Serbia e Kosovo come la Russia e l'Ucraina? No!

Re: Serbia e Kosovo come la Russia e l'Ucraina? No!

Messaggioda Berto » dom ago 07, 2022 6:34 pm

3)
Storia dell'area e il secolare conflitto nei Balcani con l'imperialismo nazimaomettano ottomano.

Confronto con la Spagna che si è liberata del nazismo maomettano, come pure la Sicilia e Malta.


Storia del Kosovo
https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_Kosovo
L'area geografica del Kosovo fece parte in età antica dell'Impero macedone ed anche dell'Impero Romano. Con l'indebolimento dell'Impero bizantino, pur conservando l’assetto sociale e culturale proto-albanese, esso venne colonizzato dagli slavi e divenne parte dell'Impero Bulgaro e poi divenne parte del regno medievale di Serbia e dell'Impero serbo. Con la frammentazione di questo, e la sconfitta nella Battaglia della Piana dei Merli nel 1389, il Kosovo passò sotto dominio ottomano per cinquecento anni. Con le guerre balcaniche del 1912-13, esso venne annesso al Regno di Serbia, assieme al quale fu parte poi della Jugoslavia nel '900. A seguito della guerra del Kosovo (1998-99), il territorio è stato liberato dalla guerra di Uçk e posto sotto amministrazione ONU. La Repubblica del Kosovo si è autoproclamata indipendente nel 2008 ed è oggi riconosciuta da 22 su 27 degli stati membri ONU.

La successiva storia politica e demografica del Kosovo non è conosciuta con assoluta certezza fino al XIII secolo. I reperti archeologici suggeriscono che ci sia stata una veloce ripresa della popolazione e un progresso della stessa cultura slava conosciuta altrove nei Balcani. La regione venne assorbita nel primo impero bulgaro attorno all'anno 850, con il consolidamento del cristianesimo e della cultura slavo-bizantina. Venne riconquistata dai bizantini dopo il 1018 e divenne parte del nuovo thema di Bulgaria. In quanto centro di resistenza slava a Costantinopoli nella penisola, la regione cambiò spesso mano tra serbi e bulgari da una parte e Bisanzio dall'altra, fino a che il principe serbo Stefan Nemanja se ne assicurò il controllo alla fine del XII secolo.

La principessa e storica bizantina Anna Comnena scrive dei "serbi" come abitanti principali della regione, identificata come "Dalmazia orientale" e "ex Mesia Superiore", alla fine dell'XI secolo. I primi riferimenti ad Albanesi vengono da Michael Attaleiates, che parla degli "arbanitai" situati nel 1078 attorno al distretto di Dyrrachium (Durazzo). Fu in questa fase che queste genti cominciarono ad essere individuate dai propri vicini con il nome di "albanesi", che ne designava anche la lingua. Dopo la caduta dell'impero bulgaro a opera dei bizantini, gli albanesi, così ormai designati a Bisanzio e cristianizzati, divennero tributari di Basilio II e quindi alleati dell'Impero Romano d'Oriente.

La Serbia a quell'epoca non era ancora un regno unificato: un certo numero di piccoli principati (Župan) serbi esisteva a nord e a ovest del Kosovo, i più potenti dei quali erano la Rascia (zona centrale della moderna Serbia) e la Doclea o Dioclea (Montenegro e nord dell'Albania). Questi principati erano spesso in lotta con l'Impero. Nel 1180 circa, il signore serbo Stefano Nemanja prese il controllo della Doclea e di parte del Kosovo. Il suo successore, Stefano Prvovenčani assunse il controllo del resto del Kosovo dal 1216, creando in tal modo uno Stato che incorporò la maggior parte dell'area che costituisce oggi Serbia e Montenegro, regolato in base al Canone di San Sava (Zakonopravilo).[senza fonte]

La composizione etnica della popolazione del Kosovo durante questo periodo è oggetto di controversia fra gli storici serbi e albanesi. L'identità etnica nel Medioevo fu in qualche misura un elemento fluido in tutta l'Europa e la gente di quel tempo non sembra aver definito se stessa in modo rigido come gruppo etnico. Quanti appaiono di etnia serba sembra siano stati la popolazione culturalmente e linguisticamente dominante, e furono probabilmente anche la maggioranza demografica: lo prova la carta di fondazione di Dečani, il più antico dei pochi documenti esistenti, che è però del 1330, almeno cento anni dopo l'inizio della dominazione serba e conseguente possibile assimilazione.[senza fonte]

Nel XIII e XIV secolo, il Kosovo divenne centro politico e spirituale del regno serbo. Alla fine del XIII secolo, la sede dell'arcivescovato serbo venne spostata a Peć, mentre i sovrani della dinastia Nemanjić si spostavano tra Pristina,[senza fonte] Prizren e Skopje.[13] Nello stesso periodo, centinaia di chiese, monasteri (quali quelli di Gračanica e Visoki Dečani) e roccaforti feudali vennero costruite.[14] Il Kosovo fu economicamente importante, come pure la città principale del Kosovo moderno, Pristina, fu un rilevante centro commerciale sulle strade che conducevano ai porti del mar Adriatico. Del pari, l'attività mineraria ebbe grande importanza a Novo Brdo e Janjevo. Le comunità sassoni che agivano in quei luoghi provenivano dalle regioni minerarie della Sassonia e dalla città mercantile di Ragusa.[senza fonte]

L'apice del potere serbo nella regione venne raggiunto nel 1346 con la formazione dell'Impero serbo e l'incoronazione di Stefano Dušan a zar dei serbi, vlachi, greci e albanesi. Tuttavia, alla sua morte nel 1355 e ancor più a partire dal 1371 l'impero serbo si frammentò in una serie di principati feudali. Il Kosovo divenne terra ereditaria dei casati Mrnjavčević[senza fonte] e Branković. Nel tardo XIV e XV secolo parti del Kosovo, spingendosi ad est fino a Pristina, fecero parte del principato di Dukagjini, in seguito incorporato nella federazione anti-ottomana di tutti i principati albanesi, la Lega di Lezhë.[15] Ciò si verificò in concomitanza con la prima espansione ottomana nei Balcani: l'Impero ottomano colse l'opportunità offertagli dalla debolezza greca e serba e invase quei territori.


LA STORIA DEL KOSOVO

http://www.italia-liberazione.it/novece ... denti.html
Nel 1877-78 avviene un'espulsione forzata dalla valle della Morava, nella Serbia meridionale, di albanesi, che riparano nel Kosovo, che i Serbi abbandonano volontariamente.
Nel Kosovo nel 1903 la popolazione serba è intorno al 25%. Nel 1912, al momento del declino dell'Impero ottomano, il Kosovo, con una forte maggioranza di popolazione albanese, è assoggettato dai Serbi, con il declino dell'Impero Ottomano.
Nel 1918 si crea lo Stato jugoslavo, detto Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (compreso il Montenegro) attraverso un accordo tra slavi, ma le tensioni in Kosovo rimangono.
Molti Serbi, sostenuti dal governo jugoslavo, vanno ad abitare in Kosovo, da dove sono espulsi dall'esercito italiano di occupazione durante la seconda guerra mondiale. Alla fine della guerra Tito ripristina il controllo serbo riconoscendo comunque spazi di autonomia agli albanesi con la Costituzione del 1974, che è revocata da Milosevic nel 1989.
Nel settembre del 1990 viene autoproclamata la Repubblica del Kosovo, a seguito di un referendum non autorizzato sull'indipendenza della provincia. Il leader Ibrahim Rugova, capo della Lega Democratica Kosovara (LDK), invita alla resistenza passiva. Si attua una specie di struttura albanese parallela ai poteri serbi: si designano deputati, si istituiscono scuole dalle elementari all'università. Gli albanesi all'estero mandano finanziamenti regolari (almeno il 3% dei redditi). Si sviluppano piccole imprese private, agricole e commerciali.
Dopo le guerre di Croazia e di Bosnia, riprendono i disordini nella provincia del Kosovo. all'inizio del 1996 si effettuano atti terroristici dell'Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK). Avvengono scontri tra gli albanesi, le forze dell'ordine e civili serbi. Si contano morti.
Autunno del 1996: viene firmato tra Rugova e Milosevic un accordo sul sistema scolastico, però senza grandi risultati. Cresce la tensione e le divisioni tra albanesi sulle strategie da seguire: a Rugova si oppone Adem Demaci, sostenitore della lotta armata.
Marzo '98: L'UCK, che fa azioni di guerriglia da due anni, uccide due poliziotti serbi. La risposta è il Massacro di Drenica (8 marzo), circa 80 morti, anche donne e bambini. E' una rappresaglia contro il clan albanese di Jashari, uno dei capi dell'UCK. Si registra una forte reazione degli albanesi kosovari, emigrati all'estero.
La tassa per la patria, versata dagli emigranti kosovari al partito di Rugova, dopo il massacro, viene devoluta ai capi dell'UCK.
L'UCK riceve aiuti militari e coperture dall'Albania, dove ha attivato campi di addestramento.
Per limitare il movimento di armi in Albania e tendere al disarmo si effettua la Missione Alba e la Missione dell'Onu.
Rugova, con un'elezione plebiscitaria, viene eletto presidente dell'autoproclamata repubblica del Kosovo.
Primavera '98: Escalation del conflitto etnico in Kosovo. Interviene il Gruppo di contatto (Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia) nel tentativo di contenere una probabile guerra. L'iniziativa risulta inefficace.
Maggio '98: Gli Usa assumono un'iniziativa diplomatica, inviando Holbrooke, protagonista dell'accordo di Dayton per la Bosnia. Sollecitato dagli Usa, si apre a Belgrado un tavolo di negoziato tra Rugova e Milosevic, il quale tenta di mantenere il Kosovo come una questione di politica interna. In questa fase l'UCK non è legittimato politicamente.
Fine giugno'98: L'UCK avvia rapporti con la Nato e l'Onu. L'UCK propaganda un massacro inesistente, parlando di 500 fossi comuni a Orahovac, smentito dalla missione di osservatori dell'Unione Europea. L'UCK tende a fare del Kosovo una priorità mondiale.
23 settembre '98: Il Consiglio di sicurezza dell'Onu adotta una risoluzione per fermare i combattimenti in corso.
Fine settembre '98: Si aggrava il problema di profughi kosovari (circa 250.000) a seguito di repressioni serbe e il problema si pone sulla scena internazionale. Si profila la prospettiva dell'intervento Nato contro i serbi e si sviluppa una campagna di media negli Usa. Il sostegno degli Usa all'UCK provoca un'accelerazione verso la guerra.
In questa fase lavorano in Kosovo 2000 osservatori disarmati Osce e molte organizzazioni umanitarie, provocando una riduzione della violenza e un allentamento del controllo serbo.
Si estende l'iniziativa militare dell'UCK.
Gennaio '99: Massacro di Racak, effettuato dai serbi con 45 vittime, orribilmente mutilate. Si costruisce una grande campagna mediatica contro i serbi. Il Gruppo di contatto impone il negoziato di Rambouillet. La delegazione kosovara è guidata dal capo dell'UCK, con Rugova in secondo piano. Non viene raggiunto l'accordo perché non si parla esplicitamente di indipendenza del Kosovo.
15 marzo '99: A Parigi l'UCK firma l'accordo, non controfirmato dai serbi, che prevede l'occupazione militare del Kosovo da parte dell'Onu o della Nato. L'UCK chiede l'intervento aereo della Nato.
23 marzo '98: Viene dato ordine di effettuare il primo raid aereo della Nato.



Kosovo

???

https://it.wikipedia.org/wiki/Kosovo

L'area dell'attuale Kosovo fece parte in età antica dell'Impero macedone e dell'Impero Romano. Con l'indebolimento dell'Impero bizantino, esso venne colonizzato dagli slavi (...) e divenne parte del regno medievale di Serbia e dell'Impero serbo. Con la frammentazione di questo, e la sconfitta nella Battaglia della Piana dei Merli nel 1389, il Kosovo passò sotto dominio ottomano per cinquecento anni. Con le guerre balcaniche del 1912-13, esso venne riannesso al Regno di Serbia, assieme al quale partecipò alla storia della Jugoslavia nel '900. A seguito della guerra del Kosovo (1998-99), il territorio è stato sottratto al controllo serbo e posto sotto amministrazione ONU. La Repubblica del Kosovo si è autoproclamata indipendente nel 2008 ed è oggi riconosciuta da circa la metà degli stati membri ONU.

L'area, nota come parte della Dardania, abitata dai dardani e caratterizzata in epoca antica da un livello sempre molto scarso di urbanizzazione e di penetrazione della civiltà classica, fu occupata da Alessandro Magno nel IV secolo a.C.. Conquistata da Roma nell'anno 160 a.C. e incorporata nella provincia romana dell'Illirico e poi della Mesia superiore, a partire dal IV secolo, l'area del Kosovo, ormai in gran parte romanizzata, venne integrata nella Provincia di Dardania dell'Impero Bizantino.

Con l'allentarsi dell'autorità e del controllo di Bisanzio sull'entroterra balcanico, la regione rimase esposta alle migrazioni slave del VI e VII secolo dall'Europa orientale. Archeologicamente, il primo Medio Evo rappresenta uno iato nei reperti, e qualunque cosa fosse rimasto delle popolazioni native della regione si fuse con le nuove popolazioni slave.


Storia medievale

La successive storia politica e demografica del Kosovo non è conosciuta con assoluta certezza fino al XIII secolo. I reperti archeologici suggeriscono che ci sia stata una veloce ripresa della popolazione e un progresso della stessa cultura slava conosciuta altrove nei Balcani. La regione venne assorbita nel Primo Impero bulgaro attorno all'anno 850, con il consolidamento del cristianesimo e della cultura slavo-bizantina. Venne riconquistata dai bizantini dopo il 1018 e divenne parte del nuovo thema di Bulgaria. In quanto centro di resistenza slava a Costantinopoli nella penisola, la regione cambiò spesso mano tra serbi e bulgari da una parte e Bisanzio dall'altra, fino a che il principe serbo Stefan Nemanja se ne assicurò il controllo verso l'anno 1180. Il suo successore, Stefano Prvovenčani assunse il controllo del resto del Kosovo dal 1216, creando in tal modo uno Stato che incorporò la maggior parte dell'area che costituisce oggi Serbia e Montenegro, regolato in base al Canone di San Sava (Zakonopravilo).[senza fonte] Nel XIII e XIV secolo, il Kosovo divenne centro politico e spirituale del regno serbo, con la sede dell'arcivescovato serbo a Pec e la corte dei Nemanjić tra Prizren e Skopje. Nello stesso periodo, centinaia di chiese, monasteri (quali quelli di Gračanica e Visoki Dečani) e roccaforti feudali vennero costruite.

L'apice del potere serbo nella regione venne raggiunto nel 1346 con la formazione dell'Impero Serbo e l'incoronazione di Stefano Dušan. Tuttavia, alla sua morte nel 1355 e ancor più a partire dal 1371 l'impero serbo si frammentò in una serie di principati feudali. Il Kosovo divenne terra ereditaria dei casati Mrnjavčević[senza fonte] e Branković. Nel tardo XIV e XV secolo parti del Kosovo, spingendosi ad est fino a Pristina, fecero parte del principato di Dukagjini, in seguito incorporato nella federazione anti-ottomana di tutti i principati albanesi, la Lega di Lezhë.






La questione kossovara è complessa e diversa

https://it.wikipedia.org/wiki/Kosovo

Il Kossovo fece parte dei domini di Alessandro Magno, poi dell'impero romano e poi dell'impero bizzantino e fu sempre vicino all'Albania.
Fu interessato a migrazioni di slavi e dominio bulgaro e serbo con vari passaggi di mano, ritornando di nuovo anche sotto Bisanzio;

Il Kossovo divenne parte dell'Impero ottomano (1478-1912) circa 450 anni
Per cinquecento anni gran parte dei Balcani furono governati dai turchi ottomani.

Popolazione: nel XX secolo gli albanesi kossovari sono arrivati a oltre il 90% della popolazione
Lo status costituzionale del Kosovo nella Jugoslavia titina era quello di provincia autonoma della Serbia (come la Voivodina), uno status di grande autonomia (dal 1963 e soprattutto dal 1974) ma non paritario con le sei repubbliche costituenti (Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Montenegro, Macedonia) le quali avevano il diritto costituzionale di secessione. Il periodo socialista vide la crescita della popolazione albanese, che triplicò passando dal 75% a oltre il 90% del totale. Quella serba invece ristagnava, calando dal 15% all'8%.

Con questi numeri i serbi e la Serbia si sono trovati in estrema difficoltà nel contesto dei rapporti internazionali;
al massimo potrebbero ottenere la secessione del Kossovo serbo.

Le politiche americana ed europea non potevano non tenere conto anche dei dati numerici etnici che in queste controversie etnico-politico-religiose sono basilari anche per il diritto internazionale.

Anche in Catalogna i numeri contano e la maggioranza catalana indipendentista non supera il 50% e purtroppo con questi numeri sorgono i problemi e si giustifica l'intervento della Spagna che a livello europeo e internazionale non viene perciò contrastata e condannata. Diverso sarebbe se i catalani indipendentisti fossero il 60% e oltre.

Pare impossibile ma i numeri contano, politicamente contano assai.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Serbia e Kosovo come la Russia e l'Ucraina? No!

Messaggioda Berto » dom ago 07, 2022 6:34 pm


Il terrorismo dei separatisti albanesi in Kosovo e Metohija

Segreteria Jugocoord

IL TERRORISMO DEI SEPARATISTI ALBANESI IN KOSOVO E METOHIJA
di Rade Drobac

Febbraio 1999
Fonte: ARTEL GEOPOLITIKA - http://www.artel.co.yu


http://www.cnj.it/home/it/informazione/ ... ohija.html

La situazione attuale in Kosovo e Metohija dimostra assai chiaramente i veri scopi dei separatisti e terroristi albanesi e conferma in totale il contenuto di questo testo scritto nel febbraio 1999, poco prima l'aggressione della NATO contro la Jugoslavia, precisamente per supportare questi stessi separatisti e terroristi.


Benché l'attività terrorista dei separatisti albanesi in Kosovo e Metohija si sia manifestata sotto la sua forma estremista armata, e a scala massiccia, all'inizio del 1998 (raid contro le forze di sicurezza nei villaggi di Luzane e Likosane, nel febbraio 1998), le sue radici sono ben più vecchie, benché il suo scopo strategico resta lo stesso: la creazione della "Grande Albania", dello stato etnicamente puro, dello stato nazionale esplicitamente di tutti gli Albanesi.
Il terrorismo albanese in Kosovo e Metohija è basato sul concetto politico che comanda l'espulsione con la forza e le minacce della popolazione non-albanese, soprattutto Serbi e Montenegrini, alfine di assicurarsi la maggioranza nella struttura nazionale della popolazione, e di farne la base delle rivendicazioni in vista del controllo politico su questo territorio e dell'annessione nella cosiddetta "Grande Albania", prima di incorporare egualmente delle parti dei territori d'altri stati vicini - la Macedonia e la Grecia.

Le radici e la continuità del separatismo e del terrorismo albanese

Gli assassinii, le persecuzioni e le aggressioni alle popolazioni serbe e montenegrine risalgono ai tempi della dominazione dell'Impero Ottomano. Si approfittava della prevalenza della popolazione albanese sul posto, del fatto d'avere accettato l'Islam, godendo di uno statuto privilegiato presso i Turchi e si dedicavano impunemente al terrore contro la popolazione cristiana, i Serbi e i Montenegrini. Questa violenza era diretta dai pashà e dai signorotti locali.
Dopo la liberazione della Serbia e del Montenegro dall'occupazione turca, alla fine del XIX.mo secolo, gli atti di violenza si ridussero, ma non cessarono mai. Durante la Prima Guerra mondiale, che afflisse pesantemente la Serbia (un terzo della sua popolazione vi perì in combattimento o in altro modo), i separatisti e i terroristi albanesi ne approfittarono per rinnovare e intensificare gli atti di terrore e violenza contro la popolazione serba e montenegrina. La storia nota come un fatto particolarmente crudele, lo sterminio massiccio dei soldati serbi, per inedia, fame e freddo nel 1916, mentre l'esercito serbo attraversava le montagne del Kosovo, Metohija e Albania, durante la ritirata verso la Grecia.
Dopo la fine della Prima Guerra mondiale, nel periodo 1919-1924, crimini terroristici furono perpetrati attraverso il territorio della Provincia del Kosovo e Metohija dal cosiddetto "Movimento dei katchak" - un movimento che amalgamava la politica con il banditismo e la violenza.
Ora, il Regno di Jugoslavia sconfisse in vent'anni, il terrorismo e il banditismo albanese, affinché non potesse provocare effetti negativi maggiori.
Il terrorismo albanese dei "Katchak", d'una portata più importante e con delle conseguenze quasi tragiche per i Serbi, i Montenegrini e le altre comunità attraverso il Kosovo e Metohija, rinacque sotto l'ala dell'Italia fascista, appena dopo l'occupazione dell'Albania nell'aprile 1939. Le irruzioni delle bande dei criminali dall'Albania al Kosovo e Metohija, nonostante le obbligazioni che il governo italiano aveva in termini del trattato intergovernativo, sia di rispettare l'integrità della Jugoslavia, che servivano a provocare dei conflitti armati e a preparare il terreno per le conquiste fasciste successive e per la frammentazione della Jugoslavia. Dopo la breve guerra d'Aprile (abbreviata con il bombardamento di Belgrado dalla Germania fascista il 6 aprile 1941), e precedente l'accordo dei ministri degli affari esteri della Germania e dell'Italia (Vienna, 21-24 aprile 1941), il dittatore italiano B. Mussolini promosse ufficialmente il 29 luglio dello stesso anno, "la Grande Albania" cui furono annesse delle regioni della parte orientale del Montenegro, del Kosovo e Metohija, della parte occidentale della Macedonia, e una parte dell'Epiro greco. Così, con l'aiuto delle potenze fasciste si vide la realizzazione della "Grande Albania", una creazione collaborazionista e chauvinista per il suo carattere - il sogno dei separatisti e terroristi albanesi, anche oggi.
Sotto gli auspici dell'Italia fascista, con il suo aiuto, e durante tre anni d'occupazione, i separatisti e terroristi albanesi in Kosovo e Metohija hanno ucciso circa 10.000 Serbi e Montenegrini, hanno incendiato e raso al suolo circa 30.000 abitazioni e espulso 60/70.000 Serbi e Montenegrini. Nello stesso periodo, più di 100.000 Albanesi d'Albania s'installarono sulle proprietà dei Serbi e Montenegrini espulsi.
Alla capitolazione dell'Italia, settembre 1943, i terroristi albanesi ricevettero un nuovo mentore - la Germania fascista, con la speranza che fosse essa a salvaguardare i loro interessi. La marcia vittoriosa delle potenze alleate, scatenate dalla metà del 1944, nel quadro in cui l'Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia apportò un contributo significativo, grazie al fatto d'avere liberato essa stessa il proprio stato, spezza definitivamente il III Reich nazista. A partire da quel momento e fino alla disfatta definitiva della Germania, i terroristi albanesi, valletti fedeli del fascismo, assicuravano la protezione dell'esercito tedesco che si ritirava dalla Grecia passando per il Kosovo e Metohija. Dopo l'evacuazione dei tedeschi, i resti delle unità delle bande di terroristi e i separatisti albanesi restavano in Kosovo e Metohija, non rinunciando all'idea e alla loro volontà di perseguire la lotta per l'instaurazione della frontiera etnica dell'Albania.
L'Armata Popolare di Liberazione Nazionale della Jugoslavia vinse, fin al maggio 1945 - data della capitolazione della Germania - il grosso delle formazioni di
banditi e proseguì la lotta contro i resti dei terroristi - i "balisti" - nelle foreste del Kosovo e Metohija, per un certo periodo nel dopoguerra.
Poco dopo la Seconda guerra mondiale, e grazie al clima favorevole nelle relazioni della Jugoslavia nuova e dell'Albania, circa 200.000 Albanesi d'Albania s'installarono in Kosovo e Metohija, mentre allo stesso tempo i Serbi e i Montenegrini espulsi durante l'occupazione italiana si videro interdire per legge il ritorno alle loro proprietà rispettive.
(...)

Il separatismo e il terrorismo albanese, in funzione della disintegrazione dell'ex Jugoslavia

Un nuovo incoraggiamento del movimento nazional-separatista e terrorista albanese, data dalla fine degli anni '80 e dall'inizio degli anni '90. L'autonomia emancipata di cui godeva la Provincia, che comprendeva egualmente degli elementi dello statuto federale e confederale (rappresentazione diretta a livello della Federazione, benché parte integrante della Serbia, autonomia decisionale sulla quasi totalità degli affari senza consultazioni con la Repubblica-madre e senza possibilità per la Serbia, la Repubblica-madre, di contestarli, il potere assoluto nel campo giuridico, esecutivo e altri) non bastavano all'epoca; l'obiettivo dei separatisti albanesi in Kosovo e Metohija erano stati e rimanevano il potere e l'indipendenza assoluta. Nel processo della disintegrazione violenta dell'ex Jugoslavia, i separatisti albanesi erano patrocinati dalle direzioni politiche identiche nelle Repubbliche dell'ex Jugoslavia che si separarono (Slovenia, Croazia, Bosnia-Herzegovina e Macedonia).
All'inizio, i nazionalisti-separatisti tentarono di completare i loro scopi separatisti con l'incitazione di manifestazioni massicce di Albanesi, con scioperi (di minatori, dei servizi pubblici), il sabotaggio e altre azioni del genere effettuate con lo slogan: "Kosovo-Repubblica". Tale slogan articolava il primo stadio del programma dei nazionalisti grande-albanesi, poiché l'ottenimento dello statuto di Repubblica permetteva la secessione secondo il modello applicato dalla Slovenia, dalla Croazia, dalla Bosnia-Herzegovina e dalla Macedonia. Si dissimulava un obiettivo secessionista - la separazione per tappe dalla Serbia e dalla Jugoslavia e l'integrazione con l'Albania. Durante le sommosse all'interno del Kosovo e Metohija, nel 1991, i nazionalisti-separatisti votano e proclamano anticonstituzionalmente e nell'illegalità la Repubblica del "Kosovo" (la cosiddetta Costituzione di Kacanik) con l'appoggio e l'aiuto dissimulato dei loro nuovi tutori - del milieu particolare della comunità internazionale, gli stessi che avevano sostenuto la disintegrazione dell'ex Jugoslavia. Il disegno è chiaro - creare delle strutture statali parallele che dovevano permettere, con l'assistenza delle potenze straniere che gli erano favorevoli, l'internazionalizzazione della questione del Kosovo e Metohija allo scopo di assicurare una legittimità politica internazionale e l'apertura del processo di secessione della Serbia e della Jugoslavia.
La radicalizzazione, quasi la ripresa del terrorismo, come mezzo di realizzazione degli obiettivi politici dei separatisti albanesi in Kosovo e Métohija, s'inscrive dal 1992, nel quadro dell'Alleanza democratica del Kosovo. È stato stabilito che gli aderenti della struttura autoproclamata come "Ministero della difesa e lo stato maggiore della Repubblica del Kosovo" operavano secondo le istruzioni e gli ordini del leader dell'Alleanza democratica del Kosovo, Anton Kolja, e del ministro della difesa di uno stato straniero, l'Albania all'occorrenza - il generale Safet Zullallia, all'epoca.
Simultaneamente, il leader politico nazionalista albanese e capo del Partito democratico albanese Salli Berisha assicurava i suoi servizi logistici ai terroristi del Kosovo e Metohija, concernente, soprattutto, il loro addestramento nei centri del Nord dell'Albania. L'elezione di Salli Berisha alla presidenza della Repubblica albanese nel 1992 e una prima dissoluzione dell'organizzazione dello stato albanese (la caduta della piramide dei risparmi, fine 1996, il saccheggio dei depositi di armi dell'armata albanese, il crollo del sistema di sicurezza - la polizia) incoraggiano il rafforzamento del sostegno apportato al terrorismo e al separatismo in Kosovo e Metohija. Non è un caso che alla stessa epoca la formazione terrorista, il cosiddetto "Esercito di liberazione del Kosovo" ("UCK") si fa sentire per la prima volta. E parallelamente con questi sviluppi, l'Albania apporta il suo pieno sostegno politico ai separatisti e terroristi in Kosovo e Metohija, riconoscendo, nettamente, la legittimità della "Repubblica del Kosovo" illegale e autorizzando il funzionamento in Albania della rappresentazione "diplomatica" di questa creazione statale inesistente. L'Albania è il solo stato a riconoscere gli atti illegali e lo stato virtuale del Kosovo, sul territorio di un altro stato sovrano , contrariamente a tutti i documenti e principi internazionali. Sempre nello stesso periodo, l'organizzazione terrorista dei separatisti albanesi s'estende, dei nuovi centri s'aggiungono a coloro che operano già a Tirana e a Elbasan, e si vede di stabilire nell'Adriatico una via di passaggio dei terroristi provenienti dall'Italia.
In Albania s'addestrano: degli emigranti - terroristi del Kosovo e Metohija, dei terroristi d'Albania stessa, degli Albanesi che vivono all'estero e dei mercenari provenienti da ogni parte, compresi i mujahedin.
Indolente e spesso incoraggiante, la posizione che una parte del milieu politico internazionale osserva verso i terroristi, compreso l'aiuto crescente dell'Albania, finì col contribuire alla escalation degli atti terroristici nella Provincia autonoma del Kosovo e Metohija. I dati seguenti del periodo 1991-1998,
lo dimostrano nettamente:


Anni e numeri d'atti terroristici:
1991. - 11
1992. - 12
1993. - 8
1994. - 6
1995. - 11
1996. - 31
1997. - 31
1998. - 1885

Gli scopi della strategia degli chauvinisti grande-albanesi

L'obiettivo politico dei nazionalisti nelle strutture dello statali e politiche d'Albania e nel milieu dei nazionalisti-separatisti in Kosovo e Metohija, é - come fu sempre nella storia - identica: "la Grande Albania" etnicamente pura. E il Kosovo e Metohija costituisce il centro focale delle aspirazioni di tutti gli Albanesi che desideravano la creazione di questo stato fantomatico, il punto di scatenamento dell'azione con tutti i mezzi sulla via della realizzazione di questi obiettivi.
Il ruolo del Kosovo e Metohija nel concetto grand-albanese appariva come la sintesi di molti interessi di cui alcuni si sono già articolati come i più importanti. La ragione più importante, strategica, che fa che la conquista del potere in Kosovo e Metohija divenga d'una importanza centrale per la concretizzazione della "Grande Albania", risiede nel fatto che tale regione figura al centro dell'entità politica e statale immaginata. Senza il controllo su questa regione, gli Albanesi che vivono in Macedonia sono esclusi. Una seconda ragione è la percentuale estremamente elevata della popolazione albanese nella regione. È d'altronde la base unica su cui i separatisti e i terroristi fondano la loro rivendicazione in favore delle loro secessione dalla Serbia e dalla Jugoslavia.
Inoltre, conviene sottolineare che il Kosovo e Metohija è una regione dotata di ricchezze naturali eccezionali, e perché vi passano le arterie delle comunicazioni collegate con l'Europa e il Medio-Oriente. In questo contesto, si deve sottolineare che l'Albania ha sempre appoggiato, quasi incoraggiato, l'attività separatista e terrorista, soprattutto perché nella sua storia di corta durata (è stata creata nel 1912) non è mai stata stabile né uno stato di diritto. Il "problema" del Kosovo e Metohija gli serviva sempre per distogliere l'attenzione dell'opinione nazionale propria dai problemi interni ai problemi esterni dell'Albania.
L'esempio più recente sono gli eventi che successero in Albania che è, dal 1996, marcata dall'instabilità, i disordini, i conflitti, il caos politico e economico. L'Albania trova il suo interesse nel nodo del nazionalismo grand-albanese alfine di rigettare la colpevolezza per tutte le sue difficoltà proprie (la dissoluzione dello stato e la profonda crisi economica e sociale) sul terreno dell'irrazionale, pertanto che il tutto s'inserisce anche nei piani strategici dei suoi mentori più recenti - la NATO - consistente nel consolidare le posizioni strategiche nei Balcani (rafforzamento dell'ala sud della NATO). Cioè anche il Kosovo e Metohija formano il punto centrale di un nuovo ritracciamento geostrategico della NATO. Da cui questa tendenza degli USA (e della NATO) per dispiegare tranquillamente le truppe attraverso il Kosovo e Metohija.
I separatisti e i terroristi e gli estremisti grand-albanesi del Kosovo e Metohija hanno accolto la nuova sponsorizzazione delle forze politiche nel mondo come una occasione che si prestava alla realizzazione del loro sogno secolare - fare secedere una parte del territorio della Serbia e della Jugoslavia, che hanno quasi purificato sul piano etnico, alfine di annetterla all'Albania. Al contrario dei periodi storici precedenti, essi approfittano per realizzare i propri obiettivi, degli interessi strategici e egemonici delle grandi potenze, quelli della NATO nel caso più recente, che desiderano controllare ogni via che va dall'Europa al Medio-Oriente, cioè le arterie terrestri verso le materie prime strategiche (il petrolio).
Loro compito è reso più facile dall'interesse d'una parte degli stati islamici che desideravano fare del Kosovo e Metohija un catalizzatore dell'islamismo, ottenendo un nuovo appoggio islamico sicuro e solido (accanto la Bosnia-Herzegovina), e ciò nel quadro del concetto ben noto della creazione della "trasversale verde", quasi un ponte islamico che conduce dalla Turchia verso l'Europa centrale e occidentale.

Il terrorismo, l'arma dei separatisti

Il terrorismo come mezzo di realizzazione dei loro obiettivi, i terroristi albanesi l'hanno scelto per due ragioni principali. Innanzitutto perché non erano riusciti a rovesciare lo stato serbo e la Jugoslavia attraverso il processo politico e non violento, la loro concezione d'acquisizione graduale dell'indipendenza completa con le pressioni e le minacce politiche essendo state impedite dalle modifiche della Costituzione della Serbia e del Kosovo e Metohija, effettuate nel 1989. In seguito, poiché era per essi il mezzo unico per destabilizzare la situazione in Kosovo e Metohija, per provocare la reazione degli organi legittimi del potere e approfittando, alla fine, delle manipolazioni dell'opinione internazionale che dovevano sboccare nell'internazionalizzazione del problema e a un proprio regolamento al di fuori delle istituzioni dello stato legittimo sul posto, con l'appoggio e l'aiuto di una parte della comunità internazionale.
Nella realizzazione di tali obiettivi i separatisti albanesi in Kosovo e Metohija, e in Albania, contano sull'appoggio senza riserve dei loro nuovi mentori (la NATO) e la loro formula già verificata (in Slovenia, in Croazia e in Bosnia-Herzegovina) del rovesciamento degli stati sovrani - l'aggressione a uno stato preciso era scopo dell'uso dei terroristi locali, delle pressioni e minacce esterne, dell'assistenza logistica e finanziaria dall'estero, dei mercenari provenienti da paesi terzi. Il risultato di questa decisione di passare dal politico al terrorismo, è stato questa enorme espansione del terrorismo attraverso il Kosovo e Metohija, nel 1998.
Questa "espulsione della Serbia" dal "loro Kosovo", che i terroristi del cosiddetto "Esercito di Liberazione del Kosovo" ("OVK" - "UCK") si sforzavano di compiere con degli attacchi terroristici massicci contro le forze del Ministero degli interni. Sul totale di 1885 atti terroristici operati nel 1998, 1129 avevano come obiettivi forze e istituzioni degli organi della sicurezza, 115 poliziotti uccisi e 403 feriti. Inoltre, 15 furono rapiti (3 uccisi, 3 liberati, e la sorte di 9 poliziotti rimane ignota). Nel corso dello stesso anno, i terroristi si dedicarono, in Kosovo e Metohija, in molti atti di terrorismo contro civili, e hanno ucciso:
- 46 civili di nazionalità serba e montenegrina;
- 77 civili di nazionalità albanese, leali allo stato serbo e alla Jugoslavia;
- 14 civili di nazionalità diverse, titolari della funzione pubblica o che lavoravano nei servizi pubblici;
Feriti, 158 persone, di cui:
- 74 civili di nazionalità serba e montenegrina;
- 72 civili di nazionalità albanese;
- 3 civili della comunità nazionale dei Goranci;
- 9 civili appartenenti ad altre nazionalità;
293 civili rapiti, di cui:
- 173 civili di nazionalità serba e montenegrina (13 uccisi, 2 fuggiti, 68 liberati, la sorte di 90 resta ignota);
- 101 agenti di nazionalità albanese (16 uccisi, 8 evasi, 34 liberati, la sorte di 43 persone resta ignota);
- 14 Rom (2 uccisi, la sorte di 5 resta ignota, 7 liberati);
- 2 Egiziani (sorte ignota);
- 1 agente della R.F. di Jugoslavia dell'ex-Repubblica jugoslava di Macedonia (liberato);
- 2 civili di altre nazionalità (sorte ignota).
I terroristi albanesi appartenenti al cosiddetto "Esercito di liberazione del Kosovo" ("OVK"-"UCK") hanno tentato nel 1998, 708 volte di passare la frontiera statale (504 volte per entrare nella R.F. di Jugoslavia, 204 volte per uscire dalla RFY) alfine di addestrarsi e armarsi in Albania. Ciò provocò 125 incidenti di frontiera, di cui 100 operazioni armate con qualche migliaio di terroristi contro le guardie di frontiera jugoslave. Nell'insieme dei terroristi uccisi (715), feriti (366) e arrestati (93), si è potuto identificare degli elementi della minoranza nazionale albanese del Kosovo e Metohija, della nazionalità d'Albania, dei fondamentalisti islamici e dei mujahedin del Medio-Oriente e d'Asia (un gran numero legato a Usama Bin Laden), così come i mercenari europei (compresi gli stati creati nello spazio dell'ex Jugoslavia). Nella loro missione di difesa della frontiera dello stato e di prevenzione delle irruzioni dei terroristi, 36 elementi dell'Armata di Jugoslavia furono uccisi, e 105 feriti. Conviene notare che al momento delle irruzioni illegali dei terroristi albanesi provenienti dall'Albania, essi beneficiavano dell'appoggio armato di elementi dell'esercito albanese.
Bisogna sottolineare anche che i terroristi dell'"UCK" hanno per la prima volta, dalla Seconda Guerra mondiale, formato dei campi per le persone detenute, attraverso il Kosovo e Metohija (Junik, Glodjane, Izbica, Lipovica, e altri luoghi), e si ricorreva a delle esecuzioni usando i metodi più brutali, caratteristiche dell'epoca dei nazi-fascisti (il crematorio a Klecka - l'incenerimento dei Serbi e Montenegrini, i carnai di Donji Ratis, Volujak, e altri).

L'"UCK" è una organizzazione terrorista

Nel vasto spettro di posizioni politiche contraddittorie e ipocrite, relative agli eventi in Kosovo e Metohija, i più cinici sono i tentativi fatti affinché il terrorismo evidente e eclatante del cosiddetto "Esercito di liberazione del Kosovo" sia presentato come la "lotta per la protezione dei diritti umani minacciati", la "resistenza del popolo armato", una "insurrezione"; la lotta contro "l'aggressione serba", contro "la colonizzazione", contro "l'apartheid"; che i terroristi fossero qualificati come "formazioni albanesi armate", dei corpi di "resistenza collettiva degli Albanesi", per divenire dei "civili" eliminati dalla polizia. Tale "copertura dei terroristi" e la relativizzazione delle loro responsabilità e azioni abusive, si sono fatte risentire ora, significavano evitare ogni condanna del terrorismo e dei terroristi da parte della comunità internazionale, marcano un tentativo aperto per farli legittimare tacitamente. Tale posizione dei leaders del nuovo ordine mondiale confermano il fatto che nelle loro attività riguardo al Kosovo e Metohija, sono guidate dai loro propri interessi, e non dal Diritto e le buone pratiche internazionali. L'ONU, l'UE, la CSCE e altri fattori politici influenti, erano strumentalizzati dagli USA e un piccolo numero di loro alleati, e non osavano opporsi, benché l'azione dell'"UCK" s'inscrive. per sua stessa essenza, nel contesto della definizione generalmente riconosciuta e ammessa del terrorismo internazionale. Benché esistano più di 120 definizioni del terrorismo e qualsiasi sia la definizione accettata da tutti, esistono anche alcuni elementi comuni, generalmente accettati e riconosciuti, che portano una attività criminale nella categoria del terrorismo. Pertanto per la teoria che studia il terrorismo contemporaneo, l'"esercito di liberazione del Kosovo" è una organizzazione terrorista, e per le seguenti ragioni:
-Mira su un obiettivo politico non legittimo: la secessione della Provincia del Kosovo e Metohija dalla madrepatria, e la sua annessione all'Albania vicina, in
vista della creazione della "Grande Albania" (all'interno delle frontiere etniche popolate dagli Albanesi);
- Il metodo d'azione di base è il combattimento con la polizia e non con l'esercito;
- Ha ucciso un gran numero di agenti della polizia, dell'esercito, così come dei civili, si è dedicata alla distruzione massiccia dei beni ricorrendo ai più brutali metodi del terrorismo e del banditismo, così con le armi più diversificate;
- Al livello di organizzazione l'"UCK" s'articola come la somma dei gruppi debolmente legati tra essi, che agiscono simultaneamente, e anche come terroristi e come criminali e senza alcuna subordinazione;
- la cospirazione è il modo di comunicazione tra i capi dei gruppi e i collaboratori stretti dei terroristi.

Gli USA s'appoggiano sulla definizione (dell'FBI) che dice: "Il terrorismo é il ricorso illegale alla forza o alla violenza contro persone o beni alfine d'intimidire o di fare pressione sul governo, la popolazione civile, o su qualche altro segmento della società, alfine di ottenere degli obiettivi politici e sociali".
Le attività dell'"UCK" s'inscrivono precisamente in una tale definizione.
Secondo la Convenzione di Ginevra, anche, l'"UCK" rientra tra le organizzazioni terroriste per il fatto di effettuare degli attacchi e delle imboscate contro dei civili innocenti e forze di sicurezza, mentre la Convenzione riconosceva la guerriglia come mezzo di guerra "se si tratta veramente di una guerra", ciò che non era il caso in questione, poiché non si trattava di due eserciti in conflitto ma di "civili" armati che attaccavano vigliaccamente vittime di ogni settore della popolazione, così le istituzioni e funzionari pubblici statali.
Inoltre, secondo la regola, gli aderenti a un guerriglia s'oppongono apertamente ai loro avversari.
Che si trattava di una vera organizzazione terrorista, è confermata anche dai legami con dei gruppi islamici fondamentalisti-terroristi del Medio-Oriente, d'Afghanistan e di certi paesi d'Asia, così con il terrorismo di stato che l'Albania pratica verso la Serbia e la Jugoslavia.
Di conseguenza, ciò che noi precisiamo, conferma senza alcun dubbio che l'organizzazione separatista-terrorista, l'"UCK", riveste, secondo i criteri internazionali, il carattere d'una organizzazione terrorista. Dati gli obiettivi dei terroristi, si può facilmente supporre che i fondatori siano dei leaders politici albanesi in Kosovo e Metohija, mentre gli sponsor esteri sono l'Albania, gli USA, la Germania, così come certi altri paesi dell'Europa occidentale. La sponsorship dell'"UCK" e il significante fatto di evitare di condannare il suo carattere terrorista, provengono da una dichiarazione di Christopher Hill, ambasciatore degli USA a Skoplje, fatta verso la metà del 1998: "Il Nostro concetto non significa necessariamente che cerchiamo di separare il Kosovo dalla Serbia, benché gli Albanesi vogliano ciò. Ma ciò che vogliamo, e il meno che possa dire, è di cacciare la Serbia dal Kosovo, iniziando dai poliziotti". Se si prende in considerazione il numero di attacchi terroristici perpetrati nel 1998, e se lo si mette in rapporto con i desiderio espresso dall'ambasciatore Hill "di scacciare la Serbia e i suoi poliziotti" dal Kosovo e Metohija, traspariva chiaramente che si trattava di un sostegno aperto al separatismo e al terrorismo.
Nel contesto di un tal ambiente politico, modellato dai protagonisti dell'egemonismo globale, confondendo totalmente le cause e gli effetti, sostituendo le tesi, in modo che la vittima delle aggressioni terroriste - la Serbia e la Jugoslavia, all'occorrenza - sul suo proprio territorio, finisce per essere qualificata da aggressore, mentre i terroristi, gli assassini e i rapitori sono trasformati in vittime.
La loro ipocrisia, le potenti influenze in seno alla comunità internazionale, la dissimula sotto il loro pacifismo verbale, benché le loro azioni, propriamente parlando, istigano e prolungano i conflitti in Kosovo e Metohija. La conseguenza logica di questo appoggio è stato l'accrescimento del numero di attacchi terroristici dell'"UCK" nel 1998 e attraverso tutta la regione del Kosovo e Metohija. Ciò è divenuto particolarmente trasparente dopo la firma dell'accordo tra il presidente della R.F. di Jugoslavia, S. Milosevic, e l'inviato USA R. Holbrooke. In risposta alla ritirata parziale della polizia della Repubblica di Serbia e dell'esercito della RFY dal Kosovo e Metohija, operata non solo per onorare le obbligazioni prese, ma ugualmente nel desiderio di calmare i conflitti e di fare risolvere i problemi pacificamente, con il dialogo politico, i terroristi dell'"UCK" intensificarono i loro attacchi. Dal 13 ottobre 1998 al 11 febbraio 1999, l'"UCK" effettuò 753 attacchi terroristici:
uccisi: 89 persone, di cui:
- poliziotti: 19
- civili: 70
feriti: 160 persone, di cui:
- 84 poliziotti
- 76 civili
rapiti: 55 persone, di cui:
- poliziotti: 6 (2 uccisi)
- civili: 49 (1 ucciso)
- la sorte degli altri rapiti resta incerta.
E durante tutto questo tempo, i fattori internazionali interpretavano questi crimini come "provocazioni" e "reazioni agli assassini di civili albanesi", le loro condanne non si rivolgevano che agli organi legittimi e legali della Serbia di cui ogni azione contro i terroristi fu stigmatizzata di colpo come "ricorso esagerata alla forza", come "massacro di civili", come "reazione militare smisurata", come "catastrofe umanitaria", e così di seguito.
Parallelamente, il sostegno logistico aperto e ogni altro sostegno e aiuto ai terroristi albanesi, dall'Albania, sono passati sotto silenzio o sono giustificati. Il fatto che i terroristi albanesi del Kosovo e Metohija sono addestrati nei centri in Albania (Tirana, Elbasan, Bajram Curi,Tropoïe, Kruma, ecc.) da ufficiali dell'esercito albanese, dei servizi d'intelligence di certi paesi euro-occidentali, e da combattenti del "jihad", non preoccupava nessuno, apparentemente. E lo stesso sostegno finanziario abbondava dalla narco-mafia albanese e da certi paesi islamici verso l'"UCK", non suscitava alcuna reazione corrispondente in paesi che diversamente combattono rigorosamente ciò sul proprio territorio.
Detto ciò, non è sorprendente che l'"UCK", organizzazione terrorista che occupa certamente il primo posto dei crimini commessi nel 1998, non solamente non appare sulla lista delle organizzazioni terroriste, ma si vede accrescere anche le pressioni di un piccolo numero di paesi, e in primo luogo degli USA, per essere presentata come partner politico legittimo e negoziatore alla pari nel dialogo sul Kosovo e Metohija. Cioè, gli USA attaccano impietosamente i terroristi che li minacciano, non esitano di attaccare i terroristi nei territori degli Stati indipendenti, ma minacciano di ricorrere alla NATO per impedire alla Serbia e alla Jugoslavia di combattere i terroristi sul loro proprio territorio.

Il crimine come fonte di finanziamento del terrorismo

Una moltitudine di dati degni di fede indicano che le più importanti fonti per il finanziamento delle attività terroriste in Kosovo e Metohija provengono dalle
attività criminali della mafia albanese: il traffico di narcotici verso gli USA, la Svizzera, la Germania, il Belgio, la Gran Bretagna e in altri paesi europei (le vie della droga: Asia-Europa e USA); il contrabbando e il traffico di armi in certi paesi europei e asiatici; il racket, i ricatti e la violenza verso i membri della comunità nazionale degli Albanesi che lavorano all'estero; la prostituzione, la falsificazione dei biglietti e le entrate clandestine negli USA e nei paesi europei, degli Albanesi del Kosovo e Metohija e altri provenienti da paesi non europei; il commercio di organi umani; l'accattonaggio dei minori di nazionalità albanese; i furti e le altre attività criminali. Il
vasto ventaglio di attività criminali degli Albanesi, organizzati sulla base della loro appartenenza nazionale, indipendentemente se siano di nazionalità Albanese, Jugoslava, Macedone o Greca, e secondo i principi del clan, rilevata dalla sua importanza delle più grandi strutture criminali in Europa e nel mondo.
È particolarmente pericolosa e "riuscita" la "narcomafia" albanese che è, secondo le valutazioni di esperti, la terza in Europa per i ricavi ottenuti. Una buona parte dei fondi così ottenuti è utilizzata per finanziare "lo stato" parallelo, illegale, in Kosovo e Metohija, e per equipaggiare i terroristi con armi ultramoderne. Il traffico di armi che sono, via l'Albania, destinate in Kosovo e Metohija assume d'ora in poi delle proporzioni enormi.
Dei fondi significativi sono ottenuti con il racket degli Albanesi che lavorano all'estero. Sono forzati a versare regolarmente un minimo del 3% del loro reddito ai rappresentanti dei terroristi albanesi in molti paesi dell'Europa occidentale, USA e Canada, e secondo certi indici confermati, dei fondi ancora più importanti sono raccolti con la minaccia, il ricatto o il pestaggio di coloro che si oppongono. In Kosovo e Metohija, i cittadini di nazionalità albanese sono costretti a versare una "imposta" ai separatisti, appena essi ottengono le loro obbligazioni legalmente dovute, e mentre per i leader separatisti ogni tentativo più serio di attuazione della legge (pagamento delle imposte, tasse e altri introiti) diviene immediatamente, "pressione", "violenza", sui "civili albanesi", benché si tratti di obbligazioni che riguardano tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro origine nazionale.

La solidarietà internazionale nella lotta contro il terrorismo

Per ciò che concerne il finanziamento del terrorismo albanese, una parte importante proviene dai fondamentalisti islamici dell'Arabia saudita, dell'Afghanistan e da altri paesi mussulmani, così da certi servizi d'intelligence occidentali le cui attività non dovrebbero sfuggire dalla conoscenza e dalla volontà dei responsabili politici di questi paesi.
Benché tutti gli stati abbiano, in termini di diritto internazionale, l'obbligazione né d'incoraggiare né di tollerare i finanziamenti delle attività terroriste dirette contro altri stati, nel caso concreto ciò non è rispettato da una parte della comunità internazionale. L'applicazione dei doppi standard si situa in funzione della realizzazione degli interessi politici e altri fattori internazionali chiave.
Oltre alla Carta dell'ONU, gli atti che interdicono i finanziamenti e ogni altro appoggio e sostegno al terrorismo, e condannando generalmente ogni attività terrorista sono: la Risoluzione dell'Assemblea generale dell'ONU 2113 del 21 dicembre 1965; la Risoluzione-Dichiarazione sui modi d'applicazione del Diritto internazionale e la cooperazione degli stati; la Risoluzione 2625/25 del 24 ottobre 1970; la Risoluzione-Dichiarazione sul rafforzamento della sicurezza internazionale, n. 2734/25 del 16 dicembre 1970, la Risoluzione n. 3314 del 14 dicembre 1974, così come numerosi altri documenti internazionali, compreso necessariamente le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU n. 1160, 1199 e 1203, così come le ultime risoluzioni dell'Assemblea generale dell'ONU n. 53/108 del 26 gennaio 1999.
È sulla stessa via che si situano anche le posizioni della conferenza sulla repressione del terrorismo nel mondo, tenuta nel 1997 al Cairo. Questo summit specifico dei capi di stato e di governo ha qualificato il terrorismo come il più grande male globale del mondo contemporaneo, mentre nelle sue conclusioni la Conferenza lancia un appello generale che invita gli stati a lottare in comune, a sostenersi e a collaborare in favore dell'eliminazione del terrorismo. Quanto ai protagonisti dal comportamento contraddittorio, violento e autoritario, e anche se si tratta dei difensori del globalismo, dell'egemonia, della religione o dell'ideologia, questi documenti in vigore che gli impegnano ugualmente, non rappresentano un ostacolo nella realizzazione dei loro interessi nello spazio dei Balcani, in virtù della politica conseguente d'applicazione delle norme doppie. Invece di tagliare le radici del terrorismo, sono divenuti, conscientemente o inconscientemente, i suoi complici.

La legalità della lotta degli organi dello stato della Serbia e della R.F. di Jugoslavia contro il terrorismo

Al fine di proteggere lo stato contro il terrorismo dei separatisti albanesi e d'assicurare l'ordine e la sicurezza di tutti i cittadini della Provincia, gli agenti della polizia attuarono delle attività antiterroriste legittime.
Durante l'esercizio delle loro funzioni, gli agenti della polizia sono stati, nel 1998, attaccati 1129 volte dai terroristi albanesi; 115 poliziotti sono stati uccisi, 403 feriti, e 15 rapiti, di cui 3 uccisi e 9 scomparsi. Ora, ciò che è legittimo nella lotta antiterrorista negli USA, in Irlanda del Nord, in Spagna (Paesi Baschi), in Francia (Corsica) e in altri paesi, secondo la volontà delle potenze mondiali e della NATO è proclamata illegittima quando si tratta della Serbia e della Jugoslavia. E con la loro aggressione informativa e la promozione mediatica di nozioni nuove, come: il "ricorso esagerato alla forza", l'"azione smisurata delle forze della polizia", la "catastrofe umanitaria degli Albanesi", e altre, si tenta d'impedire che le forze di sicurezza legale di lottare contro il terrorismo in Kosovo e Metohija. I terroristi sono costantemente amnistiati. Le Risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU n. 1160, 1199 e 1203, non solo non condannavano i terroristi dell'"UCK", ma sono utilizzate per fare pressione sulla R.F. di Jugoslavia. Sono, dunque dei documenti internazionali che sostengono apertamente il terrorismo e i terroristi in Kosovo e Metohija. Sotto la pressione degli USA, i più alti funzionari dell'ONU non potevano compiere il loro dovere di protettori obiettivi della legalità e della Carta dell'ONU.
Così, Kofi Anan, il segretario generale dell'ONU, parlando il 5 giugno 1998 delle attività antiterroriste della polizia in Kosovo e Metohija, disse: "Se il mondo deve apprendere qualche cosa da questo capitolo nero della storia, quando a questo genere d'aggressione (é la questione della lotta della polizia contro i terroristi) conviene opporsi immediatamente e energicamente". Ciò che viene evocato finì col favorire la riorganizzazione dei terroristi, la continuazione delle loro attività criminali. La Repubblica d'Albania, senza nascondersi, sotto gli occhi della comunità internazionale e degli osservatori internazionali presenti in questo stato e in Kosovo e Metohija, continuava impunemente a aiutare direttamente i terroristi dell'"UCK". Per quanto riguarda il volume della logistica armata che appoggiava dall'Albania l'esecuzione dei raid terroristi in Kosovo e Metohija, la dice lunga la constatazione del sotto-segretario dell'ONU per il disarmo, Giant Danapaul, fondata sui dati ufficiali di una missione speciale dell'ONU in Albania, secondo cui sono stati saccheggiati i depositi di armi dell'esercito dell'Albania, di circa 650.000 armi, 1,5 miliardi di proiettili e 20.000 tonnellate di esplosivo, mentre si sa che circa 200.000 armi sono state clandestinamente trasferite in Kosovo e Metohija. Evidentemente, conviene aggiungervi le armi e le munizioni destinate ai terroristi da certi servizi segreti e dalla mafia albanese del mondo, e destinati ai centri d'addestramento e d'armamento dei terroristi dell'"UCK" nel Nord dell'Albania. Ne fanno parte armi e equipaggiamento ultramoderni della NATO, comprese le armi il cui uso è interdetto dalle convenzioni internazionali.
I responsabili internazionali, obbediscono conseguentemente allo stereotipo creato dalla responsabilità esclusiva della Serbia e della Jugoslavia, ignorano apertamente l'aggressione terrorista su uno stato sovrano - la Repubblica federale di Jugoslavia. Così, ciò che nella stragrande maggioranza degli stati del mondo costituisce il crimine più grande - gli attacchi, gli assassinii e i rapimenti degli agenti della polizia - è qualificata tendenziosamente, nel caso della Serbia e della Jugoslavia, di "resistenza alla repressione", di "lotta di liberazione di un popolo oppresso" o di "lotta dei civili esposti alle rappresaglie delle autorità". E lo si usa come fondamento "legale" per insistere continuamente sulla riduzione del numero di agenti della polizia in Kosovo e Metohija, in una situazione in cui i terroristi albanesi intensificavano le loro azioni e le dirigevano sempre più verso l'ambiente urbanizzato.
L'obiettivo strategico di questa politica é chiara - espellere gradualmente dal Kosovo e Metohija le istituzioni e gli organi legali della Serbia, e permettere la ripresa completa della Province dagli Albanesi, in vista di una secessione futura.

L'opzione della Serbia e della Jugoslavia, in favore del regolamento pacifico

Nonostante tale posizione verso il Kosovo e Metohija, la Serbia e la Jugoslavia orientavano la loro posizione politica di principio, che vuole risolvere pacificamente le questioni relative a questa Provincia della Serbia meridionale, tramite il dialogo democratico e nell'interesse di tutte le comunità nazionali che vivono in Kosovo e Metohija. La Serbia e la Jugoslavia non avevano bisogno di alcuna minaccia d'azione militare della NATO in vista della realizzazione della pace, la loro opzione era stata ben articolata in precedenza. L'accordo del Presidente della RFY Slobodan Milosevic e dell'Ambasciatore Richard Halbrooke doveva apportare ai responsabili internazionali il vero quadro della situazione in Kosovo e Metohija e di ciò che succede realmente, e contribuire alla realizzazione di un regolamento pacifico. La buona volontà della parte serba e jugoslava si è tradotta con l'applicazione integrale degli accordi convenuti. Una parte delle forze della polizia legittima è stata ritirata del Kosovo e Metohija, sono stati soppresse le caserme di queste forze nelle località abitate, e eliminati i posti di blocco sulle vie di comunicazioni, ecc., mentre la missione diplomatica d'osservazione (KVM) in Kosovo e Metohija si vide assicurare le condizioni necessarie per il suo lavoro.

La verifica

Dopo la realizzazione dell'Accordo, il Governo della Repubblica di Serbia e i rappresentanti di tutte le comunità in Kosovo e Metohija hanno segnato la dichiarazione sul quadro politico dell'autogoverno in Kosovo e Metohija, ma con l'assenza unicamente dei rappresentanti dei partiti albanesi nazionalisti-separatisti disuniti. Il Governo della Repubblica di Serbia lanciò una serie d'inviti al dialogo politico, ma invano. Così, e di fatto, la Serbia e la Jugoslavia si sono fatti carico dei loro obblighi imposti dalle Risoluzioni pertinenti dal CS, dagli Accordi e conclusioni dell'UE, e del Gruppo di contatto, e hanno sinceramente rinunciato ai loro interessi in vista del superamento dei problemi che sospendevano un dialogo franco e aperto, nato dal rispetto dai principi fondamentali convenuti con l'ambasciatore R. Holbrooke.
I più importanti erano: la protezione dell'integrità territoriale e della sovranità della Serbia e della RFY, il rispetto dei diritti delle minoranze secondo le norme europee e mondiali più avanzate, l'attuazione di una autonomia che non uscirebbe dal quadro delle costituzione della Serbia e della RFY, e la realizzazione di accordi per proteggere a titolo comune tutte le comunità nazionali che vivono in Kosovo e Metohija.
La risposta a questi sforzi della Serbia e della RFY, sono stati gli attacchi terroristici più violenti dell'"UCK" agli agenti dell'esercito e della polizia, i rappresentanti delle autorità dello stato e i civili innocenti. In questo contesto di violenza e di atti cruenti, conviene segnalare l'attentato al café "Panda" a Pec, in cui dei terroristi albanesi uccisero sei giovani serbi tra i 15 e i 31 anni.
Non bisogna dubitare che in questo comportamento dei terroristi e la parzialità di una parte della comunità internazionale (la Missione di verifica) è certamente un sostegno politico, più ampio e in tutt'altra forma è il sostegno che gli proviene dalla Repubblica d'Albania. Poiché, molti argomenti testimoniano che tutti comprendevano perfettamente ciò che succedeva realmente in Kosovo e Metohija, chi attacca chi e chi difende chi. A tal riguardo, è particolarmente illustrativo il caso montato del "massacro di civili albanesi" nel villaggio di Racak, che corrisponde a una manipolazione mediatica calcolata per distogliere l'attenzione dai crimini sempre più frequenti e crudeli perpetrati dai terroristi albanesi, e, pertanto, per "creare" le condizioni in vista del perseguimento e dell'intensificazione delle pressioni e delle minacce verso la Serbia e la RFY.
Una dichiarazione pubblica di Dan Everts, capo della Missione dell'OSCE in Albania, pronunciata nel gennaio 1999, secondo cui "non si saprebbe negare che il Nord dell'Albania rappresenta una base per l'addestramento dell'"UCK'" non ha dato luogo a una condanna seria dell'Albania con la comunità internazionale, che ha avanzato proteste vigorose a proposito delle azioni antiterroriste della polizia in Kosovo e Metohija. L'arresto a Tirana d'un membro (Max Ciciku) del gruppo fondamentalista-terrorista di Osama Bin Laden, addetto alle attività terroriste da attuare in Kosovo e Metohija, è da giudicare, secondo le dichiarazioni degli USA, in favore della persecuzione e della distruzione del terrorismo, e soprattutto di quello che minaccia gli stessi USA (Bin Laden figurava in testa alla lista dei più grandi terroristi ricercati dagli USA), dovrebbe fornire una ragione seria per intraprendere delle misure contro l'Albania e per impedirle un sostegno ormai aperto, al terrorismo e ai terroristi, che attingono il territorio sovrano della Serbia e della RFY. La Risoluzione del Parlamento albanese del 28 dicembre 1998, "esigeva il sostegno energico del governo e dello stato albanese ai fratelli del Kosovo", rappresenta, secondo le norme internazionali, una aggressione a uno stato vicino. Le interviste degli statisti e dei politici d'Albania con i terroristi dell'"UCK", a Tirana, sono un esempio eclatante di una politica sovversiva, diretta contro l'integrità e la sovranità della RFY, stato membro dell'ONU.
Nonostante i difensori - internazionali - del ricorso alla forza contro la RFY continuavano a richiedere il perseguimento delle minacce e delle pressioni, comprese quelle militari, verso la Serbia e la Jugoslavia che vorrebbero esclusiva responsabile dello stato di cose e dei problemi in Kosovo e Metohija, chiudendo gli occhi davanti al terrorismo e al separatismo flagrante.
I terroristi dell'"UCK" e l'Albania - loro ispiratore e complice, benché abbiano commesso molti crimini e attacchi, restano, per il momento esentati dalle loro responsabilità per aver provocato tale crisi nella regione, le cui conseguenze restano inconcepibili.
La crisi in Kosovo e Metohija non potrà essere risolta fin quando i terroristi albanesi non saranno pubblicamente e decisamente qualificati come tali, come
tutti i terroristi nelle altre parti del mondo, fin quando le loro attività non saranno condannate senza ambiguità, e non saranno attuate tutte le misure che gli imponga di privarli di ogni aiuto e sostegno dall'estero, e fin quando tutti gli altri abitanti del Kosovo e Metohija - che compongono la maggioranza-, abbiano la possibilità di articolare apertamente e liberamente senza timore per la loro vita e quelle dei loro familiari, le loro proprie posizioni sulle modalità della vita in comune di tutte le comunità nazionali in Kosovo e Metohija.

traduzione di Alessandro Lattanzio







L'Albania tra jihadisti di ritorno e propaganda islamista
Giovanni Giacalone
31 dicembre 2019


https://it.insideover.com/terrorismo/lo ... icale.html

Il problema dell’infiltrazione jihadista e islamista radicale nei Balcani occidentali è reale e pluriforme, in base al Paese di riferimento e alle relative caratteristiche istituzionali, politiche e socio-economiche. Non si tratta infatti di un fenomeno che può essere inteso come generalizzato, ma piuttosto legato a specifiche dinamiche. Il radicalismo di matrice islamista fa infatti breccia lì dove lo Stato è carente o assente, dove le condizioni socio-economiche (in particolare quelle dei giovani) sono gravose, senza dimenticare la storia del relativo Paese, che può in qualche modo contribuire alle modalità con le quali si sviluppa il fenomeno.

Nel caso dell’Albania, il fatto che l’eredità del regime comunista guidato da Enver Hoxha, che aveva portato all’annullamento della religione nel Paese e all’introduzione dell’ateismo di Stato (1967) come dottrina ufficiale, possa aver contribuito ad impoverire la fertilità del terreno nel quale l’islamismo radicale poteva progressivamente cercare di far breccia dopo la caduta del regime è ancora oggi oggetto di dibattito.

Nonostante alcune teorie secondo le quali l’ateismo di Stato avrebbe rafforzato, per reazione, il credo del popolo albanese, fin’ora l’unica effettiva conseguenza comprovata in Albania è la reciproca tolleranza e cooperazione tra le diverse comunità religiose in un paese a maggioranza musulmana, ma con relativa presenza cattolica, ortodossa e bektashi. Difficile invece sostenere che l’ateismo di Stato abbia contribuito a un incremento del numero di credenti in un paese dove il nazionalismo, la cosiddetta “albanesità”, ha la precedenza su etnia e religione e dove il tasso di matrimoni misti è particolarmente elevato. E’ possibile dunque ipotizzare che la notevole tolleranza interreligiosa sia in realtà risultato di un’impostazione che, tramite l’ateismo di Stato, ha portato a mettere in secondo piano l’aspetto religioso, visto come secondario rispetto all’appartenenza alla Nazione. In aggiunta, l’Albania non è mai stata teatro di conflitti religiosi sul proprio territorio.


L’islamismo radicale alimentato dall’estero

L’estremismo di stampo islamista presente in Albania è un problema importato dall’estero e ricollegabile a diverse fonti. Ci sono paesi del Golfo e organizzazioni caritatevoli che hanno tutto l’interesse a diffondere wahhabismo e salafismo, finanziando moschee, centri culturali, associazioni benefiche di stampo religioso, importando materiale dottrinario da distribuire e indottrinando imam.

Se da una parte la comunità islamica albanese (Kmsh) è molto attenta a individuare ed eventualmente respingere derive radicali, al punto che già nel 2015 chiese l’intervento delle Istituzioni per far fronte al problema, dall’altra è presente una realtà formata da predicatori radicali, attivi in centri islamici non ufficiali ma anche sul web, alcuni dei quali rientrati in Albania dopo periodi di studio in scuole islamiche del Medio Oriente. Questi predicatori di odio non solo si occupano di diffondere quell’ideologia salafita e wahhabita fondata sulla prevaricazione e l’intolleranza, ma invocano apertamente anche il jihad. Non caso, nel marzo del 2014, le forze di sicurezza albanesi smantellavano una delle più grosse reti di propagandisti e reclutatori per l’Isis attive nei Balcani occidentali (e la più importante d’Albania), con a capo proprio i due imam Genci Balla e Bujar Hysa.

Tra i personaggi collegati alla rete “Balla-Hysa” vi era anche Almir Daci, ex imam della moschea di Leshnica, apparso con il nome “Abu Bilqis Al-Albani” nel noto video sui Balcani rilasciato dall’Isis a giugno 2015 e dal titolo “Honor is Jihad”.

La zone prese di mira dai predicatori di odio sono prevalentemente quelle periferiche di Elbasan, Cerrik, Kavaja, Librazhd, Pogradec, Skutari ma anche la periferia di Tirana. I loro target sono in gran parte giovani individui in precarie condizioni sociali, culturali ed economiche.

Un ulteriore problema è poi l’infiltrazione economica e politica della Turchia di Erdogan, ideologicamente legata all’islamismo radicale dei Fratelli Musulmani, infiltrazione perpetrata tramite l’utilizzo del cosiddetto “soft power”, la capacità di persuadere, attrarre e cooptare, tramite mezzi quali la cultura e la politica. Un pericolo ben più serio perchè più difficile da individuare e da gestire. Un esempio? La grande moschea di Tirana (la più grande di tutti i Balcani), fatta costruire da Erdogan a due passi dal Parlamento albanese su una superficie di 32.000 metri quadrati. Ovviamente tutto ha un costo e in questo caso di tipo ideologico-politico. Non deve infatti stupire se i sermoni predicati all’interno di queste moschee siano gli stessi pronunciati dagli imam dei paesi d’origine, con contenuti che vanno oltre gli aspetti fideistico-dottrinari per sfociare nel politico. Un’arma potentissima nelle mani dei regimi.


Il jihadismo di ritorno e il contrasto al terrorismo

L’Albania ha “contribuito” alla causa jihadista in Siria e Iraq con circa 180-200 foreign fighters su una popolazione di 2.873 milioni ma sembra anche avere un buon controllo della situazione. Il “Country Reports on Terrorism” del Dipartimento di Stato americano per l’anno 2018 ha infatti messo in evidenza come l’Albania, nonostante la scarsità di risorse, abbia comunque ottenuto buoni risultati nel contrasto al jihadismo. La collaborazione tra la CTU albanese e le agenzie statunitensi nella lotta al terrorismo è attualmente ad elevati livelli; un ulteriore aspetto di rilievo è inoltre la modernizzazione del Personal Identification Secure Comparison and Evaluation System (Pisces) per proteggere le frontiere albanesi, oltre ai già elevati controlli presso gli scali marittimi ed aeroportuali.

Nel complesso, l’Albania appare in grado di gestire il pericolo derivante dal jihadismo legato al rientro di foreign fighters e alla radicalizzazione sul territorio; ciò è certamente il risultato della cooperazione con le agenzie europee e statunitensi, ma anche la presenza di un’efficiente sistema di intelligence interno, eredità del periodo comunista. Più problematica risulta invece la gestione della propaganda tramite web che colpisce non soltanto in Albania ma anche la diaspora (un problema tra l’altro su scala globale), propaganda che potrebbe influenzare anche jihadisti ritornati in patria, oltre che quelli latenti, mai partiti.


Il quartier generale dei Mujahideen del Popolo iraniano

Un’ulteriore problematica in suolo albanese è legata alla presenza del quartier generale dei Mujahideen del Popolo d’Iran (Mek), insediato a Manez (vicino Durazzo) dal 2016, dopo anni di attività in Iraq. Una presenza che ha creato non pochi grattacapi alle istituzioni di Tirana.

Il Mek nasceva nel 1963 con l’obiettivo di combattere il regime dello Shah e nel 1979 partecipava alla rivoluzione islamica guidata dall’Ayatollah Khomeini; l’ideologia divulgata (un incrocio di marxismo, femminismo e islamismo) si scontrava però con quella degli Ayatollah, veniva quindi messa al bando e i mujahideen trovavano rifugio nell’Iraq di Saddam Hussein.

Visto con molta diffidenza da Israele e mal sopportato da molti iraniani anti-Ayatollah, in precedenza il Mek era inserito nella lista nera da Unione Europea, Gran Bretagna, Usa e Canada, per poi venire “sdoganato” tra il 2008 e il 2012, grazie anche all’ intervento dell’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton.

Se da una parte Washington vede nel Mek “la principale forza d’opposizione promotrice di democrazia e laicità in Iran”, dall’altra, Teheran lo identifica come “organizzazione terroristica responsabile di attentati ed atti di violenza politica”. Se il Mek sia promotore di “democrazia e libertà” o meno, è difficile dirlo; certo è che il connubio tra marxismo-leninismo ed islamismo predicato dal gruppo non è certo una garanzia, così come non lo è la struttura che mostra elementi tipici di una setta, come illustrato recentemente dalla Bbc.

Vale la pena ponderare sull’utilità della presenza del Mek in territorio albanese, presenza scomoda, forse inopportuna, che rischia di creare più problemi che vantaggi in un contesto estremamente delicato come quello balcanico.
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Messaggioda Berto » dom ago 07, 2022 6:35 pm


Albania, la promessa tradita della lotta alla marijuana

Osservatorio Balcani e Caucaso
Giovanni Vale, Laetitia Moreni
28/06/2018

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Alb ... ana-188781

La prima parte di un’inchiesta a puntate sulla produzione e il traffico di droga in Albania, uno dei temi più delicati nelle relazioni tra Tirana e l’Unione europea

“Ogni civiltà muore, anche Babilonia è morta”. Con gli occhi socchiusi per il sole che picchia forte sull’asfalto, un abitante di Lazarat spiega così la fine del “paese della marijuana”. Questo villaggio del sud dell’Albania, che fino al 2013 produceva quasi mille tonnellate di cannabis l’anno (pari a 4,5 miliardi di euro e ad un terzo del Pil albanese), è oggi un incrocio di vie deserte e silenziose. “Certo, è giusto che la corruzione venga estirpata in Albania, ma non crediate che Rama sia un Dio", aggiunge il passante, che preferisce rimanere anonimo.

Più che la corruzione, il Primo ministro Edi Rama ha fisicamente estirpato da Lazarat un’immensa coltivazione di marijuana. Durante la sua campagna elettorale, il leader socialista aveva promesso “una guerra senza pietà alla droga” e, dopo la sua elezione nel settembre del 2013, ha messo sotto assedio il villaggio ribelle. “Cosa credi, che io accetti oggi un lavoro a 200 euro al mese? Ma cosa puoi fare con 200 euro al mese? Niente! Mi do da fare, aiuto mio padre... a volte mi chiamano per dei piccoli lavori a destra o a sinistra. Si tira avanti così”, prosegue l’abitante di Lazarat.

Nella piazzetta centrale, in cima alla collina su cui si arrampica il paese, dei ragazzi seduti al tavolino di un bar parlano tra di loro per passare il tempo. Quando si evoca il passato e gli anni d’oro della cannabis, alzano le spalle. Tutti - assicurano - hanno almeno un parente o un amico finito in prigione dopo la maxi-operazione di polizia voluta da Rama. Per loro Lazarat ha oggi poco o nulla da offrire ed i giovani sognano di partire all’estero, come fanno i loro coetanei degli altri villaggi dell’Albania.


Il boom della produzione di marijuana

Ma se dietro agli alti muri che recintano le case di Lazarat la marijuana non cresce più, la “guerra senza pietà alla droga” di Rama non ha risolto completamente il problema. La cannabis estirpata dal villaggio ribelle è infatti cresciuta altrove in Albania negli anni successivi all’assedio. L’associazione Save the Children, che oggi gestisce una radio-scuola a Lazarat nel tentativo di rianimare la comunità locale, ha notato - tra il 2013 e il 2016 - il diffondersi della coltivazione di marijuana dalle colline del sud alle altre aree del paese.

“Prima la produzione era concentrata a Lazarat, non era estesa. Ma dopo l’operazione [della polizia, ndlr.] abbiamo visto una diffusione in tutto il paese. Un fenomeno che ci ha preoccupati perché in questo contesto agricolo, i bambini sono coinvolti fin dalla tenera età”, racconta Anila Meço, direttrice di Save the Children in Albania. La Guardia di Finanza italiana (GdF), che sorvola il paese dal 2012 alla ricerca dei centri di produzione di marijuana, registra questa stessa progressione: dalle 300 piantagioni fotografate nel 2013, si passa alle oltre 2000 nel 2016.

Di fronte al dilagare delle coltivazioni, le Fiamme gialle hanno raddoppiato le ore di volo e oggi scrutano un quarto del territorio albanese. Ma l’impennata delle aree coltivate non sembra turbare il governo di Tirana. Ad ogni conferenza annuale sulla lotta alla droga, il ministero dell’Interno albanese assicura infatti di aver distrutto oltre il 99% delle piantagioni segnalate dalla GdF e di aver dunque adempiuto al proprio compito. Ma è smentito dall’attualità: fin dal 2013, Italia e Grecia continuano a sequestrare grandi quantità di canapa albanese con regolarità.

Nonostante queste incoerenze, il partito socialista di Edi Rama ha vinto le elezioni del giugno 2017 garantendosi di governare senza bisogno di alleati. Quello stesso anno porta tuttavia anche un pesante scandalo che fa vacillare l’esecutivo, senza affossarlo. L’ex ministro dell’Interno Saimir Tahiri, considerato il delfino di Rama, è menzionato in un’indagine della Guardia di Finanza sul traffico di droga tra l’Albania e la Sicilia (l’operazione “Rosa dei venti”). Espulso dal partito, Tahiri resiste a lungo in parlamento e lascerà soltanto nel 2018, per affrontare l’inchiesta “da privato cittadino”.


Un problema ancora attuale

Il successore di Tahiri, il nuovo responsabile degli Interni Fatmir Xhafaj, assicura oggi che la guerra alla marijuana albanese è ormai vinta. “I dati dell’anno scorso, in termini di produzione, sono risibili: l’Albania ha prodotto 48 volte di meno rispetto al 2016!”, assicura il ministro, secondo cui “se si considerano questi risultati del 2017, si può affermare che l’Albania non figura più tra i paesi produttori di cannabis. E non siamo noi a dirlo, ma la Guardia di Finanza, che è un serio organo di polizia”.

Il ministro fa riferimento al numero di piantagioni di cannabis recensite dalla GdF nel corso del 2017, ovvero meno di 100. Tra il 2016 e il 2017, si è dunque registrato un crollo della produzione outdoor. “È il risultato delle azioni intraprese da Tirana”, assicura Xhafaj, che illustra l’operazione “Power of law”, lanciata a fine 2017. “L’obiettivo è di identificare i gruppi criminali e di prendersela con i loro beni. Nel 2016, abbiamo sequestrato beni per un valore di 40 milioni di euro e nei primi quattro mesi del 2017, siamo già a 10 milioni di euro”, conclude il ministro.

Ma se da un lato è vero che i sorvoli delle Fiamme gialle segnalano un crollo nel numero di piantagioni, dall’altro la cannabis albanese continua ad arrivare sulle coste della Puglia. “Abbiamo sequestrato 860 kg di marijuana e hashish nel 2015, 13,9 tonnellate nel 2016, 34,9 tonnellate nel 2017 e quasi 10 tonnellate nei primi quattro mesi del 2018”, spiega Nicola Altiero, generale di brigata della GdF a Bari. Inoltre, la cannabis intercettata dalle forze dell’ordine italiane è di recente produzione.

“Dall’altro lato [dell’Adriatico, ndlr.], si giustificano dicendo che i prodotti sequestrati provengono dagli stock realizzati in questi ultimi anni. Ma noi abbiamo studiato la percentuale di principio attivo presente nella marijuana e nell’hashish al fine di determinarne l’età e ci sembra che la produzione risalga a non più di sei mesi”, precisa il generale Altiero. Insomma, anche se la cannabis non cresce più all’aria aperta in Albania, la sua produzione continua al coperto, in qualche laboratorio.

Di fronte a queste constatazioni, l’opposizione albanese accusa l’esecutivo di essere addirittura complice dei trafficanti di droga. “Nessun boss di Lazarat è stato arrestato. Che ne è di loro? Ve lo dico io: sono diventati agronomi e hanno trasformato tutta l’Albania in una grande Lazarat”, denuncia Lulzim Basha, il leader del Partito democratico. Qual è allora il ruolo del governo di Edi Rama nella lotta alla droga? Nel prossimo capitolo di questo focus sull’Albania, cercheremo di rispondere a questa domanda.
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Messaggioda Berto » dom ago 07, 2022 6:35 pm

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Messaggioda Berto » dom ago 07, 2022 6:35 pm

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Re: Serbia e Kosovo come la Russia e l'Ucraina? No!

Messaggioda Berto » dom ago 07, 2022 6:36 pm

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Re: Serbia e Kosovo come la Russia e l'Ucraina? No!

Messaggioda Berto » dom ago 07, 2022 6:36 pm

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Re: Serbia e Kosovo come la Russia e l'Ucraina? No!

Messaggioda Berto » dom ago 07, 2022 6:49 pm

4)
L'Europa innanzitutto deve difendere gli europei e la civiltà europea, i cristiani e chi non costituisce un pericolo e ha rispetto per gli altri




Europa attenta o finirai come il Kosovo"
Attacchi alle chiese (rapporto Ocse), demografia rovesciata, fondi islamici stranieri...Intervista-podcast ad Alexandre Del Valle: "30 anni fa in una conferenza dissi che correvamo lo stesso rischio"
https://meotti.substack.com/p/europa-at ... il#details

Le chiese in tutto il Kosovo settentrionale domenica scorsa hanno suonato senza sosta le campane. Lo stesso accadde prima degli “eventi del 1999”. Il casus belli stavolta è la decisione del Kosovo di non riconoscere la validità di targhe e documenti in cirillico ed emessi in Serbia. Si intensificano gli attacchi contro le chiese dell’ex provincia iugoslava (è riconosciuta da gran parte degli stati membri dell'Unione Europea e dagli Stati Uniti, mentre Russia, Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro, tra gli altri, hanno rifiutato di riconoscere il Kosovo). Un rapporto preparato dall'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) rivela l’entità di una persecuzione dei cristiani. 247 attacchi sono stati commessi in Kosovo tra gennaio 2014 e dicembre 2020.

Il monastero di Visoki Decani nel Kosovo meridionale è stato incluso nell’elenco dei sette siti del patrimonio culturale più a rischio in Europa nel 2021. Il nuovo elenco è stato presentato da Maria Gabriel, Commissario europeo per la cultura. Visoki Decani non è solo l’unica chiesa inserita nell’elenco, è anche l'unico monumento in Europa sotto la protezione militare della missione KFOR a guida NATO e a comando italiano. Perché ancora oggi un monastero dovrebbe essere tutelato? In tutto il Kosovo, i luoghi di culto cristiani sono stati livellati a centinaia con ruspe ed esplosivi dopo la guerra del 1999 e le violenze del 2004. Il numero dei siti cristiani distrutti è di 140. Come il monastero del XV secolo della Santissima Trinità a Musutiste, iniziato nel 1465. Come il monastero dell'Arcangelo a Vitina, costruito nel XIV secolo, e bruciato. Come la chiesa di San Nicola a Prekoruplje, rasa al suolo e le sue icone perdute, compresa quella dell'apostolo Tommaso. “E’ impensabile per noi vivere senza protezione internazionale, perché non vi è alcuna garanzia che uno scoppio di violenza come quello del marzo 2004, quando 35 chiese o cimiteri ortodossi furono distrutti in due giorni, non si ripeta più” ha detto a Le Figaro l’abate Janjic. “All'epoca la situazione sembrava tranquilla e la città di Prizren era un modello di tranquillità e un simbolo di società multietnica: in quarantotto ore tutti i serbi della città furono espulsi, la residenza vescovile e le chiese bruciate”.

In occasione di una recente visita al cimitero serbo-ortodosso di Priština, Saša Mitrović, il sacerdote locale, ha potuto vedere scene inquietanti. La cappella del cimitero è stata trasformata in un bagno pubblico. Ovunque l’Islam diventa dominante, il Cristianesimo scompare: per restare agli ultimi anni, la Cipro occupata dai Turchi (500 chiese distrutte), il Nagorno Karabakh armeno conquistato dall’Azerbaijan e la metà della popolazione cristiana fuggita dal Sinai settentrionale…

La storia per i cristiani è tornata indietro nel tempo nel Kosovo.

La grande storica Bat Ye’Or nel suo libro Il declino della cristianità sotto l’islam riporta una straordinaria lettera del console John Elijah Blunt a sir Henry Bulwer da Pristina, 14 luglio 1860:

“Per molto tempo la provincia di Skopje stata in balia del brigantaggio: questa piaga, alimentata da un’indomabile popolazione di montanari, eminentemente bellicosi e mercenari, è più sviluppata nelle pianure. Ma si può dire che la sua diffusione sia stata piuttosto arrestata che incoraggiata: infatti le chiese e i monasteri cristiani, le città e i loro abitanti non vengono più depredati, massacrati e bruciati dalle orde degli albanesi come accadeva abitualmente fino a dieci anni fa. Nel complesso, il sottoscritto può affermare, senza tema di smentita, che la provincia di Skopje attraversa una felice fase di transizione dal male al bene, probabilmente lenta nella sua attuazione, ma, proprio per questo, non meno sicura nei suoi effetti”.

Un militare italiano di stanza in Kosovo con il Kfor mi racconta: “Questa è la quarta volta che vengo qua nell'arco di venti anni e il cambiamento si nota. Al di là del fatto che il Kosovo ha la più alta percentuale di foreign fighters di ritorno sulla popolazione residente, ma un paese a praticamente zero Pil che vive di rimesse dalla ‘diaspora’ (usando proprio questo termine) e di finanziamenti internazionali a fondo perduto, con forti infiltrazioni islamiche e malavitose. Assodato che la maggioranza sono musulmani, esistono piccole zone, enclavi, a maggioranza serba e quindi ortodossi e pochi villaggi con croati cattolici. Nei primi tempi i serbi dovevano essere scortati in continuazione altrimenti il linciaggio era dietro l'angolo. Ora sembra più tranquillo. Però sono comparsi vestiti maschili fino alle caviglie e barbe tinte di rossiccio che non lasciano presagire niente di buono. Anche qua le ong a base islamica hanno elargito a piene mani per ‘educare’ e ‘ricostruire’ le moschee (che in precedenza non esistevano). Il pericolo è per i giovani: contrariamente a quelli della mia età che mi sembrano piuttosto indifferenti alle prescrizioni del Corano, specie le più limitanti, i giovani pare abbiano colto il lato bellicoso e intransigente”.

Per capire come la creazione dello stato kosovaro sia stata una tragedia per i cristiani basti ricordare le parole del celebre sceicco saudita Mohammed Ben Abd El-Rahman Al-Arifi, imam della moschea King Fahd: “Controlleremo la terra del Vaticano; controlleremo Roma e introdurremo l'Islam. Quindi i cristiani, che hanno scolpito croci sui torsi dei musulmani in Kosovo, in Bosnia e in vari luoghi del mondo, dovranno pagarci la jiziya (tassa pagata dai cristiani non musulmani e dagli ebrei sotto la Sharia) per umiliazione o si convertiranno all'Islam…”. Cinquecento anni di occupazione hanno portato a conversioni di massa all'Islam. Ora l’Arabia Saudita, spiega Alexandre Del Valle, ha deciso di fare del Kosovo, troppo secolarizzato da decenni di comunismo e dal sufismo Bektâchî, il cuore del suo programma di islamizzazione dell’Europa. Assieme alla Turchia di Erdogan.

Del Valle, uno dei massimi esperti in Francia di Islam, autore assieme all’ex presidente della Sorbona Jacques Soppelsa del libro La globalizzazione pericolosa (i libri di Del Valle sono stati pubblicati in Italia da Guerini Associati e Lindau), è a colloquio con la newsletter.

Cosa rappresenta il Kosovo per l’Europa?

Rappresenta nel Medioevo una grande battaglia all’epoca degli albanesi veri di allora, cristiani, e alleati dei serbi. Fu il luogo di una grande lotta contro i Turchi e con la sconfitta dei cristiani il Kosovo fu la porta dell’imperialismo turco islamico nei Balcani in cinque secoli. Fu un colonialismo ottomano. Purtroppo, l’Unione Europea e l’Occidente invece di bloccare l’irridentismo ottomano negli anni Novanta la guerra contro Milosevic fu un pretesto perché la Nato agisse quasi come un esercito islamico al servizio degli interessi islamici per distruggere la sovranità della Yugoslavia a discapito dei cristiani che dopo la guerra in Kosovo vivono come dhimmi. Vivono nel pericolo come prima della liberazione dei Turchi. Un ritorno indietro gravissimo e dimostra la teoria di Bat Ye’Or di un Occidente che agisce come alleato dell’islamismo e dell’espansionismo turco a discapito degli interessi veri europei e cristiani di civiltà.

Il Kosovo era al 90 per cento cristiana e oggi al 10…

Da questa guerra che fu falsamente presentata come una della libertà europea contro il male fu una guerra a favore dell’imperialismo islamico che grazie allo smantellamento della Yugoslavia fece un grande ritorno nei Balcani. Il problema è che i cristiani si sono ritrovati nella precarietà e invece di aiutarli, di essere pragmatici, di accettare una unione territoriale fra la parte serba cristiana del Kosovo e la Serbia, così come abbiamo accettato di ricomporre le frontiere. Questo favorisce anche un revanscismo serbo e russo. Quello che fa l’Occidente abbandonando i cristiani del Kosovo e rifiutando una riformulazione delle frontiere più logica fra zone serbe e albanese, dando al Kosovo regioni serbe musulmane, è aiutare il nazionalismo. C’è una guerra fredda o calda con la Russia, che ne approfitterà per riattivare le divisioni. La politica Nato e UE gioca con il fuoco.

Eric Zemmour ha scritto che “il Kosovo è il futuro della Seine-Saint-Denis”. Solo una iperbole?

Non è un giudizio politico. In una conferenza 25 anni fa in Serbia parlai della ‘sindrome del Kosovo che gira attorno all’Europa’. Sapevamo perfettamente che quello che succedeva nel Kosovo sarebbe successo nelle capitali dell’Europa occidentale. C’è una sostituzione di etnia e identità dovuta a un movimento di popolazione incontrollato. Da 150 anni in Kosovo c’è stato un movimento di popolazione albanese-islamica, cambiando il tessuto etnico e religioso del sud della Serbia, della Grecia, del Montenegro e della Macedonia. Questa evoluzione demografica ha avuto delle conseguenze sul separatismo. Come quando gli europei arrivarono nelle Americhe con una sostituzione etnica, fu una catastrofe per i popoli autoctoni. La storia ci mostra sempre che quando una popolazione giovane e demograficamente attiva e meno demograficamente attiva e combattente ci sarà uno scontro e un cambio di civiltà. Gli autoctoni provano sempre a reagire. E questo provoca uno scontro di civiltà. Nel mio ultimo libro cito Gaston Bouthoul, il grande creatore della polemologia, universitario, e parlava di ‘esplosione demografica’. Diceva che questi movimenti diventano una forza esplosiva. E come studioso delle guerre diceva che questo movimento che fa parte delle grandi cause dei conflitti. Il futuro dell’Europa sarà uno scontro di civiltà. Finirà male.

Militari Onu a guardia del famoso monastero Decani in Kosovo

Il magazine francese La Nef racconta “il calvario dimenticato dei cristiani del Kosovo”. Dal 1999, 250.000 serbi hanno dovuto lasciare il Kosovo. I cristiani del Kosovo, in gran parte serbi ortodossi, rappresentano meno del 7 per cento della popolazione del Kosovo stimata in 1,8 milioni. Una vertiginosa inversione demografica avvenuta nel secolo scorso da quando i cristiani erano una volta la maggioranza. Storicamente, il Kosovo è la culla della nazione serba e della sua fede. È qui che si trovano i suoi monasteri più antichi ed è ancora qui che abbiamo la più alta densità di edifici religiosi cristiani in Europa. Gli attacchi del 17 e 18 marzo 2004 rappresentano il culmine di questa violenza ancora in atto. In quei due giorni, 19 cristiani vennero uccisi, 5.000 case cristiane sfollate e 34 chiese distrutte, sotto gli occhi attoniti delle forze internazionali presenti dal 1999. 120.000 cristiani hanno scelto di rimanere in Kosovo nonostante l'ingiustizia loro inflitta, quella di essere diventati stranieri nella propria terra. Parcheggiati nelle enclave circondate dal filo spinato, questi cristiani vivono nell'angoscia, traumatizzati dagli attacchi subiti dal dopoguerra. Una situazione confermata dall'archimandrita Sava Janjic, abate del monastero di Visoki Decani: “Il Kosovo è l'unico territorio in Europa dove santuari cristiani, monaci e pellegrini sono ancora minacciati”.

Non esattamente… Numerose chiese di Saint-Denis a Parigi sono state profanate, racconta Le Figaro. “Questo tipo di atto significa che vogliono sopprimere i cristiani, come i cristiani d'Oriente nei paesi musulmani, è spaventoso”, dice un settantenne. A Perpignan, dove "le aggressioni, il traffico di droga, il comunitarismo musulmano, le tensioni razziali e la violenza tribale" costringono i non musulmani a trasferirsi altrove, due giorni fa è stata profanata una chiesa. Nelle stesse ore, in Germania, le chiese venivano vandalizzate in Renania, in Turingia, a Berlino…Come il Kosovo, c’era un tempo in cui metà della popolazione della Seine-Saint-Denis era bretone. Oggi i bretoni rappresentano solo l'11 per cento della popolazione di Saint-Denis e “sono in via di estinzione”, me tre come racconta Le Point “a Seine-Saint-Denis, i figli di immigrati di origine non europea rappresentano il 54 per cento dei giovani fra 0-18 anni”. Lo stesso vale per le chiese. Come ha rivelato il filosofo Alain Finkielkraut, “oggi ci sono 145 moschee a Seine-Saint-Denis per 117 chiese…”.

Non un solo serbo vive oggi a Gnjilane, in Kosovo, dove erano ancora 8.000 nel 1999, e a Pristina, capitale del Kosovo, ce ne sono appena quaranta, contro i 40.000 del 1999. Cosa succederà a quei cristiani quando i soldati italiani se ne saranno andati? Chi proteggerà chiese come quella di Gracanica, capolavoro del XIII secolo citata anche dal grande storico Runciman? "O la distruzione o la trasformazione in musei", specifica padre Sava Janjic, vicepriore del monastero di Decani.

Il Kosovo non è all'altro capo della terra, ma nel cuore dell’Europa e nel buco nero dei media. È un luogo nevralgico dove si decide un pezzo del nostro futuro. Non l’ultimo capitolo di un “secolo breve” che ci siamo lasciati alle spalle, ma il primo di un “nuovo millennio”. Una gran brutta storia da cui non si esce e che, temo, anche grandi pezzi dell’Europa occidentale dovranno attraversare.




I burattini del Cremlino nel mondo
La comprensione del pacifismo nei confronti della Russia che invade e il fastidio nei confronti dell'Ucraina riproduce pari pari la giustificazione alla Serbia di Miloševich
/di Adriano Sofri/
7 agosto 2022
https://www.facebook.com/LaRouletteRuss ... SFsF8SAE6l

Ho letto l’articolo in cui Paolo Ghezzi espone scrupolosamente gli argomenti del pacifismo inscalfito di cui Marco Tarquinio è diventato portabandiera, e li critica alla radice, da una posizione personale di cattolico e obiettore civile. Poiché lo condivido, e anzi non avrei saputo dirlo altrettanto bene, desidero fermarmi solo su un passaggio puntuale. A chi gli chiedeva della posizione ultima di Alexander Langer sulla necessità di un impiego della forza internazionale in Bosnia – dopo una strage di giovani a Tuzla, e soprattutto prima dell’impresa genocida di Srebrenica: Alex se ne andò prima – Tarquinio ha risposto “parlando di caso eccezionale, particolare (dunque ci sono, le eccezioni alla regola!), perché i caschi blu olandesi a Srebrenica si erano girati dall’altra parte e dunque pure Giovanni Paolo II…”. La Bosnia non fu affatto un caso eccezionale. Fu, al contrario, un caso esemplare. Anche per la lezione che l’assolutismo pacifista trasferito dalla morale personale ai movimenti e alla mobilitazione collettiva rifiutò di trarne. Il fastidio che tanto pacifismo di oggi sente nei confronti dell’Ucraina aggredita, e la inconcepibile comprensione che prova nei confronti del dispotismo grande-russo, riproducono esattamente, ampliando la scala dalla periferia balcanica al centro d’Europa, l’indifferenza per la piccola Bosnia (“musulmana”) e l’attrazione per la Serbia nazionalcomunista grande-serba di Miloševich, vagheggiata come una storica roccaforte antifascista e comunista. È straordinario che l’intera campagna intesa a rendere la Nato responsabile della guerra d’Ucraina non abbia fatto che evocare l’intervento Nato per il Kosovo del 1999, spesso arrivando a definirlo come il primo ritorno della guerra in Europa dal 1945: nel 1999 la guerra post-jugoslava era finita da quattro anni, era durata più di quattro anni, e aveva fatto, nei calcoli più moderati, almeno dieci volte più vittime solo in Bosnia-Herzegovina.
La nostalgia del comunismo si è accontentata per decenni delle sue ignobili contraffazioni, e non ne è ancora sazia. In chi non è mai stato comunista, che cosa la sostituisce, oltre al desiderio di un ordine organico, al misticismo dell’anima russa, alla cirillica paura del mondo senza Dio? Dev’esserci qualcosa di ancora più umano, più vicino, più piccolo, per suscitare una tale esaltazione.
Ansioso di ricongiungere Belgrado e Banja Luka e Odessa e Sebastopoli, quel legame sta bussando di nuovo alle porte. Sogna di mettere sullo stesso campo e nello stesso tempo la casa madre e la filiale serbista. Appena trent’anni dopo.


Veneti Per l'Ucraina

Non sono d'accordo. Non vi è confrontro tra l'Ucraina (ucraini e russi sono cristiani) e il caso balcanico della Bosnia e del Kosovo (dove il conflitto è etnico religioso e si protrae da 5 secoli, da quando i nazi maomettani ottomani hanno invaso e conquistato parte dei balcani compiendo immani stragi, riducendo i cristiani in schiavitù e costringendoli alla conversione forzata).
L'Europa deve stare attenta a non sbagliare e deve difendere i cristiani e le etnie cristiane.

Alberto Pento
A Sofri ricordo che un tempo la Bosnia era cristiana e serba e che nella Bosnia Iugoslava vi vivevano anche i serbi e i croati cristiani sia pure come minoranze e che la Bosnia islamica è il resto dell'invasione nazimaomettana ottomana che ha fatto strage di ctistiani nei balcani, riducendone molti in schiavitù e costringendo gli altri alla conversione fozata.
Poi a Sofri ricordo che la Bosnia islamica come il Kosovo sono centri del terrorismo nazimaomettano jadhista che negli ultimi anni ha insanguinato e terrorizzato l'intera Europa e la cristianità.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Serbia e Kosovo come la Russia e l'Ucraina? No!

Messaggioda Berto » dom ago 07, 2022 6:49 pm

VP/HR — Minacce terroristiche provenienti dalla Bosnia e dai Balcani in generale

30.5.2017
Risposta scritta

Interrogazione con richiesta di risposta scritta E-003601-17
alla Commissione (Vicepresidente/Alto Rappresentante)
Articolo 130 del regolamento
Matteo Salvini (ENF) , Edouard Ferrand (ENF)

https://www.europarl.europa.eu/doceo/do ... 01_IT.html


Negli ultimi anni quasi tutti gli attentati terroristici recenti hanno avuto collegamenti con la Bosnia e i Balcani, compresi l'attentato ai danni di Charlie Hebdo a Parigi nel gennaio 2015, i successivi attentati di Parigi del marzo e novembre 2015, gli attentati terroristici di Bruxelles del marzo 2016 e l'attentato al mercato di Natale di Berlino nel dicembre 2016.

La Bosnia è uno dei principali luoghi di provenienza dei volontari jihadisti. Un volume considerevole di prove dimostra la presenza nella Bosnia di una completa infrastruttura per il reclutamento, l'addestramento, il supporto e il favoreggiamento degli spostamenti degli estremisti islamici in tutta Europa. Si ritiene da più parti che l'infrastruttura estremistica islamica in Bosnia goda segretamente del sostegno di musulmani integralisti all'interno degli ambiente politici e degli apparati della sicurezza.

Oltre a costituire una minaccia per la sicurezza dell'Europa, tali elementi stanno destabilizzando la stessa Bosnia.

La Cancelliera Angela Merkel ha affermato che la principale minaccia che grava sulla Germania è il terrorismo islamico. Il capo dell'MI6 Alex Younger ha di recente messo in guardia contro il livello senza precedenti della minaccia terroristica nei confronti del Regno Unito e il capo di Europol Rob Wainright ha dichiarato che l'Europa deve fronteggiare la sua più grave minaccia terroristica dall'11 settembre.

Alla luce di tali ammonimenti, può il VP/AR indicare se i cittadini europei saranno protetti dalle minacce terroristiche provenienti dalla Bosnia e dai Balcani in generale?




Bosnia, crocevia europeo del terrorismo islamista

I campi di addestramento gestiti dai wahabiti punto fermo della penetrazione dell’Is. Una “zona franca” di transito e di traffico di armi

https://necrologie.ilpiccolo.gelocal.it/news/29054

TRIESTE C’è un vero e proprio crocevia del terrorismo islamico nel cuore dell’Europa. Il suo nome è Bosnia-Erzegovina dove da anni oramai sono al lavoro i wahabiti. La loro presenza nell’ex Paese jugoslavo è diventata di dominio pubblico quando, nell’ottobre del 2011, Mevlid Jasarevic, originario di Novi Pazar, in Serbia, kalashinkov in pugno aveva sparato oltre cento colpi contro l’ambasciata degli Stati Uniti a Sarajevo, ferendo tre persone prima di essere neutralizzato e catturato dalla polizia.

Assime a Jasarevic finirono sotto processo, per poi essere assolti (Jasarevic si beccò 18 anni di galera), anche Munib Ahmetspahic e Emrah Fojnica. Ebbene, quest’ultimo, nell’agosto del 2013 si fece saltare in aria in Iraq, dove combatteva nelle file dell’Is. Di Ahmetspahic, invece, si sono perse le tracce.

Passano pochi anni e nel maggio del 2015 in Bosnia sventola addirittura la bandiera del Califfato. Una volta era un tranquillo paesino serbo nel comune di Maglaj in Bosnia-Erzegovina, una sessantina di chilometri a nord di Zenica. Ma oggi è una roccaforte jihadista "gestita" dai wahabiti dove si sentono risuonare spari durante la giornata e dove, come sospetta la polizia, l'Is sta acquistando terreni e case.

Su una di queste, in effetti, sventola la bandiera del califfato. È una sorta di terra di nessuno, dove nessuno osa entrare e dove si esercitano i miliziani per essere poi spediti sui campi di battaglia in Siria e Iraq. E mentre i servizi segreti bosniaci stanno monitorando la situazione sospettando che gli jihadisti godano anche della complicità di alcuni poliziotti del cantone di Zenica-Doboj, i residenti confermano che il Paese è oramai un baluardo wahabita trasformato in un vero e proprio poligono di tiro per addestrare i futuri combattenti per il califfato.

C’è un altro filo poi che lega i Balcani alle recenti stragi terroristiche a firma islamica in Europa, leggi Francia e Belgio. Ed è quello del traffico di armi che passano facilmente verso i futuri scenari di attentati. Nel novembre scorso, dopo la strage di Parigi, infatti, a Francoforte la polizia fermò un islamico che potrebbe aver fornito le armi ai terroristi che hanno messo in atto gli attacchi a Parigi. Una cosa però è certa.

Le armi usate nelle stragi della capitale francese sono state fabbricate in Jugoslavia, nella fabbrica di armi Zastava di Kragujevac, in Serbia. La prova inequivocabile è stata fornita dalle matricole dei kalashnikov rinvenuti sui luoghi degli agguati. Sette o otto dei kalashnikov segnalati sono stati costruiti a Kragujevac negli anni 1987 e 1988.

Queste armi facevano parte di un quantitativo che è stato inviato negli arsenali della Slovenia, della Bosnia-Erzegovina (ecco che ritorna) e della Macedonia. Al disfacimento della Jugoslavia queste armi, è molto probabile, siano cadute in mani di singoli trafficanti o di associazioni criminose che forse le hanno vendute.

Capire con certezza il "tragitto" fatto da queste e da altre armi (ce ne sono ancora tantissim e in giro soprattutto in Bosnia Erzegovina), dopo il tracollo della Jugoslavia è un'impresa quasi impossibile.

Analizzando però la situazione attuale dei Balcani non si può escludere a priori che quei fucili provengano proprio dalla Bosnia-Erzegovina visto che in questo Paese, come detto, sono attive molte cellule islamiche whabite che avrebbero benissimo potuto fare da tramite con quelle parigine. Va rilevato inoltre che pochi giorni prima dell'attacco islamista a Parigi in Baviera è stato arrestato un uomo che viaggiava a bordo di un'automobile Golf con targa montenegrina a bordo della quale in speciali doppifondi sono stati trovati otto kalashnikov.

Come si vede girando lungo l’asse criminal-jihadista che si è radicata nei Balcani, prima o poi, si ritorna in Bosnia dove nella capitale, Sarajevo, da mesi “uomini con la barba” come li chiamano gli abitanti della capitale, stanno letteralmente acquistando tutto il rione di Ilidza dove spuntano moschee in cui si recitano preghiere che gli stessi musulmani di Sarajevo non conoscono. Sono i corani apocrifi che predicano sangue e morte ai crociati.

Pubblicato su Il Piccolo



Mattarella: in Bosnia c’è il rischio di “foreign fighter”
Il Capo dello Stato a Sarajevo: abbandonare i Balcani al loro destino è un pericolo anche per la Ue
Ugo Magri
29 maggio 2016

https://www.ilsecoloxix.it/mondo/2016/0 ... 1.31127950

Roma - L’Europa distratta non si era accorta, dodici mesi fa, che attraverso la «rotta balcanica» stava per riversarsi una grande ondata migratoria. Allo stesso modo le cancellerie europee fingono oggi di non vedere le serie questioni insolute nei Balcani, da cui possono derivare rischi per la sicurezza di tutti. Incominciando dal terrorismo islamico. L’Italia fa in qualche modo eccezione. Con la sua presenza ieri e sabato a Sarajevo, quale invitato d’onore per il vertice annuale dei Paesi del Gruppo Brdo-Brioni, Sergio Mattarella è alla terza missione nell’area, per molti aspetti la più importante. Perché nell’incontro con la presidenza bosniaca si è parlato a fondo di «foreign fighter». E nel summit concluso ieri l’Italia è stata considerata alla stregua di un alleato ma anche per certi versi un arbitro autorevole.

Groviglio di tensioni
Basti dire che il macedone Ivanov, rappresentante di un Paese dal nome contestato (per la diplomazia si chiama Fyrom), ha chiesto a Mattarella di premere sul greco Tsipras perché pure lui partecipi al prossimo vertice tra 12 mesi in Macedonia, così da rasserenare un poco le relazioni con Atene. Più volte durante il vertice gli sguardi si sono indirizzati a Mattarella come possibile mediatore. Per esempio, durante un «franco» confronto tra la croata Grabar-Kitarovic e il serbo Nikolic sui crimini della guerra di vent’anni fa. A un certo punto il padrone di casa, Itzebegovic, ha raccomandato a tutti di moderarsi nel linguaggio soprattutto una volta tornati nei rispettivi Paesi, per non eccitare i risentimenti ancora vivi. Proprio con Itzebegovic, Mattarella aveva parlato di terrorismo. Perché dalla Bosnia Erzegovina partono a frotte i «foreign fighter» che ingrossano le file dell’Isis. Il presidente bosniaco non lo nega affatto. Ma insiste che la gran parte della popolazione musulmana nei Balcani è fermamente ostile al terrorismo. Mette in guardia contro le ingiustizie sociali poiché «pure quelle» a suo parere creano condizioni favorevoli all’estremismo. In quanto chi non ha nulla da attendersi nella vita diventa più facile preda di quanti lo rendono partecipe di qualche presunto «grande disegno».

È convinzione di Mattarella che abbandonare questi Paesi a se stessi, senza offrire una prospettiva europea concreta, potrebbe soltanto aggravare i problemi loro (e nostri). Sul fronte migratorio, il Capo dello Stato continua a rivendicare risposte globali perché considera «singolarmente ingenuo» chi pensa di «dirottare altrove» il flusso dei disperati. «Questi bambini, queste donne, questi uomini cercano semplicemente una esistenza migliore, come farebbe ciascuno di noi nelle stesse condizioni», guai a dimostrarsi sordi.


La "leonessa dell'Isis" condannata a 3 anni e 4 mesi
18 Luglio 2022

https://www.rainews.it/articoli/2022/07 ... f25c6.html

Meno pesante la condanna per la “leonessa dell'Isis”, Bleona Tafallari. Il gup di Milano Livio Cristofano ha riqualificato il reato, passando da “associazione con finalità di terrorismo” al meno grave “istigazione a commettere reato”, e l'ha condannata a 3 anni e 4 mesi.

Le motivazioni della sentenza saranno rese note tra 90 giorni, ma la difesa già festeggia: "Con la riqualificazione è venuta meno l'ipotesi accusatoria, non è stata riconosciuta cioè la sua appartenenza a un'organizzazione terroristica", spiega l'avvocato Giuseppina Bartolotta. Per la giovane, arrestata nel novembre 2021, il pm Leonardo Lesti aveva chiesto, nell'udienza con rito abbreviato, la condanna a 5 anni di carcere.

Ricordiamo che la ventenne è nata in Kosovo ma domiciliata a Milano, ribattezzata la "leonessa dell'Isis" con l'arresto avvenuto lo scorso 17 novembre nel capoluogo lombardo.


Il Kosovo e i Balcani: centri di reclutamento per potenziali jihadisti
Safety & Security Magazine
Ennio Pietrangeli
3 aprile 2018

https://www.safetysecuritymagazine.com/ ... jihadisti/

Anni fa, durante un blitz a Venezia contro sospetti terroristi, vennero fermati tre uomini; furono tutti identificati come originari del Kosovo. Nei giorni scorsi l’attenzione degli investigatori è di nuovo stata rivolta alla segnalazione di cellule Isis nel piccolo paese balcanico.

Dalla fine della guerra nel 1999 nell’area dei Balcani la minaccia di un violento estremismo islamista/jihadista è risultata in crescita, alimentata dalla povertà, dalla disoccupazione giovanile e dai finanziamenti da fonti estere che predicano le ideologie estremiste.

I soldi arrivano nei Balcani da gruppi religiosi con sede in Arabia Saudita ed in altri Paesi del Golfo che hanno costruito scuole e moschee, dove viene insegnato il wahhabismo, un’interpretazione ultra conservatrice dell’Islam. L’area dell’ex Jugoslavia è infatti la parte più occidentale ed europea della Dorsale verde (il colore dell’Islam ndr) ovvero di quella rete di Stati islamici (o meglio, di Stati a maggioranza religiosa musulmana, retti da governi espressione di partiti islamisti) che si estende dal Golfo Persico al Mare Adriatico

Sono almeno 5 i campi di addestramento per miliziani dell’Isis, segnalati illo tempore in Kosovo ed esattamente a: Ferizaj, Gjakovica e Decani i più grandi, mentre quelli più piccoli sono stati individuati a Prizren e Peje; ve ne sono poi altri itineranti.

La presenza di cellule fondamentaliste nei Balcani era già nota due anni fa, come molti anni prima, ma ultimamente la minaccia sembra essere aumentata e tornata di attualità.

In questi campi di addestramento, gli aspiranti jihadisti studiano l’arabo e il Corano, imparano ad usare armi e costruire/usare IED, oltre all’apprendimento delle tecniche di guerriglia nei boschi ed alla costruzione di reti e nuove cellule.

Negli ultimi tempi l’attenzione verso questi paesi è aumentata perché nel frattempo la situazione si è notevolmente deteriorata, le notizie di intelligence, ma non solo, che vedono Kosovo e Macedonia come campi di addestramento privilegiato per gli jihadisti sono confermate anche dalle stesse comunità ex jugoslave. Kosovari e macedoni infatti affermano che ci sono loro concittadini che dopo essere andati a studiare in Arabia Saudita tornano ed iniziano a predicare la jihad, potendo contare su molti fondi a disposizione, spesso di origine incerta. Parte degli introiti della Multinazionale del Terrore viene infatti reinvestito nel reclutamento di nuovi jihadisti, o meglio di cellule terroristiche.

Qui è degno di attenzione il fenomeno dell’associazione a delinquere posta in essere da gruppi criminali, come Cosa Nostra, Mafia Nigeriana, Mafia dell’Est, Gruppi Paramilitari Kosovari/Macedoni, Isis, perché per colpire l’economia europea e poi mondiale si devono reclutare etnie che hanno fame, odio verso l’Occidente e comunque verso chi, ai loro occhi, si è reso complice del loro status attuale.

È quindi quanto mai opportuno e necessario verificare ogni collegamento di soggetti non di origini italiane che stabilmente dimorano sul territorio nazionale, questo ovviamente è possibile farlo solo dopo migliori politiche estere e di intelligence.

Nei Balcani ad oggi, ci sono persone che viaggiano per i villaggi poveri promettendo e dando soldi a chi si convince ad immolarsi alla causa, in primis gli uomini devono farsi crescere la barba e le donne coprirsi con il velo, quindi “i martiri” vengono convinti a partire per la guerra santa, con la promessa che la loro famiglia sarà mantenuta a vita dai reclutatori.

Esiste una vera e propria struttura di reclutamento, ma la cosa più importante e grave è che questa situazione la si conosce da molto tempo ma nessuno è mai intervenuto in modo tangibile così da porre in sicurezza l’Italia e l’Europa.

La mancanza di azioni serie, ad analisi attente ed attuali, forse è data da potenziali interessi economici di alcuni potentati, che pur a discapito della vita altrui tirano le fila di tutti questi teatri, perché dove regna il caos in pochi si arricchiscono ed aumentano il proprio potere.

È frequente leggere notizie circa arresti al di là dell’Adriatico di presunte cellule terroristiche, composte da giovanissimi musulmani, e il ritrovamento di armi, esplosivi e attrezzature per compiere attentati suicidi sono un tremendo monito del fatto che è sufficiente un piccolo gruppo di estremisti decisi per mettere in pericolo la nostra sicurezza e la nostra vita. E proprio per questo visto che è in gioco anche la nostra Sicurezza Nazionale la cabina di regia di questo jihadismo va studiata e fermata. Nell’interesse dell’Italia, dell’Europa e non solo.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Serbia e Kosovo come la Russia e l'Ucraina? No!

Messaggioda Berto » dom ago 07, 2022 6:49 pm

Bosnia, Kosovo e Albania cavalli o navi di Troia dell'Islam ?
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =92&t=1502



???

KOSOVO: Di serbi e albanesi. Il falso mito della guerra di religione
Andrea Zambelli
1 giugno 2020

https://www.eastjournal.net/archives/105723

Nelle ultime settimane, un articolo sul Kosovo pubblicato da un sito americano ha generato numerose polemiche. Insieme ad una serie di faziosità e imprecisioni, l’articolo calca molto il tema della religione: il Kosovo viene descritto come un luogo noto per “esportare jihadisti” e nato da “un’insurrezione islamista” volta ad espellere cristiani.

L’articolo stupisce fino ad un certo punto: il giornale che lo ha pubblicato è noto per essere vicino ad ambienti religiosi radicali. Non è però una voce isolata: da anni, una certa retorica di estrema destra e nazionalista presenta il conflitto del 1998-99 in Kosovo come una guerra religiosa tra Islam e Cristianesimo, descrivendo il Kosovo di oggi come un luogo ostile ai cristiani. Una tesi non suffragata dai fatti.

Gli albanesi e i serbi

Gli albanesi sono in maggior parte musulmani. Mentre in Albania vi è una forte presenza di albanesi cattolici ed ortodossi, in Kosovo la maggioranza della popolazione è quasi totalmente musulmana, religione a cui aderisce ad oggi il 90-95% della popolazione (albanesi, ma anche bosgnacchi, gorani, turchi e popolazioni rom). Anche in Kosovo, però, non mancano gli albanesi cattolici, circa 65.000. I serbi, invece, sono per la quasi totalità ortodossi, religione la cui presenza è ben rappresentata dai monasteri risalenti al XIII e XIV secolo.

Il Kosovo si definisce nella propria costituzione come Stato secolare, neutrale rispetto ai credi religiosi. A scuola non vi è insegnamento religioso ed insieme ai due Bajram e all’inizio del Ramadan, sono festivi anche il Natale e la Pasqua di ortodossi e cattolici.

La guerra

La tesi secondo la quale il conflitto tra forze serbe ed Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK), esploso dopo un decennio di repressione dei diritti degli albanesi attuata dal regime di Slobodan Milošević, abbia avuto una natura religiosa è molto diffusa tra nazionalisti ed estrema destra. In questa chiave, i serbi vengono presentati come ultimo baluardo della Cristianità contro l’attacco dei musulmani: il rimando alla Battaglia del Kosovo del 1389, scontro tra cristiani e ottomani, è evidente.

Il ruolo della religione nella guerriglia albanese, però, fu pressoché nullo. Non solo l’UÇK nasce da piccoli gruppi marxisti-leninisti, ben distanti da valori religiosi; ma soprattutto, l’UÇK deve il suo successo al sostegno americano, principale partner durante la guerra, conclusasi proprio per il bombardamento della NATO. I leader albanesi non avevano alcuna convenienza a perdere tale sostegno abbracciando l’islamismo militante.

Fu lo stesso Milošević, interrogato all’Aja, a parlare della presenza nelle fila albanesi di mercenari provenienti dal Medio Oriente, sulla base di un rapporto del ministero degli Esteri di Belgrado. In realtà, la presenza di jihadisti sul suolo kosovaro risulta essere di poche unità. Anzi, alcuni giornalisti presenti sul campo raccontano che i leader dell’UÇK rifiutarono aiuti provenienti dall’estremismo islamico (Perritt, H. 2008, Pettifer J., 2012).

A conferma di ciò, è provata la presenza di diversi cattolici nelle fila dell’UÇK. Ad accomunare i guerriglieri, difatti, era l’essere albanesi, appartenenza nazionale che trascende quelle religiose. Questa è una caratteristica del nazionalismo albanese, che non a caso ha come simbolo un principe cristiano, Skanderbeg.

I simboli

Un altro aspetto che potrebbe confermare la tesi del conflitto religioso sono le centinaia di monumenti religiosi distrutti durante e dopo la guerra. Sono ben note le immagini delle chiese ortodosse, 155 secondo i dati ufficiali, attaccate da nazionalisti albanesi appena finita la guerra e negli scontri del 2004. Meno note sono le distruzioni compiute dalle forze serbe durante il conflitto: in pochi mesi, più di 200 moschee e diversi edifici di epoca ottomana furono danneggiati o completamente distrutti.

L’attacco a simboli religiosi rientra nel più ampio ambito del conflitto tra gruppi nazionali. Per le truppe serbe, la distruzione degli edifici islamici faceva parte del progetto di pulizia etnica della provincia, in linea con i massacri e le espulsioni dei civili. Per i nazionalisti albanesi, dopo la guerra, attaccare le chiese ortodosse voleva dire attaccare i simboli della presenza serba in Kosovo, rappresentazione fisica di una nazione considerata responsabile delle tragedie passate. Non era la religione l’obiettivo, ma i simboli del gruppo etnico considerato nemico.

Non stupisce perciò che durante la guerra le truppe serbe non risparmiarono nemmeno le chiese cattoliche degli albanesi, come quelle di Pristina e Gjakovë/Đakovica (Schwartz, S. 2000) mentre le vendette albanesi del dopoguerra, che portarono molti serbi a lasciare la propria terra, non riguardarono i cattolici, smentendo la tesi della pulizia etnica dei cristiani in quanto tali.

I foreign fighters

Il citato articolo, infine, non ha remore nel dire che “l’export più noto del Kosovo sono i jihadisti”. Il riferimento, qui, è ai foreign fighters kosovari che hanno aderito allo Stato Islamico in tempi recenti. Il fenomeno esiste, e non va minimizzato: sono più di 300 i kosovari che, tra il 2012 e il 2015, sono partiti per la Siria, facendo del Kosovo il paese europeo con il più alto numero di foreign fighters per capita (ma dietro a molti paesi occidentali, se si guarda al numero per popolazione di fede musulmana).

Diversi studi dimostrano come il radicalismo di tali giovani è stato indotto da gruppi esterni: imam formati in Medio Oriente hanno fatto facile proselitismo nelle provincie rurali del Kosovo, dove un alto numero di giovani è disoccupato. Un fenomeno non dissimile da quello avvenuto nelle periferie francesi o inglesi, facilitato dalla propaganda online, proprio per questo non riconducibile al contesto kosovaro di per sé.

L’approccio generale dei kosovari di fronte a tale radicalismo è stato di netto rifiuto, rifiuto di una realtà che stride con un paese che fa del modello occidentale il proprio punto di riferimento, fino ad un’eccessiva venerazione. Le stesse istituzioni hanno portato avanti un piano di repressione degli imam radicali e di reinserimento dei foreign fighters che si sta dimostrando efficace.

La realtà odierna

La tesi del conflitto religioso, dunque, è smentita dai fatti. Anzi, la religione, in alcuni casi, ha giocato a favore della tolleranza. Nei mesi precedenti l’intervento NATO, i rappresentanti delle tre religioni presenti in Kosovo si incontrarono, schierandosi contro l’uso di simboli religiosi per promuovere odio.

Oggi, nel Kosovo indipendente, si sono fatti importanti passi avanti rispetto alle tensioni del dopoguerra. Le chiese ortodosse celebrano regolarmente liturgie e festività, mentre è proprio la polizia kosovara a garantire la sicurezza dei monasteri, andando gradualmente a sostituire i soldati della NATO nelle funzioni di vigilanza. I rappresentanti dei monasteri ortodossi, inoltre, collaborano con le istituzioni kosovare e hanno un continuo dialogo con i leader islamici e cattolici albanesi: una realtà ben distante dalla retorica dei “cristiani assediati”.

Poche settimane fa, il 27 aprile, cadeva l’anniversario del massacro di Mejë/Meja, cittadina del Kosovo dove nel ’99 le forze serbe uccisero 372 civili albanesi. Molti di loro erano cattolici. Cristiani uccisi da cristiani, per buona pace delle teorie del conflitto religioso.


Massacro di Mejë/Meja (come la Strage delle Fosse Ardeatine)
https://it.wikipedia.org/wiki/Massacro_di_Meja
Il massacro di Meja (in albanese Masakra e Mejës) fu l'esecuzione di massa di 372 civili albanesi del Kosovo, maschi e tra i 16 e i 60 anni, commessa dalla polizia serba e dalle forze dell'esercito jugoslavo come atto di rappresaglia per l'uccisione di sei poliziotti serbi da parte dell'Esercito di liberazione del Kosovo (KLA). Le esecuzioni si verificarono il 27 aprile 1999 nel villaggio di Meja vicino alla città di Gjakova, durante la guerra del Kosovo. Gli uomini vennero prelevati da convogli di rifugiati a un posto di blocco a Meja e alle loro famiglie venne ordinato di recarsi in Albania. Uomini e ragazzi vennero separati e poi giustiziati lungo la strada. Il massacro è considerato il più grande tra quelli avvenuti durante la guerra del Kosovo.
...
EULEX ha iniziato le sue indagini sul massacro nel 2013. Ha rilasciato accuse penali contro 17 serbi di Gjakova per il massacro. Un altro degli accusati, Marjan Abazi, un cattolico albanese di Ramoc, è stato arrestato in Montenegro e poi si è suicidato nell'agosto 2014.




Inside Sarajevo | La fragile pace in Bosnia-Erzegovina e la possibile secessione dei separatisti serbi
Linkiesta.it
Lucio Palmisano
11 novembre 2021

https://www.linkiesta.it/2021/11/bosnia ... sti-serbi/

La Storia è tornata a bussare dalle parti di Sarajevo. La Bosnia-Erzegovina non viveva una simile turbolenza politica dal 1995, quando gli accordi di Dayton avevano regalato una prospettiva di pace a un Paese multietnico in perenne conflitto con se stesso. La convivenza tra serbi, croati e bosgnacchi (i bosniaci musulmani) sembra oggi essere in pericolo a causa in particolare delle rivendicazioni di Milorad Dodik, membro del triumvirato che guida la Bosnia-Erzegovina e leader dell’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti, il partito di maggioranza della Repubblica Sprska, la parte serba del Paese che sogna di ricongiungersi con Belgrado. Il livello di pericolo è tale da allertare persino la UEFA: la partita di calcio Bosnia-Finlandia, valevole per le qualificazioni mondiali a Qatar 2022 e in programma a Zenica sabato 13 novembre, potrebbe essere disputata in campo neutro.

La situazione
Le ragioni a sostegno di tale ipotesi sono chiare come racconta la Yle, la radiotelevisione di Stato finlandese. Sul caso bosniaco c’è un rapporto di inizio novembre di Christian Schmidt, Alto Rappresentante delle Nazioni Unite per il Paese, che ha affermato come la minaccia di secessione dei separatisti serbi sia per Sarajevo «la più grande minaccia dalla fine della guerra». Il documento sottolinea inoltre come «le istituzioni della Republika Srpska, guidate dall’Alleanza per i socialdemocratici indipendenti di Dodik, stiano sistematicamente cercando di sciogliere l’Accordo quadro generale per la pace (GFAP), mettendo in pericolo la pace e la stabilità del Paese e della regione».

Eppure, nonostante gli avvertimenti, le Nazioni Unite hanno preferito seguire un’altra strada. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha infatti rinnovato all’unanimità il mandato di peacekeeping di 600 militari europei, radunati nell’operazione nota come EUFOR, rimuovendo qualsiasi riferimento alle parole dell’Alto Rappresentante per evitare un possibile veto russo o cinese. A uscirne vincitore è stato lo stesso Dodik, che è riuscito così a farla franca nonostante abbia annunciato più di 100 atti legislativi che ritirerebbero la Republika Srpska dal governo centrale bosniaco e porterebbero i serbi a formare le proprie istituzioni parallele. Le sue minacce includono il ritiro della quota serba da istituzioni comuni, come la difesa, la magistratura, la riscossione delle tasse e delle dogane e i servizi di intelligence della Bosnia. Particolarmente sentito sarebbe soprattutto l’addio all’esercito, visto che fu proprio l’esercito serbo-bosniaco il principale responsabile del massacro di 8 mila bosgnacchi a Srebrenica.

«Non possiamo permettere ai Bosgnacchi di riempire le quote previste per i Serbi e i Croati e avere un giorno un esercito musulmano», ha dichiarato Dodik facendo riferimento al sistema di ripartizione tra le tre etnie che dà vita alla forza armata bosniaca, oggi composta da 10 mila uomini. Un esercito diviso sarebbe il primo passo verso la dissoluzione della Repubblica Federale bosniaca, prevista già da un leak di un documento europeo dello scorso aprile in cui veniva riportata una spartizione della Bosnia a vantaggio di Croazia e Serbia. La speranza, nemmeno tanto nascosta, sia del presidente serbo Alexsandr Vucic che di Vladimir Putin, due dei grandi sponsor di Dodik insieme a Viktor Orban e Janez Janša, che di recente gli hanno fatto visita a Banja Luka, capitale della Republika Srpska.

Il personaggio
La minaccia stavolta sembra seria e gli alleati sono di assoluto spessore. Eppure, il leader politico dei serbi di Bosnia viene ancora oggi trattato come un novello Pierino che grida al lupo: nessuno crede a quello che dice. Il paragone sembrerà eccessivo ma è così che viene visto Dodik dalle principali istituzioni internazionali. Classe 1959 e un cursus honorum percorso tutto all’interno delle istituzioni serbe della Bosnia, da cui poi ha preso il volo per quelle federali, Dodik ha sempre avuto in testa un unico pensiero: la secessione della Repubblica Sprska dalla Bosnia-Erzegovina. Una minaccia ormai ripetuta da quasi 15 anni ma mai concretamente realizzata, visto che l’intenzione era soprattutto quella di indebolire il controllo occidentale su Sarajevo, ottenendo concessioni su concessioni, rafforzando i legami a Oriente.

Il primo, e pare quasi ovvio, è quello con il presidente serbo Alexsandr Vucic che a sua volta, è costantemente accompagnato da Dodik in tutti gli incontri pubblici, poco importa se siano interni o internazionali, per motivi soprattutto di immagine: Belgrado punta da tempo a rinnovare la sua immagine di grande potenza nella regione, intromettendosi spesso nelle questioni di altri Paesi (come nel caso del Montenegro, che Linkiesta ha raccontato alcune settimane fa). Un altro è quello con la Russia, grande alleata del governo di Banja Luka nell’indebolire il controllo dell’Occidente sulla Bosnia come dimostra il tentativo (riuscito) di sminuire la figura di Schmidt in seno al Consiglio di sicurezza.

A questi due non potevano mancare ovviamente sia Slovenia che Ungheria che su simili fascicoli procedono spesso a braccetto: l’ultima visita in ordine di tempo è stata quella di Jansa, presidente di turno del Consiglio dell’Unione e tra le possibili menti dietro la spartizione della Bosnia, ma ben più significativa è stata la visita di Orban e del suo ministro degli esteri, Péter Szijjártó, qualche giorno prima. La ragione è chiara: il governo ungherese ha preferito fare visita prima al governo serbo di Bosnia e poi a quello federale.

Un esempio concreto delle parole espresse dall’autocrate: «Rispetto molto la Bosnia Erzegovina, ma vorrei avere legami ancora più stretti con la Repubblica Sprska». La volontà di stringere questo legame ha evidentemente un piano dietro, come dimostra la volontà espansiva dello stesso esecutivo ungherese, in questi giorni impegnato anche nell’acquisizione del secondo più grande distributore di energia elettrica della Slovacchia. Dodik sembra essere la marionetta perfetta.

Reazioni e conseguenze
Tante parole ma poche azioni finora sia da Bruxelles che da Washington. «La Bosnia è in un momento critico nella sua storia del dopoguerra. La retorica accesa deve finire», ha dichiarato l’ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield. Sonia Farrey, coordinatrice politica del Regno Unito presso le Nazioni Unite, ha evidenziato come il rapporto di Schmidt dipinga «un quadro molto preoccupante. Dobbiamo prestare la massima attenzione al suo avvertimento sulle reali prospettive di ulteriori divisioni e conflitti».

Le sanzioni però finora sono state poche, anche perché non c’è ancora un parere comune sulla reale minaccia della Bosnia. Lo dimostra l’intervista Al quotidiano austriaco Der Standard di Aleksander Placer, comandante della forza di peacekeeping EUFOR in Bosnia, che ha dichiarato di «non aver visto alcuna minaccia militare in seguito alle mosse di Dodik per creare un esercito serbo, che però non è ancorato all’accordo di pace di Dayton. La situazione della sicurezza in Bosnia è stabile in questo momento».

Mentre gli Stati Uniti inviano ambasciatori per capire la serietà delle intenzioni di Dodik, a Bruxelles tutto resta fermo. Da segnalare soltanto le parole di Peter Stano, portavoce del capo della politica estera dell’UE Josep Borrell, che ha sottolineato come la situazione in Bosnia «sia una fonte di grande preoccupazione per l’Unione europea». Su tutto il resto vige il silenzio. «Penso che la mancanza di comprensione della situazione in Bosnia, in particolare da parte dell’UE, sia enorme e che sarà proprio Bruxelles a pagare il prezzo più alto per questa mancanza di reazioni tempestive», ha affermato Senada Šelo Šabić, ricercatore senior presso l’Istituto croato per lo sviluppo e le relazioni internazionali in un’intervista a POLITICO Europe. «Semplicemente, l’attenzione è altrove, cosa che capisco perfettamente. Ma, sfortunatamente, l’Europa non può evitare le conseguenze del conflitto o il degrado della Bosnia per la propria sicurezza e i propri interessi politici ed economici».
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