Ła Storia Veneta contà da Bepin Segato


Re: Ła Storia Veneta contà da Bepin Segato

Messaggioda Berto » mar feb 11, 2014 10:53 pm

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TRAXEA PETO
L'ultimo grande senatore romano.

Trasea Peto, nato nella terra dei veneti della prosperissima Patavium (Padova), è chi, forse, meglio e più di ogni altro esprime il fascino culturale del mito dei Veneti.

Vissuto nel I° secolo dopo C., ha raggiunto le alte cariche di console e proconsole d'Asia. È soprattutto noto come l'ultimo grande senatore di Roma.
Aristocratico, ricco, stimatissimo, con familiari forti nella saldezza dei propri principi, Trasea Peto ci viene presentato con un grande portamento che gli viene dal suo carattere nobile e austero, da uno storico antico con intenti moralistici come Tacito.

Trasea assurge a simbolo dell'ideale repubblicano (connaturale nei Veneti) con la sua inflessibile opposizione alla vocazione assolutistica della monarchia, che nel caso di Nerone (che si trova a dover contrastare) raggiunge apici di nefandezza.
Fautore della causa di un Senato, che stà sempre più per essere esautorato dalla carica imperiale, la sua azione si concretizza nel sostenere le prerogative del primo e nel porre un freno alla folle tirannide neroniana. (Annali di Tacito, in versione tradotta da: Ed. Rizzoli BUR).

Dice Tacito: «Non starei a riferire intorno a quell'insignificante decreto del Senato, col quale ai Siracusani fu concesso di superare il numero limitato dei gladiatori, se Peto Trasea non avesse parlato contro tale proposta ed avesse offerto ai suoi avversari materia di censurarne il voto.
Perché mai, se egli riteneva la repubblica fosse necessaria alla libertà del Senato, faceva opposizione su cose tanto trascurabili? ... Forse a ciò soltanto era necessario rimediare...?
...Tutte le altre faccende dell'impero, andavano forse perfettamente come se non Nerone, ma lo stesso Trasea le governasse? ...Se tutte queste cose erano trascurate,... ...,
Non era, forse, a maggior ragione il caso di ignorare le questioni trascurabili? Trasea, di rimando, agli amici che gli chiedevano la ragione del suo contegno, rispondeva che egli non era ignaro delle presenti necessità, ..., ma che egli intendeva così tributare onore ai senatori, quando faceva palese che non avrebbero certo trascurato di occuparsi dei più importanti problemi, coloro che volgevano la loro attenzione anche alle piccolissime cose».

(Quando Nerone, fatta uccidere la madre Agrippina con il pretesto di un tentativo di usurpazione, volle far approvare dal Senato i festeggiamenti per lo scampato pericolo) «... Trasea Peto, che era pur solito passare sotto silenzio o ai più con un impercettibile segno di consenso le precedenti manifestazioni di servile adulazione, questa volta usci dal Senato, creando a sé una causa di pericolo, senza offrire agli altri nemmeno il più lontano barlume di libertà». (Quando il pretore Antistio compose carmi ingiuriosi contro Nerone e li lesse pubblicamente, fu denunciato).
«(Il) console designato propose... che lo si mandasse a morte secondo l'antico costume. Mentre gli altri approvavano, Peto Trasea, ..., dichiarò che qualunque punizione un reo convinto meritasse di sopportare, questa, sotto un principe egregio, non doveva essere stabilita dal Senato, a meno che non si imponesse qualche necessità; già da un pezzo erano stati aboliti il carnefice e il capestro e le punizioni erano fissate dalle leggi, con le quali si applicavano le pene senza fama di crudeltà per i giudici, né di ignominia per i tempi. Anzi, (fosse) relegato in un'isola, dopo la confisca dei beni, quanto più a lungo Antistio ...ed avrebbe offerto grandissima testimonianza di pubblicaclemenza».
«L'atteggiamento libero e coraggioso di Trasea prevalse sul servilismo degli altri e, quando il console consenti che si votasse per divisione, tutti aderirono alla proposta di lui (cioè Trasea), eccetto pochi, ... . I consoli, pertanto, non osando modificare quanto il senato aveva deliberato, scrissero a... (Nerone), (e nonostante il risentimento di questo) ... ... né Trasea ritornò sulla sua proposta, né gli altri (senatori) sconfessarono ciò che avevano approvato... la più gran parte, perché sentiva nel numero la propria difesa; Trasea, infine, per l'abituale coraggio morale e per non macchiare il suo onore».

(Quando invece) «Venne poi processato il cretese Claudio Timarco per colpe comuni ai provinciali influenti... a tutto ciò si era però aggiunta, come principale accusa, una sola frase di lui che era suonata ingiuriosa al Senato, perché egli era andato dicendo che era in suo potere far si che i Cretesi rendessero o no grazie ai proconsoli, che governavano Creta... In questa occasione Peto Trasea, mirando solo al bene pubblico, dopo aver proposto la cacciata di Timarco da Creta, aveva aggiunto queste parole: "E provato dall'esperienza, o senatori, che le buone leggi e le pene esemplari ritenute meritorie dai buoni nascono dalle scelleratezze degli altri ... poiché la colpa viene prima della pena e l'ammenda è posteriore al peccato.
Contro la rinnovata arroganza dei provinciali, prendiamo, dunque, una deliberazione degna dell'onore e della ferma dignità di Roma, con la quale nulla sia tolto alla protezione dovuta ai provinciali, ma che allontani da noi il pensiero che un Romano, qualunque sia, possa essere giudicato da altri che non siano i suoi concittadini"».

Trasea quasi solo in Senato sostenne la dignità di quell'insigne collegio e quasi lo costrinse a far uso del suo potere.
Più di una vittima riuscì a strappare a Nerone, il quale, perciò, venne a nutrire nei suoi confronti un profondo odio, che già con la sua follia era giunto a portare a morte tante persone, circondato com'era da una moltitudine di pavidi adulatori e da un gruppetto di scellerati tra cui primeggiava il turpemente noto Tigellino.

Tacito predispone il finale dei propri «Annali» con la morte di Roma, verso gli anni sessanta del I° secolo dopo Cristo. Morte beninteso della sua grandezza, che aveva visto in ogni caso come principale artefice il Senato che al suo tramonto ha avuto l'onore di vedere tra i suoi membri Trasea Peto, che stà per morire, e con esso il Grande Senato e la stessa Roma.

Dice Tacito che, «Dopo aver compiuto l'eccidio di tanti illustri uomini, alla fine Nerone fu preso dalla bramosia di abbattere l'immagine stessa della virtù, traendo a morte Trasea Peto e Barea Sorano. Contro di questi egli nutriva da tempo ostilità, che per cause sopraggiunte era più forte contro Trasea, perché questi era uscito dal Senato quando, come ho già ricordato, fu letto il messaggio di Nerone intorno ad Agrippina (cioè la madre fatta uccidere), e perché aveva contribuito in modo insignificante ai giochi in onore della giovinezza.
Tale risentimento era tanto più aspro in quanto lo stesso Trasea in Padova, dove era nato, aveva cantato in paludamento da tragedia nelle solenni celebrazioni (cioè i giochi Cetasti) in onore del troiano Anteriore.
Anche in quel giorno nel quale il pretore Antistio fu condannato per le sue oltraggiose poesie contro Nerone, Trasea aveva fatto più miti proposte ed era riuscito a farle approvare; quando, poi, furono decretati a Poppea onori divini (la moglie di Nerone uccisa da questo, si dice, con un calcio), (Trasea) era rimasto deliberatamente assente, e non era neppure intervenuto ai funerali di lei.

Perché tutto ciò non fosse dimenticato, s'adoperava Capitone Cossuziano (che basti ricordare era il genero di Tigellino), che odiava accanitamente Trasea, non solo perché il suo animo era più che mai proclive alle scelleratezze, ma perché all'autorità di lui aveva attribuito la sua sconfitta, quando Trasea era intervenuto in aiuto dei legati dei Cilici, dai quali Capitone era stato accusato di concussione. Altre imputazioni erano da lui mosse a Trasea...» tra cui «... Non aveva mai fatto sacrifici propiziatori per la salute del principe (Nerone) o per la sua divina voce; da tre anni non aveva posto piede nella Curia (cioè in Senato)».

Trasea si era reso conto che il Senato ormai era solo una parvenza.
Roma era nelle mani di un pazzoide e dei suoi spregiudicati accoliti.
«... "Come un tempo" diceva Capitone, "Roma bramosa di discordie civili non parlava altro che di Cesare e di Catone, così fa ora, o Nerone, per te e per Trasea. Ha costui dei seguaci o piuttosto dei complici, che, se non imita-no ancora l'arroganza del suo tono, cercano di rifarne l'atteggiamento e l'aspetto, aspri e severi per rinfacciare a te (Nerone) la tua baldanzosa allegria." ... da lui solo non sono tenute in onore le tue doti artistiche; ... Con quello stesso animo con cui egli misconosce la divinità di Poppea, non si impegna con giura-mento a riconoscere gli atti del divo Augusto (Ottaviano) e del divo Giulio (Cesare).
Sdegna i culti religiosi, annulla le leggi. Per le provincie e presso gli eserciti si leggono con ansioso interesse le comunicazioni ufficiali riguardanti il popolo romano, per conoscere cosa Trasea non abbia fatto..."... ».

«Fu scelto per la condanna il momento in cui Tiridate era venuto a Roma per il conferimento del potere regio sull'Armenia,... forse perché col massacro di uomini insigni si voleva mettere in mostra la terribile potenza dell'imperatore (Nerone)... Quando, dunque, tutta Roma si era riversata ad accogliere Nerone e ad ammirare Tiridate, Trasea ricevette l'ordine di non andare incontro al principe. (Trasea) non si lasciò abbattere, ma indirizzò a Nerone uno scritto, in cui chiedeva gli fossero notificati i capi d'accusa... Nerone accolse con agitata premura il messaggio nella speranza che Trasea, in preda al terrore, vi avesse scritto parole con le quali, mentre disonorava il suo nome, esaltava la gloria del principe (Nerone). Poiché ciò non avenne, egli (Nerone) cominciò altresì a temere la presenza, l'ardimento e lo spirito di libertà di quell'uomo innocente, a tal punto che comandò subito di convocare il Senato».
«Allora Trasea volle sentire l'opinione degli intimi, se fosse il caso di difendersi o di rispondere con l'incurante disprezzo. Le opinioni furono contrastanti...»
«...Rustico Aruleno, giovane pieno d'ardore,... si offriva essendo tribuno della plebe, ad opporre il suo veto alla deliberazione del Senato. Trasea frenò i suoi entusiasmi, perché egli non compisse gesti che non avrebbero praticamente portato alcun frutto e sarebbero stati invece dannosi all'imputato, nonché pericolosissimi al (giovane) oppositore. Al termine della vita egli, Trasea, non avrebbe certo deviato dalla linea di condotta che per tanti anni aveva seguito,....».

l giorno dopo, infatti, ovunque a Roma compaiono scaglionati plotoni di soldati e all'ingresso del Senato stà di guardia un nucleo di pretoriani in toga con spade sguainate, (un vero golpe). Mentre i senatori furono presi da profonda paura gli accoliti di Nerone dissero che ciò era fatto per la salvezza dello stato: «Venisse, dunque, avanti, egli (Trasea) che era solito esercitare l'ufficio di senatore per prendere le difese dei denigratori del principe (Nerone), e dichiarasse cosa egli (Trasea) riteneva di dover correggere e mutare (dello stato) ... (Egli) che sdegnava come deserti le piazze, i teatri, i templi e che della sua "non presenza" faceva una minaccia.

Agli occhi di lui (Trasea) scomparivano le deliberazioni del Senato, le magistrature, la stessa città di Roma. Rompesse ormai e legami fra la sua vita e quella città, del cui affetto si era spogliato un tempo e la cui vista rigettava in quel momento da sé" Mentre diceva queste cose e altre simili, Marcello Eprio (associato da Nerone a Cossuziano), bieco e minaccioso com'era, s'accendeva nel volto e nello sguardo,» ai senatori s' affacciava alla mente «...l'immagine veneranda dello stesso Trasea, mentre v'erano coloro che sentivano compassione di Elvidio Prisco, che senza colpa alcuna sarebbe stato vittima del suo vincolo di parentela (era il genero di Trasea)».

Mentre Trasea «Stava ascoltando con molta attenzione Demetrio, maestro della scuola cinica, col quale andava discutendo il problema della natura dell'anima e della separazione dello spirito dal corpo,...» giunse la deliberazione del Senato dell'ovvia condanna. Scegliesse lui il genere di morte.
Trasea, allora, esortò i presenti a ritirarsi in gran fretta per non compromettersi. «Cercò, anche, di persuadere sua moglie Arria, che secondo l'esempio della madre Arria (omonima) si preparava a seguire nella morte il marito, per
ché rimanesse in vita e non privasse dell'unico sostegno la figlia loro».
Ebbe il tempo di gioire del fatto che il genero Elvidio Prisco era soltanto esiliato.

Scrive Tacito: «Ricevuta la comunicazione del decreto del Senato, fece entrare nella sua camera Elvidio e Demetrio e qui porse ad un servo le vene dell'uno e dell'altro braccio.
Come il sangue sprizzò fuori, Trasea spargendolo sul terreno, fece avvicinare il questore e "libiamo", disse, "a Giove liberatore.
Tu, o giovane, guarda e fa che gli dei tengano lontano da te l'infausto presagio. Sei, per altro, nato in tempi, nei quali è pur necessario rinvigorire lo spirito con esempi di fermo coraggio".
Dette queste parole, poiché la lentezza della morte gli recava atroci tormenti, volse gli occhi a Demetrio...».

In questo modo Tacito tronca bruscamente gli Annali .

Con il veneto Trasea muore la grandezza del Senato, perciò viene anche detto "ultimo senatore di Roma"; (beninteso l'ultimo grande).
Per Tacito, l'ultimo dei grandi autori classici, il resto non conta.
È solo mediocrità e decadenza che non deve distrarre dalla grande immagine di Trasea che vuole ci rimanga impressa nella mente come per un fermo immagine.

Elvidio Prisco, (genero di Trasea) con gli anni, continuò la sua avversione alla forma di governo monarchica; fu messo al bando da Vespasiano e alla fine condannato a morte dal Senato per aver celebrato i natali di Bruto e Cassio (cioè i due nomi della lotta per la repubblica).

Fannia, la figlia di Trasea, con l'aiuto del figlio Elvidio, (omonimo del marito e nipote di Trasea) passò le memorie del padre a un certo Senecione perché le scrivesse.
Circa trent'anni dopo, ai tempi di Domiziano, Trasea era un nome ancora temuto perché simbolo di libertà e della repubblica; perciò Fannia fu condannata alla prigionia in un'isola e il figlio Elvidio e Senecione a morte.
Gli scritti sulla vita di Trasea furono fatti ricercare dall'imperatore Domiziano per essere distrutti e bandita la pena di morte per chi gli ritenesse. Con il nuovo imperatore Nerva, a Fannia fu possibile ritornare a Roma ma poco dopo curando una parente ne contrasse la malattia della quale morì.
Fannia fu presentata, da Plinio il Giovane, alle donne come un modello da imitare e agli uomini come uno da ambire.

LA RIGIDEZZA DI COSTUMI DELLE ANTICHE DONNE VENETE

In tempi in cui i costumi sono rilassati, un po' ovunque, per immancabile corruzione dovuta al periodo di ricchezza, al contrario nella Venetia si assiste al mantenimento di una rigidezza da rendere celebrate le donne venete per questo.
Abbiamo visto Fannia, la figlia di Trasea, non è un caso.
Plinio Il Giovane nelle «Epistole» loda un'altra padovana: «Sua nonna materna è Serena Procula del municipio di Padova, tu conosci i costumi di quel luogo; pure Serrana è anche modello di quella rigidezza».
Mentre il poeta Marziale inviando i propri versi ad una patavina così si esprime: «Tu pure leggerai le licenze e gli scherzi del nostro libro, tenera fanciulla, sebbene sii patavina».
Marziale onora anche una Sabina Atesina, poetessa di Calaone, nei Colli Euganei, donandole un libro dei suoi epigrammi.
Ciò non deve far pensare a un rifiuto dei piaceri del benessere ma solo a un contenimento degli effetti più deleteri. Infatti, sempre Marziale ci ricorda non solo le bellezze naturali della regione e dell'attività dell'uomo ma anche i convitti sfarzosi: che «Nelle terre dei Veneti, sebbene i convitti siano sfarzosi, si suole principiare le cene con il ghiozzo (una specie di pesce)» (Marz. XIII 88)


LA CONTINUITÀ DELLA NAZIONE VENETA

Una certa tradizione storiografica filoveneta evidenzia relazioni amichevoli e reciprocamente vantaggiose tra Veneti e Romani perché queste portano a dedurre la continuità storica dei Veneti; al contrario, l'antivenetísmo tende ad oscurare tutto questo.
La storia dei veneti esprime sentimenti di speranza, di pazienza, di fiducia anche verso ciò che può sembrare impossibile, piuttosto che di rassegnazione.
Le trattazioni venete su quest'epoca, in gran parte, sono attente a questi problemi ideologici. Il timore della speranza veneta è un'ossessione che ha fatto fare, negli ultimi decenni, terra bruciata contro ogni dettaglio capace di suscitare il revanscismo veneto.
Gli antichi tuttavia avevano le idee chiare. Vediamo se riescono a schiarirle anche a noi.
Ricordiamo ancora Strabone, che scrive nell'ultima generazione a.C., e che dice: "( abitata) la Transpadana dai Celti e dai Veneti ... Tutta la regione abbonda di fiumi e di paludi, ma soprattutto la terra dei Veneti». In questi anni la Cittadinanza Romana è già acquisita, e la colonia di: «Aquileia è fuori dei confini dei Veneti», che sono dunque ancora un' etnia ben definita dentro determinati confini.«Al di sopra dei Veneti stanno i Carni, I cenomani, i Medoaci, ei Simbri: di costoro alcuni furono ostili ai Romani; i Cenomani e i Veneti, invece, combatterono a fianco dei Romani sia prima della campagna di Annibale, quando facevano guerra ai Boi e ai Simbri, sia dopo».
(In questi enigmatici Simbri credo potrebbero occultarsi i Cimbri più che gli Insubri, come di norma si ritiene. (Sarebbe solo una questione di pronuncia come: Fime = Sime = Cime).

Nel Veneto si è giunti a far credere che i graticolati di bonifica e ripartizione agraria che ricoprono la regione, cioè le antiche scacchiere stradali di possibile epoca romana, siano opera dei Romani di Roma perché anche questi le usavano per scopo coloniale, insinuando così non tanto l'usurpazione del territorio ma l'irrimediabile devastazione etnica veneta; mentre al riguardo della vai Padana Strabone dice: «I Romani poi, impadronitisi di quei luoghi ed avendo inviate colonie in molte parti, salvaguardano l'esistenza delle stirpi preesistenti. Ora sono tutti Romani (perché tutti i popoli della penisola hanno ormai la Cittadinanza Romana)... alcuni si dicono Umbri e Tirreni, così come avviene per i Veneti, i Liguri e gli Insubri».
Nella stessa ultima generazione prima di Cristo, Tito Livio, padovano, che scrisse i famosi Annali dalle origini di Roma (ab Urbe condita), iniziandoli con la celebre pagina del leggendario arrivo dei Veneti guidati da Antenore sulle coste dell'Alto Adriatico, manifesta con fierezza le sue origini da una terra dove «Le genti sono chiamate universalmente Venete». Padova, nei tempi liviani, celebra ancora episodi di spirito nazionale veneto: uno è il "certamen navium", combattimento navale celebrativo sulle acquedel Medoacus, in probabile memoria dell'episodio di Cleonimo, l'altro è quello relativo ai giochi "cetasti" in onore di Antenore, il mitico fondatore della città.
Con la morte di Trasea Peto siamo invece negli anni sessanta del I° secolo dopo Cristo. Abbiamo già ricordato il processo a quell' influente cretese, in occasione del quale Trasea aveva detto in Senato: «Prendiamo, dunque, una deliberazione ... che allontani da noi il pensiero che un Romano (cittadino romano), qualunque sia, possa essere giudicato da altri che non siano i suoi concittadini»; che erano, in quel tempo, i diversi popoli d'Italia, compresi gli emigrati nelle diverse regioni dell'impero (numerosi) e pochi altri benemeriti.
C'era quindi un'unione Italiana di tipo politico giuridico. Non si trattava di una nazione omogenea, bensì di un complesso di nazioni con in comune il privilegio della cittadinanza.
I Veneti d'epoca romana con cittadinanza romana, Romani perciò, sia in senso giuridico sia in senso dell' appartenenza alla civiltà, si sentono però nazione Veneta, con uno spiccato senso d'appartenenza a un gruppo con una propria storia, tradizioni e costumanze.
Tacito riferisce che Nerone nutriva nei confronti di Trasea Peto ostilità e che: «Tale risentimento era tanto più aspro in quanto lo stesso Trasea in Padova, dove era nato, aveva cantato in paludamento da tragedia nelle solenni celebrazioni in onore del troiano Anteriore». Anche in piena epoca romana i Veneti, quindi, continuano le loro antiche celebrazioni, testimoniandoci la loro continuità etnica.
Silio Italico di origine patavina o almeno imparentato con famiglie della città, nel suo poemetto, nell'esaltare un giovane eroe patavino, dei tempi ormai lontani dei primi contatti con i Romani, scrive: «Il giovane Pediano, fiero combatteva, e non inferiore alla fama della sua gente, per il sacro Timavo era gloria: il suo nome era amato sui lidi euganei. Il padre Eridano (il Po) e le genti venete, l'una dopo l'altra, e il popolo che gioisce di Aponus ... dissero che nessuno gli era pari». «E questa valenza nazionalistica, esaltante una regione veneta, culturalmente e politicamente unita, con estensione dal Po al Timavo» (L. Braccesi), l'aspetto interessante di questa testimonianza, della seconda parte del secolo d.C., più che il ricordo di episodi accaduti quasi tre secoli prima. Non un vanto cittadino-campanilistico, come nel medioevo e ancor più in epoca classica, ma un concetto nazionale tra i più nitidi e precoci della storia. Dal Po al Timavo, tutte «... le genti venete, l'una dopo l'altra... dissero che nessuno gli era pari».
E anche questo un buon esempio della continuità e del vanto nazionale dei Veneti nonostante la Romanità.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Ła Storia Veneta contà da Bepin Segato

Messaggioda Berto » dom mag 04, 2014 7:53 am

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Re: Ła Storia Veneta contà da Bepin Segato

Messaggioda Berto » gio mar 19, 2015 12:04 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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