperatamente di farci credere; è il popolo che in maniera diversa esprime costantemente la domanda di maggior autogoverno, di rispetto, di "riforme" si direbbe ai nostri tempi...in maniera diversa, appunto, perché lo spessore e i contenuti di Silvio Trentin sono assolutamente straordinari...ma lo sono anche la forza travolgente e l'oratoria di Guido Bergamo, sono commoventi la passione di tante venete e tanti veneti nel difendere, nel nome di San Marco, la loro cultura e la loro civiltà ...

Ecco, con questo volume cerco di portare all’attenzione degli amici che mi leggeranno una serie (non esaustiva, per carità) di personaggi, di testimonianze, di documenti con i quali cerco di dimostrare che c’è un filo azzurro (colore nazionale veneto) che unisce i vari momenti della nostra storia nei quali i Veneti alzano la testa, per difendere la loro famiglia, la loro identità, la loro comunità, la loro Terra…e le battaglie dei Veneti del terzo millennio avranno forza, e potranno essere vincenti, solo se c’è la capacità di collegarle con le battaglie dei secoli scorsi, se c’è la capacità di riannodare ancora una volta quel “filo azzurro”…solo così la “questione veneta” potrà trovare soluzione…Viva San Marco!

Ettore Beggiato

Venezia, primo marzo 2015, capodanno veneto
1) Costato A. “Round trip. Cronache di un lustro speso a capire perché a 146 anni dall’annessione per i Veneti Roma è ancora una capitale straniera” Ro 2012 Antonio Costato è stato vicepresidente di Confindustria “nazionale” (2008-2012)

???

Ve rendio conto amighi ke na parte dei veneti (come Raixe Venete e Bejato) li ne sconde na mile ani de la nostra veneta ke no la xe venesiana? Li fa purpio cofà li taliani! Par luri a ghè lome Roma e Venesia. Par mi a ghè tanto altro a ghè l'Ouropa e le nostre raixe ouropee. E mai ke li gapie el corajo de afrontar łe colpe e le responsabełetà venesiane par łe scorerie e ràsie de Napoleon e sol termene de ła Repiovega Veneta.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Ła storia contà da Etore Bejato

Messaggioda Berto » mer lug 22, 2015 2:10 pm

Il sogno del Veneto libero. Una lunga ricerca d'indipendenza perduta
Un saggio di Ettore Beggiato ricostruisce la storia di una regione che si sente nazione. E poco italiana

http://www.ilgiornale.it/news/cultura/e ... 54091.html
Carlo Lottieri - Mer, 22/07/2015

Una storia di più mille anni non può dissolversi senza lasciare tracce: e questo è ancor più vero se a quella vicenda plurimillenaria appartengono figure come Marco Polo e Paolo Sarpi, Tiziano Vecellio e Antonio Vivaldi.

La Repubblica di Venezia muore a Campoformio, per volontà di Napoleone, ma da quel 1797 in poi numerosi episodi hanno visto i veneti sognarne la rinascita. E non ci si riferisce solo alla Repubblica di San Marco guidata da Daniele Manin (un'esperienza istituzionale che durò quasi un anno e mezzo, dal marzo del 1848 all'agosto del 1849), poiché spinte ribelli si sono avute in varie circostanze.

L'ultimo lavoro di Ettore Beggiato ( Questione veneta. Protagonisti, documenti e testimonianze , edito da Raixe Venete e in vendita a 15 euro) accende i riflettori su questa costante aspirazione all'indipendenza. L'obiettivo dell'autore è aiutare a comprendere il profondo malcontento di un Veneto che continua a non sentirsi a proprio agio all'interno delle istituzioni italiane, così come era analogamente riottoso quando a governarlo erano i francesi o gli austriaci.

Dalla documentazione raccolta nel volume emerge una storia in parte sorprendente, se si considera che perfino il 12 giugno del 1945, poco dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, un telegramma del ministro dell'Interno si rivolgeva al prefetto di Venezia per avere informazioni sule spinte separatiste. Il motivo di quella richiesta stava nel fatto che su L'Avanti! , organo del partito socialista, un'intervista al professor Ugo Morin (presidente del Cnl del Veneto) aveva richiamato l'attenzione su un gruppo volto a ottenere «una autonomia integrale del Veneto e alla costituzione di una Repubblica di San Marco». Ma spinte centripete di questo tipo si incontrano di continuo, come un fiume carsico che periodicamente viene alla luce.

La prima importante manifestazione di questo spirito si ebbe nel 1809. Contro i francesi e in sintonia con altre rivolte in varie parti d'Europa, in Veneto hanno luogo ribellioni popolari che il 10 luglio portano addirittura alla nascita di un governo provvisorio con sede a Schio, nel Vicentino. In quegli anni le «insorgenze» anti-napoleoniche sono molte, dal Tirolo di Andreas Hofer alla Spagna della guerra d'indipendenza, ma ciò che colpisce della vicenda veneta è il silenzio successivo: il quasi totale oblio di quelle iniziative politiche che tentarono di riportare in vita la Serenissima.

La tesi di Beggiato è che studiare il passato aiuta a comprendere come il disagio del Veneto contemporaneo affondi in un'identità lungamente negata e in una serie di soprusi causati da un potere statale sempre più oppressivo. Da oltre due secoli il Veneto soffre una grave mancanza di libertà ed è vittima di malgoverni di ogni genere. Con determinazione esso ha manifestato a più riprese questa sua voglia di autogoverno in molteplici modi e, soprattutto, ha sempre coltivato un forte sentimento di ostilità verso le istituzioni.

Il volume sottolinea come taluni scrittori abbiano bene compreso questa difficoltà veneta a sentirsi a proprio agio in Italia. Nel 1982 sul Corriere della Sera Goffredo Parise scrisse un articolo memorabile che iniziava in questo modo: «Il Veneto è la mia patria». E qualche anno dopo Indro Montanelli parlò senza mezzi termini della Repubblica Veneta come di «una civiltà non italiana, ma europea e cristiana».

Quello che questi e altri autori colgono in forma intuitiva una volontà indipendentista che, sul piano politico, si traduce in un susseguirsi ininterrotto di iniziative e movimenti: più o meno spontanei, più o meno organizzati. Quanti pensano che parole come indipendenza o autodeterminazione siano apparse nel dibattito pubblico veneto solo a partire dalla nascita della Liga Veneta, nel 1980, forse non sanno che all'indomani della Grande Guerra l'onorevole Luigi Luzzatti, già presidente del Consiglio dei ministri, mise in guardia Vittorio Emanuele Orlando in merito alla possibilità di «un'Irlanda Veneta», e cioè di una rivolta separatista.

Non erano timori infondati, se si considera che nel 1921 alle elezioni politiche si presentò una lista «Leone di San Marco» che in provincia di Treviso ottenne il 6,1% dei voti. Parallelamente operava un socialista anomalo come il deputato Guido Bergamo, il quale arrivò ad affermare: «Ora basta! Il problema veneto è così acuto che noi da oggi predicheremo la ribellione dei veneti. Cittadini, non paghiamo le tasse, non riconosciamo il governo centrale di Roma, cacciamo via i prefetti, tratteniamo l'ammontare delle imposte dirette nel Veneto».

Come Beggiato sottolinea, è sempre un intreccio di motivi anche diversi a tenere in vita il desiderio dei veneti di essere «padroni a casa loro». Ci sono ragioni culturali e perfino linguistiche (se si considera l'attaccamento dei veneti alla lingua di Carlo Goldoni e Giacomo Casanova), motivazioni storiche e simboliche, frustrazioni economiche, aspirazioni libertarie. Se la Repubblica di Venezia era stata uno dei centri economici della prima globalizzazione, con la perdita dell'autogoverno questo territorio è entrato in un declino causato dalle tasse, dalla devastazione delle guerre, dalla coscrizione obbligatoria.

In tal senso a più riprese il leone di San Marco ha finito per incarnare un passato glorioso che fa sfigurare il presente, ma al tempo stesso è pure divenuto il simbolo di una battaglia ideale volta a restituire ai veneti la libertà di governarsi da sé.

Non è un caso se qualche settimana fa il sistema politico italiano, su richiesta del governo Renzi, ha dovuto scomodare la Corte costituzionale affinché annullasse una legge regionale veneta che istituiva un referendum consultivo sull'indipendenza. A Venezia si era pensato che se un plebiscito (truffaldino) nel 1866 aveva decretato il passaggio del Veneto all'Italia, un altro voto popolare potesse restituire ai veneti la facoltà di costruire proprie istituzioni. La repubblica italiana ha negato ai veneti la facoltà di votare, ma è forte la sensazione che - oggi come ieri - sotto la cenere vi siano braci che continuino ad ardere.


Me despiaxe tanto ma i veneti no łi jera łibari, ła pì parte łi jera suditi dei venesiani e ente so senso el Veneto no lè mai stà lebaro e endependente.
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Re: Ła storia contà da Etore Bejato

Messaggioda Berto » mer ago 05, 2015 9:50 am

1848: MANIN, LA REPUBBLICA VENETA E IL FEDERALISMO TRADITO
Di Ettore Beggiato
http://venetostoria.com/2015/08/03/1848 ... mo-tradito

3 agosto 2015

“Preferivamo essere una Repubblica indipendente confederata con gli altri stati italiani” la risposta del protagonista principale di quella straordinaria esperienza chiamata Repubblica Veneta e durata quasi un anno e mezzo, dal 22 marzo 1848 al 24 agosto 1849.

E Daniele Manin continua nelle sue riflessioni denunciando:

“Se Carlo Alberto si fosse presentato come un uomo disinteressato; se non avesse fatto una guerra egoistica per l’ingrandimento del Piemonte…il Piemonte usava il pretesto di una guerra di liberazione per fare in realtà una guerra di ambizione e di conquista”.

Purtroppo siamo sempre più coinvolti in una bolgia di retorica di chi cerca disperatamente di far passare una guerra di conquista in una guerra di liberazione, e i professionisti della retorica patriottarda sono gli stessi che cercano di annacquare la nobile figura di Daniele Manin nella macedonia del risorgimento tricolore, di quella macedonia che pretende di presentare i moti del 1848 inserendoli nella prima guerra d’indipendenza.

Nel Veneto non fu così. Nel Veneto anche nel 1848 si gridava “Viva San Marco!” e “Viva la Repubblica (Veneta, naturalmente)”, nella nostra Terra di parlava di “confederazione”, di rapporto paritario con gli altri popoli, altro che l’annessione espansionistica savoiarda basata sui plebisciti-truffa.

Ed è un personaggio che non si può certamente definire “venetista” come Giovanni Spadolini che esalta la dimensione “federalista” del Nostro:

“Era piuttosto la Repubblica in lega con gli altri stati d’Italia nella grande federazione allora sognata. Federazione italiana, e poi europea (secondo un’intuizione che in Manin -personaggio sotto ogni profilo europeo- fu più perentoria e lampeggiante che non in molti altri uomini del risorgimento)”

Daniele Manin nacque a Venezia il 3 giugno 1804 in campo Sant’Agostino da famiglia ebraica convertita al cristianesimo. Gli storici si dividono sul cognome originario: secondo alcuni fu Fonseca, secondo altri Medina. Quando fu battezzato gli fu imposto il cognome del padrino, come si usava all’epoca, fratello dell’ultimo Doge della Serenissima, Ludovico Manin: quasi un presagio.

Secondo alcuni autori, la portata storica della rivoluzione veneta del 1848-49 fu sminuita anche per la consistente presenza di ebrei fra i più stretti collaboratori di Daniele Manin; di certo il periodico italiano la “Difesa della Razza” nel 1939 scrive che “i quaranta proscritti dall’Austria dopo la capitolazione di Venezia erano tutti ebrei, più o meno convertiti”.

La madre fu Anna Maria Bellotto di Padova dalla quale ereditò una caratteristica profondamente veneta, la semplicità, quel suo modo di porsi che portò lo statista francese Ippolito Carnot a definirlo “eroe di saggezza, di coraggio e di semplicità”.

Laureatosi giovanissimo avvocato, seguendo le orme paterne, apre uno studio legale in Campo San Paternian (oggi Campo Manin).

La passione e l’orgoglio per la storia di Venezia lo porta a stampare il volume “Storia della Veneta Legislazione” lucidissima analisi delle leggi Serenissime.

Altrettanto passione dimostrava per la lingua veneta che in una lettera chiamerà “la mia bellissima lingua”, da Lui parlata in tutte le situazioni e che anzi contribuì all’efficacia della sua arte oratoria.

Collaborò con Giuseppe Boerio nella stampa di quel “Dizionario del dialetto veneziano” che ancor oggi rappresenta una fonte insostituibile nello studio della lingua veneta.

Le sue convinzioni profondamente repubblicane e di riscatto per la Terra di San Marco diventano pubbliche nel 1847 durante il IX congresso dei scienziati italiani; Manin è un sostenitore della “lotta legale” per arrivare all’autonomia e alle riforme. Il 18 gennaio 1848 assieme a Niccolò Tommaseo viene arrestato dalle autorità austriache: il loro arresto diventa la scintilla che fa incendiare Venezia. Diventa il Presidente della Repubblica Veneta, protagonista indiscusso dei diciasette mesi di straordinaria intensità. Il 24 agosto parte con la famiglia per l’esilio di Parigi dove muore il 22 settembre 1857.

Il 22 marzo 1868 le sue spoglie tornarono a Venezia e in piazza San Marco si svolse la cerimonia ufficiale:emblematica la scelta della data, venti anni dopo la rinascita della Repubblica Veneta, l’intera città di Venezia di stringeva commossa attorno al suo condottiero. Ecco alcuni passaggi del saluto dell’avvocato Luigi Priario di Genova: “Un popolo intero che circonda un feretro! Di chi è questo feretro? Quali preziose ceneri sono raccolte in quest’urna? Le ceneri di un imperatore ? No. Così non si piangono e non si onorano gli imperatori da un popolo. No queste ceneri non vengono da Sant’Elena, e non si legge su questa bara il delitto di Campoformido…Queste ceneri non grondano sangue, né lagrime di un popolo. Sono le ceneri di un salvatore di un popolo. Sono le ceneri di un esule, che fu dittatore, e che volle ed ebbe la gloria di morir povero. Sono le ceneri di Daniele Manin! Chi è Manin? Manin è la virtù, Manin è l’onestà, Manin è il martirio….”

La sua tomba fu portata in un primo tempo all’interno della basilica di San Marco e dopo pochi mesi fu trasferita all’esterno nella piazzetta dei Leoncini dove ancor oggi si trova.

Vediamo brevemente le principali tappe di quello che fu (almeno per il momento) l’ultimo periodo di autogoverno, di indipendenza del popolo veneto.

Il 18 gennaio 1848, a Venezia, vengono arrestati dalle autorità austriache Daniele Manin e Niccolò Tommaseo protagonisti di quella che veniva chiamata “lotta legale” o “opposizione legale” al governo di Vienna.

Il 17 marzo arriva a Venezia, tramite il vapore postale giunto da Trieste, la notizia che a Vienna Metternich si è dimesso ed è stata concessa la Costituzione: la manifestazione popolare successiva porta alla liberazione di Manin e Tommaseo.

Il 22 marzo alle ore 16.30 rinasce in Piazza San Marco la Repubblica Veneta. e il Presidente Daniele Manin termina il suo discorso infiammando la folla con un triplice “Viva La Repubblica, viva la libertà, viva San Marco!”. Nel suo diario Teresa Manin scrive:

“Era un’ebbrezza, un delirio: i vecchi piangevano, i giovani si abbracciavano. Chi batteva le mani, chi le alzava al cielo in atto di rendere grazie”.

Nel nuovo governo un ruolo centrale spetta al dalmata Niccolò Tommaseo ministro del Culto e dell’Istruzione secondo il quale una confederazione repubblicana delle regioni doveva essere permanente e non un graduale passaggio verso la repubblica unitaria, e in questa confederazione doveva esserci lo Stato Pontificio: il 4 aprile un decreto del governo veneto permetterà la libertà di comunicazione per tutti i vescovi del Veneto con il Papa. Un provvedimento rassicurante per tutto il mondo della Chiesa.

Emblematico il primo decreto che appare sulla “Gazzetta di Venezia” del 23 marzo:

“Il Governo provvisorio della Repubblica Veneta dichiara agli stranieri dimoranti in questa città, di qualunque nazioni e opinione siano e qualunque siano i loro antecedenti politici, che sarà ad essi usato ogni riguardo qual si conviene tra nazioni civili, e massime a questo paese noto per l’ospitalità sua. Il Presidente Manin”

E’ importante sottolineare come graficamente nella Gazzetta emergono due concetti: “Viva San Marco” e “Foglio Ufficiale della Repubblica Veneta”, sottolineo “Repubblica Veneta” visto che c’è ancora in giro qualche simpaticone che pontificando da qualche università parla di “Repubblica di Venezia”….

Oltre a Venezia è l’intera terraferma che si solleva contro gli Austriaci nel nome di San Marco: Padova, Vicenza, Belluno, Treviso, la stessa fortezza di Palmanova, Udine. Emergono figure straordinarie come quella di Pietro Fortunato Calvi.

Non sorprende allora che già il 24 marzo, sempre nella Gazzetta, troviamo un decreto che invita ufficialmente le città del Veneto a far parte della Repubblica Veneta in modo paritario:

“Il nome di Repubblica Veneta non può portare ormai seco alcuna idea ambiziosa o municipale. Le Provincie, le quali si sono dimostrate tanto coraggiosamente unanimi alle comune dignità; le Provincie, che a questa forma di governo aderiscono, faranno con noi una sola famiglia senza veruna disparità di vantaggi e diritti, poiché uguali a tutti saranno i doveri: e incominceranno dall’inviare in giusta proporzione i loro Deputati ciascuna a formare il comune Statuto. Aiutarsi fraternamente a vicenda, rispettare i diritti altrui, difendere i nostri, tale è il fermo proponimento di tutti noi”.

Concetti che vengono ribaditi il 29 marzo:

“I cittadini delle Provincie Unite della Repubblica, qualunque siano le loro confessioni religiose, nessuna eccettuata, godono di perfetta uguaglianza dei diritti civili e politici. Tutte le differenze nella vigente legislazione, contrarie a questo principio, sono tolte dalla sua applicazione. Le magistrature giudiziarie e amministrative sono incaricate di questa applicazione nei singoli casi ricorrenti. Manin”

Concetti come federazione o addirittura confederazione in quei giorni epoca erano estremamente attuali. Ecco quanto arriva dal Governo Provvisorio di Vicenza il 27 marzo:

“Con tale adesione peraltro non s’intende pregiudicare in guisa alcuna, né la desiderata e sperata unione della Venezia alla Lombardia, né una speciale confederazione di questi due Stati che rimanessero disgiunti,né (e molto meno) la generale confederazione degli Stati Italiani”.

Confederazione appunto, concetto del tutto sconosciuto agli “ultras” del centocinquantenario della cosiddetta “Unità d’Italia” che stanno imperversando in questi mesi…

Le città della terraferma, purtroppo, una alla volta capitolarono e a Venezia il Governo provvisorio convoca una “Assemblea di Deputati” (un parlamentino ove ci sia un eletto ogni duemila abitanti) con il compito di verificare le scelte politiche del governo stesso.

L’Assemblea si riunisce in Palazzo Ducale la prima volta il 3 luglio; Daniele Manin nel suo intervento si riallaccia alle glorie del passato:
“Cittadini deputati, nel 22 marzo, cessata in Venezia l’austriaca dominazione, il popolo proclamò la Repubblica: cinquant’anni di schiavitù non potevano avergli fatto dimenticare 14 secoli d’indipendenza gloriosa”.
Il giorno dopo si va al voto: la prima votazione, se la condizione politica della Repubblica debba decidersi subito o no, vede 130 si, e solo 3 no; la seconda sull’immediata fusione della Repubblica Veneta negli Stati Sardi colla Lombardia vede 127 si, e 6 no; la terza sulle sostituzioni e forme dei ministeri fu rinviata al giorno successivo. Manin venne eletto membro di nuovo, probabilmente sarebbe stato rieletto a presidente ma egli rispose: “Io ringrazio vivamente l’Assemblea di questo nuovo contrassegni di fiducia e di affetto, ma debbo pregarla di dispensarmi. Io non ho dissimulato che fui, sono e resto repubblicano. In uno stato monarchico io non posso esser niente, posso essere della opposizione ma non posso essere del governo…”.

A suo posto venne eletto l’avv. Jacopo Castelli che resse il governo provvisorio fino al 7 agosto quando il potere venne assunto dal tre commissari in nome del re Carlo Alberto (generale Colli, cav. Cibrario, avv. Castelli): il proclama dei quali termina con l’acclamazione “Viva San Marco, Viva Carlo Alberto, Viva L’Italia”.

La dimensione unionista filosabauda sembra avere la meglio, anche se non mancavano le attestazioni a favor di Manin e la contrarietà alla fusione
Ecco una simpatica filastrocca:
“No intendo ben sto termine/ che sento dir fusion/ me par che i se desmentega/ de metter prima un con/….Ma basta po per altro/ che i lassa star Manin/ lo zuro, no voi altro/ da vero citadin”.
La simpatia per i Savoja durò pochi giorni, comunque…
Il 23 marzo Carlo Alberto di Savoja aveva dichiarato guerra all’Austria, la cosiddetta “Prima guerra d’indipendenza”, lanciando il proclama “Ai popoli della Lombardia e del Veneto”. In un primo tempo le sorti della guerra sembrano essere favorevoli al Regno di Sardegna con la vittoria di Goito e la resa della fortezza di Peschiera. L’incertezza e l’ambiguità di Carlo Alberto fanno in questa fase il gioco degli Austriaci guidati dal feldmaresciallo Radetzky che il 25 luglio sconfiggono a Custoza i piemontesi. Le truppe sabaude iniziano la ritirata verso Milano che viene poi abbandonata praticamente senza combattere.
Da qui le violente polemiche nei confronti di Carlo Alberto.
Il 6 agosto gli austriaci rientrano a Milano e il 9 viene firmato a Vigevano l’armistizio cosiddetto di Salasco (dal nome del generale Carlo Canero di Salasco).
L’armistizio, prevede, tra l’altro, il ritiro delle truppe sabaude da Venezia; quando la cosa fu pubblica, i veneziani insorsero gridando “Abbasso il governo regio! Abbasso i commissari! Viva Manin! Viva San Marco!”.
Daniele Manin rendendosi conto della drammaticità della situazione assume per 48 ore il potere, i commissari regi vengono rimossi, per il 13 agosto viene convocata l’ “Assemblea dei Deputati” e in questo modo i tumulti cittadini vengono placati. Nelle stesse ore Nicolò Tommaseo parte per Parigi per cercare aiuti.
L’Assemblea del 13 agosto elegge un Triumvirato con Manin, Cavedalis e Graziani che resterà in carica fino al termine della guerra.
Pochi giorni dopo viene lanciato un prestito di 10 milioni di lire garantito da ipoteche sul Palazzo Ducale e sulle Procuratie Nuove.
Il 6 ottobre scoppiano tumulti a Vienna e l’imperatore è costretto a fuggire a Linz; la rivoluzione viennese sarà domata l’otto novembre. Il 2 dicembre l’imperatore asburgico Ferdinando I° abdica e subentra il nipote Francesco Giuseppe: regnerà fino al 1916 e il suo regno sarà uno dei più lunghi della storia.
Nel frattempo vanno segnalate le sortite del Cavallino e di Mestre costellate da dolorose perdite.
Il 24 dicembre viene istituita una Assemblea permanente dei rappresentanti dello stato di Venezia.
L’anno si chiude con la bandiera di San Marco che sventola nella città.
Il 1849 si apre con un decreto che vieta l’uso delle maschere, viste le condizioni eccezionali nelle quali si trova la città. Il 30 si chiudono le elezioni per l’Assemblea dei Rappresentanti: hanno votato ben 32.255 elettori.
Il primo febbraio torna in Patria Nicolò Tommaseo. Viene sostituito come Ambasciatore a Parigi dallo scledense Valentino Pasini.
Il nove febbraio si riunisce per l’ultima volta l’Assemblea dei deputati, mentre il 15 viene convocata per la prima volta a Palazzo ducale, l’Assemblea dei Rappresentanti del popolo di Venezia. Due giorni più tardi la stessa assise riconferma i poteri straordinari a Manin, Graziani e Cavedalis. Il 7 marzo l’Assemblea nomina Presidente Daniele Manin con 108 voti favorevoli su 110 votanti.
Arriva intanto la notizia della ripresa delle ostilità da parte di Carlo Alberto di Savoja.
22 marzo, celebrazione del primo anniversario della Repubblica; Messa e Te Deum nella Basilica di San Marco.
Qualche giorno dopo arrivano le notizie della sconfitta dei Savoja a Novara e dell’abdicazione di Carlo Alberto: subentra Vittorio Emanuele II.
Il 2 Aprile l’Assemblea dei Rappresentanti dello Stato di Venezia in nome di Dio e del Popolo unanimemente decreta: “Venezia resisterà all’austriaco ad ogni costo. A tale scopo il Presidente Manin è investito di poteri illimitati.”.
Un voto unanime che esalta la dimensione più autentica della Repubblica: in questi mesi così esaltanti, è l’intero popolo veneziano che si mobilita per difendere la libertà della città, è una rivoluzione, una Repubblica interclassista (per usare un’espressione relativamente moderna) che lotta strenuamente e che dice con un’unica voce: resisteremo ad ogni costo.
E qui emerge la profonda differenza rispetto alle élites che diverranno protagoniste fra qualche anno del Risorgimento che nel Veneto, rispetto al 1848-49, è stata veramente ben poca cosa.
Il 25 aprile, giorno di San Marco, giorno di festa, Manin arringa il popolo cominciando il suo intervento con queste parole: “Cittadini! Chi dura vince, e noi dureremo e vinceremo. Viva San Marco!”.
Pochi giorni dopo, il 4 maggio, incomincia il bombardamento del forte Marghera; Radetzky intima la resa di Venezia, promettendo a Daniele Manin il perdono. Manin risponde inviando il decreto del 2 aprile, resisteremo a ogni costo.
Il 14 maggio la comunità ebraica si raccoglie nella sinagoga prepongo per le sorti della città; il 19 i consoli stranieri invitano i loro connazionali a lasciare la città in vista dell’inasprimento dell’assedio.
Nel frattempo va ricordato come l’iniziativa diplomatica della Repubblica portasse, in questi giorni, a un risultato concreto.
Proprio come nel Veneto, nell’Ungheria nel marzo del 1848 era scoppiata una rivoluzione anti asburgica con alla guida un capo carismatico come Lajos Kossuth; Nicolò Tommaseo durante il suo soggiorno a Parigi era riuscito a creare un notevole rapporto con i rappresentanti del popolo magiaro che si concretizzò nella convenzione di alleanza fra l’Ungheria e Venezia.
A Duino il 20 maggio 1849 fu firmata la convenzione di otto articoli che iniziava con “Nessuno dei due Stati potrà stipulare un patto o un trattato di pace qualsiasi col nemico comune senza il concorso o l’approvazione dell’altro”
Il documento ebbe una grandissima eco in città e provocò un’ondata di ottimismo e di entusiasmo: si favoleggiava di un contributo di mezzo milione di lire per la Repubblica, di un esercito di cinquantamila soldati ungheresi in marcia su Trieste.
Non fu così anche se va ricordato come la nazione ungherese fu l’unica a dare un sostegno concreto a Venezia.
Il sogno ungherese si spense il 13 agosto con la battaglia di Vilagos dove l’intervento dell’armata russa fu determinante per sconfiggere l’eroismo degli ungheresi.
Torniamo a Venezia: il 26 maggio viene abbandonato il forte di Marghera; il 31 l’Assemblea risponde al messaggio del ministro austriaco De Bruck che la base per ogni trattativa rimane l’indipendenza assoluta del Lombardo-Veneto; al diniego da parte austriaca, la trattativa si sposta sull’indipendenza della città, con un raggio di territorio che rendesse economicamente possibile tale realtà. Il ministro rispose che l’Austria aveva deciso di riconquistare Venezia e solo dopo si poteva discutere.
Il 13 giugno gli austriaci riprendono il bombardamento della città e alcune famiglie vengono evacuate da Cannaregio, la zona più esposta della città.
Il 29 il bombardamento divenne più massiccio e diverse famiglie furono costrette a rifugiarsi in piazza San Marco, a Castello e sulla riva degli Schiavoni. Fu aperto il Palazzo Ducale e perfino le scale divennero asilo di sfollati. Nonostante questo nessuno parlava di capitolazione, di arrendersi.
Con l’inizio di luglio si manifestano i primi casi di colera.
Il 12 luglio gli Austriaci sperimentano sulla città dei palloni aerostatici incendiari che non provocano fortunatamente danni.
Il 3 agosto l’esasperazione degli animi provoca un increscioso assalto alla residenza del Patriarca, accusato da un gruppo di cittadini di aver sottoscrittouna petizione con la quale si chiedeva al governo di far conoscere i motivi che potevano indurlo alla resistenza ad ogni costo, anche nella contingenza drammatica che si stava vivendo.
Il 6 agosto l’Assemblea concentrò su Manin ogni potere per l’onore e la salvezza di Venezia.
Il 15 agosto l’epidemia di colera tocca l’apice: 402 casi con 270 morti.
Il 18 Manin parla per l’ultima volta al popolo in piazza San Marco; le condizioni sono gravi, disse, ma non disperate. Per negoziare occorre calma e dignità; l’unica cosa che non si può chiedergli è la viltà: nemmeno per Venezia può arrivare a tanto.
Il 21 in città arriva la notizia che anche gli ungheresi di Kossuth hanno capitolato: Venezia è l’ultima città d’Europa a resistere agli Asburgo.
Il 22 una delegazione si reca nella terraferma mestrina, a Marocco, per trattare la resa di Venezia.
Il 24 agosto il Governo provvisorio, con la dichiarazione di Manin, chiude la propria esperienza; il governo della città viene assunto dal podestà Correr e da 14 membri.
Daniele Manin guida la lista dei 40 esiliati.
E la poesia di Arnaldo Fusinato descrive in maniera straordinariamente commovente e incisiva le giornate conclusive di quello che è, almeno per il momento, l’ultimo periodo di indipendenza del nostro popolo.
Ettore Beggiato
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