Sa' Marco en Veneto, na łexenda enventà, on falbo storego

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Messaggioda Berto » mer giu 22, 2016 8:24 am

Origini - Aquileia, Grado, Malamocco: LA CHIESA AQUILEIESE
Storia di Venezia (2012)
http://www.treccani.it/enciclopedia/ori ... di-Venezia)

Prima parte

La Chiesa aquileiese

1. Aquileia centro religioso della "Venetia"

Introduzione

Tracciare i primi quadri della società cristiana nella "Venetia" non pare possibile senza considerare l'evangelizzazione della metropoli aquileiese e l'attività missionaria irradiatasi da quel centro nell'area di sua influenza.

Dopo i contributi del Paschini, volti ad affrontare con rinnovato metodo critico l'intricata questione delle origini cristiane di Aquileia, e screditata la supposta missione di s. Marco in questo centro adriatico, restava da porre su nuove basi il dibattuto problema (1). Queste furono offerte, dopo la scoperta del musaico teodoriano nel 1909, dall'iscrizione celebrativa del vescovo Teodoro, che nel secondo decennio del secolo IV si fece promotore di un vasto complesso edilizio per fornire di aule cultuali una comunità religiosa non certo trascurabile, a giudicare dall'impianto architettonico, dalla ricchezza didattica del simbolismo nei musaici e dall'opulenza dell'ornamentazione. L'acclamazione a Teodoro suona:

Theodore feli[x / a>diuvante Deo / omnipotente et / poemnio caelitus tibi / [tra>ditum omnia / [b>aeate fecisti et / gloriose dedicas / ti (2).

Non viene attribuito a Teodoro un titolo specifico ma pure, anche se non posse-dessimo la sottoscrizione alla sinodo di Arles (314), ove si firmò col titolo che gli competeva di vescovo aquileiese (3), capiremmo con sufficiente chiarezza, dall'epigrafe, l'ufficio del personaggio in seno alla comunità ecclesiale di Aquileia, l'ufficio cioè di pastore del gregge, a cui anche il vescovo Cromazio (388-408), qualche decennio più tardi, paragonò la funzione episcopale (4).

Per lumeggiare l'ambiente e le condizioni precedenti all'impianto ufficiale e pubblico di una comunità già progredita, senza far ricorso alla discussa tradizione marciana, sono stati operati vari tentativi. Attraverso le indicazioni dei discussi cataloghi episcopali (5), si era creduto di poter stabilire con una certa approssimazione l'origine della diocesi aquileiese, unica per tutta la regione veneto-istriana, intorno alla metà del sec. III col protovescovo Ermagora (6). Ma una attenta analisi dei rapporti fra la Chiesa di Aquileia e quella di Alessandria e una rinnovata lettura dell'antico Simbolo aquileiese trasmessoci da Rufino di Concordia (morto nel 410) hanno indotto recentemente Guglielmo Biasutti ad anticipare ipoteticamente alla seconda metà del sec. II l'esistenza in Aquileia di una comunità cristiana organicamente costituita e di un "boni depositi custos" con l'autorità di mutare la formula del Credo (7).

L'origine della leggenda marciana inoltre sarebbe in relazione più che con l'attività autonomistica sviluppata dalla Chiesa aquileiese in aperto antagonismo con la Chiesa di Roma durante lo scisma tricapitolino del sec. VI, con un nucleo storico costituito da intensi rapporti fra la Chiesa di Aquileia e quella di Alessandria fin dai primordi cristiani: non pochi indizi infatti additerebbero in missionari ebreo-cristiani, ed anzi di estrazione alessandrina, i primi evangelizzatori di Aquileia. Tali proposte bisognose di ulteriori verifiche sono le uniche, al momento, che diano ragione di indizi altrimenti inspiegabili. Un termine, tuttavia, oltre il quale riesce difficile ammettere una presenza massiccia di cristiani nei quadri della società romana locale è offerto dagli avvenimenti aquileiesi del 238, in occasione della crisi massiminiana, "che diede luogo nel momento di supremo pericolo a una dimostrazione non solo di fiducioso consenso al nome romano, ma anche di unanime fedeltà alla tradizionale fede religiosa" (8): apprendiamo infatti dallo storico contemporaneo Erodiano che, quando la fedeltà dei cittadini ai comandi senatoriali contro l'usurpatore Massimino pareva vacillare, nell'ardore della battaglia, gli Aquileiesi assediati invocarono il dio nazionale Beleno e l'ebbero al loro fianco con la promessa di vittoria (9).

Non mancano i martiri, probabilmente pochi di numero, dei quali ad Aquileia erano noti i nomi e venerate le tombe. I sermoni di s. Cromazio di Aquileia, il Martirologio geronimiano, compilato in area veneto-aquileiese nella seconda metà del sec. V, e i materiali archeologici attestano appunto l'intensità del culto martiriale e la solidità dei ricordi più ancora delle tarde e incerte Passiones (10)

Aquileia e le prime correnti missionarie cristiane

Mancano dati storici sicuri sulle più remote origini della Chiesa di Aquileia, ma non dobbiamo sottovalutare il fatto che essa si trovasse al centro di un vasto territorio geografico penetrato ben presto dalla predicazione evangelica. Antiche e sicure testimonianze sulla diffusione del cristianesimo nelle regioni intorno ad Aquileia ci vengono infatti da due parti opposte.

Per la regione a Sud di Aquileia, s. Paolo (Ad Romanos, 15, 19), attesta una predicazione evangelica nell'Illirico fin da tempi apostolici e lascia intendere (II Ad Timotheum, 4, 9-10) che la prima propaganda cristiana in Dalmazia può essere fissata entro il I secolo, piuttosto verso la fine che nel periodo propriamente apostolico (11)

Per i territori a Nord di Aquileia, è s. Ireneo di Lione che ci attesta l'esistenza di Chiese organizzate in Germania per il tempo in cui scriveva l'Adversus haereses, cioè intorno al 185 (12).

La lettera di Innocenzo I (401-417) a Decenzio vescovo di Gubbio, pur di altissimo valore, nulla determina per quanto riguarda Aquileia, mentre il richiamo a seguire scrupolosamente le tradizioni romane non escludeva che Aquileia ne avesse delle proprie, come risulta ad esempio dalla formula del Credo. Tuttavia il Paschini non era alieno dal ritenere che, se la prima propaganda cristiana poteva esser giunta ad Aquileia e, più generalmente, in tutta la "Venetia et Histria" dall' Illirico e dalla Dalmazia, con cui Aquileia e le città istriane intrattenevano strette relazioni commerciali, un'altra corrente di evangelizzazione fosse venuta pure dall'Italia centrale e, per Ravenna e Affino, fosse giunta ad Aquileia (13).

Ultimamente il Biasutti ha ritenuto opportuno trasferire il problema delle origini cristiane di Aquileia dalle questioni personali (s. Marco ed Ermagora) e temporali (età apostolica o metà del sec. III) a un piano, per così dire, qualitativo, fissando piuttosto l'attenzione sulla matrice spirituale sottesa alle prime correnti missionarie qui approdate. Così, tenendo presente il carattere della predicazione di Paolo, poco conciliante verso la religione ebraica, egli ha messo in particolare risalto quel passo della citata lettera ai Romani in cui Paolo scrive di aver riempito del Vangelo di Cristo tutto il territorio di Gerusalemme e dei paesi all'intorno sino all'Illirico, attento però a evangelizzare dove Cristo non era ancora nominato per non fabbricare sopra fondamenta altrui (14). Parrebbe dunque logico arguire che, dall'Illirico in su, il "fundamentum" del Vangelo fosse già stato posto da altri, tanto più che lo stesso Paolo, nel suo slancio missionario, prevede l'itinerario Gerusalemme-Roma-Spagna (15), escludendo il passaggio in Occidente che lo avrebbe fatto passare obbligatoriamente per Aquileia. Sulla base di queste premesse, si potrebbero individuare nel cristianesimo primitivo di Aquileia alcuni residui di una corrente giudaizzante e, in qualche modo, antipaolina giunta presumibilmente fin dai tempi apostolici da Alessandria d'Egitto, con cui Aquileia aveva strettissimi scambi di ogni genere.

Una prima serie di indizi al riguardo sarebbe riconoscibile - come si è accennato - nella formula del Simbolo aquileiese, fortunatamente tramandatoci da Rufino, e particolarmente nelle tre aggiunte che lo caratterizzano rispetto a quello di altre Chiese (16). Esse sono le seguenti: gli attributi "invisibile et inpassibile" dati a Dio Padre onnipotente; il "descendit in inferna" nella missione cristologica fra la morte e la risurrezione; l'insistenza del dimostrativo nel verso "huius carnis resurrectionem". Da un'indagine analitica delle tre varianti, il Biasutti credeva di poter concludere che l'impassibilità e particolarmente l'invisibilità del Padre si inquadra in una predicazione giudeo-cristiana volta a sottolineare l'ineffabilità e la spiritualità di Dio; che il "descendit in inferna" è segno evidente di una mentalità giudeo-cristiana; infine, che la concretezza dell'"huius" nella risurrezione della carne riproduce il pensiero dei farisei e degli spiriti più illuminati del mondo ebraico al tempo di Gesù.

Un secondo ordine di indizi è stato intravisto nel culto sabbatico documentato fra i rustici friulani ("quod et rustici nostri observant") nel canone XIII del Concilio forogiuliese del 796 (17). Escluso che essi fossero permeati direttamente di giudaismo o che la consuetudine fosse penetrata nell'Aquileiese durante il sec. IV caratterizzato da ostile intransigenza per quanto potesse sapere di giudaico o di ereticale, il Biasutti supponeva che tale costume affondasse le sue radici anteriormente all'instaurazione del riposo domenicale nel sec. II e che la prima propaganda cristiana ad Aquileia fosse tale da non rifiutare la celebrazione popolare del sabato (18). Anche per questa via, dunque, resterebbe attestata nell'Aquileiese la presenza di una corrente evangelizzatrice di carattere non paolino e fortemente giudaizzante, sulla linea di quanto aveva già intravisto confusamente il Marcon (19).

Nell'intento di individuarne la provenienza, se ne sospetta la presumibile origine alessandrina in base a un passo molto discusso della lettera XII tra quelle comunemente attribuite a s. Ambrogio: si tratta dell'ultima delle quattro lettere scritte a nome del concilio di Aquileia del 381 e generalmente edite, assieme agli Atti conciliari, tra le epistole ambrosiane (20). Essa è indirizzata agli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio per ringraziarli dell'aiuto concesso nella lotta contro gli ariani e per esporre loro i nuovi motivi di apprensione suscitati dai tristi fatti dello scisma antiocheno cui si accenna.

I vescovi infatti affermano di aver appreso che ad Alessandria e ad Antiochia erano sorte rivalità e discordie "inter ipsos catholicos" e si dimostrano preoccupati di sapere a chi debbano concedere la loro "communio", richiesta con lettere canoniche da ambedue le parti contendenti. Impossibilitati a intervenire personalmente con arbitri di pace, richiedono l'intervento degli imperatori perché d'autorità indìcano un concilio ad Alessandria, dove la vertenza possa essere risolta. La preghiera rivolta dai padri conciliari agli imperatori costituiva un'ingerenza indebita nel governo interno di un'altra Chiesa: per questo, in un passo assai noto e discusso, i padri aquileiesi desiderano sottolineare di essere stati sempre rispettosi dell'"ordo" e della "dispositio" della Chiesa alessandrina; ma tuttavia sostengono, quasi scusandosi, che l'intervento degli imperatori sembra loro l'unica soluzione(21).

Il Biasutti, pur tenendo conto delle riserve e dei limiti che le critiche hanno posto alla sua interpretazione del passo, continuava a credere che rimanesse "sempre abbastanza per affermare che tra i mittenti aquileiesi e la Chiesa d'Alessandria intercorrevano un rapporto di vecchia data e una comunione ecclesiale di vincolo indissolubile". Del resto l'ardente spirito missionario delle prime comunità cristiane e i rapporti commerciali tra Alessandria e Aquileia renderebbero "contestualmente possibile l'approdo di giudeo-cristiani alessandrini nella nostra regione e, per conseguenza, una loro funzione evangelizzatrice" (22).

In definitiva il Biasutti tornava a ribadire come storicamente probabile la prospettiva di una matrice giudaico-cristiana e alessandrina per il primitivo cristianesimo aquileiese e in tale cornice riteneva di dover inserire il problema delle origini della Chiesa di Aquileia, riconsiderando le questioni personali o temporali poste dalla tradizione marciana e rigorosamente stroncate dalla critica radicale (23).

Di queste conclusioni tuttavia egli non intese servirsi per riabilitare l'apostolato di s. Marco ad Aquileia, ma per rivedere certe tesi troppo facili e sbrigative sulla tarda evangelizzazione dell'Italia settentrionale.

Viceversa Giorgio Fedalto, attento a una rilettura e a una possibile rivalutazione di tradizioni e di fonti dell'area veneta per lo più screditate, ha ultimamente tentato di riabilitare i fondamenti storici della tradizione marciana, aggiungendo nuove argomentazioni a quelle già messe in campo dal de Rubeis intorno alla metà del sec. XVIII.

Così, se gli studi del Tavano sulla presunta cattedra di s. Marco - anticipano come vedremo - il culto marciano a Grado e ad Aquileia agli inizi del sec. VII, un sermone composto a Bisanzio intorno al 380 da s. Gregorio Nazianzeno sembrerebbe non ignorare l'apostolato di Marco in una regione italiana: "Non andarono forse peregrinando gli apostoli? non furono forse stranieri nelle molte nazioni e città in cui si sparsero, perché il Vangelo giungesse dovunque? [...>. Sia pure la Giudea di Pietro.

Che ha di comune Paolo con i gentili, Luca con l'Acaia, Andrea con l'Epiro, Giovanni con Efeso, Tomaso con l'India, Marco con l'Italia?" (24). Ora, considerando che nel basso impero tale termine serviva a indicare l'Italia settentrionale, nota appunto come vicariato d'Italia, il Fedalto non ha difficoltà a concludere che non esiste altro apostolato d'Italia riferibile a Marco all'infuori di quello aquileiese, successivo a una sua prima missione egiziana (25).

La prima organizzazione gerarchica e la questione ermacoriana

Passata dunque in rassegna la letteratura critica che ha dibattuto con diversi esiti la tradizione marciana aquileiese, resta da affrontare la questione ermacoriana, per la quale esistono testimonianze di non poco peso, anche se discusse, come il Martirologio geronimiano (compilato nei secoli V-VI) e il catalogo episcopale, di cui ignoriamo peraltro le fonti.

Nel primo leggiamo sotto il 12 luglio ("TV id. Iul. "), secondo i codici fondamentali: "In Aquileia (festum) sanctorum Fortunati et Armageri". Il nome di Fortunato si trova in tutti i codici al primo posto, mentre il secondo nome si presenta anche con le varianti "Armagri" "Armigeri" e, in qualche codice derivato dai primi, esso manca del tutto. L'ultimo editore del Geronimiano, riferendosi alle memorie della Chiesa aquileiese, propone di leggere : "In Aquileia (festum) sanctorum Fortunati et Hermagorae", così da identificare questo "Hermagora" col primo nome del catalogo episcopale (26).

Sulla legittimità di questa identificazione già il Tillemont a suo tempo dubitava assai : egli infatti rilevava che, se "Armagerus" non è che una corruzione di Ermagora, il Geronimiano ci può attestare il suo martirio, ma assai più difficilmente confermare la sua condizione di protovescovo, posposto com'è al suo diacono Fortunato, ma incomparabilmente più illustre di lui secondo il racconto della Passio (27). Il Paschini non ha difficoltà ad ammettere l'episcopato di Ermagora, sebbene il Geronimiano (contrariamente al solito) non lo precisi, ma certo non può mancare di chiedersi come mai l'anonimo compilatore non gli abbia attribuito un posto di maggiore rilievo degno della sua fama, mentre, per 1'11 giugno ("M id. lun.") anche i codici più attendibili attestano la traslazione di un Fortunato vescovo e martire, ignoto a tutta l'antichità aquileiese. Sebbene il problema, probabilmente connesso con lo stato deplorevole del Geronimiano, rimanga tuttora insoluto, il Paschini, seguito in ciò dal Biasutti, tentò ultimamente di spiegarlo con la venerazione speciale che si dovette sviluppare in Aquileia per Fortunato analogamente a quanto si verificò per Lorenzo a Roma e per Vincenzo a Saragozza, dove la venerazione per i due diaconi fece passare in seconda linea quella per i loro rispettivi vescovi; e come il culto per Lorenzo e per Vincenzo si allargò a tutta la cristianità occidentale, così quello' per Fortunato si sarebbe diffuso in tutta la "Venetia".

Il Geronimiano e il catalogo episcopale dunque, per quanto avari e discussi, ci assicurerebbero - anche secondo le conclusioni del Menis - che la Chiesa aquileiese già intorno al sec. V riteneva Ermagora quale protovescovo e martire: in tali dati sarebbe quindi da riconoscersi il nucleo tradizionale rielaborato posteriormente nella Passio (28).

Ma, al di là di questo nucleo essenziale generalmente accolto, non è dato sapere chi fossero i primi banditori della rivelazione neotestamentaria ad Aquileia e nella "Venetia"; forse è da supporre che fossero quegli itineranti attestati ancora nella Didaché che, come missionari o catechisti di primo slancio e forti di un potere carismatico, precorrono talora il ministero organizzato. Sono tuttora dibattuti anche i primi nomi tramandati dai cataloghi episcopali di Aquileia, dove la serie dei presuli anteriore a Teodoro è insufficiente a colmare l'arco di tre secoli fra la pretesa origine apostolica e l'età costantiniana. Stando quindi al catalogo puro e semplice, poiché esso presenta un punto di rifèrimento in Teodoro storicamente accertato per il 314, con i suoi tre o quattro antecessori, si può giungere al massimo all'inizio del sec. III solo allora, secondo il Paschini e la cosiddetta scuola critica, sarebbe stata regolarmente stabilita la gerarchia in Aquileia a cominciare da Ermagora, finora privo di appoggi di natura archeologica e monumentale (29).

Recentemente invece non sono mancate riserve anche sul catalogo episcopale specie da parte del Biasutti che ritiene metodologicamente più corretto rigettare la pretesa di una continuità organizzativa e gerarchica fin dai tempi apostolici, come quella di fissare un perentorio inizio tra il 220 e il 250 in base a mancanza di documenti e all'asserita ma non provata tarda evangelizzazione dell'Italia settentrionale: la realtà sarebbe forse alquanto diversa e la vicenda assai più modulata con momenti di grande impegno ma anche di crisi e di fughe dovute a contrarietà e a persecuzioni, con vacanze ecclesiali anche lunghe e con successive ricostituzioni, come già il de Rubeis aveva supposto nel Settecento (30).

Ultimamente il Saxer proponeva di sospendere ogni giudizio sul catalogo aquileiese in attesa di precisare le fonti da cui è passato alla tradizione medievale; per il momento esso è da considerarsi come testimonianza delle tradizioni aquileiesi all'e-poca della trascrizione manoscritta e non come fonte per la storia del primo cristianesimo aquileiese (31). Ad ogni modo non va trascurata la notevole differenza tra i nomi del sec. IV (Teodoro, Fortunaziano, Valeriano), attestati da documenti al di sopra di ogni sospetto, e quelli di età precostantiniana (Ermagora, Ilario, Crisogono I, Crisogono II), forniti di pezze di appoggio molto tardive in mancanza di una documentazione antica. Il Saxer rileva che alcuni martiri aquileiesi del Geronimiano sono considerati vescovi nelle liste senza che si possa peraltro stabilire un rapporto di dipendenza del Martirologio dalla lista. Viceversa sarebbe questa a trarre profitto dalle informazioni del Geronimiano, che di Ermagora e Fortunato e di Ilario e Taziano non precisa alcun grado gerarchico mentre è generalmente attento nell'indicare l'appartenenza alla gerarchia di certi santi aquileiesi o dei martiri romani menzionati nello stesso giorno di Ilario e Taziano. Per quanto riguarda i nomi dei vescovi anteriori a Teodoro, il Saxer ritiene che la lista di Aquileia sia stata messa a punto dopo la metà del sec. V (in cui si situa la redazione italica del Geronimiano), se non dopo il sec. VII.

Resta ora da vedere quale considerazione meriti il racconto delle Passiones di questi personaggi o almeno l'elemento cronologico che le caratterizza. Occorre dire che fino a poco tempo fa questo genere di scritti non aveva mai seriamente interéssato gli studiosi, convinti di trovarsi di fronte a narrazioni fantasiose e leggendarie da cui si sarebbero potuti ricavare ben pochi dati storici; perciò archeologi, filologie agiografi, come il Delehaye e il Paschini, avevano condotto ogni ricerca in proposito col solito procedere ipercritico, opponendo il loro scetticismo alle notizie fornite dagli Atti dei martiri. Solo le verifiche consentite dalle recenti esplorazioni archeologiche a S. Canzian d'Isonzo e dalle felici scoperte cromaziane del Lemarié e dell'Etaix hanno provocato una inversione di tendenza, facendo nascere il sospetto che le leggende agiografiche non siano da ripudiare in blocco e che quasi sempre si coagulino intorno a nuclei essenziali di verità. Su questa linea si pone Maria Pia Billanovich, attenta alle conferme portate dalle recenti indagini alle Passiones dei santi Felice e Fortunato e dei santi Canziani. Essa pertanto non trova difficoltà a riferire all'epoca di Nerone il martirio di Ermagora e Fortunato, al principato di Numeriano (284) il martirio di Ilario e Taziano e tanto più, suppongo, alla persecuzione dioclezianea quello di Crisogono, così come i rispettivi Atti tramandano (32). In questa nuova ottica allora si farebbe più probabile l'ipotesi delle lunghe vacanze nella successione episcopale durante i primi tre secoli o della perdita di alcuni nomi della lista.

Se invece, con diverso atteggiamento mentale, preferiamo mantenere le nostre riserve sulle leggende agiografiche, salvo che non si. presenti una possibilità di verifica, dobbiamo ammettere che il primo impianto cristiano ad Aquileia sembra assicurato per epoca assai remota, più che da testimonianze esplicite e documentate, da tutta quella serie di dati e di indizi fin qui esaminati, da cui non pare possibile escludere Aquileia senza grave pregiudizio della verità storica: non si può trascurare infatti quella verosimiglianza che nasce dalla natura delle cose (come il meraviglioso espandersi del cristianesimo primitivo) e dalla realtà geografica, per cui sembra quasi assurdo che nel sec. II ci fosse una comunità gerarchicamente costituita, per esempio, a Lione e che non ci fosse ad Aquileia (33).

Pertanto, se il catalogo episcopale dovesse risultare degno di fede e senza soluzione di continuità fra un nome e l'altro, saremmo inclini a ritenere che il supposto episcopato di Ermagora intorno alla metà del sec. III segni non già il primo impianto cristiano ad Aquileia ma la forma definitiva o almeno definitivamente ortodossa assunta dall'organizzazione ecclesiastica aquileiese.

Per il momento dunque solo Aquileia, il grande e celebrato emporio adriatico della "Venetia", ci può fornire dati sicuri o indiziari per uno studio dei primordi cristiani sul territorio.

Sviluppi della cristianità nella "Venetia"

Per qualificare l'impegno religioso e culturale, l'intensità di vita spirituale, l'acuta sensibilità e la maturità estetica della prima comunità cristiana della "Venetia", appena uscita dalla grave prova della persecuzione dioclezianea, basta considerare l'architettura cristiana primitiva promossa dal vescovo Teodoro ad Aquileia, per cui più volte è stata messa in luce l'originalità, la ricchezza e la pregnanza dottrinale dei suoi musaici pavimentali (34).

Nella seconda metà del sec. IV l'eresia di Ario intervenne a sconvolgere la vita interna della cristianità anche nella "Venetia" appena uscita dal turbine delle persecuzioni. La dottrina del presbitero alessandrino, secondo cui il Figlio di Dio sarebbe stato una "creatura" del Padre e avrebbe avuto quindi una natura diversa e distinta da quella di Dio, fu condannata - come è noto - nel primo concilio ecumenico di Nicea (325), ove si definì che il Figlio di Dio è della stessa e identica ("consostanziale") natura del Padre (35). Alla morte di Costantino però (337), l'eresia riuscì ad avere il sopravvento prima in Oriente, favorita dal nuovo imperatore Costanzo, e, dopo la morte di Costante, anche in Occidente. Furono anni di crisi, durante i quali "tutto l'orbe gemette [come scriveva s. Girolamo> riconoscendosi con stupore ariano" (36). La maggior parte dei vescovi occidentali cedette alle minacce di Costanzo, come Fortunaziano di Aquileia che pur era stato eletto in opposizione all'ariano Valente di Mursa intorno al 342 e che, dopo essersi dichiarato solidale nella condanna di Ario al concilio di Sardica (343-344), aveva ospitato nella sua sede il campione della fede nicena, Atanasio di Alessandria, celebrando con lui la Pasqua del 345 in edifici non ancora solennemente consacrati (37). La morte di Costanzo (361) segnò la fine dell'arianesimo, che, privo dell'appoggio imperiale, andò lentamente decadendo.

Naufragato anche l'effimero tentativo di Giuliano (361-363) di riattivare il paganesimo, la politica religiosa dei nuovi imperatori cristiani mirava a ricostruire l'unità morale dell'impero sotto il segno di quell'ortodossia che Teodosio (379-395) avrebbe imposto come religione di stato (380).

La vita di Aquileia appare in questi anni sempre più polarizzata attorno alla Chiesa locale che, superata la crisi ariana, riprese le sue attività con pieno fervore e visse quella che può ben essere definita l'epoca d'oro dell'antico cristianesimo aquileiese. Il merito maggiore di questa fioritura spetta alle due eminenti personalità che guidarono la Chiesa di Aquileia in quel periodo, i vescovi Valeriano (368?-388) e Cromazio (388-408), uomini di vasta cultura, di ricca spiritualità e di grande energia organizzativa.

Di una scuola teologica fiorita nella seconda metà del sec. IV abbiamo sicure notizie da due tra i più grandi scrittori ecclesiastici del tempo, Rufino e Girolamo, che qui soggiornarono per un certo tempo (38).

La personalità più eminente fu senza dubbio Cromazio, animatore di quel "chorus beatorum" di cui parla con entusiasmo Girolamo. I suoi scritti, dopo il recupero insperato e clamoroso ad opera di J. Lemarié e di R. Etaix (39), illuminano la ricca e originale personalità dell'autore e la cultura dell'ambiente cristiano di Aquileia, su cui esercitò notevole influsso la letteratura cristiana d'Africa soprattutto per merito di quel Paolo di Concordia che aveva conosciuto a Roma, in gioventù, Ponzio, il vecchio segretario di s. Cipriano (40). Con sicurezza ed equilibrio, attraverso l'analisi del senso spirituale e di quello tipologico o allegorico dei testi che commenta, Cromazio ricava ed espone la sua dottrina fondata sui padri della Chiesa occidentale. Pur con intenti prevalentemente pastorali, egli sa evitare ogni moralismo tedioso e presenta ai suoi fedeli il mistero del Cristo e della Chiesa, il "caeleste mysterium" appunto, con particolare insistenza sul fondamento trinitario della fede cristiana e sul mistero delle due nature in Cristo (41). Agli uomini di questo cenacolo va riconosciuto il merito di aver portato un decisivo contributo alla soluzione della crisi ariana in Occidente, quando si pensi alla parte avuta dal vescovo Valeriano, accanto al papa nelle sinodi romane e accanto ad Ambrogio nel concilio di Aquileia del 381, per sostenere con successo la causa dell'ortodossia (42). Dal cosiddetto "Seminarium Aquileiense" uscì anche una schiera di vescovi che occuparono sedi dell'Italia settentrionale, della Rezia, del Norico e della Pannonia (43).

Il grado di cristianizzazione raggiunto dall'ambiente aquileiese trova puntuale verifica nel formulario dell'epigrafia funeraria dettato quasi sempre con semplicità e immediatezza da una coscienza religiosa ormai cristianamente orientata (44).

Sulle vicende della cultura ecclesiastica nei tempi immediatamente successivi, non abbiamo sicure memorie; ma che non siano mancati nel clero cultura e studio fino al sec. VI è attestato indirettamente dalle dispute per la controversia pelagiana e soprattutto per quella dei Tre Capitoli (45).

Quanto all'attività missionaria fra i rustici dell'agro, mancano esplicite testimonianze, anche se il simbolismo del mare e della pesca nel musaico dell'aula meridionale di Teodoro attesta in certo modo lo slancio missionario della comunità. Ciò che non si può assolutamente seguire nei particolari con sicurezza di dati storici è come avvenisse l'assimilazione di queste popolazioni al cristianesimo, su quali classi facesse breccia la prima propaganda cristiana, quali fossero i missionari, quale la prima organizzazione ecclesiastica, quali componenti storiche intervenissero nel fenomeno religioso delle conversioni, come reagisse la popolazione locale. Viceversa di questo lento, secolare processo di evangelizzazione possiamo cogliere documentariamente solo i risultati. Esso doveva servirsi della rete stradale che metteva in contatto Aquileia con i centri periferici della regione, come sembrano confermare i pochi documenti trovati di antiche presenze cristiane; Grado, come elemento dell'emporio portuale aquileiese, e S. Canzian d'Isonzo, lungo la strada che porta in Istria (la supposta via Gemina), presentano sicure testimonianze dell'immediata irradiazione cristiana dal centro già nella prima metà del sec. IV: li una piccola aula di culto pavimentata a cocciopesto sotto lo strato musivo della basilica eliana (46), qui la primitiva memoria rettangolare dei martiri Proto e Crisogono (47) sono appunto riferibili a quell'epoca. Ad ogni modo mancano tracce di fermenti cristiani nei luoghi più lontani dal centro episcopale per epoche anteriori alla seconda metà del sec. IV, quando il vescovo Fortunaziano pensò di compilare un commento ai Vangeli nel "sermo rusticus", secondo l'informazione di s. Girolamo (48). Ma solo durante l'episcopato di Valeriano e di Cromazio possiamo pensare avvenuta una sistematica penetrazione cristiana nella "Venetia". Anzi, nel quadro dell'attività pastorale di questi due vescovi aquileiesi, e soprattutto di Cromazio, dobbiamo inserire l'erezione di altre due diocesi nel territorio friulano; probabilmente quella di "Iulium Carnicum" nella parte alta (49) e, sicuramente, quella di "Iulia Concordia" in pianura (50).

Per il municipio di "Iulium Carnicum", la fonte epigrafica che attesta la morte del vescovo "Ienuarius" non è anteriore al 490 (51), ma le esplorazioni archeologiche hanno portato alla luce le fondazioni di una basilica suburbana rettangolare che, per la tipologia architettonica e per lo stile dei musaici, è stata ultimamente riferita alla prima metà del sec. V (52).

Per "Iulia Concordia", invece, sulla via Annia, oltre al complesso costituito dai singolari recinti sepolcrali e dalla tricora del sec. IV, dalla "basilica Apostolorum" della fine del secolo e dalla basilica cemeteriale sviluppatasi sulla tricora nella prima metà del sec. V (53), possediamo il discorso "in dedicatione ecclesiae" che il vescovo Cromazio pronunciò quando la Chiesa di Concordia fu eretta a sede vescovile, affermando per l'occasione: "ornata est igitur ecclesia Concordiensis et munere sanctorum et basilicae constructione et summi sacerdotis officio" (54). Per la prima cristianità di Concordia hanno grande valore storico anche le iscrizioni funerarie come quelle sui sarcofaghi di "Faustiniana clarissima femina", del "sanctus presbyter Maurentius" e, fra quelle dei militari, soprattutto le iscrizioni latine che nominano il clero e la Chiesa di Concordia, cui i dedicanti raccomandano il loro sepolcro; altre iscrizioni in greco ricordano i neofiti della Siria, che tra il IV e il V secolo probabilmente a Concordia furono "illuminati" dalla grazia del battesimo (55). E da ritenere infine che l'erezione della diocesi di Concordia abbia avviato in tutto il territorio del "municipium", posto lungo la sponda destra del Tagliamento, un processo di più intensa cristianizzazione (56).

Così, per quanto ci è dato di conoscere, non è azzardato affermare che agli inizi del sec. V le regioni orientali della "Venetia" dovevano essere in buona parte cristianizzate e che la Chiesa locale aveva già consolidato le sue strutture organizzative non solo al centro, dove si era ormai costituita la giurisdizione metropolitica della sede aquileiese, ma anche in periferia (57).

Neppure le invasioni del sec. V arrestarono il processo di cristianizzazione delle masse rurali e quindi la proliferazione di chiese plebane attestate dalle esplorazioni archeologiche in centri minori. In effetti, i "castella" che in questo periodo si andarono costituendo sulla fascia alpina e prealpina per la difesa contro le frequenti scorrerie dei barbari risultano sempre forniti di una "ecclesia" sulla sommità del colle; testimonianze sicure per il territorio friulano ci vengono dalla pieve medievale di Zuglio, che certamente insiste su fondazioni paleocristiane in relazione a un "castellum" del sec. V (lì fu appunto trovata l'epigrafe del vescovo "Ienuarius") (58), e dalle recenti esplorazioni di Invillino sull'alta valle del Tagliamento, dove intorno all'antica pieve è emerso un livello del sec. V (59). Ma, per la stessa epoca, non mancano testimonianze di modesti impianti cultuali anche nelle isole lagunari destinate a rapido incremento, come si dirà.

Quanto al territorio istriano di stretta pertinenza all'area culturale aquileiese, possiamo ragionevolmente affermare che, durante le persecuzioni precedenti l'editto di tolleranza (313), esso è già penetrato dal nuovo messaggio: ha i suoi luoghi privati di culto, quasi sicuramente documentati a Parenzo e a Pola (60), e i suoi martiri nelle figure storicamente sicure o attendibili di Giusto a Trieste (61), di Mauro a Parenzo (62) e forse di altri santi che, come Germano a Pola (63), si celebrano nelle Chiese istriane, ma che non hanno solidi documenti di sicure presenze sul territorio. Spesso si tratta di culti e di reliquie importati da altre sedi dell'arco adriatico e perfino dal Mediterraneo orientale, che hanno ricevuto onore e accresciuto la fede (64). Dalla pace di Costantino alla fine del IV secolo la costa istriana lungo la via Flavia ci appare ormai largamente cristianizzata, a giudicare dai resti monumentali pervenutici.

Per quest'epoca, la partecipazione dei vescovi Crispino di Padova e Lucillo di Verona al concilio di Sardica e di Eliodoro di Altino e di Abbondanzio di Trento a quello di Aquileia (381) attesta sicuramente l'esistenza di altre Chiese ormai consolidate nella "Venetia", dove non mancano tradizioni agiografiche di martiri locali, appoggi di natura archeologica e talvolta anche testimonianze di una produzione letteraria, come quella di Zeno di Verona (364-377), atte a documentare il grado di cristianizzazione qui allora raggiunto (65).

Forse non è il caso di prevedere - come un tempo si è fatto - una precisa azione missionaria ad opera di Roma o di Aquileia, in quanto è probabile che le Chiese siano germinate a seconda delle energie locali e delle possibilità, ma è certo che le città, allora fornite di preminenza amministrativa, hanno avuto, se non sempre l'impegno del primo insegnamento, la responsabilità della prima organizzazione (66). In questo senso allora intenderemo i rapporti delle Chiese veneto-istriane con Aquileia, confermati anche dalle affinità tipologiche degli edifici cristiani di culto, dell'arredo liturgico (67) e del fonte battesimale. L'influenza organizzativa aquileiese si faceva dunque sentire anche nei centri più lontani della "Venetia et Histria", dove erano sorte sedi episcopali giuridicamente subordinate ad Aquileia: è del 442 una lettera di Leone Magno che, per la prima volta, attesta esplicitamente l'autorità metropolitica del vescovo aquileiese verso i suoi "provinciales sacerdotes" (i vescovi suffraganei) (68).

Così proprio mentre il sistema politico dell'impero andava decomponendosi e stava per essere sommerso dalla incombente marea barbarica, anche qui "il cristianesimo ricomponeva una diversa e più profonda unità" (Menis).

Ma i tristi eventi di cui fu teatro la "Venetia" nel V e VI secolo (trasmigrazioni di popoli, caduta dell'impero, guerre gotiche, violenze e distruzioni, irreparabile rovina di Aquileia) non mancarono di far sentire il contraccolpo anche sulla vita interna della cristianità locale soprattutto quando, travagliata dalla crisi dello scisma tricapitolino (555-699), fu sorpresa dall'invasione longobarda.

2. Grado nuova metropoli della "Venetia maritima"

Insediamenti lagunari

Il panorama si oscura rapidamente dopo l'invasione attilana del 452, quando i vescovi si trovarono a dover affrontare la grave situazione sociale in cui si dibatteva la popolazione in mezzo a tante calamità e a destreggiarsi fra le sottili insidie della politica gotica e bizantina, mentre andavano così maturandosi antagonismi e fermenti autonomistici (69).

Nella primavera del 452 Aquileia, dopo accanita resistenza, cadde sotto i colpi degli Unni di Attila e subì un duro saccheggio. Se un autore contemporaneo ai fatti, s. Prospero d'Aquitania, ricorda nel suo Chronicon solo le devastazioni dei barbari nelle regioni d'Italia senza riferimenti particolari ad alcuna città - ché il suo interesse è rivolto alla storia della Chiesa e agli avvenimenti della Gallia -, viceversa la caduta di Aquileia fu considerata un fatto assai importante da Cassiodoro nel suo Chronicon del 519. Tuttavia la prima narrazione diffusa sull'espugnazione e sulla distruzione di Aquileia ci è data da Iordanes, che nel 551 pubblicò un sunto della Storia Gotica di Cassiodoro: "Attila, afferrata l'occasione datagli dalla ritirata dei Visigoti e, cosa che sempre aveva desiderato, vedendo che i suoi nemici si erano divisi, ormai sicuro mosse il suo esercito per abbattere i Romani, e al primo urto assediò la città di Aquileia, che è la metropoli delle Venezie, situata su una punta o lingua del mare Adriatico, i muri della quale ad Est lambisce il fiume Natisone, che viene dal Monte Pece. Nonostante l'assedio ivi durasse già da lungo tempo, egli non riusciva in alcun modo ad avere successo, poiché all'interno della città i fortissimi soldati romani resistevano. Il suo esercito già mormorava e desiderava andarsene, quando Attila camminando lungo le mura, mentre deliberava se dovesse togliere l'accampamento o ancora restare, vide che dei bianchi uccelli, cioè delle cicogne, le quali fanno il nido sui tetti delle case, portavano via dalla città i loro pulcini e contro il loro costume li portavano fuori per le campagne. Appena ebbe notato questo, egli che era un avvedutissimo indagatore, disse ai suoi 'Osservate gli uccelli che, avendo prescienza del futuro, abbandonano la città in procinto di perire e lasciano, nell'imminenza del pericolo, le fortezze che stanno per cadere. Non si creda un tale comporta-mento privo di significato oppure incerto: quando si conosce il futuro, la paura che sta per sopraggiungere fa cambiare le abitudini'. C'è da dire di più? L'animo dei suoi soldati di nuovo si infiamma per assediare Aquileia. Ed essi, costruite macchine e usando ogni genere di catapulte, senza più alcun ritardo, invadono la città, la saccheggiano, ne dividono la preda, la devastano così crudelmente, che quasi non hanno lasciato che di essa appaia traccia" (70).

Quasi contemporaneo a quello di Iordanes e sostanzialmente vicino alla sua narrazione è il racconto dello storico bizantino Procopio di Cesarea che, avendo soggiornato a lungo in Italia durante la guerra gotica (535-553), poté raccogliere particolari significativi sulla caduta di Aquileia e riportarli come racconto udito nella sua Storia delle Guerre (71).

I due autori concordano nella successione dei fatti (lungo e vano assedio, episodio delle cicogne, ripresa dell'assedio e caduta della città), ma il racconto di Procopio è più verosimile: egli infatti parla solo di un nido di cicogne e della repentina caduta di quel tratto di mura sul quale l'uccello nidificava; inoltre precisa che la città fu conquistata con la forza attraverso il varco apertosi fortuitamente nelle mura, ma non lascia intendere che essa fosse rasa al suolo.

È da ritenere infatti che la distruzione di Aquileia sia stata piuttosto un "sacco", com'era nello stile di una scorreria barbarica, che una distruzione totale e programmata (72).

Lo conferma indirettamente la lettera del papa Leone Magno "Regressus ad nos" del 21 marzo 458, indirizzata a Niceta, metropolita di Aquileia, la quale lascia intravedere una ripresa e una normalizzazione della vita cittadina e gli sforzi per rimediare alle conseguenze dell'invasione (73). Del resto anche nella controversia dei Tre Capitoli, sorta un secolo più tardi (553-554), la Chiesa di Aquileia si dimostrò notevolmente attiva. Lo spopolamento e l'abbandono di Aquileia come città e, quindi, il suo disfacimento e degradazione a zona rurale quale appare dai versi di s. Paolino (802), si verificò in seguito alla conquista longobarda della "Venetia" (569): allora l'antica metropoli si trovò in territorio di frontiera e periferico, cessando anche di essere residenza episcopale, mentre nello stesso tempo per cause naturali perdeva definitivamente i suoi legami con il mare a tutto vantaggio della vicina Grado, rimasta unita all'impero assieme a tutta la fascia lagunare veneta (74).

Tra le scarse fonti rimasteci per tracciare un profilo della vita sociale ed economica d'Italia durante la dominazione gota, le Variae di Cassiodoro sono senza dubbio il meglio e talora l'unica fonte d'informazione: si tratta di una silloge di 468 lettere raccolte nel 537 da un uomo che fu ministro di ben quattro sovrani goti e fautore di quella pacifica convivenza fra Romani e Goti perseguita dalla politica di Teodorico.

La nota lettera di Cassiodoro ai tribuni marittimi (537-538), che dal Trecento in poi ogni storico di Venezia utilizza, svela per la prima volta un vivo mondo lagunare quasi escluso dagli accadimenti della grande storia ma non privo di strutture sociali, economiche e politiche locali che ricevevano rilievo dalle contingenze della guerra greco-gotica (535-553). Non mancano testimonianze più antiche, come quelle di Servio, sulla società lagunare configurata nelle sue strutture di vita marinara, di traffici fluviali, di coltivazione delle isole (75), ma lo splendore della terraferma veneta aveva fatto passare in secondo piano la vita che da tempo remoto si andava intessendo su quegli insediamenti minori della laguna, che solo le congiunture storiche del V-VI secolo schiudono all'ansia dei profughi e all'attenzione degli storici. Cassiodoro descrive un mondo di isole abitate e operose, dove gli abitanti delle lagune vivevano una vita frugale e laboriosa a guisa di uccelli palustri ("hic vobis aquatilium avium more domus est") in case modeste sopra un suolo strappato alle acque, con un sistema economico elementare fondato sulla pesca e sulle saline senza alcun turbamento della concordia sociale, mentre la guerra greco-gotica scatenava attorno bramosie e appetiti: lì trovarono rifugio i profughi dei municipi romani senza dover ricominciare dal nulla ma impiantandosi in un contesto sociale che aveva già imparato a conoscere le difficoltà dell'ambiente lagunare (76).

Questi insediamenti risultano troppo ben radicati nell'ambiente per essere prodotti di una frettolosa riconversione economico-sociale dei profughi venetici a partire dal V secolo: gli studi del Carile e i recenti scavi di Torcello rovesciano le conclusioni del Cessi, che pensava a un ripopolamento lagunare nel VI secolo, supponendo una netta cesura fra le più antiche tracce di vita e la testimonianza di Cassiodoro; viceversa quelle esplorazioni confermano le ipotesi di una continuità culturale fra età romana e altomedievale a Torcello sulla linea del Filiasi e degli eruditi veneziani del secondo Settecento. Tali insediamenti sarebbero dunque frutto di una tradizione locale remota e consolidata, pronti a sviluppare una vita cittadina accogliendo gli alti gradi delle gerarchie civili, militari ed ecclesiastiche per l'ormai irreversibile esodo nelle lagune da Aquileia, da Concordia, da Altino, da Oderzo, da Padova qualche decennio dopo la testimonianza di Cassiodoro (77). Del resto è particolarmente significativa in proposito la vicenda di Grado (78), dove forse già da tempo stanziava una flotta aquileiese subentrata a quella ravennate per il territorio compreso fra il Po e il Timavo e per la costa istriana fra il Timavo e l'Arsa. E al tempo stesso è sintomatico che la raffinata lavorazione del vetro, prodotto ad Aquileia dalle sabbie quarzifere dell'Istria meridionale, si ritrovi nella Torcello dei secc. VII-VIII, dove si è scavata da poco una fornace vetraria (79).

Non è facile conoscere quali fossero le reazioni delle genti venete di fronte al rivolgimento del quadro economico e sociale provocato dalla guerra greco-gotica e all'oppressivo fiscalismo bizantino denunciato dallo stesso Procopio (uomo di fiducia di Belisario) come una delle cause che non conciliavano le simpatie italiche al regime di Giustiniano (80): forse lo scisma dei Tre Capitoli, nato come è noto da un orgoglioso e malinteso attaccamento al concilio di Calcedonia (451) e radicatosi nella coscienza dell'episcopato aquileiese con maggiore ostinazione che altrove, potrebbe essere rivelatore dei sintomi di profondo dissenso nei confronti di Bisanzio all'indomani della guerra greco-gotica, anche se non sempre il dissenso religioso coincideva col dissenso antimperiale (81).

In questo momento acquista probabilmente connotati definiti la tradizione marciana, di cui forse non saranno mancate premesse leggendarie o liturgiche: noi possiamo però solo intuirle senza conoscerle, anche perché ignoriamo l'eventuale risposta del patriarca Paolino (557-569) alla lettera di papa Pelagio I (556-561) che lo sfidava a produrre documenti autentici a sostegno delle sue affermazioni circa la vantata dignità patriarcale (82).

In tale situazione generale si inserì dal 569 l'insediamento longobardo destinato a portare radicali mutamenti nel tessuto sociale dei territori conquistati. In effetti proprio durante l'espansione longobarda in terraferma lo stato di guerra durato per oltre cent'anni indusse le gerarchie episcopali venete a trasferire definitivamente le proprie sedi in laguna, secondo il comune orientamento antilongobardo: a parte la discussa tradizione cronachistica, il primo trasferimento sicuramente attestato è quello del metropolita aquileiese nell'isola di Grado (83). Così l'umile società lagunare di pescatori, di salinari, di costruttori di navi, di marinai e mercanti veniva potenziata da questo trapianto di istituzioni civili e religiose dall'entroterra veneto, in concomitanza con gli interessi alto-adriatici dell'impero bizantino che, nel clima di restaurazione imperiale inaugurato da Eraclio (630), volle riconoscere la legittimità del patriarca gradese inviandogli, forse tramite il "magister officiorum" Stiliano, la cattedra d'avorio ritenuta di s. Marco e una cattedra-reliquiario di alabastro con una insigne reliquia della croce (84).

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Messaggioda Berto » mer giu 22, 2016 8:27 am

Origini - Aquileia, Grado, Malamocco: LA CHIESA AQUILEIESE
Storia di Venezia (2012)
http://www.treccani.it/enciclopedia/ori ... di-Venezia)

Seconda parte


Il metropolita aquileiese profugo a Grado

Quanto alle origini di Grado, vi è unanime consenso tra gli studiosi nel ritenerlo un centro sorto e stabilmente abitato già in età romana quale elemento del sistema portuale del celebre emporio di Aquileia.

Il nome stesso latino di "Gradus" equivale a scalo, come si registra nella toponomastica romana di luoghi geograficamente simili, anche se non è ancora definito dove fosse esattamente lo scalo, cioè il "gradus" di Aquileia sul mare; è certo però che non vi mancano documenti della romanità largamente attestati nel lapidario del duomo, sebbene in parte forse provenienti da Aquileia e da Altino. Del resto anche la più antica basilica cristiana di Grado - quella posta a circa un metro sotto la navata centrale del duomo e assegnata alla seconda metà del sec. IV - risulta sorta nell'area cemeteriale di una necropoli precristiana, di cui sono testimonianza i tre grandi sarcofagi con coperchi a tetto e ad acroteri scavati in quel luogo nel 186o e ora disposti lungo il vialetto di accesso al battistero (85).

Solo in seguito, fenomeni naturali e l'abbandono delle opere idrauliche causato da gravi congiunture storiche trasformarono parte del florido agro colonico di Aquileia, su cui si estendeva la centuriazione romana, nella laguna di Grado, sommergendo coltivazioni e abitati o isolandone altri come Grado stessa (86). Qui cercarono riparo dalle violenze dei barbari invasori le popolazioni dell'entroterra e solo allora Grado venne a ereditare quel ruolo civile e religioso prima mantenuto da Aquileia. Dopo le scorrerie di Alarico (401) o dopo l'incursione di Attila (452), gli Aquileiesi vi posero le basi di un complesso difensivo, elevando una cinta muraria di forma rettangolare molto allungata (m 360 x 90 circa), con quattro o cinque porte affiancate da torri, o prolungando a Nord e a Sud un centro fortificato minore forse esistente già nel sec. IV; l'antico scalo si trasformò dunque nel "castrum" di Grado, divenuto prima temporaneo rifugio, poi stabile dimora degli Aquileiesi (87). Per questo il vescovo Niceta (454-485) dovette gettare le fondamenta di una nuova, grande cattedrale, che, passate le prime, drammatiche vicende politiche, rimase incompiuta e fu portata a termine con rinnovato progetto solo ai tempi del patriarca Elia (571-586).

Si può dire che i primi momenti della progressiva ascesa di questa città siano documentati, più che dalle cronache, dai preziosi resti monumentali. Infatti sulla lunga duna sabbiosa che condizionò la forma del "castrum", nella zona della necropoli romana in seguito occupata dalla basilica di Elia, sorse già nella seconda metà del sec. IV la ricordata basilichetta cemeteriale per i primi fedeli di Grado, presto utile anche alla comunità Aquileiese in cerca di sicuro rifugio sulle dune lagunari.

L'incursione di Attila (452) sembra un evento decisivo per l'incremento della città: al vescovo Niceta, ritiratosi a Grado coi tesori della Chiesa, sono attribuiti l'impianto generale del duomo e il battistero ottagono, entrato in funzione prima che la cattedrale fosse compiuta, mentre la prima fase di S. Maria era già adibita a basilica episcopale (88). I lavori infatti dovettero andare a rilento e i muri soffrirne, se prestiamo attenzione a quanto ci informa l'epigrafe musiva di Elia: "Atria quae cernis vario formata decore [...> longa vetustatis senio fuscaverat aetas" ("La basilica che vedi ornata di varie decorazioni [...> lunghi anni avevano offuscato con l'invecchiare del tempo").

Prima della riconquista bizantina da parte di Narsete (552), Grado fu sede di un presidio goto di fede ariana, a giudicare dalla presenza nel "castrum" di un secondo battistero, di cui restano le tracce davanti alla basilica scavata in piazza della Vittoria (89).

Nel 569, sopraggiunti i Longobardi, il dramma religioso degli Aquileiesi divenne lentamente politico e nazionale: Aquileia fu immediatamente assorbita da questa prima invasione e l'esito della violenta pressione subita dall'orda impetuosa fu l'esodo della popolazione; Grado, antico "castrum et plebs" della stessa Aquileia, accoglie il primo nucleo migratore guidato dal patriarca Paolino, a cui preme mettere in salvo il tesoro della sua Chiesa e prima di tutto le reliquie dei martiri (90) così come il presbitero tergestino Geminiano, rifugiatosi a Grado al primo affacciarsi dei Longobardi sui confini d'Italia, ritorna a Trieste e vi recupera i corpi di 42 martiri di nome ignoto (91). Per il momento Grado non è che un temporaneo rifugio, ma la fuga, né improvvisata né forse totale, risulta essere la conclusione drammatica e dolorosa di un lento e progressivo spostarsi (urbanistico, economico, ecclesiastico) degli Aquileiesi dalla terraferma alle isole lagunari (92).

Che la fuga di Paolino da Aquileia a Grado abbia avuto un'intenzione di transitorietà forse si dimostra col fatto che non siamo sicuri se lo stesso patriarca morisse a Grado o ad Aquileia, mentre, del suo successore Probino, Paolo Diacono attesta che morì "apud Aquileiam" (93); del resto la presenza dei suffraganei della "Venetia" longobarda alla sinodo gradese del 579 sembra - come vedremo - assai significativa per dimostrare uno scambio reciproco di comunicazioni fra le due zone, che non sarebbe stato a lungo concesso al clero veneto-istriano per le direttive politiche dei governi bizantino e longobardo presto giunti a un grave dissidio e a una chiusura di frontiere. Passato dunque il primo momento di panico e di terrore, quando le cose ritornarono tranquille e il clero della provincia ecclesiastica aquileiese poté liberamente muoversi dal territorio di occupazione longobarda a quello rimasto sotto la sovranità bizantina, non è escluso che i patriarchi ritornassero ancora ad Aquileia.

Il disinteresse dimostrato all'inizio dai nuovi dominatori in materia di fede lascia indisturbate le reciproche relazioni dei vescovi, che si sentono intimamente uniti in un'unica giurisdizione ecclesiastica facente capo al metropolita aquileiese stabilito per il momento nel "castrum Gradense". Solo con Elia, fiero ed energico successore di Probino, si inizia per la Chiesa aquileiese una nuova fase durante la quale la questione dello scisma tricapitolino si complica di motivi politici; si viene così a creare uno stato di tensione fra l'autorità bizantina e l'episcopato aquileiese, tramonta ogni speranza di un possibile ritorno all'antica sede patriarcale, mentre Grado, che gli avvenimenti politici non consentono più di abbandonare, diviene il centro della metropoli ecclesiastica; a essa fanno capo almeno una ventina di sedi episcopali dall'Italia all'arco alpino e oltre, sia nell'area costiera e istriana, rimasta nominalmente bizantina, sia nel continente, dove ormai saldamente esercita la sua autorità il ducato longobardo del Friuli (94).

Il nuovo assetto politico non alterò dunque la precedente organizzazione ecclesiastica, tranne che per la presenza del metropolita, spostatosi nell'isola lagunare di Grado, in una posizione cioè politicamente anfibia, tra mare e terra, tra Bizantini e Longobardi, onde sottrarsi alla inospitale e cadente Aquileia ma anche per difendersi da un'eventuale offensiva degli uni e degli altri (95).

A rendere più difficile la situazione intervenne lo scisma detto dei Tre Capitoli, a cui aderì il vescovo di Aquileia Paolino (557-569) usurpando il titolo patriarcale in aperto antagonismo con la sede apostolica, ritenuta colpevole di aver ceduto alla condanna giustinianea dei Tre Capitoli (persona e scritti di Teodoro di Mopsuestia, maestro di Nestorio, e scritti di Teodoreto di Ciro e di Iba di Edessa venati di nestorianesimo) e di aver così messo in discussione il concilio di Calcedonia (451) che invece, sui Tre Capitoli, non si era in alcun modo pronunciato (96).

La divisione politica fra il territorio longobardo e la fascia costiera bizantina si accentuò dunque anche per queste cause di ordine religioso: lo scisma dei Tre Capitoli infatti ebbe come triste conseguenza la scissione della diocesi aquileiese fra il partito favorevole alla riunione con Roma, rappresentato dal vescovo Candidiano eletto a Grado nel 607, e quello assertore della fede tricapitolina, capeggiato da Giovanni eletto ad Aquileia. "Ex illo tempore [commenta amaramente Paolo Diacono> coeperunt duo esse patriarchae" (97). Da allora cioè si ebbero due patriarchi antagonisti con lo stesso titolo e si formarono due metropoli: quella di Grado, ortodossa, coi vescovadi dell'Istria e del litorale soggetti al dominio bizantino; quella di Aquileia, scismatica, coi vescovadi della "Venetia" continentale. Solo quando alla classe politica longobarda giovò avviare una politica d'intesa con Roma, cessò lo scisma anche nel territorio friulano (699) (98). Viceversa trovò riconoscimento la divisione della Chiesa aquileiese fra i due titolari, come pure la dignità patriarcale da entrambi rivendicata specie quando l'incorporazione del territorio istriano nel regno longobardo prima e nel dominio franco poi diede occasione al titolare della restaurata sede aquileiese di far valere i presunti diritti giurisdizionali sulle sedi istriane.

Grado visse allora uno degli ultimi momenti di splendore nel clima di restaurazione imperiale inaugurato da Eraclio, che - come si diceva - volle riconoscere la legittimità del patriarca gradese inviandogli nel 63o doni preziosi collegati col culto e con la tradizione marciana aquileiese ormai in fase di consolidamento.

Alla fine del regno longobardo (774), i patriarchi di Grado Giovanni (766-803) e Fortunato (803-826) sono costretti a destreggiarsi fra la politica bizantina, la nuova potenza franca e il giovane dogado veneziano, antifranco e autonomista, per ricuperare la giurisdizione sull'Istria, la regione più ricca e più importante della provincia ecclesiastica (99). Da allora la questione della legittimità del patriarcato di Grado e della sua giurisdizione metropolitica contro le pretese del patriarca di Aquileia suscita interminabili dispute, come nel concilio di Mantova (827), e non poche violenze che logorano e impoveriscono la Chiesa di Grado fino al trasferimento della residenza del patriarca a Venezia al tempo di Enrico Dandolo (1131-1186) e del titolo patriarcale alla diocesi veneziana di Castello nel 1451, di cui era vescovo s. Lorenzo Giustiniani (100). Per questo è stato scritto non senza enfatica ammirazione per la romanità di queste terre: "La storia di Grado è intrecciata con la storia di Aquileia e di Venezia; Grado brilla fra il tramonto di Aquileia e l'alba di Venezia; in quel periodo - dal VI al X secolo - vive di vita propria: prima e dopo vive di vita riflessa. Grado raccoglie l'eredità romana di Aquileia, la custodisce per alcuni secoli con amore e con fierezza, poi la trasmette a Venezia" (101).


Il patriarca Elia e il concilio scismatico di Grado (579)

Il duomo di Grado è ancora lì, sul punto più alto di quella duna sabbiosa, dove e come lo inalzò l'indomito patriarca Elia sulle rovine di un progetto precedente. La nuova cattedrale ha forme che riassumono in sé la lunga esperienza artistica delle scuole aquileiesi e anticipano partiti architettonici e decorativi della cultura medievale (102). Elia, inflessibile nell'atteggiamento scismatico verso Roma per le convinzioni di fede tricapitolina ereditate dai predecessori, consacrò la nuova cattedrale dedicandola con ogni probabilità ai protomartiri Ermagora e Fortunato, al culto dei quali era forse destinata originariamente la "trichora" annessa a oriente della navata sinistra (nei documenti posteriori regolarmente indicata come cappella di S. Marco), e a s. Eufemia martire di Calcedonia, nella cui basilica si era celebrato il IV concilio ecumenico (451) e circa cent'anni dopo papa Vigilio aveva trovato rifugio dalle violenze di Giustiniano per la questione dei Tre Capitoli. La tutela di s. Eufemia infatti è forse ricordata sul disco musivo quasi al centro della basilica, se è attendibile l'integrazione dell'epigrafe mutila proposta dal Ferrua: "Servus Ie (s)u Chr(is) ti Haelias ep(iscopu)s Aquil(eiensis) Dei gratia auxilioque fundator eccl(esiae) s(an)c(t)ae Euphemiae votum solvit" (103).

Si può dire che ogni mattone e ogni pietra ricuperata da Elia per questa basilica svelino un po' della sua lunga e travagliata storia, mentre il suo atto di fondazione si legge in quell'epigrafe latina campita sul pavimento musivo della navata centrale in cui il patriarca volle ricordata l'opera sua: "Atria quae cernis vario formata, decore, squalida sub picto caelatur marmore tellus, / longa vetustatis senio fuscaverat aetas. I Prisca en cesserunt magno novitatis honori, / praesulis Haeliae studio praestante beati. Haec sunt tecta pio semper devota timori" ("La basilica, che vedi ornata di varie decorazioni - sotto il musaico si nasconde un povero pavimento -, lunghi anni avevano offuscato con l'invecchiare del tempo. Ecco le opere primitive hanno ceduto il posto al grande fasto delle nuove per la nobile premura del beato presule Elia. Questi sono ora gli edifici sempre sacri al timor di Dio") (104).

Altri nomi si leggono sulle numerose epigrafi del pavimento che risuonano come i versi di una litania nell'assorto silenzio della basilica: sono nomi latini, orientali e barbarici di ecclesiastici, di ufficiali, di funzionari, di marinai e di artigiani raccolti attorno alla "sancta Aquileiensis ecclesia", esule a Grado (105).

Il momento in cui Elia dettava la sua epigrafe e consacrava la nuova cattedrale era uno dei più oscuri per quella ventina di Chiese locali, rappresentate quel giorno a Grado dai rispettivi vescovi, che facevano capo alla metropoli ecclesiastica di Aquileia: violenze e rapine subite ormai da decenni per mano di barbari, pagani o ariani; mancata difesa da parte di un forte potere centrale che fosse in grado di garantire sicurezza; tensione politica fra Bizantini e Longobardi, che non consentiva ai profughi di abbandonare i rifugi lagunari; rifiuto della comunione con la sede romana per la controversia dei Tre Capitoli; chiusura esclusivistica nelle proprie tradizioni patrie, difese ad oltranza con una sorta di provincialismo culturale fino a supporre, su qualche indizio non meglio controllabile, la predicazione di s. Marco ad Aquileia forse anche per legittimare la propria autocefalia (106). Allora, perduta ogni speranza di un possibile ritorno all'antica sede aquileiese, Grado divenne il centro della vasta metropoli ecclesiastica fra l'Adriatico e il Danubio.

La dedicazione della basilica fu celebrata il 3 novembre 579 e diede occasione all'episcopato aquileiese di ribadire in un concilio provinciale presieduto da Elia la propria cattolicità intesa come incondizionata adesione al Calcedonese e rifiuto del detestato Costantinopolitano II (553-554); ciò è quanto appare da una professione di fede pervenutaci con gli Atti conciliare, ritenuti una malaccorta falsificazione invero di età assai posteriore da cui soli si salvano un piccolo nucleo e l'elenco degli intervenuti conservati negli Atti del concilio mantovano dell'827 (107). Così, in un momento terribile per la situazione d'Italia, l'intrepido patriarca aquileiese approfitta delle circostanze politiche infelicissime che lo salvaguardano da ogni minaccia di Roma - assediata dai Longobardi e ancora in periodo di sede vacante prima dell'elezione di Pelagio II (26 novembre 579) - e da ogni possibile violenza dell'esarca ravennate, troppo occupato da necessità impellenti. Convoca perciò i suoi suffraganei siano essi sudditi greci o longobardi, per riaffermare, nella piena unità ecclesiastica, l'incondizionato attaccamento alla fede tricapitolina: il concilio di Grado sanzionava a quel clero, materialmente diviso fra due poteri, la sua unità spirituale - che veniva riaffermata con l'autorità di una sinodica riunione - e dimostrava apertamente la stretta intimità che legava il patriarca aquileiese ai vescovi della terraferma sottoposti ai Longobardi, lasciando intravedere da quali sentimenti antibizantini fossero tutti animati nonostante le formali proteste di devozione all'idea imperiale.

Per quanto si ricava dal nucleo originale degli Atti faticosamente isolato dal Cessi, possiamo dire che nella sinodo gradense del 579 non si fece che ribadire la fede inconcussa nel concilio di Calcedonia (451) e nei tre precedenti concili ecumenici di Efeso (431), di Costantinopoli (381) e di Nicea (325), secondo la proposta di Elia accolta con unanime consenso dai padri sinodali, nell'intento di riaffermare la propria ortodossia e la propria coerenza con le decisioni prese dal patriarca Paolino nella sinodo del 557, come reazione immediata alle decisioni del detestato Costantinopolitano II a condanna dei Tre Capitoli. I sottoscrittori rappresentano tutte le regioni che facevano capo alla Chiesa di Aquileia in un ambito assai più ampio della giurisdizione civile: la Rezia seconda, il Norico, la Pannonia, oltre all'Istria e alla Venezia, secondo la lista gradese riportata dagli Atti del concilio mantovano; furono presenti infatti, oltre al patriarca Elia, Marciano di Opitergio, Leoniano di Tiburnia, Pietro di Altino, Vindemio di Cissa, Vigulo di Padova, Giovanni di Celeia, Chiarissimo di Concordia, Patrizio di Emona, Adriano di Pola, Massenzio di Giulio Carnico, Severo di Trieste, Giovanni di Parenzo, Aronne di Agunto, Maternino di Sabiona, Flaminio di Trento, Vigilio di Scarabanzia, Lorenzo di Feltre, Marciano di Pedena (108).

La professione di fede proclamata dai padri sinodali per l'occasione, sicuramente autentica anche se forse compilata qualche anno prima (109), palesa dunque col suo silenzio circa i deliberati del Costantinopolitano II il suo carattere scismatico e servì all'assemblea per insistere sul proprio atteggiamento, esplicitamente riaffermato più tardi nella supplica all'imperatore Maurizio e nella sinodo di Marano, forse entrambe del 591(110).

Così la sinodo gradense del 579 segna l'ultimo momento di unità culturale ed ecclesiastica della regione; quelli che seguirono furono anni di lotte politiche e di insanabili divisioni ecclesiastiche, la cui eco si riflette nelle successive manipolazioni subite dagli Atti gradensi, strumentalizzati di volta in volta alle rivendicazioni del momento.

Le diocesi lagunari tra archeologia e cronachistica

Era diffusa convinzione di una storiografia ormai superata che l'origine delle diocesi lagunari fosse contemporanea alla fondazione delle città, quando i profughi della terraferma vi "condussero con sé il clero e le sacre cose e vi rizzarono chiese e vi piantarono la cattedra episcopale" (111).

Ma non pare più possibile ormai acconsentire con tale ipotesi sia per i risultati di più recenti e accreditate tendenze storiografiche circa la vita di queste regioni lagunari anteriore alla fuga dai floridi centri di terraferma (112), sia considerati gli esiti di scavo che qua e là sembrano confermare una fioritura di vita civile e spirituale anteriore all'occupazione longobarda. Così gli edifici cultuali paleocristiani da poco venuti in luce a Jesolo potrebbero essere un documento di vita cristiana nel luogo, indipendentemente dalla presenza del vescovo opitergino, che non sappiamo con certezza se abbia trovato rifugio a "Equilium" o a Eraclea dopo la caduta di "Opitergium" in mano longobarda (639), e indipendentemente dalla fondazione della sede episcopale equilense, che dalle fonti documentarie risulta piuttosto tarda.

Infatti, a parte i risultati già acquisiti dalla storiografia grazie alle recenti indagini di Torcello e a quelle meno recenti di Grado, nuove conferme sono venute in proposito dopo le esplorazioni archeologiche condotte a Jesolo dalla Soprintendenza alle Antichità delle Venezie tra il 1963 e il 1966, i cui esiti abbiamo avuto la sorte di pubblicare ultimamente: così si è potuto dimostrare, contro ogni previsione, l'esistenza di un impianto paleocristiano in questo antico centro lagunare, proporre una edizione critica delle epigrafi votive che si leggono su alcuni lacerti del musaico pavimentale, tentare una ricostruzione dei pannelli in cui si articolava l'intero tappeto musivo e avanzare una prima datazione del monumento (113). E, se è vero che l'aula paleocristiana pavimentata a musaico, per le sue dimensioni ridotte, non poteva più rispondere alle esigenze liturgiche e all'importanza commerciale e politica che Jesolo era andata lentamente acquistando specie dopo la distruzione longobarda di "Opitergium", è probabile che la fondazione sulla stessa area della nuova, grande cattedrale di S. Maria Assunta (di cui sussistono ancora i ruderi) sia da riferire al sec. IX, in cui si colloca il nome del primo vescovo noto di "Equilium", Pietro (114), o al sec. X, che segna il periodo della ricostruzione dopo la furia devastatrice degli Ungari (899).

In seguito a tali sorprendenti risultati, la Soprintendenza Archeologica per il Veneto ha ritenuto di dover effettuare sul posto una più attenta campagna di scavo guidata dal compianto dr. Michele Tombolani al fine di procedere al restauro delle strutture di fondazione della basilica paleocristiana e di eseguire alcuni saggi stratigrafici nei settori non compromessi dalle precedenti esplorazioni con l'intento di raccogliere elementi utili alla discussa datazione dell'impianto paleocristiano (115). In una prima fase delle indagini, sono state messe completamente allo scoperto le strutture superstiti di tale costruzione, costituite da tratti di fondazione dei muri perimetrali e della divisione interna e da tracce del sottofondo dei pavimenti musivi che erano stati strappati nel 1966. È così apparsa quasi integralmente, nello schema d'impianto che avevamo intravisto, una basilica "a perimetro rettangolare di m 25 x 14, divisa in tre navate, con absidi semicircolari interne, tre ingressi sulla fronte, e nartece con lesene". Un'analisi dei materiali rinvenuti dalla sezione stratigrafica praticata lungo un tratto del muro meridionale ha messo in evidenza frammenti di vasellame in terra sigillata chiara D, di anfore, di lucerne di tipo africano, di piccoli calici in vetro e di pettini "multipli" in osso, assegnabili complessivamente a un periodo compreso tra la seconda metà del V e la prima metà del VI secolo, così che si è creduto di dover "fissare intorno alla metà di tale secolo un termine 'post quem' per la datazione dei mosaici" (116), che noi invece eravamo inclini ad anticipare tra la fine del V e gli inizi del VI secolo per i caratteri stilistici e per il linguaggio epigrafico (117). Tale cronologia dovrebbe riguardare complessivamente anche una seconda fase di costruzione della basilica, in relazione a un suo ampliamento per l'aggiunta dell'area presbiteriale e absidale, a cui il pavimento musivo appare strutturalmente collegato. Ma le novità più interessanti di queste indagini in corso sono venute dalla scoperta di un edificio ancora più antico "distinto per impianto e tecniche murarie dalle successive costruzioni" e datato dal Tombolani almeno al sec. V: esso consta di un'aula rettangolare di m 12 x 8, con abside semicircolare esterna di m 6 di diametro, secondo uno schema planimetrico, semplice ed essenziale, paragonabile a quello dell'aula sottostante il duomo di S. Eufemia a Grado (118). Purtroppo non si è trovata alcuna traccia, per ora, di un impianto battesimale con cui poter collegare questi edifici di culto, mentre molto più tarda risulta un'intensa utilizzazione della zona quale area cemeteriale.

Se l'esplorazione della primitiva aula di culto verrà completata in una prossima campagna di scavo, l'elemento per ora più rilevante sotto il profilo storico e artistico è dato dai vari lacerti di musaico pavimentale trovati friabilissimi e sconnessi su un piano irregolare per il cedimento del sottofondo, dovuto anche alla caduta delle strutture murali conseguente all'abbandono della chiesa; perciò furono strappati nel maggio 1966 per un totale di m2 30, in vista di un consolidamento e di un restauro, e sono tuttora conservati in un magazzino del comune di Jesolo, dove abbiamo potuto studiarli.

Dalle epigrafi dedicatorie superstiti risultano con sicurezza solo pochi nomi di donatori: "Paulus", "Iohannes", registrato due volte, "Georgius", l'unico finora attestato nelle epigrafi cristiane dell'Alto Adriatico, e qualche altro nome supposto. Di loro e degli altri che ricordano la loro offerta alla Chiesa non sappiamo pressoché nulla perché le iscrizioni, già in sé povere di notizie, ci sono giunte assai mutile. Tuttavia, almeno in quattro casi possiamo rilevare che il donatore associa nell'offerta i propri familiari non meglio identificati; che le pedature di musaico donate variano da un minimo di 11 a un massimo di 70 piedi nella zona del presbiterio; che in sei casi ricorre l'espressione ricca di fede "de dono Dei" con la variante "de donum Dei" come l'unica formula che a Jesolo indichi l'adempimento del voto.

Null'altro conosciamo di questa antica comunità cristiana di "Equilium": essa ci ha tramandato dei nomi e delle memorie per i quali ora siamo in grado di stabilire un'attribuzione cronologica posteriore alla metà del sec. VI, anche se il repertorio decorativo del musaico, i caratteri grafici delle iscrizioni e il formulario ivi adottato sembrano improntati a modelli di età precedente.

Si può osservare infatti che siamo di fronte a un musaico pavimentale di notevole importanza, ancora fedele al lessico tardoromano e paleocristiano, abbastanza puntuale e corretto nel disegno, con chiare note di vigore decorativo ed espressivo, anche se talora l'esecuzione risulta un po' scadente e provinciale.

Ad ogni modo, pur in attesa di una pubblicazione definitiva, i risultati dell'esplorazione stratigrafica ultimamente resi noti dal Tombolani sembrano risolutivi per ogni dubbio in proposito e sembrano assegnare con sicurezza - come si diceva - l'ampliamento della seconda aula di culto col musaico pavimentale alla seconda metà del sec. VI. Tale datazione tuttavia non sposta i termini del problema e le conclusioni che ne avevamo tratto sotto il profilo storico, considerando che almeno per il sec. V, se non per la fine del IV, resta attestato in quel sito un precedente impianto cultuale bisognoso peraltro di ulteriori indagini (119).

Certo non mancano difficoltà di ordine storico per una cronologia così alta: qualora infatti si dovesse ritenere che l'inizio della vita civile di "Equilium" coincida con la distruzione longobarda di "Opitergium" per mano di Rotari prima (639) e di Grimoaldo poi (669), risulterebbe arduo accogliere una datazione del primitivo impianto paleocristiano all'inizio del sec. V. Ma se al contrario prestiamo attenzione a quel mondo lagunare di isole abitate e operose che l'epistola di Cassiodoro ai "tribuni maritimorum" attesta intorno al 537-538 e alle conclusioni che ultimamente ne ha saputo trarre al riguardo il Carile, allora anche "Equilium" può venire associata a Grado e a Torcello e configurarsi come la prova di una tradizione locale remota, pronta a incrementare il proprio ruolo civile quando accoglie gli alti gradi delle gerarchie politiche, militari ed ecclesiastiche, che, poco dopo la testimonianza di Cassiodoro, si apprestano a trasferimenti irreversibili sulla laguna.

Dopo tali premesse, allora, non è necessario collegare le strutture cultuali ultimamente scoperte a Jesolo con una sede episcopale, che resta sicuramente attestata - come si è detto - appena per il sec. IX, e neppure con la residenza precaria dell'episcopato opitergino, probabilmente trasferitosi a Eraclea (120).

A nostro parere, l'impianto paleocristiano di Jesolo, che i dati di scavo finora emersi consentono di datare per la fase più antica almeno al sec. V, si collega alla vita dell'umile mondo lagunare prima dell'incremento ricevuto dalla rovina dei centri di terraferma. Che la comunità cristiana vi abbia avuto un luogo di culto come a Grado nella basilichetta di "Petrus" anteriore al grande complesso eliano e che vi abbia dato vita a una prima organizzazione plebana, è un'ipotesi del tutto attendibile anche se bisognosa di ulteriori conferme, come quella che potrebbe venire dalla scoperta di un impianto battesimale (1121): ad ogni modo l'intitolazione mariana della basilica successiva attestata per il 1060, quando era ormai da tempo istituito l'episcopato equilense, resta un indizio non secondario, conforme agli esiti delle recenti indagini sulla più antica organizzazione plebanale in Friuli (122).

A questo proposito Giorgio Fedalto, tenuto conto dei risultati di scavo, ha ultimamente considerato la possibilità di collegarli con una notizia tramandata dal Chronicon Gradense circa la fondazione di sei nuove sedi vescovili (Torcello, Malamocco, Olivolo, Jesolo, Eracliana e Caorle) da parte del patriarca Elia in occasione della sinodo provinciale da lui radunata a Grado il 3 novembre 579 (123). In precedenza però, mancando ogni riscontro archeologico, lo stesso Fedalto aveva ritenuto frutto di composizione letteraria successiva l'istituzione di questi sei vescovadi riferita all'iniziativa di Elia: non lo avrebbero consentito infatti le scarse presenze insediative attestate per quel periodo nelle isole lagunari né le prescrizioni del concilio di Sardica (343), che proibiva di creare nuovi vescovadi "in aliquo pago vel parva urbe, cui vel unus presbyter sufficit [...> ne episcopi nomen et auctoritas vilipendatur" (124). Ma, dopo lo studio del musaico iesolano e tanto più ora dopo gli esiti delle successive esplorazioni archeologiche che attestano un sicuro impianto liturgico - anche se non necessariamente episcopale per un'epoca così alta, è opportuno rivedere col Fedalto la storia cristiana di questo litorale e le origini dei vescovadi lagunari, riesaminando in sede critica l'attendibilità storica del citato brano del Chronicon Gradense.

La migliore storiografia - come si sa - non ha dato finora troppa rilevanza critica ai testi della cronachistica delle origini, relegandola nel genere letterario della leggenda piuttosto che discuterne eventuali errori e anacronismi. Ora invece è proprio l'archeologia a riproporre un esame della cronachistica e a presentarsi come un settore di promettente indagine, grazie alla possibilità di uno studio comparato fra dati di scavo e tradizione letteraria. Anzi, secondo l'intervento del Fedalto successivo alle esplorazioni di Jesolo, perfino i criteri di lettura interna agli stessi testi sarebbero "suscettibili di offrire un quadro sufficientemente completo della storia cristiana per i secoli più sprovvisti di altre fonti" (125).

Così, nel caso specifico di Jesolo, i sollecitanti risultati dell'esplorazione archeologica incoraggiano oggi il Fedalto a rivalutare quanto si ricava dal Chronicon Gradense circa la fondazione di sei vescovadi nella "Venetia maritima" per iniziativa di Elia, che avrebbe affidato l'elezione dei rispettivi presuli al clero e al popolo di ciascuna parrocchia "sicuta beato Benedicto sancte Romane sedis antistite fuerat sancitum, nec non et privilegii scripto confirmatum" (126). E se tale privilegio di papa Benedetto I (574-578) non è altrimenti noto, il Fedalto rileva che a quel pontefice non dovevano essere estranei i problemi di Grado: a lui infatti si sarebbe rivolto il patriarca gradese per avere un rescritto su problemi di sponsali, peraltro ritenuto apocrifo (127), e da lui si sarebbe recato, assieme ad alcuni tribuni e nobili, lo stesso Beato, duca veneto-bizantino di Malamocco, con la richiesta di istituire il "castrum Gradense" come "nova Aquileia" e di crearlo sede metropolitica "tocius Venetie et Histrie" (128). Il pontefice avrebbe acconsentito, consegnando alla delegazione gradese il privilegio scritto che prevedeva anche le modalità per l'elezione, l'investitura, la consacrazione e il conferimento del pallio al nuovo metropolita (129). Secondo l'anonimo compilatore del Chronicon Gradense, sarebbe stato dunque il duca Beato tra il 574 e il 575 a volere che si ufficializzasse il trasferimento della sede a Grado con la creazione di una nuova metropoli, la "nova Aquileia", mentre solo qualche anno dopo Elia, nella sinodo del 579, avrebbe provveduto in via di fatto all'istituzione delle sei diocesi, tra cui si pone appunto la sede equilense nella grande laguna eracliana tra Piave e Livenza.

A un simile quadro degli avvenimenti ricavato dal Chronicon Gradense nel tentativo di far luce sulle recenti scoperte archeologiche di Jesolo si oppongono però non poche difficoltà e incongruenze. Così, a parte l'anacronismo che anticipa l'istituto ducale e più specificamente il governo di Beato alla seconda metà del sec. VI (130), sembrano storicamente poco attendibili sia la concessione di privilegi papali in favore di Chiese divise dalla comunione con la sede apostolica sia l'eventualità di un qualche ricorso al papa da parte dell'episcopato aquileiese, allora fieramente avverso a Roma per la controversia dei Tre Capitoli. In effetti, secondo la redazione più estesa degli Atti del concilio di Grado trasmessaci nella Chronica del Dandolo (sec. XIV), sarebbe stato Elia a scrivere una lettera a papa Pelagio II per fargli conoscere le forti ragioni di trasportare definitivamente la sede metropolitica in Grado, chiamandola "nova Aquileia", e ne avrebbe domandata l'autorizzazione. Il papa avrebbe inviato a Grado il presbitero Lorenzo con la risposta che concedeva quanto Elia domandava, subordinando al consenso dei vescovi comprovinciali la concessione stessa. Per ottenere questo consenso e per dare maggior solennità alla cosa, Elia avrebbe radunato la sinodo dei suffraganei, i quali all'unanimità approvano e da ultimo professano la fede di Calcedonia. Ma, contrariamente a questa ricostruzione dei fatti (131), sarei incline a ritenere che la presenza del presbitero romano Lorenzo quale legato e latore di lettere di Pelagio II alla sinodo di Grado sia destituita di ogni fondamento storico; nella sua prima lettera indirizzata all'episcopato aquileiese (585), infatti, il papa si giustificava di non aver potuto scrivere prima ad Elia e agli altri vescovi, impedito dalle calamità dei tempi. Del resto questo passo degli Atti era confinato già dal Cessi tra le parti contaminate (132) e a provare l'inautenticità di tale redazione, che riflette l'ultima disperata carta giocata da Grado dopo il pesante scacco subito dalle rivendicazioni del patriarca aquileiese Poppone nei primi anni del sec. XI, basta rileggere la supplica dei suffraganei aquileiesi all'imperatore Maurizio nel 591, dove è asserito a chiare lettere che "essi e i loro predecessori hanno sempre evitato la comunione col romano pontefice da quando fu aperta" la controversia tricapitolina (133). Nel 579 dunque - a nostro giudizio - non si trattò della traslazione canonica della sede, se Elia si sottoscrisse "sanctae ecclesiae Aquileiensis episcopus" e se i suoi successori ancora per anni continuarono a chiamarsi aquileiesi, come attesta del resto anche la citata supplica del 591, in cui i vescovi esprimono la viva speranza di poter ritornare sudditi della "sancta respublica" una volta spezzato il giogo barbarico.

E che dire del silenzio degli Atti - almeno nel nucleo autentico isolato dal Cessi - sull'istituzione delle sei diocesi lagunari ad opera di Elia? Anche per questo il Cessi rifiutava l'attendibilità della notizia tramandata al riguardo dal Chronicon Gradense (134); per di più non esistono tracce nelle documentazioni successive, come nella lettera di papa Agatone per il concilio di Costantinopoli del 680 (135). E, anche se il Paschini rimproverava al Cessi di dare troppa importanza a questi silenzi e riteneva arbitrario supporre per l'inizio del sec. IX l'esistenza certa di due sole sedi episcopali (Grado e Olivolo) nell'ambito del ducato veneziano, pure sulla fondazione delle diocesi lagunari non poteva avanzare altra testimonianza all'infuori di "un'antica leggenda veneziana" tramandata appunto dal Chronicon Gradense (136). Per tali motivi incliniamo ad acconsentire piuttosto con le prime ipotesi del Fedalto quando riteneva quella narrazione un tardo ripensamento della vicenda con una rielaborazione di dati offerti da documenti o da tradizioni allora non ancora registrati dalla cronachistica (137). Resta il fatto però che quelle località menzionate si presentano come punti di supporto per l'intelaiatura successiva di Chiese diocesane che al tempo di Elia, molto probabilmente, non erano state ancora istituite. Così, da un possibile riscontro tra la nostra fonte letteraria e i risultati delle recenti esplorazioni archeologiche, mi sembra che resti ormai attestato come unico dato certo l'esistenza sul territorio lagunare di una rete di parrocchie rurali destinate a diventare diocesi sia pure di non grande rilievo (138).

A Cittanova, presso l'antica Eraclea, gli scavi negli anni Cinquanta stavano mettendo in luce i resti di una basilica paleocristiana col suo battistero, distrutti dai proprietari del terreno prima che se ne potessero eseguire attenti rilievi (139). Tuttavia la documentazione grafica e fotografica esistente presso l'archivio della Soprintendenza Archeologica di Padova consente di riconoscervi il battistero con vasca rettangolare al centro e con abside a oriente: la circolarità della pianta interna ripropone indirettamente la "vexata quaestio" del battistero di S. Maria Assunta a Torcello, anch'esso in origine forse circolare; "la ricostruzione Forlati, con le due nicchie, può rappresentare una chiave di lettura pure per il battistero di Eraclea, che non sarebbe allora azzardato ritenere coevo a quello torcellano, dunque poco anteriore alla metà del VII secolo": a questa data rimanda infatti la nota epigrafe torcellana del 639, che ricorda la costruzione della basilica in onore della Madre di Dio ("Theotókos") per conto ("ex iussione") dell'esarca di Ravenna Isaac (140).

I precari dati di scavo e la cronologia proposta sembrano dunque avvalorare le indicazioni che pongono a Eraclea anche il nuovo centro di vita ecclesiale dopo la caduta di Oderzo. Del resto la testimonianza di tali resti non si presenta in alternativa a quella che ci viene dalle recenti scoperte di Jesolo, se consideriamo che gli impianti di culto qui venuti in luce non prevedono per il momento strutture battesimali e che la loro datazione si colloca almeno tra l'inizio del V e la metà del VI secolo, assai prima dunque della caduta di Oderzo e del conseguente incremento di vita civile nelle isole della laguna. Perciò non abbiamo riscontri archeologici sicuri per confermare, con l'esistenza di attrezzature episcopali, la presunta istituzione della diocesi equilense ad opera di Elia, ma pure è certo che quelle strutture cultuali restano indicative di una realtà abitativa e sociale in cui possiamo riconoscere una di quelle "parochiae" lagunari presto elevate al rango di diocesi per formare di fatto la provincia ecclesiastica della "nuova" metropoli veneto-istriana: quando infatti nel 628 Onorio I scelse tra i suoi suddiaconi regionari un tale Primogenio da inviare a Grado con l'ornamento del pallio perché vi fosse consacrato vescovo (141), allora forse il papa fu disposto a riconoscere almeno implicitamente alla Chiesa di Aquileia trasferita a Grado quel titolo patriarcale vivacemente contestatole settant'anni prima da Pelagio I; ma, se non del titolo patriarcale, certo dell'autorità metropolitica si trattava, che Primogenio e i suoi successori esercitarono di fatto solo sulle diocesi del litorale veneto-istriano a scapito della giurisdizione del vescovo di Aquileia in territorio longobardo.
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Sa' Marco en Veneto, na łexenda enventà, on falbo storego

Messaggioda Berto » sab mag 06, 2017 9:17 pm

Idolatria venesiana

???
CREDERE MOLTO IN SAN MARCO, abbastanza in Dio, POCO O NIENTE NEL PAPA
Lara Puppin ci segnala questo interessante articolo che dimostra l'indipendenza dello stato veneto, fino ai suoi ultimi giorni, nei confronti di Roma. Un tempo... oggi di quell'orgoglio di autonomia nella chiesa veneta, nei suoi quadri maggiori costituita da nobili veneziani, mancando uno stato indipendente a sorreggerla, non è rimasto nulla.
Di Paolo Lenarda
sabato 6 maggio 2017

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https://dalvenetoalmondoblog.blogspot.i ... oco-o.html

Non possiamo dire che i rapporti tra la Serenissima Repubblica Repubblica di Venezia e lo Stato Pontificio fossero semplici ed affiatati.
Alvise Zorzi, che è stato uno dei maggiori studiosi di Venezia, non mancava di ricordare che "i veneziani credevano molto in San Marco, abbastanza in Dio, poco o niente nel papa." Mi piace sottolineare che la basilicadi San Marco non era la chiesa del patriarca. Più modestamente era la cappella del Doge che graziosamente la prestava alla chiesa per le funzioni religiose.
Anche l'Inquisizione ha avuto, a Venezia, soprattutto nei primi secoli, un'influenza minore rispetto agli altri Stati e non solo italiani.
La Serenissima non potava accettare di appaltare agli altri la Giustizia che poteva esser gestita solo dagli organi della Repubblica. Il sistema fiscale della Repubblica era difficile e complicato, ed è variato nel tempo; fin dal 1492 Venezia aveva istituito "i Deputati alla provvision del denaro" che avevano il compito di tassare anche i beni di proprietà del clero.
In tempi in cui il potere del Papa, forse più di oggi, teneva lontano in altri Stati l'onere fiscale, Venezia, che difendeva i suoi confini dagli attacchi del Turco (difendendo così anche la cristianità NdR). pretendeva anche dalla Chiesa un giusto contributo.
I rapporti diventano sempre più difficili e nel 1586 la Repubblica decide di istituire un nuovo organismo, nominando tre Senatori con un incarico preciso ed esclusivo; I sovraintendenti alle decime del Clero. Penso proprio che le cose siano ulteriormente peggiorate nei rapporti tra Venezia ed il clero se nel gennaio 1787, a firma Giacomo Miani, Alvise Renier e Filippo Balbi Sovraintendenti alle Decime, la Repubblica ingiunse pesantemente "ai debitori di pubbliche Ecclesiastiche Gravezze", di pagare il dovuto. Lo ingiunse con un bellissimo documento di quattro facciate e una splendida copertina che trovate qui riprodotta...
Senza tanti preamboli e delicatezze si fa pubblicamente intendere a ogni Beneficiario Ecclesiastico.. debitore di Pubbliche Ecclesiastiche Gravezze che se prima del venturo mese di giugno non avranno soddisfatto ai propri Debiti caduti in pena...fatta dalMagistrato nostro la più esatta perquisizione sopra le nuove mancanze, passerà alla Intenuta a vita di quelle porzion di Beni di ciascun Debitore, che basti a sazziare il Pubblico Debito...
Venezia, con questo Proclama, minaccia l'acquisizione del patrimonio ecclesiastico: la Serenissima non può rinunciare alle sue prerogative, e pretende, anche dai potenti, il rispetto delle sue regole. Sempre. Anche se siamo verso la fine.
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Re: Sa' Marco en Veneto, na łexenda enventà, on falbo storeg

Messaggioda Berto » gio mar 29, 2018 12:15 pm

???

IL GONFALONE NON È COME LE ALTRE BANDIERE E VI SPIEGO PERCHE'
martedì 16 maggio 2017

https://dalvenetoalmondoblog.blogspot.i ... altre.html

La Patria intesa come legame mistico su cui si incardina tutto il resto: la discendenza, l’appartenenza al territorio, l’identità, la cultura nazionale, la propria libertà sulla propria terra, la terra stessa.
Il Leone è lo Spirito Nazionale, inteso nel contempo come Dio e Patria.

Il significato del monumento è chiaro, plateale: anche il Principe (Dux Venetorum) ha un'autorità superiore a Lui, a cui deve rispondere, ed è San Marco, simbolo religioso e statuale. La Repubblica difese le sue radici cristiane per tanti secoli, e pur ribadendo fermamente la separatezza tra cose temporali (stato) e spirituali (chiesa) - cosa che ancora non avviene con l'islam - avendo presente nello stesso tempo il concetto della "res publica" ribadito fin dagli albori dello stato veneto.

Lo stato, per i veneti, non era di proprietà di un Signore, che invece ne era al servizio.

Dall'epoca della Repubblica romana, questo concetto, prima affievolitosi con gli imperatori, era stato completamente dimenticato. Fu Venezia che lo ribadì nuovamente. Il gonfalone marciano era quindi il vessillo di uno stato, di una repubblica, non una bandiera con l'araldica di una famiglia, o un casato.
Pensate alla bandiera della Francia, con i gigli, a quella di Firenze, o anche al vessillo borbonico. Lo stato in questi casi,apparteneva come una cosa, al Re, o al Signore e ai suoi discendenti.
In nuce Venezia era già avviata al concetto di stato moderno, senza il bisogno di rivoluzioni giacobine.

Il Doge quindi si inginocchia al Leone, ossia allo stato, e non se ne impossessa. Una novità quasi unica, nel panorama della storia di un tempo, e di questo dobbiamo esser fieri, quando sventolìamo il Gonfalone o lo esponiamo al balcone.

Scrive meglio di me l'amico Rubini:

Lo stesso concetto di Leone di San Marco evidenzia due aspetti, nessuno dei quali è materiale, ma entrambi hanno natura spirituale.
San Marco è il Vangelo, quindi denota lo Spirito Santo, la presenza di Gesù Cristo.
Il secondo aspetto di San Marco è la Patria Veneta: ma anche questo aspetto non rimanda ad un concetto
materiale di gruppo nazionale, ma spirituale, cioè il legame con i Padri.
La Patria intesa come legame mistico su cui si incardina tutto il resto: la discendenza, l’appartenenza al territorio, l’identità, la cultura nazionale, la propria libertà sulla propria terra, la terra stessa.
Il Leone è lo Spirito Nazionale, inteso nel contempo come Dio e Patria.

Zonto anca el comento in lengua nostrana de l'amigo Agostino Venturini:

Caro Milo Boz Veneto, axa ca te abraxo fraternamente, come fradeo in San Marco. Cua, in cuel che xe scrito in te sto articolo ghe xe la PROFONDA EXENSA de la singolarità de lo Stato dei Veneti e dei Veneti stexi! No esiste al mondo, nè mai xe esistio, un stato come la Serenixisima fondà sul legame de justisia spiritual, no justisia nel senso de lege stabilia dai omeni. Justisia superiore, etica. No lege umana fata par stabilir in causa cual dei do barufanti gapia raxon! Le legi de l etica xe stampà nel cor de ogni omo che naxe, e so pare e so mare i lo conduse par man, o par na recia co ocore, a crexar secono le regole universali. Ancò no esiste pì, restaremo par sempre la mosca bianca. No par gninte i ga tentà par secoli de anientar la Republica de San Marco, finchè dai e dai i ghe xe rivà. Ma nel nostro cuor la vive, SEMPRE! Saremo in pochi, no importa, ma la fiama resta impisà... Chixà... forse un dì sta picola fiama la tornarà a exar un gran fogo. WSM!

Millo Bozzolan a 5/16/2017
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Sa' Marco en Veneto, na łexenda enventà, on falbo storego

Messaggioda Berto » gio mar 29, 2018 12:17 pm

San Marco il leone e l'evangelista", il nuovo libro di Aldo Rozzi Marin
di ETTORE BEGGIATO
29/03/2018

http://www.lindipendenzanuova.com/san-m ... ozzi-marin


Dopo “Eutanasia di un continente”, “Catalogna” e diversi volumi dedicati al mondo dell’emigrazione veneta, l’avvocato nato a Santiago del Cile ma di nazionalità veneta, presidente e anima dell’associazione “Veneti nel mondo”, torna nelle librerie con una profonda riflessione sul significato del simbolo del patrono veneto, un simbolo di forte religiosità , di saggezza e di forza e che rappresenta, oltre alla continuità tra la Serenissima Repubblica Veneta e il Veneto di oggi, il legame dell’Evangelista San Marco con i veneti, segno di appartenenza ed elemento fondante della nostra cultura, delle nostre virtù e dei valori dell’antica Repubblica, come evidenzia nella presentazione il consigliere Luciano Sandonà.

Il libro, che contiene diverse fotografie del Leone di San Marco è diviso in due capitoli: nel primo è incentrato su San Marco Evangelista, il secondo su San Marco Patrono della Repubblica Veneta.

Nell’introduzione l’autore sottolinea come “…spesso si dimentica che San Marco è uno dei quattro evangelisti, un santo. E quindi si propone in questo contesto di rileggere la sua storia e quella di Venezia. San Marco è la luce della Repubblica veneta, unisce la Patria e il Cielo. Il senso radicato in un’identità tutta veneta diventa cattolico, universale, Guardare e amare Venezia, il Veneto, e San Marco non è chiusura: Venezia è dalla sua fondazione una città cristiana … Il Veneto di oggi, nella sua corale riappropriazione dell’identità e della speranza, deve rimanere fedele alla sua vocazione, conservando le proprie radici, e sprigionando la gioia di tutti di costruire un nuovo domani, vero, autentico e possibile”

E la bandiera con il Leone di San Marco sventola oggi non solo nelle sedi istituzionali, ma nelle case di migliaia e migliaia di famiglie venete, quella bandiera che è bene ricordarlo, è l’unica bandiera al mondo dove sta scritto “Pace”: “Pax Tibi Marce Evangelista Meus” sta scritto nel libro tenuto aperto dal leone.

Quel Leone di San Marco che rappresenta per i veneti molto di più di una bandiera: e’ il simbolo dell’identità veneta, il simbolo stesso dell’essere veneti.

E un simbolo ha vari significati, varie sfacettature: di sicuro ha una dimensione visibile, materiale, facilmente riconoscibile e un’altra invisibile, irraggiungibile, che sfugge a qualsiasi tentativo di interpretazione, che non si fa catturare neanche dall’uomo più potente del mondo, che sta nel cuore e nella mente di tante venete e di tanti veneti.

Nell’era di internet, nell’era dell’impressionante velocità con la quale si macina tutto, la riscoperta dei simboli diventa fondamentale e bene ha fatto Aldo Rozzi Marin a proporre le sue riflessioni sull’evangelista e sul suo simbolo.

Il libro può essere richiesto all’associazione “Veneti nel mondo” (segreteria@venetinelmondo.org)
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