Autodeterminazione, tra individuo e Stato. Tra Russia e Ucraina (1° parte)
http://www.lindipendenza.com/ebeling-au ... 2%B0-partedi RICHARD EBELING*
La crisi ucraino-russa che nelle ultime settimane ha alimentato le preoccupazioni e le paure del mondo, ruota intorno a due pretese contrastanti di autodeterminazione nazionale. Perché questo conflitto? Riguarda il destino di un popolo e come verrà deciso da quali autorità sarà governato. Gli americani non capiscono perché per molti in Europa e in altre parti del mondo tale scontro genera rabbia e paura, e perché può sfociare in un potenziale o reale conflitto violento.
LA FILOSOFIA AMERICANA DELL’INDIVIDUALISMO
Il sistema politico americano era basato su una filosofia incentrata sull’individualismo. Cioè, ogni individuo è riconosciuto in possesso di alcuni diritti inalienabili come quello alla vita, alla libertà e alla proprietà acquisita in modo onesto. L’individuo non è proprietà di un monarca assoluto o di una maggioranza arbitraria.
Nell’ambito del sistema americano tradizionale, quasi ogni area della vita umana era vista come una questione privata della persona che aveva il diritto inalienabile di guidare e progettare la propria vita secondo i propri valori, credenze e scopi. Presero forma, e cambiarono nel tempo, le relazioni interpersonali nella società sulla base di associazioni e scambi volontari reciprocamente vantaggiosi.
In campo sociale, questa filosofia individualista implicava che le persone dovessero essere giudicate come individui, e non sulla base di “accadimenti alla nascita” come la lingua, la religione, l’etnia o la razza. Naturalmente, e purtroppo, le persone nelle loro interazioni sociali con gli altri non hanno sempre perseguito questo ideale. Gli americani, nella loro vita privata, troppo spesso hanno giudicato gli altri e hanno agito sulla base di pregiudizi razziali, religiosi, linguistici, ecc.
Tuttavia, quando la segregazione razziale negli anni ’60 era ancora legge negli Stati del sud, sempre più americani riconobbero che quell’imposizione legale era incompatibile con i principi fondanti del paese, e non poteva sopravvivere nel lungo periodo. I pregiudizi privati e gli atti discriminatori sulla base della razza, della religione o della lingua erano per certo moralmente riprovevoli, ma faceva parte della libertà di un individuo decidere con chi associarsi.
Tuttavia tale discriminazione non doveva essere portata nell’arena della politica sociale o economica del governo, poiché sarebbe stata considerata una violazione dei diritti individuali: sarebbe stato utilizzato il potere dello stato per danneggiare alcune persone sulla base di una classificazione collettiva della loro identità. Gli americani sono stati anche un popolo molto mobile. Fin dai tempi coloniali, gli americani sono sempre stati favorevoli allo “spostamento.”
Quella frase del XIX° secolo attribuita a Horace Greeley, «Vai ad ovest giovane uomo», ha rappresentato il motto culturale della nazione. Gli immigrati provenivano da paesi lontani e sparsi in tutto il continente, come fece ogni generazione dei nativi americani. Mentre il continente è stato “conquistato” e insediato molto tempo fa, gli americani ancora fanno fagotto e cambiano casa/lavoro molto più facilmente rispetto alla maggior parte degli europei.
LA FILOSOFIA EUROPEA DEL COLLETTIVISMO
La storia dell’Europa si fonda su una filosofia del collettivismo: l’idea che il gruppo venga prima dell’individuo, che la sua identità, scopi e significato siano legati ad una particolare “tribù” in cui è nato. Una delle più potenti variazioni sul tema collettivista è stato il nazionalismo. Prima della scomparsa del monarchismo alla fine del XVIII° e all’inizio del XIX° secolo, l’individuo doveva la sua fedeltà al re o all’imperatore che sosteneva di possedere e dominare tutto e tutti con autorità assoluta, di solito affermata per “diritto divino.”
Ma con l’avvento della Rivoluzione Francese nel 1789, tutto questo cominciò a cambiare. Con la fine della monarchia, sorse il problema: “Se non al re, a chi l’individuo deve la sua fedeltà?” Venne dichiarato che entro i confini di quello che era stato il territorio dell’ex-re, il nuovo sovrano sarebbero state “le persone.” La “nazione” era la nuova collettiva a cui l’individuo doveva la sua fedeltà e per la quale doveva sacrificarsi se il bene della “nazione” lo richiedeva.
NAZIONALISMO E IDENTITÀ COLLETTIVISTA
Ma cosa ha differenziato una “nazione” o un “popolo” rispetto ad un altro?Alcuni dei sostenitori e propagandisti del nuovo ideale nazionalista dell’identità umana hanno parlato di una cultura comune o un insieme di tradizioni estese a molte generazioni, le quali hanno plasmato il carattere dell’individuo definendo chi fosse e a chi fosse connesso.
Altri parlavano di lingua o di razza come collante di un popolo, utilizzando spesso il termine “uno” per specificare l’appartenenza. Si diceva che la struttura del linguaggio e il significato delle parole plasmasse il pensiero e il ragionamento di un gruppo di persone, dunque tutti coloro che parlavano la stessa lingua erano in qualche modo connessi l’un l’altro. Secondo altri invece, si trattava della connessione tra quelli provenienti dallo stesso ceppo genetico; l’identità collettiva e il senso di “unità” tra un gruppo di persone era da ritrovarsi “nel sangue.”
Tutti questi modi di identificare la nazionalità di un popolo erano spesso legati ad una zona geografica in Europa, che per un lungo periodo di tempo segno’ la patria storica o “naturale” delle persone che condividevano quella radice collettivista comune. L’ascesa del nazionalismo nel diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo sprono’ tutti i “popoli repressi” (vale a dire, quelle minoranze nazionali che vivevano in un paese dominato dalla maggioranza di un’altra nazionalità) ad avere i propri stati-nazione in modo da preservare e proteggere la loro lingua, l’unicità culturale ed etnica.
Inoltre, dal momento che sotto il sistema monarchico le terre erano state conquistate o acquisite attraverso matrimoni reali che non avevano nulla a che fare con quei confini geografici “naturali” dei vari gruppi nazionali, sorse l’esigenza di ridisegnare i confini. Questi ultimi, si diceva, avrebbero dovuto riflettere i gruppi nazionali che vivevano all’interno di tali aree.
C’era un problema però, soprattutto in Europa centrale e orientale. Centinaia di anni di guerre, conquiste e migrazioni avevano creato “sovrapposizioni” delle popolazioni nazionali. Era quasi impossibile tracciare bene e ordinatamente le linee politiche sulle mappe in modo che solo quelli di un determinato gruppo nazionale vivessero entro i propri confini. Ogni Stato-nazione conteneva inevitabilmente una o più minoranze appartenenti ad altri gruppi linguistici, culturali o etnici.
Se la filosofia liberale e individualista che era alla base del sistema politico americano fosse stata presente anche in Europa, ci sarebbero stati pochi “conflitti” (o nessuno) tra i diversi gruppi nazionali che vivevano nello stesso paese. Alcune persone potevano ritenere fastidioso o scomodo che alcuni dei loro vicini parlassero una lingua diversa, o praticassero una religione diversa o avessero diverse tradizioni culturali.
Ma se i loro sistemi politici si fossero basati su quei principi individualisti e liberali dell’America, allora non ci sarebbero stati favori politici elargiti a beneficio della maggioranza e a scapito dei membri di qualsiasi gruppo in minoranza. Ma, ahimè, ciò non accadde… soprattutto in Europa centrale e orientale. I governi vennero eletti o salirono al potere con lo scopo di garantire e salvaguardare gli interessi del gruppo nazionale in maggioranza. Gli interventi governativi, i regolamenti e le restrizioni andarono a beneficio di un gruppo e a scapito di tutti gli altri. A volte ciò includeva atti di violenza e brutalità che il governo istigo’ o si volto’ dall’altro lato mentre accadevano.
IL NAZIONALISMO ED I CONFLITTI PER I CONFINI
Questo ideale di autodeterminazione nazionale portò nel XIX° secolo all’unificazione politica italiana e tedesca, nonché alle rivolte dei polacchi contro i russi e degli ungheresi contro gli austriaci. La prima guerra mondiale disintegrò l’impero tedesco, austro-ungarico e russo che dominavano l’Europa centrale e orientale. Al loro posto sorsero una serie di nuovi Stati-nazione volti a rappresentare un nuovo ordine politico di autodeterminazione nazionale.
Molti dei governi di questi Stati-nazione utilizzarono la copertura dell’indipendenza nazionale e la conservazione nazionale per discriminare, politicamente ed economicamente, i gruppi di minoranze nazionali sotto la loro giurisdizione. Hitler giocò su queste “ingiustizie” nei confronti delle minoranze di lingua tedesca nella vicina Cecoslovacchia e Polonia, per giustificare la necessità di usare la forza politica e militare per proteggerle e portarle all’interno dei confini nazionali in modo che la Germania nazista potesse essere “pura.”
All’indomani della seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica conquistò l’Europa orientale. L’imposizione di governi comunisti nei paesi controllati da Mosca, servì a sopprimere tutte le differenze nazionaliste e le animosità del periodo pre-seconda guerra mondiale. Ma con il crollo di questi regimi comunisti nel 1989-1990 e della stessa Unione Sovietica nel 1991, tornarono a galla molti dei conflitti nazionalisti. Nel 1993 la Cecoslovacchia si separo’ pacificamente in due stati.
L’espressione più brutale di questi conflitti emerse nel corso degli anni ’90, quando i vari gruppi nazionali che formavano la Jugoslavia gareggiarono per l’indipendenza e per rivendicare quelle terre che rappresentavano i loro confini storici “legittimi”… inutile dire che queste rivendicazioni si sovrapponevano inevitabilmente con quelle degli altri gruppi nazionali.
CONFINI E NAZIONALISMO NEI PAESI POST-SOVIETICI
Con la disintegrazione dell’Unione Sovietica alla fine del 1991, le quindici “Repubbliche Sovietiche” che costituivano l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (U.R.S.S.) divennero Stati-nazione indipendenti. Il problema era che i loro confini nazionali rappresentavano l’eredità della leadership sovietica, in alcuni casi quella di Stalin stesso.
Per quanto riguarda la Crimea, era un’unità provinciale all’interno della Repubblica Sovietica Russa e venne trasferita sotto la giurisdizione della Repubblica Sovietica Ucraina mediante un decreto del governo centrale di Mosca nel febbraio 1954. Fu un “regalo” per celebrare il trecentesimo anniversario della fusione dell’Ucraina nell’Impero russo.
Sia la Russia post-sovietica sia l’Ucraina contengono minoranze linguistiche, o etniche, all’interno dei loro confini. In Russia, ciò è stato evidenziato dal conflitto che il governo di Mosca ha mosso contro i gruppi islamici nelle regioni montane del Caucaso del nord, il più brutale dei quali è stato quello contro i ceceni che desideravano l’indipendenza nazionale.
I confini politici dell’Ucraina includono i due gruppi linguistici dominanti: gli ucraini che costituiscono circa il 68% della popolazione, ed i russi che costituiscono circa il 30% (praticamente tutti gli ucraini conoscono e utilizzano anche il russo, e molti di lingua russa conoscono e capiscono l’ucraino). Nella penisola di Crimea, la ripartizione è quasi il 60% di lingua russa, il 25% di lingua ucraina e il 12% Tartari, che sono musulmani e parlano una lingua basata sul turco.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, la Crimea è rimasta parte del nuovo Stato indipendente dell’Ucraina. Nessuno ha preso in considerazione il fatto che molte delle persone che parlano russo, avrebbero preferito far parte della Federazione russa post-sovietica. Molti ucraini, soprattutto nella parte occidentale del paese, sono stati a lungo anti-russi.
Prima della prima guerra mondiale questa parte dell’Ucraina faceva parte dell’impero austro-ungarico, e dopo il 1918 fu incorporata nella nuova Polonia. L’Ucraina occidentale fu solo annessa all’Unione Sovietica nel 1939, quando i tiranni totalitari Hitler-Stalin stipularono il famigerato patto di dividersi la Polonia e l’Europa orientale.
La “sovietizzazione” dell’Ucraina occidentale andò avanti a passi spediti, con molti ucraini che finirono uccisi o deportati in Siberia dalla polizia segreta di Stalin. E questo dopo che milioni di altri ucraini nella parte del paese già controllata dall’Unione Sovietica furono uccisi, affamati o ammazzati di lavoro nei primi anni ’30, come parte del piano di collettivizzazione forzata di Stalin.Nel giugno del 1941 un numero considerevole di ucraini collaborò attivamente con i nazisti dopo che invasero l’Unione Sovietica, partecipando anche all’assassinio di massa degli ebrei.
Anche dopo la fine della guerra nel 1945, le bande di nazionalisti ucraini continuarono fino al 1951 a combattere l’esercito sovietico nelle foreste dell’Ucraina occidentale. I nazionalisti più radicali tra gli ucraini vogliono limitare la libertà linguistica e l’educazione linguistica dei russofoni nelle zone orientali del paese, dove è maggiormente concentrata quella parte di popolazione di lingua russa.
Ma molti ucraini hanno poca o nessuna compassione per tali politiche discriminatorie contro i loro concittadini. Un buon numero di cittadini russofoni del paese, si sente molto più legato alla tradizione linguistica e culturale della Russia. Molti si risentono del fervore nazionalista anti-russo di alcuni dei loro concittadini ucraini e spesso si ritrovano a guardarli dall’alto in basso, considerandoli “piccoli fratelli” del più “grande” popolo russo.
In Crimea, al giorno d’oggi, questi sentimenti hanno raddoppiato il loro carico. Anche se separata dalle manipolazioni della macchina propagandistica del governo russo, la maggior parte dei russofoni che vive in Crimea preferirebbe una maggiore autonomia dalle autorità ucraine, o addirittura essere politicamente annessa alla vicina Russia.
Parallelamente, i gruppi di lingua ucraina nella popolazione in Crimea, insieme ai Tartari, preferirebbero far parte dell’Ucraina piuttosto che finire sotto lo stretto controllo politico di una maggioranza di lingua russa. Va sottolineato che la propaganda arrivata dalla Russia (secondo cui c’è stato un cambio di gestione “fascista” a Kiev, capeggiato da criminali nazisti ed estremisti nazionalisti ucraini) dopo il rovesciamento del presidente ucraino, Victor Yanukovich, non è altro che un’esagerazione.
Molte delle migliaia di persone che erano per le strade della capitale ucraina ad opporsi al governo corrotto di Yanukovych, e decine delle quali sono state uccise dalle forze governative, provenivano da un ampio spettro della società ucraina, politicamente ed etnicamente. Ciononostante, i membri dei partiti ucraini più estremisti hanno un considerevole numero di incarichi ministeriali nel governo provvisorio, il quale traghetterà il Paese fino alle elezioni che si terranno a maggio 2014.
IL NAZIONALISMO E L’INTERVENTISMO
Tuttavia, il cuore del conflitto nasce da due problemi: primo, “l’autodeterminazione” è definita in termini collettivi. Non è diritto dell’individuo decidere in quale stato-nazione, o altra entità politica, potrà vivere. No, questa è una questione riservata al gruppo linguistico e culturale nel suo complesso, a cui egli identifica la sua appartenenza.
Il presupposto implicito è che tutte quelle persone che condividono una lingua o una cultura o una religione comune, hanno stessi interessi e desideri. Ciò include una preferenza nel voler appartenere allo stesso stato-nazione, custode e guardiano dell’identità nazionale di un gruppo contro quella di altri gruppi nazionali che si presume siano una “minaccia” per la collettività.
In secondo luogo, nonostante il grado di riforme orientate al mercato che sono state introdotte sia in Ucraina che Russia sin dalla frantumazione dell’Unione Sovietica, il fatto è che entrambi, nei loro modi distinti, sono a favore di politiche interventiste e manipolatorie. Il governo è visto come un dispensatore di benefici, privilegi e protezione dalla concorrenza. Connessioni politiche, corruzione ed influenza sono le caratteristiche peculiari della ricchezza e dello status sociale.
La corruzione ha fruttato decine di miliardi grazie ai “favoritismi” politici, ovviamente a scapito della maggioranza della popolazione. Gli ucraini temono che se finissero sotto il controllo della Russia, le leve del privilegio e della rapina funzionerebbero di più per i russi che per loro; così diventerebbero le vittime da cui altri trarrebbero vantaggio. Specularmente, alcuni russofoni in Ucraina temono che i nazionalisti ucraini più radicali potrebbero usare il potere politico per reprimerli e discriminarli (culturalmente ed economicamente).
Ma va anche detto che una distinzione importante tra l’Ucraina e la Russia, è che nella prima un gran numero di persone è sceso in strada e ha dimostrato, a volte con la perdita della propria vita, il desiderio di un cambiamento politico reale dalla corruzione politica. Resta da vedere se questo sia anche foriero di un cambiamento da una filosofia collettivista ad una individualista.
In Russia, invece, il dissenso politico viene tenuto sotto controllo da un regime autoritario. Vladimir Putin considera il crollo dell’Unione Sovietica la più grande tragedia geopolitica del XX° secolo, e vorrebbe ripristinare la “grandezza della Russia” in termini di potere politico e timore sulla scena mondiale. Agli occhi di Putin, l’Ucraina e la Crimea devono finire nella sfera di influenza russa come una questione di “interesse nazionale,” anche se questo comporta l’uso della forza militare e di menzogne propagandistiche.
Dal momento che due autorità politiche non possono occupare e avere il controllo amministrativo sulla stessa area geografica (o la sovranità nazionale e politica ucraina o la sovranità nazionale e politica russa sulla Crimea) il conflitto e il controllo politico dei confini rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra. Esiste una via d’uscita? Visto che la realtà nazionalista dello stato-nazione fa appello all’identità collettiva e rende improbabile una risoluzione dei conflitti, quale potrebbe essere una soluzione liberale o individualista a questa crisi? Lo discuteremo la prossima settimana nella Parte II.
Continua…
*Articolo tradotto in italiano da Francesco Simoncelli
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Autodeterminazione, tra individuo e Stato. Tra Russia e Ucraina (2° parte)http://www.lindipendenza.com/ebeling-au ... 2%B0-parteL’annessione della Crimea da parte del presidente russo Vladimir Putin ha riempito i titoli dei giornali di tutto il mondo, poiché sta tentando di invertire ciò che egli ha definito «la più grande catastrofe geopolitica del XX° secolo» il crollo dell’Unione Sovietica.
Ma occorre ricordare che questo conflitto ha le sue radici in due idee che hanno afflitto il mondo per oltre due secoli: il nazionalismo e l’interventismo del governo negli affari economici. Nei primi anni del XIX° secolo, la nuova idea nazionalista di autodeterminazione era considerata una logica estensione del concetto generale di libertà individuale e di libertà di scelta.
Proprio come un individuo dovrebbe avere la libertà di guidare la propria vita secondo i propri valori, credenze e ideali; proprio come dovrebbe essere libero di associarsi pacificamente con chi vuole sulla base di obiettivi condivisi o scambi reciprocamente vantaggiosi; allo stesso modo il popolo dovrebbe avere la libertà di scegliere in quale stato vivere.
LIBERTÀ E IL GOVERNO SOTTO CUI VIVERE
L’ideale liberale comprendeva il diritto individuale alla libertà di movimento. Cioè, se un individuo sceglieva di trasferirsi in un altro paese per vivere o lavorare, e finché restava pacifico nella sua condotta e pagava i suoi conti, allora non ci dovevano essere ostacoli giuridici che gli impedissero di migrare liberamente da una parte ad un’altra del mondo.
Così, se una persona non era d’accordo con il governo sotto cui viveva, o si considerava in qualche modo oppresso o perseguitato da sudetta autorità politica, aveva la libertà di “votare con i piedi” e trasferirsi presso una giurisdizione politica di suo gradimento. Tuttavia, è stato anche sostenuto che le persone non dovrebbero lasciare la loro casa e paese a causa dell’oppressione di un governo tirannico. Dovrebbero essere in grado di influenzare e determinare la carica politica e, attraverso questa, le politiche attuate dal governo.
Nacque così la necessità di un governo rappresentativo al posto delle monarchie assolute, le quali pretendevano di governare per “diritto divino”. E’ stato anche affermato, come nella Dichiarazione di Indipendenza americana, che quando un governo diventa opprimente, e dopo molti tentativi ragionevoli e pacifici di manifestare le proprie rimostranze, gli individui hanno il diritto di sostituire quel governo e formarne uno nuovo che farà rispettare i loro diritti inalienabili alla vita, alla libertà e alla proprietà acquisita onestamente. Questa fu la logica che i padri fondatori americani adottarono nella rivoluzione contro la Gran Bretagna e nel formare la propria nuova nazione e sistema politico.
AUTODETERMINAZIONE E IL DIRITTO ALLA SECESSIONE PACIFICA
Ma perché gli uomini dovrebbero sopportare i costi umani e materiali del cambiamento violento, se non intendono più vivere sotto una particolare autorità politica? Così, sorse l’idea di un diritto alla secessione pacifica. Se un gruppo di persone che ha condiviso una serie di valori e credenze comuni, o una lingua o una cultura, volesse formare il proprio paese (indipendente da quello a cui era appartenuto fino a quel momento), o si volesse unire ad un altro paese esistente tramite uno spostamento territoriale, dovrebbe essere libero di prendere tale decisione.
La premessa fondamentale di questo diritto alla secessione era da ritrovarsi nel diritto all’autodeterminazione dell’individuo. Lo spiego’ con grande forza di persuasione l’economista austriaco Ludwig von Mises nel suo libro Liberalism (1927):«Il diritto all’autodeterminazione, per quanto riguarda la questione della partecipazione ad uno stato, significa questo: ogni volta che gli abitanti di un determinato territorio, sia esso un villaggio, un intero quartiere o una serie di distretti adiacenti, rendono noto, mediante un plebiscito volontario, che non vogliono più rimanere in quello stato a cui sono appartenuti fino a quel momento, ma desiderano formare uno stato indipendente o trasferirsi in un altro altro stato, i loro desideri devono essere rispettati. Questo è l’unico modo per prevenire rivoluzioni e guerre civili o internazionali. (…) Il diritto all’autodeterminazione di cui parliamo, non è un diritto delle nazioni, ma piuttosto è il diritto di quegli abitanti in un territorio grande abbastanza da formare un’unità amministrativa indipendente. Se fosse possibile concedere suddetto diritto ad ogni singola persona, dovrebbe essere fatto. Ciò non è fattibile solo a causa di considerazioni tecniche [es. forze di polizia e giustizia], le quali rendono necessario che una regione sia considerata come una singola unità amministrativa e che il diritto all’autodeterminazione sia limitato alla volontà della maggior parte degli abitanti di aree abbastanza grandi da contare come unità territoriali in grado di gestire un Paese».
IL COLLETTIVISTA SI RIVOLGE ALL’AUTODETERMINAZIONE NAZIONALE
Il problema nacque tra il XIX° e XX° secolo quando l’idea del diritto individuale all’autodeterminazione, come spiegata da Mises, venne sostituita dal concetto collettivista di autodeterminazione nazionale. Cioè, l’unità del processo decisionale non era più l’individuo, ma “il popolo” definito come un gruppo nazionale che condivideva alcune caratteristiche comuni (es. linguaggio, cultura, religione, etnia o razza) e una presunta “patria nazionale” su una particolare area geografica.
Una volta insediato, il governo che rappresentava quel gruppo nazionale doveva usare la sua autorità politica per imporre l’uso di una determinata lingua, o indottrinare tutti gli abitanti di tale “stato-nazione” nei costumi e nelle tradizioni di quel gruppo nazionale attraverso la scolarizzazione, la propaganda e restrizioni all’introduzione di influenze culturali “aliene”, a prescindere dalla volontà dei singoli cittadini di quel paese, compresi quelli che avrebbero potuto costituire una minoranza linguistica o culturale.
INTERVENTI GOVERNATIVI CONTRO LE MINORANZE NAZIONALI
Spesso, nella storia europea, i governi nazionali hanno discriminato duramente le minoranze linguistiche, etniche o religiose all’interno dei loro confini nazionali. Vennero utilizzate procedure di regolamentazione per impedire a tali minoranze di praticare certe professioni o mestieri. Vennero imposte tasse che a parole erano definite “neutre dal punto di vista della lingua,” ma che finirono per prendere di mira alcuni settori dell’economia al cui interno c’erano molti membri delle minoranze, ponendoli in una situazione di svantaggio competitivo rispetto al gruppo nazionale di maggioranza.
Gli interventi del governo nell’economia (attraverso tassazione e procedure burocratiche) hanno imposto oneri di parte sugli individui e sui gruppi linguistici, etnici e religiosi minoritari; misure quasi sempre nascoste sotto la copertura della “salvaguardia” del patrimonio culturale, linguistico o storico del gruppo nazionale di maggioranza. Qui possiamo osservare la cosiddetta “autodeterminazione nazionale” e gli attuali dilemmi interventisti nella crisi internazionale tra Russia e Ucraina.
Questa parte d’Europa non ha mai avuto la possibilità di assorbire completamente le idee “dell’Occidente” riguardo la filosofia politica dell’individualismo, della libertà personale, della proprietà privata, del rispetto dei contatti e dello stato di diritto imparziale.
IL COLLETTIVISMO DELLA RUSSIA IMPERIALE E SOVIETICA
L’unico scopo del governo è quello di saccheggiare gli altri attraverso privilegi politici, favori e “connessioni” con coloro che hanno autorità, questo concetto ha pervaso la Russia sia in epoca imperiale (prima della rivoluzione bolscevica) sia in epoca comunista nei settantacinque anni di pianificazione centrale dell’economia.
Nella vecchia Russia sotto la monarchia assoluta, lo zar era il proprietario nominale di tutte le terre e delle proprietà sopra di esse. Il possesso non era un “diritto” che apparteneva all’individuo, ma un privilegio concesso dallo zar ad una persona e ai suoi eredi. Sia il plebeo che il nobile potevano vedersi togliere dallo zar tutto ciò che possedevano se fossero caduti in disgrazia o se si fossero opposti ai desideri del sovrano assoluto. Ciò includeva anche l’esilio nelle vaste terre desolate della Siberia.Dopo la rivoluzione comunista del 1917, tutti i terreni di proprietà privata e il capitale vennero confiscati e trasferiti al nuovo Stato socialista rivoluzionario. I mezzi di produzione erano controllati e gestiti dal nuovo governo sovietico attraverso un sistema globale di pianificazione centrale, ovviamente in nome del popolo e per il suo bene. Con il governo socialista come singolo produttore e datore di lavoro, il destino di ogni persona all’interno dell’Unione Sovietica era determinato da come egli si sarebbe inserita nel “piano” socialista di costruire un radioso futuro collettivista.
PRIVILEGI POLITICI NELLA SOCIETÀ SOVIETICA “SENZA CLASSI”
La cosiddetta “società senza classi” dell’Unione Sovietica era un intricato sistema di potere, privilegio e controllo comandato dal Partito Comunista. Le gradazioni di privilegio permeavano tutto il sistema sovietico: assegnazioni di appartamenti, accessi speciali a negozi di alimentari e cliniche mediche, accettazione in istituti di istruzione superiore e in resort, il tutto in base alla propria posizione all’interno della struttura del partito o all’occupazione nelle diverse imprese statali.
Il sistema sovietico funzionava in base al “rango” posseduto all’interno delle gerarchie di potere. Nella struttura del Partito Comunista i subalterni versavano un “tributo” a quelli sopra di loro sotto forma di “doni” e “servizi,” ricevendo, a loro volta, “favori” e vantaggi per la loro lealtà e obbedienza. Un sistema che ricordava molto quello feudale tra signori e servi della gleba.
In tale sistema il concetto di “diritto” alla vita, alla libertà e alla proprietà non aveva alcun significato. L’unica regola era quella di prendere ciò che si poteva da qualsiasi accesso privilegiato alle risorse e ai beni posseduti e prodotti dallo stato. Ingannare, manipolare e rubare quello che si poteva era la natura della “concorrenza” nel paradiso della pianificazione centrale socialista. L’unica “regola del gioco” era quella di non farsi prendere, cercando di rimanere “nelle grazie” dei propri superiori nella struttura comunista del potere e di usare gli altri in qualsiasi modo che potesse favorire il proprio interesse personale.
UCRAINA E RUSSIA, TERRE DI SACCHEGGIO
Questo è il lascito ereditato da chi è salito al potere nella nuova e “democratica” Ucraina, così come è accaduto anche nella Federazione russa post-sovietica. Ogni partito politico che sin dal 1991 ha vinto le elezioni in Ucraina, ha usato il potere dello stato per arricchire i suoi membri più importanti e coloro che hanno fornito sostegno e fedeltà in cambio di privilegi e favori vari.L’Ucraina, come la maggior parte delle altre ex-repubbliche sovietiche, è stata una terra di abusi, corruzione ed enormi saccheggi da parte di oligarchi plutocratici e gruppi di interesse in grado di manipolare le sale interventiste del potere politico. In Ucraina le migliaia di persone che nel febbraio scorso manifestavano contro il governo corrotto e assassino di Victor Yanukovich, hanno mostrato il desiderio, e alcuni perdendo anche la vita, di volere un paese “nuovo” e più filo-occidentale.
Eppure tra questi ucraini c’è un numero significativo di ardenti nazionalisti che è più interessato alle proprie concezioni collettiviste che ad una società più aperta e libera, in cui ogni cittadino può scegliere volontariamente su questioni come lingua e cultura, e può vivere la propria la vita così come ritiene giusto. A questo proposito la differenza principale tra Ucraina e Russia sin dal crollo dell’Unione Sovietica, è che la Russia è un paese più grande da saccheggiare e di gran lunga peggiore nel suo autoritarismo politico sotto Vladimir Putin.
Nulla accade in Russia senza collegamenti, “spinte” e tangenti. I diritti di proprietà non hanno alcun significato: un giorno avete un’attività e quello successivo può essere confiscata con false accuse; poi se il proprietario è russo può essere imprigionato e mandato in Siberia, se invece è straniero può essere espulso dal Paese con relativa perdita del suo investimento. I mezzi di informazione, in particolare la radio e la televisione, sono sotto il controllo monopolistico del governo.
Anche i giornali “indipendenti” ed altri punti di informazione su internet sono soggetti a gradi coscienti di auto-censura sotto la minaccia di arresti. Agli occidentali vengono revocate le varie autorizzazioni ed i visti per risiedere in Russia, se malauguratamente decidono di diffondere informazioni che in qualche modo rappresentano una sfida o una minaccia per l’attuale sistema di potere russo. Il dissenso in strada è spesso placato con la mano pesante della polizia, e con il pericolo di ammende elevate e periodi incerti di reclusione.
I CONFLITTI ETNICI ALL’INTERNO DELLA RUSSIA
Inoltre, il governo centrale russo, quelli regionali e quelli municipali hanno trattato con dispotismo alcune minoranze etniche nella Federazione russa. Diversi gruppi musulmani nella regione montuosa del Caucaso, in particolare i ceceni, hanno tentato di ottenere l’indipendenza nazionale. Questa situazione ha portato distruzione e migliaia di morti, poiché il governo russo sotto Putin ha cercato di schiacciare le ribellioni in quella parte del Paese.
In risposta, i ceceni e altri gruppi affini hanno fatto ricorso ad attacchi terroristici indiscriminati a Mosca e, più di recente, in una stazione ferroviaria a Volgograd. In molte parti del paese i russi sono arrabbiati e spaventati. I ceceni e gli altri gruppi nella regione meridionale della Russia europea sono stati maltrattati, derubati e in alcuni casi sono stati uccisi. Nonostante il fatto che ogni cittadino russo abbia libertà di movimento e residenza entro i confini della Federazione russa, i ceceni e altri gruppi sono stati costretti ad ottenere permessi di soggiorno o addirittura sono stati espulsi da Mosca e da altre città, solo a causa della loro etnia.
IL CONFLITTO UCRAINO E RUSSO PER LA CRIMEA
A Kiev si dice che la Crimea sia parte integrante dell’Ucraina e non può distaccarsene senza l’approvazione di tutto il Paese. A Mosca si dice che la Crimea rappresenti una zona storicamente importante per la Russia, e il popolo della penisola dovrebbe decidere se aderire o meno alla Federazione russa. Il problema è che la Crimea è popolata da tre gruppi: russofoni che costituiscono quasi il 60% della popolazione, ucraini che rappresentano circa il 25% delle persone e tartari musulmani che costituiscono crica il 12% della popolazione.Se un referendum sul futuro della Crimea dovesse chiamare alle urne tutta la popolazione dell’Ucraina, o i rappresentanti nel parlamento di Kiev, la maggioranza ucraina voterebbe senza dubbio contro. La maggioranza di russofoni in Crimea sarebbe costretta a vivere in un paese al quale non si sente di appartenere.
Qualsiasi votazione in Crimea, anche se “giusta” e sotto il controllo internazionale per impedire “irregolarità”, finirebbe inevitabilmente con la vittoria della maggioranza russa e l’unificazione alla Federazione russa. Cio’ forzerebbe molti ucraini e tartari ad essere cittadini di un paese (la Russia) nel quale non vorrebbero vivere. Dopo il comportamento criminale delle bande russofone “di difesa” e quello brutale delle forze militari russe sin dalla loro “non invasione”, le minoranze ucraine e tartare si sentirebbero certamente frustrate e timorose se il risultato di un referendum fosse pro-Russia.
Nel contempo, dato che un numero considerevole di russofoni in Crimea ha sostenuto il movimento per l’annessione alla Russia, se la penisola dovesse rimanere all’Ucraina il risentimento e la rabbia nei loro confronti potrebbe facilmente tradursi in una spirale di “ritorsioni,” o anche l’arresto e la detenzione di alcuni di loro come “traditori” alla madrepatria ucraina.
Questi possibili esiti rispecchiano l’effetto dell’autodeterminazione pensata in termini nazionalistici e collettivisti: deve decidere la “nazione ucraina nel suo complesso,” o deve decidere la maggioranza all’interno della penisola di Crimea e imporre il risultato alle minoranze etniche e linguistiche.
UNA SOLUZIONE PER LA CRIMEA PIÙ IN SINTONIA CON L’AUTODETERMINAZIONE INDIVIDUALE
Quale potrebbe essere una “terza via” liberale al posto di un referendum ucraino a livello nazionale o un plebiscito inneggiante a “chi vince si prende tutto”? Una soluzione a questo dilemma, come discussa da Ludwig von Mises, prevede che ogni villaggio e città in Crimea abbia un plebiscito in cui i residenti possano decidere tra l’indipendenza, la riunificazione con la Russia, o restare con l’Ucraina.
La nuova mappa politica della Crimea assomiglierebbe molto ad una scacchiera colorata: quei villaggi o città a maggioranza ucraina e tartara, sarebbero dello stesso colore dell’Ucraina; altre porzioni della Crimea, forse gran parte della penisola, sarebbero dello stesso colore della Russia; e alcune aree sarebbero di un colore diverso da quello dell’Ucraina o della Russia, se in quei distretti o città la maggioranza optasse per formare un governo separato.
Le minoranze etniche o linguistiche sarebbero sollevate dal disagio continuo di trovarsi circondate da una maggioranza di persone che parla una lingua diversa o pratica diversi costumi? Scomparirebbero discriminazione politica o favoritismo della maggioranza se venisse utilizzato il potere dello stato? Purtroppo, la risposta è solo una: “No.”
Finché la gente crederà che regolamentare il commercio e l’industria, redistribuire la ricchezza e interferire nella libera associazione delle persone sia dovere e responsabilità del governo, il potere politico verrà usato a beneficio di alcuni e a spese di altri. Ma un sistema di plebiscito locale nel determinare la formazione dei governi e dei confini delle entità politiche, darebbe ad ogni individuo più peso nel decidere il proprio futuro rispetto a quando è perso nella grande massa di persone del moderno stato-nazione. E come minimo tenderebbe a minimizzare il numero di persone che potrebbero trovarsi ad essere una minoranza etnica o linguistica.
Il fatto che alcune delle aree appartenenti ad una certa autorità politica potrebbero non essere contigue, ma separate da territori di altri paesi, non dovrebbe essere considerato un problema se tra di loro esiste un minimo di libertà di circolazione e di libero scambio. Un risultato particolarmente illuminante dell’Unione Europea è stata l’abolizione dei controlli alle frontiere, così la gente può muoversi liberamente tra i paesi membri (come fanno gli americani tra i vari stati degli Stati Uniti).
Se un metodo più liberale venisse applicato ovunque per risolvere questi tipi di controversie, allora i confini statali e le frontiere politiche non sarebbero più determinate dal sangue e dalla conquista, ma dalle scelte delle stesse persone che risiedono in tali aree. Inoltre, potrebbero essere oggetto di revisione al cambiamento della demografia e delle preferenze delle persone.
Un plebiscito potrebbe essere tenuto una volta ogni dieci o venti anni, come formalità. Oppure potrebbe essere tenuto ogni volta che, per esempio, i due terzi della popolazione in una zona presentino una petizione per indire un tale plebiscito. Tale modo di definire i confini delle entità politiche non implica necessariamente il nazionalismo esclusivista.
Gli abitanti di alcune regioni, città o distretti potrebbero voler formare Stati separati o unirsi a quelli più grandi (multi-etnici, multi-linguistici e culturalmente diversi). Inoltre, nella misura in cui c’è libertà di movimento e di commercio, tutti possono trarre vantaggio dalla diversità della cultura mondiale e da una divisione del lavoro internazionale.
L’IDEALE DELL’AUTODETERMINAZIONE INDIVIDUALISTA PER IL FUTURO
Purtroppo tante persone ed i loro governi non sono pronti per un tale sistema di tolleranza e rispetto nello stabilire gli affari politici e le linee di confine. Troppi ancora sostengono il punto di vista collettivista secondo cui il gruppo o la tribù possiede l’intero territorio di uno Stato-nazione, compresi coloro che vivono, lavorano e muoiono al suo interno.
Ma possiamo desiderare che dopo un certo numero di guerre e campagne di terrorismo contro gli innocenti, le persone possano finalmente riuscire a vedere l’importanza e il valore del rispetto dei diritti e delle scelte degli altri individui con i quali vivono in questo mondo travagliato.
*Articolo tradotto in italiano da Francesco Simoncelli