Origini - Aquileia, Grado, Malamocco: LA CHIESA AQUILEIESE
Storia di Venezia (2012)
http://www.treccani.it/enciclopedia/ori ... di-Venezia)
Prima parte
La Chiesa aquileiese
1. Aquileia centro religioso della "Venetia"
Introduzione
Tracciare i primi quadri della società cristiana nella "Venetia" non pare possibile senza considerare l'evangelizzazione della metropoli aquileiese e l'attività missionaria irradiatasi da quel centro nell'area di sua influenza.
Dopo i contributi del Paschini, volti ad affrontare con rinnovato metodo critico l'intricata questione delle origini cristiane di Aquileia, e screditata la supposta missione di s. Marco in questo centro adriatico, restava da porre su nuove basi il dibattuto problema (1). Queste furono offerte, dopo la scoperta del musaico teodoriano nel 1909, dall'iscrizione celebrativa del vescovo Teodoro, che nel secondo decennio del secolo IV si fece promotore di un vasto complesso edilizio per fornire di aule cultuali una comunità religiosa non certo trascurabile, a giudicare dall'impianto architettonico, dalla ricchezza didattica del simbolismo nei musaici e dall'opulenza dell'ornamentazione. L'acclamazione a Teodoro suona:
Theodore feli[x / a>diuvante Deo / omnipotente et / poemnio caelitus tibi / [tra>ditum omnia / [b>aeate fecisti et / gloriose dedicas / ti (2).
Non viene attribuito a Teodoro un titolo specifico ma pure, anche se non posse-dessimo la sottoscrizione alla sinodo di Arles (314), ove si firmò col titolo che gli competeva di vescovo aquileiese (3), capiremmo con sufficiente chiarezza, dall'epigrafe, l'ufficio del personaggio in seno alla comunità ecclesiale di Aquileia, l'ufficio cioè di pastore del gregge, a cui anche il vescovo Cromazio (388-408), qualche decennio più tardi, paragonò la funzione episcopale (4).
Per lumeggiare l'ambiente e le condizioni precedenti all'impianto ufficiale e pubblico di una comunità già progredita, senza far ricorso alla discussa tradizione marciana, sono stati operati vari tentativi. Attraverso le indicazioni dei discussi cataloghi episcopali (5), si era creduto di poter stabilire con una certa approssimazione l'origine della diocesi aquileiese, unica per tutta la regione veneto-istriana, intorno alla metà del sec. III col protovescovo Ermagora (6). Ma una attenta analisi dei rapporti fra la Chiesa di Aquileia e quella di Alessandria e una rinnovata lettura dell'antico Simbolo aquileiese trasmessoci da Rufino di Concordia (morto nel 410) hanno indotto recentemente Guglielmo Biasutti ad anticipare ipoteticamente alla seconda metà del sec. II l'esistenza in Aquileia di una comunità cristiana organicamente costituita e di un "boni depositi custos" con l'autorità di mutare la formula del Credo (7).
L'origine della leggenda marciana inoltre sarebbe in relazione più che con l'attività autonomistica sviluppata dalla Chiesa aquileiese in aperto antagonismo con la Chiesa di Roma durante lo scisma tricapitolino del sec. VI, con un nucleo storico costituito da intensi rapporti fra la Chiesa di Aquileia e quella di Alessandria fin dai primordi cristiani: non pochi indizi infatti additerebbero in missionari ebreo-cristiani, ed anzi di estrazione alessandrina, i primi evangelizzatori di Aquileia. Tali proposte bisognose di ulteriori verifiche sono le uniche, al momento, che diano ragione di indizi altrimenti inspiegabili. Un termine, tuttavia, oltre il quale riesce difficile ammettere una presenza massiccia di cristiani nei quadri della società romana locale è offerto dagli avvenimenti aquileiesi del 238, in occasione della crisi massiminiana, "che diede luogo nel momento di supremo pericolo a una dimostrazione non solo di fiducioso consenso al nome romano, ma anche di unanime fedeltà alla tradizionale fede religiosa" (8): apprendiamo infatti dallo storico contemporaneo Erodiano che, quando la fedeltà dei cittadini ai comandi senatoriali contro l'usurpatore Massimino pareva vacillare, nell'ardore della battaglia, gli Aquileiesi assediati invocarono il dio nazionale Beleno e l'ebbero al loro fianco con la promessa di vittoria (9).
Non mancano i martiri, probabilmente pochi di numero, dei quali ad Aquileia erano noti i nomi e venerate le tombe. I sermoni di s. Cromazio di Aquileia, il Martirologio geronimiano, compilato in area veneto-aquileiese nella seconda metà del sec. V, e i materiali archeologici attestano appunto l'intensità del culto martiriale e la solidità dei ricordi più ancora delle tarde e incerte Passiones (10)
Aquileia e le prime correnti missionarie cristiane
Mancano dati storici sicuri sulle più remote origini della Chiesa di Aquileia, ma non dobbiamo sottovalutare il fatto che essa si trovasse al centro di un vasto territorio geografico penetrato ben presto dalla predicazione evangelica. Antiche e sicure testimonianze sulla diffusione del cristianesimo nelle regioni intorno ad Aquileia ci vengono infatti da due parti opposte.
Per la regione a Sud di Aquileia, s. Paolo (Ad Romanos, 15, 19), attesta una predicazione evangelica nell'Illirico fin da tempi apostolici e lascia intendere (II Ad Timotheum, 4, 9-10) che la prima propaganda cristiana in Dalmazia può essere fissata entro il I secolo, piuttosto verso la fine che nel periodo propriamente apostolico (11)
Per i territori a Nord di Aquileia, è s. Ireneo di Lione che ci attesta l'esistenza di Chiese organizzate in Germania per il tempo in cui scriveva l'Adversus haereses, cioè intorno al 185 (12).
La lettera di Innocenzo I (401-417) a Decenzio vescovo di Gubbio, pur di altissimo valore, nulla determina per quanto riguarda Aquileia, mentre il richiamo a seguire scrupolosamente le tradizioni romane non escludeva che Aquileia ne avesse delle proprie, come risulta ad esempio dalla formula del Credo. Tuttavia il Paschini non era alieno dal ritenere che, se la prima propaganda cristiana poteva esser giunta ad Aquileia e, più generalmente, in tutta la "Venetia et Histria" dall' Illirico e dalla Dalmazia, con cui Aquileia e le città istriane intrattenevano strette relazioni commerciali, un'altra corrente di evangelizzazione fosse venuta pure dall'Italia centrale e, per Ravenna e Affino, fosse giunta ad Aquileia (13).
Ultimamente il Biasutti ha ritenuto opportuno trasferire il problema delle origini cristiane di Aquileia dalle questioni personali (s. Marco ed Ermagora) e temporali (età apostolica o metà del sec. III) a un piano, per così dire, qualitativo, fissando piuttosto l'attenzione sulla matrice spirituale sottesa alle prime correnti missionarie qui approdate. Così, tenendo presente il carattere della predicazione di Paolo, poco conciliante verso la religione ebraica, egli ha messo in particolare risalto quel passo della citata lettera ai Romani in cui Paolo scrive di aver riempito del Vangelo di Cristo tutto il territorio di Gerusalemme e dei paesi all'intorno sino all'Illirico, attento però a evangelizzare dove Cristo non era ancora nominato per non fabbricare sopra fondamenta altrui (14). Parrebbe dunque logico arguire che, dall'Illirico in su, il "fundamentum" del Vangelo fosse già stato posto da altri, tanto più che lo stesso Paolo, nel suo slancio missionario, prevede l'itinerario Gerusalemme-Roma-Spagna (15), escludendo il passaggio in Occidente che lo avrebbe fatto passare obbligatoriamente per Aquileia. Sulla base di queste premesse, si potrebbero individuare nel cristianesimo primitivo di Aquileia alcuni residui di una corrente giudaizzante e, in qualche modo, antipaolina giunta presumibilmente fin dai tempi apostolici da Alessandria d'Egitto, con cui Aquileia aveva strettissimi scambi di ogni genere.
Una prima serie di indizi al riguardo sarebbe riconoscibile - come si è accennato - nella formula del Simbolo aquileiese, fortunatamente tramandatoci da Rufino, e particolarmente nelle tre aggiunte che lo caratterizzano rispetto a quello di altre Chiese (16). Esse sono le seguenti: gli attributi "invisibile et inpassibile" dati a Dio Padre onnipotente; il "descendit in inferna" nella missione cristologica fra la morte e la risurrezione; l'insistenza del dimostrativo nel verso "huius carnis resurrectionem". Da un'indagine analitica delle tre varianti, il Biasutti credeva di poter concludere che l'impassibilità e particolarmente l'invisibilità del Padre si inquadra in una predicazione giudeo-cristiana volta a sottolineare l'ineffabilità e la spiritualità di Dio; che il "descendit in inferna" è segno evidente di una mentalità giudeo-cristiana; infine, che la concretezza dell'"huius" nella risurrezione della carne riproduce il pensiero dei farisei e degli spiriti più illuminati del mondo ebraico al tempo di Gesù.
Un secondo ordine di indizi è stato intravisto nel culto sabbatico documentato fra i rustici friulani ("quod et rustici nostri observant") nel canone XIII del Concilio forogiuliese del 796 (17). Escluso che essi fossero permeati direttamente di giudaismo o che la consuetudine fosse penetrata nell'Aquileiese durante il sec. IV caratterizzato da ostile intransigenza per quanto potesse sapere di giudaico o di ereticale, il Biasutti supponeva che tale costume affondasse le sue radici anteriormente all'instaurazione del riposo domenicale nel sec. II e che la prima propaganda cristiana ad Aquileia fosse tale da non rifiutare la celebrazione popolare del sabato (18). Anche per questa via, dunque, resterebbe attestata nell'Aquileiese la presenza di una corrente evangelizzatrice di carattere non paolino e fortemente giudaizzante, sulla linea di quanto aveva già intravisto confusamente il Marcon (19).
Nell'intento di individuarne la provenienza, se ne sospetta la presumibile origine alessandrina in base a un passo molto discusso della lettera XII tra quelle comunemente attribuite a s. Ambrogio: si tratta dell'ultima delle quattro lettere scritte a nome del concilio di Aquileia del 381 e generalmente edite, assieme agli Atti conciliari, tra le epistole ambrosiane (20). Essa è indirizzata agli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio per ringraziarli dell'aiuto concesso nella lotta contro gli ariani e per esporre loro i nuovi motivi di apprensione suscitati dai tristi fatti dello scisma antiocheno cui si accenna.
I vescovi infatti affermano di aver appreso che ad Alessandria e ad Antiochia erano sorte rivalità e discordie "inter ipsos catholicos" e si dimostrano preoccupati di sapere a chi debbano concedere la loro "communio", richiesta con lettere canoniche da ambedue le parti contendenti. Impossibilitati a intervenire personalmente con arbitri di pace, richiedono l'intervento degli imperatori perché d'autorità indìcano un concilio ad Alessandria, dove la vertenza possa essere risolta. La preghiera rivolta dai padri conciliari agli imperatori costituiva un'ingerenza indebita nel governo interno di un'altra Chiesa: per questo, in un passo assai noto e discusso, i padri aquileiesi desiderano sottolineare di essere stati sempre rispettosi dell'"ordo" e della "dispositio" della Chiesa alessandrina; ma tuttavia sostengono, quasi scusandosi, che l'intervento degli imperatori sembra loro l'unica soluzione(21).
Il Biasutti, pur tenendo conto delle riserve e dei limiti che le critiche hanno posto alla sua interpretazione del passo, continuava a credere che rimanesse "sempre abbastanza per affermare che tra i mittenti aquileiesi e la Chiesa d'Alessandria intercorrevano un rapporto di vecchia data e una comunione ecclesiale di vincolo indissolubile". Del resto l'ardente spirito missionario delle prime comunità cristiane e i rapporti commerciali tra Alessandria e Aquileia renderebbero "contestualmente possibile l'approdo di giudeo-cristiani alessandrini nella nostra regione e, per conseguenza, una loro funzione evangelizzatrice" (22).
In definitiva il Biasutti tornava a ribadire come storicamente probabile la prospettiva di una matrice giudaico-cristiana e alessandrina per il primitivo cristianesimo aquileiese e in tale cornice riteneva di dover inserire il problema delle origini della Chiesa di Aquileia, riconsiderando le questioni personali o temporali poste dalla tradizione marciana e rigorosamente stroncate dalla critica radicale (23).
Di queste conclusioni tuttavia egli non intese servirsi per riabilitare l'apostolato di s. Marco ad Aquileia, ma per rivedere certe tesi troppo facili e sbrigative sulla tarda evangelizzazione dell'Italia settentrionale.
Viceversa Giorgio Fedalto, attento a una rilettura e a una possibile rivalutazione di tradizioni e di fonti dell'area veneta per lo più screditate, ha ultimamente tentato di riabilitare i fondamenti storici della tradizione marciana, aggiungendo nuove argomentazioni a quelle già messe in campo dal de Rubeis intorno alla metà del sec. XVIII.
Così, se gli studi del Tavano sulla presunta cattedra di s. Marco - anticipano come vedremo - il culto marciano a Grado e ad Aquileia agli inizi del sec. VII, un sermone composto a Bisanzio intorno al 380 da s. Gregorio Nazianzeno sembrerebbe non ignorare l'apostolato di Marco in una regione italiana: "Non andarono forse peregrinando gli apostoli? non furono forse stranieri nelle molte nazioni e città in cui si sparsero, perché il Vangelo giungesse dovunque? [...>. Sia pure la Giudea di Pietro.
Che ha di comune Paolo con i gentili, Luca con l'Acaia, Andrea con l'Epiro, Giovanni con Efeso, Tomaso con l'India, Marco con l'Italia?" (24). Ora, considerando che nel basso impero tale termine serviva a indicare l'Italia settentrionale, nota appunto come vicariato d'Italia, il Fedalto non ha difficoltà a concludere che non esiste altro apostolato d'Italia riferibile a Marco all'infuori di quello aquileiese, successivo a una sua prima missione egiziana (25).
La prima organizzazione gerarchica e la questione ermacoriana
Passata dunque in rassegna la letteratura critica che ha dibattuto con diversi esiti la tradizione marciana aquileiese, resta da affrontare la questione ermacoriana, per la quale esistono testimonianze di non poco peso, anche se discusse, come il Martirologio geronimiano (compilato nei secoli V-VI) e il catalogo episcopale, di cui ignoriamo peraltro le fonti.
Nel primo leggiamo sotto il 12 luglio ("TV id. Iul. "), secondo i codici fondamentali: "In Aquileia (festum) sanctorum Fortunati et Armageri". Il nome di Fortunato si trova in tutti i codici al primo posto, mentre il secondo nome si presenta anche con le varianti "Armagri" "Armigeri" e, in qualche codice derivato dai primi, esso manca del tutto. L'ultimo editore del Geronimiano, riferendosi alle memorie della Chiesa aquileiese, propone di leggere : "In Aquileia (festum) sanctorum Fortunati et Hermagorae", così da identificare questo "Hermagora" col primo nome del catalogo episcopale (26).
Sulla legittimità di questa identificazione già il Tillemont a suo tempo dubitava assai : egli infatti rilevava che, se "Armagerus" non è che una corruzione di Ermagora, il Geronimiano ci può attestare il suo martirio, ma assai più difficilmente confermare la sua condizione di protovescovo, posposto com'è al suo diacono Fortunato, ma incomparabilmente più illustre di lui secondo il racconto della Passio (27). Il Paschini non ha difficoltà ad ammettere l'episcopato di Ermagora, sebbene il Geronimiano (contrariamente al solito) non lo precisi, ma certo non può mancare di chiedersi come mai l'anonimo compilatore non gli abbia attribuito un posto di maggiore rilievo degno della sua fama, mentre, per 1'11 giugno ("M id. lun.") anche i codici più attendibili attestano la traslazione di un Fortunato vescovo e martire, ignoto a tutta l'antichità aquileiese. Sebbene il problema, probabilmente connesso con lo stato deplorevole del Geronimiano, rimanga tuttora insoluto, il Paschini, seguito in ciò dal Biasutti, tentò ultimamente di spiegarlo con la venerazione speciale che si dovette sviluppare in Aquileia per Fortunato analogamente a quanto si verificò per Lorenzo a Roma e per Vincenzo a Saragozza, dove la venerazione per i due diaconi fece passare in seconda linea quella per i loro rispettivi vescovi; e come il culto per Lorenzo e per Vincenzo si allargò a tutta la cristianità occidentale, così quello' per Fortunato si sarebbe diffuso in tutta la "Venetia".
Il Geronimiano e il catalogo episcopale dunque, per quanto avari e discussi, ci assicurerebbero - anche secondo le conclusioni del Menis - che la Chiesa aquileiese già intorno al sec. V riteneva Ermagora quale protovescovo e martire: in tali dati sarebbe quindi da riconoscersi il nucleo tradizionale rielaborato posteriormente nella Passio (28).
Ma, al di là di questo nucleo essenziale generalmente accolto, non è dato sapere chi fossero i primi banditori della rivelazione neotestamentaria ad Aquileia e nella "Venetia"; forse è da supporre che fossero quegli itineranti attestati ancora nella Didaché che, come missionari o catechisti di primo slancio e forti di un potere carismatico, precorrono talora il ministero organizzato. Sono tuttora dibattuti anche i primi nomi tramandati dai cataloghi episcopali di Aquileia, dove la serie dei presuli anteriore a Teodoro è insufficiente a colmare l'arco di tre secoli fra la pretesa origine apostolica e l'età costantiniana. Stando quindi al catalogo puro e semplice, poiché esso presenta un punto di rifèrimento in Teodoro storicamente accertato per il 314, con i suoi tre o quattro antecessori, si può giungere al massimo all'inizio del sec. III solo allora, secondo il Paschini e la cosiddetta scuola critica, sarebbe stata regolarmente stabilita la gerarchia in Aquileia a cominciare da Ermagora, finora privo di appoggi di natura archeologica e monumentale (29).
Recentemente invece non sono mancate riserve anche sul catalogo episcopale specie da parte del Biasutti che ritiene metodologicamente più corretto rigettare la pretesa di una continuità organizzativa e gerarchica fin dai tempi apostolici, come quella di fissare un perentorio inizio tra il 220 e il 250 in base a mancanza di documenti e all'asserita ma non provata tarda evangelizzazione dell'Italia settentrionale: la realtà sarebbe forse alquanto diversa e la vicenda assai più modulata con momenti di grande impegno ma anche di crisi e di fughe dovute a contrarietà e a persecuzioni, con vacanze ecclesiali anche lunghe e con successive ricostituzioni, come già il de Rubeis aveva supposto nel Settecento (30).
Ultimamente il Saxer proponeva di sospendere ogni giudizio sul catalogo aquileiese in attesa di precisare le fonti da cui è passato alla tradizione medievale; per il momento esso è da considerarsi come testimonianza delle tradizioni aquileiesi all'e-poca della trascrizione manoscritta e non come fonte per la storia del primo cristianesimo aquileiese (31). Ad ogni modo non va trascurata la notevole differenza tra i nomi del sec. IV (Teodoro, Fortunaziano, Valeriano), attestati da documenti al di sopra di ogni sospetto, e quelli di età precostantiniana (Ermagora, Ilario, Crisogono I, Crisogono II), forniti di pezze di appoggio molto tardive in mancanza di una documentazione antica. Il Saxer rileva che alcuni martiri aquileiesi del Geronimiano sono considerati vescovi nelle liste senza che si possa peraltro stabilire un rapporto di dipendenza del Martirologio dalla lista. Viceversa sarebbe questa a trarre profitto dalle informazioni del Geronimiano, che di Ermagora e Fortunato e di Ilario e Taziano non precisa alcun grado gerarchico mentre è generalmente attento nell'indicare l'appartenenza alla gerarchia di certi santi aquileiesi o dei martiri romani menzionati nello stesso giorno di Ilario e Taziano. Per quanto riguarda i nomi dei vescovi anteriori a Teodoro, il Saxer ritiene che la lista di Aquileia sia stata messa a punto dopo la metà del sec. V (in cui si situa la redazione italica del Geronimiano), se non dopo il sec. VII.
Resta ora da vedere quale considerazione meriti il racconto delle Passiones di questi personaggi o almeno l'elemento cronologico che le caratterizza. Occorre dire che fino a poco tempo fa questo genere di scritti non aveva mai seriamente interéssato gli studiosi, convinti di trovarsi di fronte a narrazioni fantasiose e leggendarie da cui si sarebbero potuti ricavare ben pochi dati storici; perciò archeologi, filologie agiografi, come il Delehaye e il Paschini, avevano condotto ogni ricerca in proposito col solito procedere ipercritico, opponendo il loro scetticismo alle notizie fornite dagli Atti dei martiri. Solo le verifiche consentite dalle recenti esplorazioni archeologiche a S. Canzian d'Isonzo e dalle felici scoperte cromaziane del Lemarié e dell'Etaix hanno provocato una inversione di tendenza, facendo nascere il sospetto che le leggende agiografiche non siano da ripudiare in blocco e che quasi sempre si coagulino intorno a nuclei essenziali di verità. Su questa linea si pone Maria Pia Billanovich, attenta alle conferme portate dalle recenti indagini alle Passiones dei santi Felice e Fortunato e dei santi Canziani. Essa pertanto non trova difficoltà a riferire all'epoca di Nerone il martirio di Ermagora e Fortunato, al principato di Numeriano (284) il martirio di Ilario e Taziano e tanto più, suppongo, alla persecuzione dioclezianea quello di Crisogono, così come i rispettivi Atti tramandano (32). In questa nuova ottica allora si farebbe più probabile l'ipotesi delle lunghe vacanze nella successione episcopale durante i primi tre secoli o della perdita di alcuni nomi della lista.
Se invece, con diverso atteggiamento mentale, preferiamo mantenere le nostre riserve sulle leggende agiografiche, salvo che non si. presenti una possibilità di verifica, dobbiamo ammettere che il primo impianto cristiano ad Aquileia sembra assicurato per epoca assai remota, più che da testimonianze esplicite e documentate, da tutta quella serie di dati e di indizi fin qui esaminati, da cui non pare possibile escludere Aquileia senza grave pregiudizio della verità storica: non si può trascurare infatti quella verosimiglianza che nasce dalla natura delle cose (come il meraviglioso espandersi del cristianesimo primitivo) e dalla realtà geografica, per cui sembra quasi assurdo che nel sec. II ci fosse una comunità gerarchicamente costituita, per esempio, a Lione e che non ci fosse ad Aquileia (33).
Pertanto, se il catalogo episcopale dovesse risultare degno di fede e senza soluzione di continuità fra un nome e l'altro, saremmo inclini a ritenere che il supposto episcopato di Ermagora intorno alla metà del sec. III segni non già il primo impianto cristiano ad Aquileia ma la forma definitiva o almeno definitivamente ortodossa assunta dall'organizzazione ecclesiastica aquileiese.
Per il momento dunque solo Aquileia, il grande e celebrato emporio adriatico della "Venetia", ci può fornire dati sicuri o indiziari per uno studio dei primordi cristiani sul territorio.
Sviluppi della cristianità nella "Venetia"
Per qualificare l'impegno religioso e culturale, l'intensità di vita spirituale, l'acuta sensibilità e la maturità estetica della prima comunità cristiana della "Venetia", appena uscita dalla grave prova della persecuzione dioclezianea, basta considerare l'architettura cristiana primitiva promossa dal vescovo Teodoro ad Aquileia, per cui più volte è stata messa in luce l'originalità, la ricchezza e la pregnanza dottrinale dei suoi musaici pavimentali (34).
Nella seconda metà del sec. IV l'eresia di Ario intervenne a sconvolgere la vita interna della cristianità anche nella "Venetia" appena uscita dal turbine delle persecuzioni. La dottrina del presbitero alessandrino, secondo cui il Figlio di Dio sarebbe stato una "creatura" del Padre e avrebbe avuto quindi una natura diversa e distinta da quella di Dio, fu condannata - come è noto - nel primo concilio ecumenico di Nicea (325), ove si definì che il Figlio di Dio è della stessa e identica ("consostanziale") natura del Padre (35). Alla morte di Costantino però (337), l'eresia riuscì ad avere il sopravvento prima in Oriente, favorita dal nuovo imperatore Costanzo, e, dopo la morte di Costante, anche in Occidente. Furono anni di crisi, durante i quali "tutto l'orbe gemette [come scriveva s. Girolamo> riconoscendosi con stupore ariano" (36). La maggior parte dei vescovi occidentali cedette alle minacce di Costanzo, come Fortunaziano di Aquileia che pur era stato eletto in opposizione all'ariano Valente di Mursa intorno al 342 e che, dopo essersi dichiarato solidale nella condanna di Ario al concilio di Sardica (343-344), aveva ospitato nella sua sede il campione della fede nicena, Atanasio di Alessandria, celebrando con lui la Pasqua del 345 in edifici non ancora solennemente consacrati (37). La morte di Costanzo (361) segnò la fine dell'arianesimo, che, privo dell'appoggio imperiale, andò lentamente decadendo.
Naufragato anche l'effimero tentativo di Giuliano (361-363) di riattivare il paganesimo, la politica religiosa dei nuovi imperatori cristiani mirava a ricostruire l'unità morale dell'impero sotto il segno di quell'ortodossia che Teodosio (379-395) avrebbe imposto come religione di stato (380).
La vita di Aquileia appare in questi anni sempre più polarizzata attorno alla Chiesa locale che, superata la crisi ariana, riprese le sue attività con pieno fervore e visse quella che può ben essere definita l'epoca d'oro dell'antico cristianesimo aquileiese. Il merito maggiore di questa fioritura spetta alle due eminenti personalità che guidarono la Chiesa di Aquileia in quel periodo, i vescovi Valeriano (368?-388) e Cromazio (388-408), uomini di vasta cultura, di ricca spiritualità e di grande energia organizzativa.
Di una scuola teologica fiorita nella seconda metà del sec. IV abbiamo sicure notizie da due tra i più grandi scrittori ecclesiastici del tempo, Rufino e Girolamo, che qui soggiornarono per un certo tempo (38).
La personalità più eminente fu senza dubbio Cromazio, animatore di quel "chorus beatorum" di cui parla con entusiasmo Girolamo. I suoi scritti, dopo il recupero insperato e clamoroso ad opera di J. Lemarié e di R. Etaix (39), illuminano la ricca e originale personalità dell'autore e la cultura dell'ambiente cristiano di Aquileia, su cui esercitò notevole influsso la letteratura cristiana d'Africa soprattutto per merito di quel Paolo di Concordia che aveva conosciuto a Roma, in gioventù, Ponzio, il vecchio segretario di s. Cipriano (40). Con sicurezza ed equilibrio, attraverso l'analisi del senso spirituale e di quello tipologico o allegorico dei testi che commenta, Cromazio ricava ed espone la sua dottrina fondata sui padri della Chiesa occidentale. Pur con intenti prevalentemente pastorali, egli sa evitare ogni moralismo tedioso e presenta ai suoi fedeli il mistero del Cristo e della Chiesa, il "caeleste mysterium" appunto, con particolare insistenza sul fondamento trinitario della fede cristiana e sul mistero delle due nature in Cristo (41). Agli uomini di questo cenacolo va riconosciuto il merito di aver portato un decisivo contributo alla soluzione della crisi ariana in Occidente, quando si pensi alla parte avuta dal vescovo Valeriano, accanto al papa nelle sinodi romane e accanto ad Ambrogio nel concilio di Aquileia del 381, per sostenere con successo la causa dell'ortodossia (42). Dal cosiddetto "Seminarium Aquileiense" uscì anche una schiera di vescovi che occuparono sedi dell'Italia settentrionale, della Rezia, del Norico e della Pannonia (43).
Il grado di cristianizzazione raggiunto dall'ambiente aquileiese trova puntuale verifica nel formulario dell'epigrafia funeraria dettato quasi sempre con semplicità e immediatezza da una coscienza religiosa ormai cristianamente orientata (44).
Sulle vicende della cultura ecclesiastica nei tempi immediatamente successivi, non abbiamo sicure memorie; ma che non siano mancati nel clero cultura e studio fino al sec. VI è attestato indirettamente dalle dispute per la controversia pelagiana e soprattutto per quella dei Tre Capitoli (45).
Quanto all'attività missionaria fra i rustici dell'agro, mancano esplicite testimonianze, anche se il simbolismo del mare e della pesca nel musaico dell'aula meridionale di Teodoro attesta in certo modo lo slancio missionario della comunità. Ciò che non si può assolutamente seguire nei particolari con sicurezza di dati storici è come avvenisse l'assimilazione di queste popolazioni al cristianesimo, su quali classi facesse breccia la prima propaganda cristiana, quali fossero i missionari, quale la prima organizzazione ecclesiastica, quali componenti storiche intervenissero nel fenomeno religioso delle conversioni, come reagisse la popolazione locale. Viceversa di questo lento, secolare processo di evangelizzazione possiamo cogliere documentariamente solo i risultati. Esso doveva servirsi della rete stradale che metteva in contatto Aquileia con i centri periferici della regione, come sembrano confermare i pochi documenti trovati di antiche presenze cristiane; Grado, come elemento dell'emporio portuale aquileiese, e S. Canzian d'Isonzo, lungo la strada che porta in Istria (la supposta via Gemina), presentano sicure testimonianze dell'immediata irradiazione cristiana dal centro già nella prima metà del sec. IV: li una piccola aula di culto pavimentata a cocciopesto sotto lo strato musivo della basilica eliana (46), qui la primitiva memoria rettangolare dei martiri Proto e Crisogono (47) sono appunto riferibili a quell'epoca. Ad ogni modo mancano tracce di fermenti cristiani nei luoghi più lontani dal centro episcopale per epoche anteriori alla seconda metà del sec. IV, quando il vescovo Fortunaziano pensò di compilare un commento ai Vangeli nel "sermo rusticus", secondo l'informazione di s. Girolamo (48). Ma solo durante l'episcopato di Valeriano e di Cromazio possiamo pensare avvenuta una sistematica penetrazione cristiana nella "Venetia". Anzi, nel quadro dell'attività pastorale di questi due vescovi aquileiesi, e soprattutto di Cromazio, dobbiamo inserire l'erezione di altre due diocesi nel territorio friulano; probabilmente quella di "Iulium Carnicum" nella parte alta (49) e, sicuramente, quella di "Iulia Concordia" in pianura (50).
Per il municipio di "Iulium Carnicum", la fonte epigrafica che attesta la morte del vescovo "Ienuarius" non è anteriore al 490 (51), ma le esplorazioni archeologiche hanno portato alla luce le fondazioni di una basilica suburbana rettangolare che, per la tipologia architettonica e per lo stile dei musaici, è stata ultimamente riferita alla prima metà del sec. V (52).
Per "Iulia Concordia", invece, sulla via Annia, oltre al complesso costituito dai singolari recinti sepolcrali e dalla tricora del sec. IV, dalla "basilica Apostolorum" della fine del secolo e dalla basilica cemeteriale sviluppatasi sulla tricora nella prima metà del sec. V (53), possediamo il discorso "in dedicatione ecclesiae" che il vescovo Cromazio pronunciò quando la Chiesa di Concordia fu eretta a sede vescovile, affermando per l'occasione: "ornata est igitur ecclesia Concordiensis et munere sanctorum et basilicae constructione et summi sacerdotis officio" (54). Per la prima cristianità di Concordia hanno grande valore storico anche le iscrizioni funerarie come quelle sui sarcofaghi di "Faustiniana clarissima femina", del "sanctus presbyter Maurentius" e, fra quelle dei militari, soprattutto le iscrizioni latine che nominano il clero e la Chiesa di Concordia, cui i dedicanti raccomandano il loro sepolcro; altre iscrizioni in greco ricordano i neofiti della Siria, che tra il IV e il V secolo probabilmente a Concordia furono "illuminati" dalla grazia del battesimo (55). E da ritenere infine che l'erezione della diocesi di Concordia abbia avviato in tutto il territorio del "municipium", posto lungo la sponda destra del Tagliamento, un processo di più intensa cristianizzazione (56).
Così, per quanto ci è dato di conoscere, non è azzardato affermare che agli inizi del sec. V le regioni orientali della "Venetia" dovevano essere in buona parte cristianizzate e che la Chiesa locale aveva già consolidato le sue strutture organizzative non solo al centro, dove si era ormai costituita la giurisdizione metropolitica della sede aquileiese, ma anche in periferia (57).
Neppure le invasioni del sec. V arrestarono il processo di cristianizzazione delle masse rurali e quindi la proliferazione di chiese plebane attestate dalle esplorazioni archeologiche in centri minori. In effetti, i "castella" che in questo periodo si andarono costituendo sulla fascia alpina e prealpina per la difesa contro le frequenti scorrerie dei barbari risultano sempre forniti di una "ecclesia" sulla sommità del colle; testimonianze sicure per il territorio friulano ci vengono dalla pieve medievale di Zuglio, che certamente insiste su fondazioni paleocristiane in relazione a un "castellum" del sec. V (lì fu appunto trovata l'epigrafe del vescovo "Ienuarius") (58), e dalle recenti esplorazioni di Invillino sull'alta valle del Tagliamento, dove intorno all'antica pieve è emerso un livello del sec. V (59). Ma, per la stessa epoca, non mancano testimonianze di modesti impianti cultuali anche nelle isole lagunari destinate a rapido incremento, come si dirà.
Quanto al territorio istriano di stretta pertinenza all'area culturale aquileiese, possiamo ragionevolmente affermare che, durante le persecuzioni precedenti l'editto di tolleranza (313), esso è già penetrato dal nuovo messaggio: ha i suoi luoghi privati di culto, quasi sicuramente documentati a Parenzo e a Pola (60), e i suoi martiri nelle figure storicamente sicure o attendibili di Giusto a Trieste (61), di Mauro a Parenzo (62) e forse di altri santi che, come Germano a Pola (63), si celebrano nelle Chiese istriane, ma che non hanno solidi documenti di sicure presenze sul territorio. Spesso si tratta di culti e di reliquie importati da altre sedi dell'arco adriatico e perfino dal Mediterraneo orientale, che hanno ricevuto onore e accresciuto la fede (64). Dalla pace di Costantino alla fine del IV secolo la costa istriana lungo la via Flavia ci appare ormai largamente cristianizzata, a giudicare dai resti monumentali pervenutici.
Per quest'epoca, la partecipazione dei vescovi Crispino di Padova e Lucillo di Verona al concilio di Sardica e di Eliodoro di Altino e di Abbondanzio di Trento a quello di Aquileia (381) attesta sicuramente l'esistenza di altre Chiese ormai consolidate nella "Venetia", dove non mancano tradizioni agiografiche di martiri locali, appoggi di natura archeologica e talvolta anche testimonianze di una produzione letteraria, come quella di Zeno di Verona (364-377), atte a documentare il grado di cristianizzazione qui allora raggiunto (65).
Forse non è il caso di prevedere - come un tempo si è fatto - una precisa azione missionaria ad opera di Roma o di Aquileia, in quanto è probabile che le Chiese siano germinate a seconda delle energie locali e delle possibilità, ma è certo che le città, allora fornite di preminenza amministrativa, hanno avuto, se non sempre l'impegno del primo insegnamento, la responsabilità della prima organizzazione (66). In questo senso allora intenderemo i rapporti delle Chiese veneto-istriane con Aquileia, confermati anche dalle affinità tipologiche degli edifici cristiani di culto, dell'arredo liturgico (67) e del fonte battesimale. L'influenza organizzativa aquileiese si faceva dunque sentire anche nei centri più lontani della "Venetia et Histria", dove erano sorte sedi episcopali giuridicamente subordinate ad Aquileia: è del 442 una lettera di Leone Magno che, per la prima volta, attesta esplicitamente l'autorità metropolitica del vescovo aquileiese verso i suoi "provinciales sacerdotes" (i vescovi suffraganei) (68).
Così proprio mentre il sistema politico dell'impero andava decomponendosi e stava per essere sommerso dalla incombente marea barbarica, anche qui "il cristianesimo ricomponeva una diversa e più profonda unità" (Menis).
Ma i tristi eventi di cui fu teatro la "Venetia" nel V e VI secolo (trasmigrazioni di popoli, caduta dell'impero, guerre gotiche, violenze e distruzioni, irreparabile rovina di Aquileia) non mancarono di far sentire il contraccolpo anche sulla vita interna della cristianità locale soprattutto quando, travagliata dalla crisi dello scisma tricapitolino (555-699), fu sorpresa dall'invasione longobarda.
2. Grado nuova metropoli della "Venetia maritima"
Insediamenti lagunari
Il panorama si oscura rapidamente dopo l'invasione attilana del 452, quando i vescovi si trovarono a dover affrontare la grave situazione sociale in cui si dibatteva la popolazione in mezzo a tante calamità e a destreggiarsi fra le sottili insidie della politica gotica e bizantina, mentre andavano così maturandosi antagonismi e fermenti autonomistici (69).
Nella primavera del 452 Aquileia, dopo accanita resistenza, cadde sotto i colpi degli Unni di Attila e subì un duro saccheggio. Se un autore contemporaneo ai fatti, s. Prospero d'Aquitania, ricorda nel suo Chronicon solo le devastazioni dei barbari nelle regioni d'Italia senza riferimenti particolari ad alcuna città - ché il suo interesse è rivolto alla storia della Chiesa e agli avvenimenti della Gallia -, viceversa la caduta di Aquileia fu considerata un fatto assai importante da Cassiodoro nel suo Chronicon del 519. Tuttavia la prima narrazione diffusa sull'espugnazione e sulla distruzione di Aquileia ci è data da Iordanes, che nel 551 pubblicò un sunto della Storia Gotica di Cassiodoro: "Attila, afferrata l'occasione datagli dalla ritirata dei Visigoti e, cosa che sempre aveva desiderato, vedendo che i suoi nemici si erano divisi, ormai sicuro mosse il suo esercito per abbattere i Romani, e al primo urto assediò la città di Aquileia, che è la metropoli delle Venezie, situata su una punta o lingua del mare Adriatico, i muri della quale ad Est lambisce il fiume Natisone, che viene dal Monte Pece. Nonostante l'assedio ivi durasse già da lungo tempo, egli non riusciva in alcun modo ad avere successo, poiché all'interno della città i fortissimi soldati romani resistevano. Il suo esercito già mormorava e desiderava andarsene, quando Attila camminando lungo le mura, mentre deliberava se dovesse togliere l'accampamento o ancora restare, vide che dei bianchi uccelli, cioè delle cicogne, le quali fanno il nido sui tetti delle case, portavano via dalla città i loro pulcini e contro il loro costume li portavano fuori per le campagne. Appena ebbe notato questo, egli che era un avvedutissimo indagatore, disse ai suoi 'Osservate gli uccelli che, avendo prescienza del futuro, abbandonano la città in procinto di perire e lasciano, nell'imminenza del pericolo, le fortezze che stanno per cadere. Non si creda un tale comporta-mento privo di significato oppure incerto: quando si conosce il futuro, la paura che sta per sopraggiungere fa cambiare le abitudini'. C'è da dire di più? L'animo dei suoi soldati di nuovo si infiamma per assediare Aquileia. Ed essi, costruite macchine e usando ogni genere di catapulte, senza più alcun ritardo, invadono la città, la saccheggiano, ne dividono la preda, la devastano così crudelmente, che quasi non hanno lasciato che di essa appaia traccia" (70).
Quasi contemporaneo a quello di Iordanes e sostanzialmente vicino alla sua narrazione è il racconto dello storico bizantino Procopio di Cesarea che, avendo soggiornato a lungo in Italia durante la guerra gotica (535-553), poté raccogliere particolari significativi sulla caduta di Aquileia e riportarli come racconto udito nella sua Storia delle Guerre (71).
I due autori concordano nella successione dei fatti (lungo e vano assedio, episodio delle cicogne, ripresa dell'assedio e caduta della città), ma il racconto di Procopio è più verosimile: egli infatti parla solo di un nido di cicogne e della repentina caduta di quel tratto di mura sul quale l'uccello nidificava; inoltre precisa che la città fu conquistata con la forza attraverso il varco apertosi fortuitamente nelle mura, ma non lascia intendere che essa fosse rasa al suolo.
È da ritenere infatti che la distruzione di Aquileia sia stata piuttosto un "sacco", com'era nello stile di una scorreria barbarica, che una distruzione totale e programmata (72).
Lo conferma indirettamente la lettera del papa Leone Magno "Regressus ad nos" del 21 marzo 458, indirizzata a Niceta, metropolita di Aquileia, la quale lascia intravedere una ripresa e una normalizzazione della vita cittadina e gli sforzi per rimediare alle conseguenze dell'invasione (73). Del resto anche nella controversia dei Tre Capitoli, sorta un secolo più tardi (553-554), la Chiesa di Aquileia si dimostrò notevolmente attiva. Lo spopolamento e l'abbandono di Aquileia come città e, quindi, il suo disfacimento e degradazione a zona rurale quale appare dai versi di s. Paolino (802), si verificò in seguito alla conquista longobarda della "Venetia" (569): allora l'antica metropoli si trovò in territorio di frontiera e periferico, cessando anche di essere residenza episcopale, mentre nello stesso tempo per cause naturali perdeva definitivamente i suoi legami con il mare a tutto vantaggio della vicina Grado, rimasta unita all'impero assieme a tutta la fascia lagunare veneta (74).
Tra le scarse fonti rimasteci per tracciare un profilo della vita sociale ed economica d'Italia durante la dominazione gota, le Variae di Cassiodoro sono senza dubbio il meglio e talora l'unica fonte d'informazione: si tratta di una silloge di 468 lettere raccolte nel 537 da un uomo che fu ministro di ben quattro sovrani goti e fautore di quella pacifica convivenza fra Romani e Goti perseguita dalla politica di Teodorico.
La nota lettera di Cassiodoro ai tribuni marittimi (537-538), che dal Trecento in poi ogni storico di Venezia utilizza, svela per la prima volta un vivo mondo lagunare quasi escluso dagli accadimenti della grande storia ma non privo di strutture sociali, economiche e politiche locali che ricevevano rilievo dalle contingenze della guerra greco-gotica (535-553). Non mancano testimonianze più antiche, come quelle di Servio, sulla società lagunare configurata nelle sue strutture di vita marinara, di traffici fluviali, di coltivazione delle isole (75), ma lo splendore della terraferma veneta aveva fatto passare in secondo piano la vita che da tempo remoto si andava intessendo su quegli insediamenti minori della laguna, che solo le congiunture storiche del V-VI secolo schiudono all'ansia dei profughi e all'attenzione degli storici. Cassiodoro descrive un mondo di isole abitate e operose, dove gli abitanti delle lagune vivevano una vita frugale e laboriosa a guisa di uccelli palustri ("hic vobis aquatilium avium more domus est") in case modeste sopra un suolo strappato alle acque, con un sistema economico elementare fondato sulla pesca e sulle saline senza alcun turbamento della concordia sociale, mentre la guerra greco-gotica scatenava attorno bramosie e appetiti: lì trovarono rifugio i profughi dei municipi romani senza dover ricominciare dal nulla ma impiantandosi in un contesto sociale che aveva già imparato a conoscere le difficoltà dell'ambiente lagunare (76).
Questi insediamenti risultano troppo ben radicati nell'ambiente per essere prodotti di una frettolosa riconversione economico-sociale dei profughi venetici a partire dal V secolo: gli studi del Carile e i recenti scavi di Torcello rovesciano le conclusioni del Cessi, che pensava a un ripopolamento lagunare nel VI secolo, supponendo una netta cesura fra le più antiche tracce di vita e la testimonianza di Cassiodoro; viceversa quelle esplorazioni confermano le ipotesi di una continuità culturale fra età romana e altomedievale a Torcello sulla linea del Filiasi e degli eruditi veneziani del secondo Settecento. Tali insediamenti sarebbero dunque frutto di una tradizione locale remota e consolidata, pronti a sviluppare una vita cittadina accogliendo gli alti gradi delle gerarchie civili, militari ed ecclesiastiche per l'ormai irreversibile esodo nelle lagune da Aquileia, da Concordia, da Altino, da Oderzo, da Padova qualche decennio dopo la testimonianza di Cassiodoro (77). Del resto è particolarmente significativa in proposito la vicenda di Grado (78), dove forse già da tempo stanziava una flotta aquileiese subentrata a quella ravennate per il territorio compreso fra il Po e il Timavo e per la costa istriana fra il Timavo e l'Arsa. E al tempo stesso è sintomatico che la raffinata lavorazione del vetro, prodotto ad Aquileia dalle sabbie quarzifere dell'Istria meridionale, si ritrovi nella Torcello dei secc. VII-VIII, dove si è scavata da poco una fornace vetraria (79).
Non è facile conoscere quali fossero le reazioni delle genti venete di fronte al rivolgimento del quadro economico e sociale provocato dalla guerra greco-gotica e all'oppressivo fiscalismo bizantino denunciato dallo stesso Procopio (uomo di fiducia di Belisario) come una delle cause che non conciliavano le simpatie italiche al regime di Giustiniano (80): forse lo scisma dei Tre Capitoli, nato come è noto da un orgoglioso e malinteso attaccamento al concilio di Calcedonia (451) e radicatosi nella coscienza dell'episcopato aquileiese con maggiore ostinazione che altrove, potrebbe essere rivelatore dei sintomi di profondo dissenso nei confronti di Bisanzio all'indomani della guerra greco-gotica, anche se non sempre il dissenso religioso coincideva col dissenso antimperiale (81).
In questo momento acquista probabilmente connotati definiti la tradizione marciana, di cui forse non saranno mancate premesse leggendarie o liturgiche: noi possiamo però solo intuirle senza conoscerle, anche perché ignoriamo l'eventuale risposta del patriarca Paolino (557-569) alla lettera di papa Pelagio I (556-561) che lo sfidava a produrre documenti autentici a sostegno delle sue affermazioni circa la vantata dignità patriarcale (82).
In tale situazione generale si inserì dal 569 l'insediamento longobardo destinato a portare radicali mutamenti nel tessuto sociale dei territori conquistati. In effetti proprio durante l'espansione longobarda in terraferma lo stato di guerra durato per oltre cent'anni indusse le gerarchie episcopali venete a trasferire definitivamente le proprie sedi in laguna, secondo il comune orientamento antilongobardo: a parte la discussa tradizione cronachistica, il primo trasferimento sicuramente attestato è quello del metropolita aquileiese nell'isola di Grado (83). Così l'umile società lagunare di pescatori, di salinari, di costruttori di navi, di marinai e mercanti veniva potenziata da questo trapianto di istituzioni civili e religiose dall'entroterra veneto, in concomitanza con gli interessi alto-adriatici dell'impero bizantino che, nel clima di restaurazione imperiale inaugurato da Eraclio (630), volle riconoscere la legittimità del patriarca gradese inviandogli, forse tramite il "magister officiorum" Stiliano, la cattedra d'avorio ritenuta di s. Marco e una cattedra-reliquiario di alabastro con una insigne reliquia della croce (84).
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