12)
L'inferno imperialista, suprematista, comunista e nazi fascista russo:
dalla Russia degli Zar con i suoi servi della gleba a quella dell'URSS con i suoi gulag e poi a questa del macellaio del Cremlino Putin, l'ex colonnello del KGB sovietico e capo assoluto degli oligarchi al cui cospetto tremano le gambe.
È stato per allontanarsi da questo inferno che l'Ucraina, nei secoli, quando ha potuto ha cercato di liberarsi del dominio russo e nel 1991 al libero referendo ha votato in massa al 90% per l'indipendennza e poi ha cercato aiuto e alleanza con l'Occidente, la UE, gli USA e la NATO, e come dargli torto?
La Russia nazi fascista di Putin
La Russia di Putin e l'Ucraina e la putinlatria
viewtopic.php?f=92&t=2990
Putin, no grazie! Sta con il male della terra.
Putin il dittatore zarista ex comunista che piace ai rosso bruni destro sinistrati dell'Occidente in perenne attesa di un Messia cazzuto e armato.
E tra questi anche i poveri venetisti che sognano il ritorno della Serenissima con la sua aristocrazia cristiana illuminata e che sperano che Putin possa regalargliela come fosse un super Babbo Natale con il magico potere di riportare indietro le lancette della storia e di favorirne un'altra a loro gradita e che a suo tempo Venezia e la sua Serenissima non hanno saputo e voluto costruire.
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 8961991036
1)
A me la Russia imperialista di Putin che sta sempre con il male delle dittature comuniste e maomettiste e i nemici dell'Occidente e degli ebrei (Corea del Nord, Cina, Venezuela, Iran, ...) non mi piace proprio per niente.
Non mi piace il suo imperialismo (zarista, sovietico, putiniano), non mi piace il Putin del KGB, non mi piace la sua arroganza, non mi piace il suo essere sempre anti USA e anti occidente.
Chediamoci perché la Russia che è grande quasi il doppio degli USA, dotata di incommensurabili ricchezze minerarie ed energetiche, con 150 milioni abitanti 2,5 volte gli abitanti dell'Italia e poco meno della metà degli USA, abbia un PIL inferiore a quello italiano e 1/12 di quello USA
Chiediamoci perché la Russia è sostenitrice e il massimo fornitore di armi alle dittature e agli stati canaglia di tutto il mondo che sono prevalentemente nazi comunisti e nazi maomettani.
La Russia di Putin si alimenta del male del Mondo e a sua volta lo alimenta.
Sulla democraticità e la libertà politica della e nella Russia di Putin
vedasi questa classificazione dei vari paesi del mondo dove la Russia si colloca in fondo alla lista molto al di sotto dell'Ucraina:
Russia 20 - Ucraina 60 su una scala di 100 = Finlandia = 100
https://freedomhouse.org/countries/freedom-world/scores
Percezione della corruzione nel Mondo, classifica dei paesi più corrotti
https://it.wikipedia.org/wiki/Indice_di ... corruzione
179 paesi
Il meno corrotto è la Danimarca = 1
il più corrotto è Sudan del Sud = 179
Italia, Grenada, Malta e Isole Mauritius= 52
Ucraina = 117
Russia e Mali = 129
Nella classifica mondiale della Libertà di stampa, agli ultimi posti vi sono tutte le dittature:
Corea del Nord, Cina, Iran, Venezuela e Russia.
L'Italia si posiziona nella parte bassa di questa classifica proprio verso questi paesi dove la Libertà di stampa non esiste e la testimonianza che lo conferma ci viene proprio dall'enorme spazio che in Italia viene dato alla informazione manipolata che disinforma proveniente da questi paesi, dove vige la dittatura più feroce e la censura più ferrea con uccisione e imprigionamento sistematici dei dissidenti e dei giornalisti, specialmente in Russia.
Classifica mondiale Libertà di stampa
https://it.wikipedia.org/wiki/Indice_de ... _di_stampa
da 1 (dove vi è più libertà a 180 dove vi è meno libertà) dati aggiornati al 2019
Norvegia 1
Svizzera 6
Germania 13
Lettonia 24
Sudafrica 31 (?)
Francia 32
Corea del Sud 41
Italia 43
USA 48 (?)
Polonia 59
Tunisia 72 (?)
Israele 88 (?)
Ucraina 102
Nigeria 120
Afganistan 121 (?)
Marocco 135
India 140
Venezuela 148
Russia 149 (?)
Bielorussia 153
Egitto 163
Cuba 169
Cina 177
Corea del Nord 179
Tutkmenistan 180 (?)
Giornalisti uccisi nella Russia di Putin
https://it.wikipedia.org/wiki/Giornalis ... _in_Russia
Il mestiere di giornalista, in Russia, divenne progressivamente più pericoloso a partire dall'inizio degli anni novanta, ma l'opinione pubblica internazionale iniziò a interessarsi al fenomeno solo in seguito all'omicidio della giornalista Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006, e alla lunga scia di omicidi di giornalisti rimasti ufficialmente senza un colpevole. Mentre alcune associazioni internazionali riferiscono di diverse dozzine di omicidi, altre parlano di oltre duecento uccisioni.
Due rapporti pubblicati da organizzazioni internazionali, disponibili in lingua russa e in lingua inglese, hanno esaminato e documentato la situazione. Un'ampia inchiesta commissionata dall'International Federation of Journalists su questo tema è stata pubblicata nel giugno 2009. Allo stesso tempo l'IFJ ha pubblicato un database direttamente consultabile su internet] che documenta la morte o scomparsa di più di 300 giornalisti a partire dal 1993. Entrambi i report, quello di Partial Justice[4] (versione russa: Частичное правосудие) e quello del database IFJ, si basano su informazioni raccolte da associazioni e fondazioni russe che si occupano di monitorare lo stato dei media in Russia, come la Glasnost Defense Foundation e il Center for Journalism in Extreme Situations.
Dalla Russia con veleno | Tutti i casi di oppositori eliminati dal regime di Mosca
Linkiesta.it
Maurizio Stefanini
21 agosto 2020
https://www.linkiesta.it/2020/08/avvele ... asi-putin/
Il 20 agosto del 1940 a Città del Messico Ramón Mercader diede una picconata in testa a Lev Trotzky, che morì 26 ore dopo. Esattamente 80 anni dopo, il 20 agosto del 1920 Alexei Navalny è in coma, «in condizioni gravi ma stabili». Secondo la sua portavoce Kira Yarmysh, probabilmente «avvelenato da qualcosa mescolato nel suo tè». «Era l’unica cosa che beveva al mattino». «Non aveva alcun sintomo prima del decollo del volo, aveva bevuto solo del tè nero all’aeroporto di Tomsk prima di partire. Poi si è sentito male», ha raccontato al sito Mediazona. Mentre alla radio Eco di Mosca ha ulteriormente puntualizzato: «Navalny ha detto che non stava bene e mi ha chiesto un tovagliolo, era sudato». «Abbiamo chiesto dell’acqua ma ci hanno detto che non lo avrebbe aiutato, poi è andato in bagno e ha perso conoscenza». «I medici dicono che con i liquidi caldi le sostanze tossiche vengono assorbite più velocemente». Il pilota ha chiesto l’atterraggio d’emergenza a Omsk. E poi è venuto il ricovero in ospedale.
Lev Trotzky dopo essere stato un leader della Rivoluzione Russa e l’organizzatore e comandante dell’Armata Rossa era stato sconfitto da Stalin nella contesa per la successione a Lenin, e poi mandato in esilio, dove contro la Terza Internazionale staliniana aveva organizzato una sua Quarta Internazionale. Tre mesi prima dell’omicidio, la sua villa fortificata era stata assalita da un commando di trenta uomini armati guidati dal celebre pittore di murales David Alfaro Siqueiros: rivale dell’altro muralista Diego Rivera, il marito di Frida Kahlo, che invece di Trotzky aveva trattato l’asilo in Messico.
In origine blogger anti-corruzione, Navalny è diventato il leader di riferimento dell’opposizione a Putin. Secondo quanto scrivono i media locali, era andato in Siberia alcuni giorni a raccogliere materiale per un’inchiesta su alcuni deputati del partito di governo Russia Unita.
Sottoposto a continue pressioni, tra cui decine di condanne a pene detentive, già un anno fa aveva denunciato di essere stato avvelenato, mentre era in prigione.
Sicuramente aveva sofferto una grave reazione allergica e un medico aveva confermato che poteva derivare da avvelenamento. Ancora prima, nel 2017, Navalny era stato ustionato agli occhi quando fuori dal suo ufficio alcuni aggressori gli avevano lanciato sul viso una tintura verde disinfettante.
Casuale la ricorrenza? Di Trotzky, è storicamente accertato che fu assassinato da un agente della Gugb: definizione che tra 1934 e 1946 ebbe quella Polizia Segreta che tra 1917 e 1922 si era chiamata Ceka, tra 1922 e 1923 Gou e tra 1923 e 1934 Ogpu, e che sarebbe poi diventata nel 1945 la Mgb, nel 1953 la Mvd e nel 1954 il Kgb. Per poi trasformarsi nel 1991 in Fsk e nel 1995 in Fsb.
Combattente repubblicano in Spagna e zio della madre di Christian De Sica, Ramón Mercader si era fatto passare per militante trotzkysta, e continuerà sempre a dire di essere un «trotzkysta deluso».
Ma si è poi saputo che per tutti i 20 anni della sua detenzione in Messico il governo sovietico aveva continuato a versargli 1000 dollari al mese, e quando il 20 agosto 1960 alla liberazione andò a Mosca vi ricevette la medaglia d’oro di Eroe dell’Unione Sovietica, la tessera del Pcus, una pensione da generale dell’Armata Rossa, un posto a Radio Mosca per la moglie e una dacia. E a Mosca è sepolto, sempre con l’indicazione di Eroe dell’Unione Sovietica.
Sui Navalny invece al momento non è ancora accertato nulla. Gli avvocati del Fondo anti-corruzione che Navalny ha creato per denunciare il malaffare della nomenklatura putiniana hanno però annunciato che chiederanno l’apertura di un’inchiesta al Comitato investigativo secondo l’articolo 277 del codice penale: «Attentato alla vita di uno statista o di un personaggio pubblico, commesso per porre fine alla sua attività pubblica o politica».
Secondo la portavoce, «la reazione evasiva dei medici conferma solo che si tratta di avvelenamento. Solo due ore fa erano pronti a condividere qualsiasi informazione, e ora stanno chiaramente giocando per il tempo e non dicono quello che sanno».
Putin, d’altronde, dal Kgb viene. E molti suoi biografi hanno ricordato che in base al giuramento una volta entrati nel Kgb si rimaneva agenti per tutta la vita.
Il complesso rapporto di Putin con il passato sovietico è stato spesso sintetizzato con la frase a lui attribuita secondo cui «chi non ha nostalgia dell’Unione Sovietica è senza cuore, ma chi la rimpiange è senza cervello».
Dunque, niente rimpianti per l’ideologia marxista-leninista, ma ampia continuità con alcune direttrici geopolitiche che d’altronde risalivano all’epoca zarista.
Massima valorizzazione di alleanze che comunque dalla simpatia per il modello comunista venivano. E anche forte continuità per un certa storia di soppressione fisica di avversari e oppositori. Una vicenda in cui il veleno rappresenta un know-how importante fin da quando nel 1921 Lenin ordinò la creazione di un Laboratorio Numero 12 che si trovava nei sobborghi di Mosca e che era specializzato nelle ricerche su veleni, droghe e sostanze psicotropiche in genere.
Una malignità potrebbe collegare questo know how «chimico-farmaceutico» anche al recente annuncio di Putin della scoperta di un vaccino anti-Covid. Vero è che non solo i Servizi russi hanno fatto ricorso a questo tipo di sistemi: basti pensare a quando nel 1997 agenti israeliani tentarono di uccidere il leader di Hamas Khaled Mashal con una dose letale di Fentanyl, o all’azione con cui nel 2017 Kim Jong-un fece assassinare il suo fratellastro Kim Jong-nam con l’agente nervino VX.
Se il Cremlino non ha l’esclusiva, però, un primato glielo si può certamente attribuire. In modo molto simile a Navalny, ad esempio, il primo settembre 2004 era stata presumibilmente avvelenata su un aereo la giornalista della Novaya Gazeta Anna Politkovskaya. Implacabile denunciatrice della repressione in Cecenia e delle violazioni dei diritti umani, era stata chiamata a mediare sulla crisi degli ostaggi a Beslan, ma dopo aver bevuto un tè datole a bordo venne improvvisamente colpita da un malore e perse conoscenza.
L’aereo fu costretto a tornare indietro per permettere un suo immediato ricovero. La dinamica non è mai stata chiarita del tutto, ma comunque meno di due anni dopo, il 7 ottobre del 2006, Anna Politkovskaya sarebbe stata ritrovata morta nell’ascensore del suo palazzo a Mosca, proprio nel giorno del compleanno di Putin.
Accanto al cadavere furono ritrovati una pistola Makarov Pm e quattro bossoli, uno dei quali del proiettile che aveva colpito la giornalista alla testa.
Fonti di intelligence riferirono che la Politkovskaya sarebbe stata su una lista di persone scomode che il Cremlino avrebbe deciso di fare eliminare, assieme a Alexander Litvinenko e Boris Berezovskij.
Agente dei servizi russi fuggito nel Regno Unito nel 2000, poi autore nel 2002 di un libro in cui accusava Putin di aver fatto organizzare attentati falsamente attribuiti ai ceceni apposta per spianarsi la via per il potere, Litvinenko sarebbe in effetti morto poco dopo, il 23 novembre 2006, in seguito a avvelenamento da polonio-210.
Prima di morire fece in tempo ad accusare Putin di essere il responsabile, e anche il mandante dell’omicidio di Anna Politkovskaja. «L’idea nella nostra agenzia è che il veleno è un’arma utilizzabile esattamente come una pistola», aveva detto due anni prima in una intervista al New York Times. Il polonio provoca una morte particolarmente dolorosa, e quindi il suo utilizzo è stato interpretato come un chiaro avvertimento: forse come il fatto che certe azioni vengano fatte in particolari ricorrenze.
Ingegnere diventato miliardario nel periodo post sovietico, e a sua volta fuggito nel Regno Unito nel 2000 dopo l’arrivo al potere di Putin, condannato in contumacia per frode e appropriazione indebita e sottoposto in Russia a sequestro del suo patrimonio, anche Boris Berezovskij sarebbe poi stato trovato morto in modo misterioso nei pressi di Londra il 23 marzo 2013.
Il medico legale disse che sul corpo non erano presenti segni causati da una lotta e che quindi era presumibile un suicidio. Il coroner, però, emise un open verdict. Qualche sostanza in grado di uccidere senza lasciare tracce?
Riuscì invece a sopravvivere Viktor Juščenko. Già primo ministro ucraino dal 22 dicembre 1999 al 29 maggio 2001, leader dei filo-occidentali, nel corso della campagna elettorale del 2004, cominciò a soffrire di una misteriosa patologia, con una pesante eruzione cutanea che gli lasciò cicatrici permanenti. Scontate dunque le battute su «la bella, il brutto e il cattivo» a proposito del suo «triello» con l’altra leader filo-occidentale Julija Tymošenko e con il leader filo-russo di Viktor Janukovyč.
Vari tossicologi diagnosticarono una presenza di diossina nel sangue in quantità 6.000 volte superiori alla normalità, e lo stesso Juščenko disse di sospettare una cena con i servizi di sicurezza ucraini: per una ultima portata servita, a differenza delle altre, in monoporzioni.
Dopo l’identificazione del particolare tipo di diossina impiegato, lo staff di Juščenko inviò una richiesta di informazioni ai quattro laboratori al mondo in grado di produrlo. L’unico a non rispondere fu quello di Mosca.
E si seppe pure che pochi giorni dopo il supposto avvelenamento qualcuno dei componenti dei servizi di sicurezza presenti quella sera avrebbe lasciato l’Ucraina, per recarsi e vivere stabilmente in Russia.
Comunque Juščenko sarebbe riuscito a diventare presidente, dal 23 gennaio 2005 al 25 febbraio 2010. Sarebbe poi tornato al potere Janukovyč, rimosso nel 2014 dalla rivolta di Maidan.
Recente è stata poi la storia di Sergej Viktorovič Skripal’: colonnello dei Servizi russi, condannato nel 2006 per alto tradimento a favore dei Servizi britannici.
Grazie a uno scambio di spie con gli Usa nel 2010 fu liberato e ricevette non solo la residenza nel Regno Unito, ma anche la cittadinanza. Il 4 marzo del 2018, a Salisbury, lui e sua figlia Julija furono vittime di avvelenamento doloso da gas nervino, con una sostanza detta Novičok. Per il governo britannico «c’è un’alta probabilità» che la Russia sia coinvolta nell’avvelenamento, che ha riguardato ben 21 persone.
Mosca ha sempre respinto le accuse. Il nodo riguarda due turisti russi che i loro passaporti identificavano come Alexander Yevgenievich Petrov e Ruslan Timurovich Boshirov, che si trovavano nella zona con comportamenti sospetti, e che sia il sito inglese Bellingcat che quello russo The Insider hanno chiaramente identificato come due agenti operativi dell’intelligence militare russa: il colonnello Anatoliy Chepiga, Eroe della Federazione Russa, e il medico militare Alexander Mishkin.
E c’è pure Vladimir Kara-Murza, vice-presidente della Ong Open Russia di Mikhail Khodorkovsky: altro ex-oligarca costretto all’esilio nel Regno Unito. Il 26 maggio del 2015 si sentì male improvvisamente nello spazio di 20 minuti durante un meeting. «Passai da uno stato di normalità a un improvvisa condizione di rapida pulsazione cardiaca, pressione altissima, sudore e vomito fino allo svenimento», avrebbe raccontato. I medici gli diagnosticarono un avvelenamento. Ma gli stessi sintomi si presentarono di nuovo il 2 febbraio 2017. E questa volta i medici lo avvertirono che non sarebbe sopravvissuto a un terzo avvelenamento.
All’epoca sovietica risale poi il famoso avvelenamento di Georgi Markov: un dissidente bulgaro ucciso l’11 settembre 1978 in una strada di Londra con una capsula di ricina sparata nelle gambe da un ombrello speciale. Forse l’esecutore fu un bulgaro a sua volta, ma quasi sicuramente il marchingegno era stato ideato dal Kgb.
Il capo guerrigliero ceceno Ibn al-Khattab morì invece nella notte tra il 19 ed il 20 marzo 2002, dopo che gli era stata recapitata una falsa lettera di sua madre avvelenata con gas nervino. Latore un agente del Fsb di nome Ibragim Alauri che era stato addestrato per sei mesi, e che sarebbe stato ucciso un mese dopo da un commando ceceno. L’Fsb rivendicò l’uccisione di al-Khattab come successo di una “operazione speciale”.
Il 10 novembre 2012 morì a Londra Alexander Perepilichny: un uomo d’affari russo che si era recato nel Regno Unito nel 2010 e aveva dato agli inquirenti svizzeri importanti elementi sul ruolo delle autorità russe nello scandalo del fondo Hemitage. Nel suo stomaco sono state trovate tracce del gelsomino della Carolina: un fiore tossico.
È ancora viva invece Karinna Moskalenko: avvocatessa e attivista per i diritti umani che ha difeso tra gli altri Mikhail Khodorkovsky, Garry Kasparov e lo stesso Litvinenko, e che è stata la prima a vincere una causa contro la Federazione Russa alla Corte di Strasburgo. Il 14 ottobre 2008 il marito scoprì che le avevano riempito l’auto di mercurio velenoso.
In Russia, la servitù della gleba cominciò ad affermarsi nel 1601, quando lo zar Boris Godunov limitò la libertà di movimento dei contadini.
https://it.wikipedia.org/wiki/Servit%C3%B9_della_gleba
Già nel 1606, sotto Ivan Isaevič Bolotnikov, vi fu una grande rivolta contadina contro la servitù della gleba. Ma fu solamente con Pietro il Grande che, nel 1723, si giunse a una normativa legale della servitù della gleba che, come spesso accadeva nella legislazione di Pietro il Grande, era basata prevalentemente su modelli occidentali. La situazione dei contadini russi divenne ancora più pesante con Caterina II di Russia, nel tardo XVIII secolo, quando la servitù della gleba venne estesa anche all'Ucraina, dove, sino ad allora, i contadini erano rimasti liberi. La servitù della gleba venne abolita solamente nel 1861, dallo zar riformatore Alessandro II, circa 50 anni più tardi rispetto al resto d'Europa. Spesso questa abolizione non significava maggiore libertà per i contadini, quanto piuttosto una maggiore dipendenza economica, con la perdita, inoltre, della tutela giuridica. Questa situazione non venne compiutamente risolta fino alla rivoluzione d'ottobre, e ne contribuì al successo. Fecero parte dell'Armata rossa (esercito bolscevico, guidato da Trockij) più di 48 milioni di braccianti ex servi della gleba.
Gulag
Gulag (pron. [gu'lag]; in russo: ГУЛаг - Главное управление исправительно-трудовых лагерей?, traslitterato: Glavnoe upravlenie ispravitel'no-trudovych lagerej ascolta[?·info],"Direzione principale dei campi di lavoro correttivi"[1][2] - spesso scritto GULag) è stato il ramo della polizia politica dell'URSS che istituì il sistema penale dei campi di lavoro forzato. Benché questi campi fossero stati pensati per la generalità dei criminali, il sistema è noto soprattutto come mezzo di repressione degli oppositori politici dell'Unione Sovietica.
https://it.wikipedia.org/wiki/Gulag
Complessivamente circa 18 milioni di persone, non solo sovietici, sono passati dai campi.[3] Il numero massimo di prigionieri fu raggiunto nel 1950 con circa 2,5 milioni di reclusi. Il tasso di mortalità nel Gulag prima della seconda guerra mondiale oscillava tra il 2,1% e il 5,4%, picco massimo registrato nel 1933.[4] Durante la seconda guerra mondiale, nel contesto delle scarse condizioni di vita dei prigionieri, si raggiunse un tasso del 24,9%. Nei primi anni '50 il tasso calò intorno allo 0,9% fino a raggiungere lo 0,4% nel 1956.[5]
Fino alla dissoluzione dell'Unione Sovietica non vi erano dati certi sui decessi dei reclusi e diversi media occidentali ipotizzarono diversi milioni di morti,[6][7] alcuni anche in maniera funzionale alla propaganda anticomunista. Secondo i documenti degli archivi sovietici, dove erano stati catalogati gli internati e i decessi, fra il 1930 ed il 1956 si sarebbe registrato un totale di 1.606.748 morti,[5] dei quali 932.268 (il 58% del totale) nel periodo 1941-1945, su circa 18 milioni di persone che, secondo gli storici più accreditati, sono passate nei campi del gulag.
Arcipelago Gulag è un saggio di inchiesta narrativa, edito in tre volumi, scritto tra il 1958 e il 1968 da Aleksandr Solženicyn sul sistema dei campi di lavoro forzato nell'URSS. Durante il regime comunista, l'utilizzo sistematico della giustizia politica disseminò l'Unione Sovietica di campi di concentramento.
https://it.wikipedia.org/wiki/Arcipelago_Gulag
Sterminio URSS in Ucraina
I kulaki (talvolta italianizzato in culachi, sing. culaco[1], dal plurale di kulak, in russo: кула́к? ascolta[?·info], "pugno") erano una categoria di contadini presente negli ultimi anni dell'Impero russo, e nei primi della neonata Unione Sovietica, finché nel 1924, con la morte di Lenin, prese il potere Stalin, che diede il via alla collettivizzazione e i kulaki divennero a tutti gli effetti nemici dello stato. Iniziò così un vero e proprio rastrellamento nelle campagne, e moltissimi finirono nei gulag.
https://it.wikipedia.org/wiki/Kulaki
La parola kulaki inizialmente si riferiva a contadini indipendenti della Russia che possedevano grandi appezzamenti di terreno ed utilizzavano mezzadri; successivamente il termine fu utilizzato spregiativamente dai bolscevichi per indicare i contadini agiati.
Lo storico francese Nicolas Werth sottolinea che per essere classificati come kulaki bastava «l'utilizzo di un operaio agricolo per una parte dell'anno, il possesso di macchine agricole un po' più perfezionate del semplice aratro, di due cavalli e quattro mucche».[2]
I kulaki si convertirono così da possidenti ereditieri per diritto di nascita a lavoratori. Molti kulaki si opposero fermamente alla collettivizzazione, nascondendo le derrate alimentari, macellando il bestiame ed anche imbracciando le armi. Stalin reagì ordinando l'arresto degli oppositori, che venivano condannati, a seconda della gravità dei loro atti, dai 5 ai 10 anni di internamento nei gulag[4]. Secondo gli archivi ufficiali i kulaki internati totali nei gulag furono circa 2,5 milioni di persone[5], dei quali perirono in 600.000[6], la maggior parte tra il 1930 e il 1933.
Memorie ucraine della morte per fame
l’orrore dell’“Holodomor”
Francesco M. Cataluccio
14 marzo 2022
https://www.ilfoglio.it/esteri/2022/03/ ... e-3803834/
Perché gli ucraini scappano dalla guerra? Nella loro storia c’è l’orrore dell’“Holodomor”, la grande carestia dei primi anni Trenta considerata oggi un genocidio provocato dal regime sovietico. I morti furono sette milioni
Nella tragedia ucraina si assiste a una fuga di proporzioni bibliche: migliaia di donne, bambini e anziani abbandonano le loro case e fuggono all’estero, attraverso la Polonia (ma anche la Romania e l’Ungheria), portandosi dietro poche cose, spesso solo il contenuto di una valigia. Gli uomini, volenti o nolenti, rimangono a combattere in patria. Già oltre un milione di persone se ne sono andate. Le organizzazioni umanitarie prevedono che i fuggiaschi potrebbero arrivare a sette milioni, o anche più. La guerra “moderna” si combatte nelle, e contro, le città e prevede di non avere l’“intralcio” dei civili. I massacri sono un’eventualità che i militari preferiscono evitare. Ma i missili e i bombardamenti dal cielo non fanno distinzioni tra le vittime, e già si vede che anche obiettivi come ospedali e scuole non vengono risparmiati. Più passa il tempo e trovano imprevista resistenza, più cruenti si fanno i piani degli invasori (i cosiddetti “corridoi umanitari”, che permetterebbero ai civili di evacuare le città attaccate, non vengono rispettati).
C’è però un aspetto, legato alla memoria storica, che rafforza ancor di più il diritto e l’aspirazione dell’Ucraina a essere una nazione indipendente dalla Russia. Un aspetto che non può essere trascurato se si vuole comprendere una fuga di queste dimensioni e il terrore del potente vicino. Ogni ucraino ha in famiglia vittime degli anni Trenta e Quaranta: morti per guerre, fucilazioni, deportazioni e, soprattutto, per fame.
“Holodomor”, deriva dall’espressione ucraina moryty holodom, che significa “infliggere la morte attraverso la fame”, ed è il nome attribuito alla carestia, non generata da cause naturali, che si abbatté sul territorio dell’Ucraina negli anni dal 1929 al 1933 e che causò circa sette milioni di morti. O anche di più. Ci sono le testimonianze di qualche osservatore straniero, come il console italiano a Karkhov (oggi Kharkiv), Sergio Gradenigo, che nei suoi rapporti diplomatici sostenne di aver saputo da rappresentanti del governo che i morti erano nove milioni. Prendendo come riferimento la definizione giuridica di genocidio, e le diverse testimonianze storiche raccolte dagli anni Trenta a questa parte, gli ucraini sostengono che la carestia del 1932-1934 può essere considerata un “genocidio”, provocato dal regime sovietico, guidato all’epoca da Stalin.
Nel marzo 2008 il parlamento dell’Ucraina e 19 nazioni indipendenti (tra le quali l’Italia) hanno riconosciuto le azioni del governo sovietico nell’Ucraina dei primi anni Trenta come atti di genocidio. Una dichiarazione congiunta dell’Onu del 2003 ha definito la carestia come il risultato di politiche e azioni “crudeli” che provocarono la morte di milioni di persone. Il 23 ottobre 2008 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione nella quale ha riconosciuto l’Holodomor come “un crimine contro l’umanità”.
Bisogna risalire ai primi anni del dominio sovietico in Ucraina, e raccontare anzitutto la storia, quasi un romanzo, di uno strano personaggio dalla biografia più complicata degli altri rivoluzionari dell’epoca, che avrebbe potuto forse, con la sua intelligenza e apertura, impedire la catastrofe che si abbatté su quella nazione.
Christian Georgevich Rakovskij (1873-1941), alias Chaim Rakeover (il padre era un commerciante ebreo), nacque a Gradets (Bulgaria) e nel 1880 si trasferì con la famiglia in Romania, dove entrò in contatto con i movimenti socialdemocratici di quel paese. Viaggiò in Svizzera (si iscrisse alla facoltà di Medicina di Ginevra nel 1890), Bulgaria, Germania, Francia, Romania e Russia. Durante la Prima guerra mondiale, aderì alla sinistra internazionalista di Zimmerwald. Arrestato nel 1916, in Romania, per attività antibelliche, venne liberato l’anno successivo dall’esercito russo. Rifugiatosi in Russia, si unì ai bolscevichi. Fu tra i fondatori del Comintern e ricoprì varie cariche diplomatiche. Venne nominato presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo dell’Ucraina nel marzo del 1918, e membro del Comitato centrale del Partito bolscevico nel 1919. Come presidente ucraino sviluppò una politica estera indipendente da quella dell’Urss, concludendo diversi trattati commerciali con vari stati dell’Est europeo. Dopo aver rappresentato l’Urss alla Conferenza di Genova (aprile-maggio 1922), nell’aprile del 1923 si oppose alle nazionalizzazioni forzate di Stalin in occasione del XII Congresso del partito. Nel luglio di quello stesso anno gli furono affidati incarichi diplomatici importanti che miravano però ad allontanarlo dai ruoli decisionali del potere. Amico di Trotzkij, divenuto esponente dell’Opposizione di sinistra, fu inviato d’affari del governo sovietico a Londra (dal settembre del 1923) e ambasciatore a Parigi (dal dicembre del 1925 all’ottobre del 1927). Rakovskij fu espulso dal Partito comunista nel 1927, e, nel gennaio del 1928, deportato ad Astrakhan, poi a Saratov, ed infine a Barnaul (Kazakhstan), nel 1929. Nel febbraio del 1934 si dichiarò fedele alla linea politica staliniana. Rimesso in libertà, fu sottoposto a controlli continui di ogni genere. Venne arrestato nuovamente nella seconda metà del 1937, ma rifiutò di collaborare con gli inquisitori staliniani per diversi mesi, finché cedette alle pressioni e fu costretto ad autoaccusarsi di collaborazionismo con la Germania nazista, nel corso del Terzo processo di Mosca (marzo 1938). Condannato a vent’anni di detenzione, Rakovskij trovò infine la morte tre anni più tardi in un gulag, fucilato per ordine di Stalin. Di quel pentimento estorto a Rakovskij con le torture, durante l’interrogatorio alla vigilia del processo del 1938, i cui materiali non sono mai emersi dagli Archivi dell’Nkvd, circola in rete una paranoica ricostruzione (basata su una trascrizione di 50 pagine, pubblicata negli anni Cinquanta a Madrid, col titolo Sinfonia rossa), nella quale egli avrebbe svelato di “essere stato a conoscenza di una congiura tedesco-ebraico-sovietica, promossa dal Circolo Rothschild-Illuminati, che prevedeva di utilizzare il comunismo per stabilire nel mondo una dittatura dei ricchi ebrei”…
Di paranoie, dalle conseguenze assai più tragiche, in quegli anni ne circolarono parecchie. Gli ucraini, essendo milioni di piccoli contadini, religiosi e nazionalisti, non erano considerati dai russi “affidabili”, mostrando di andare in direzione opposta ai piani sovietici. Allora i bolscevichi misero in piedi un programma di collettivizzazione forzata che si spinse ad affamare un’intera popolazione.
Lo scrittore Vasilij Semënovich Grossman era nato nel 1905 a Berdicev (Berdychiv), a circa 250 chilometri a sud di Chernobyl, che aveva anche dato i natali, nel 1857, allo scrittore anglo-polacco Joseph Conrad (alias Józef Konrad Korzeniowski). Fino alla Prima guerra mondiale, Berdicev era un importante shtetl ucraino (circa l’80 per cento della popolazione era ebrea): dal 1861, con 41.617 abitanti ebrei, era infatti la seconda comunità ebraica dell’Impero russo. Grossman, a differenza ad esempio di Bulgakov, aveva creduto nel comunismo e aveva anche fatto parte della nomenklatura intellettuale sovietica. Quindi, anche nel momento dell’amara resa dei conti con un sistema violento e corrotto, era in grado di capire lucidamente certe motivazioni dei suoi rappresentanti. Dice Grossman nel suo romanzo Tutto scorre…, scritto fra il 1955 e il 1963 e pubblicato postumo in Germania occidentale nel 1970 (Adelphi, 1987): “Arrivarono gli anni Trenta, i giovani, i combattenti della guerra civile si erano fatti uomini quarantenni, dai capelli argentati. Per loro il tempo della rivoluzione, dei comitati dei contadini poveri, del primo e del secondo congresso del Comintern era stato il tempo giovane, felice, romantico della loro vita. Stavano in uffici forniti di telefoni e segretarie, portavano giacca e cravatta in luogo dei giubbotti, andavano in automobile, avevano imparato ad apprezzare il buon vino, le vacanze […]. E purtuttavia la stagione dell’Armata rossa di Budënny, delle giacche di cuoio, della polenta di miglio, degli stivali sfondati, delle idee planetarie e della comune mondiale, restava la stagione sublime della loro vita. Non per amore delle auto e delle dacie essi costruivano un nuovo Stato. Per amore della rivoluzione e di un nuovo mondo, senza proprietari terrieri e capitalisti, immolarono vittime, compirono crudeltà e violenze”.
L’uomo che mise in atto i progetti di Lenin e Stalin fu Lazar’ Moiseevich Kaganovich (1893-1991), figlio di una povera famiglia ebrea ucraina. Da giovane lavorò come calzolaio e, a soli 18 anni, nel 1911, aderì al Partito comunista, dove ricoprì numerosi incarichi tra i quali quello di vice presidente dell’Unione sovietica e di membro del Comitato centrale del Partito. Fu poi ministro dell’Agricolura. Cognato di Stalin, fu uno dei maggiori protettori dell’ucraino Nikita Sergeevich Krusciov, fino a quando quest’ultimo, salito al potere per avviare il processo di destalinizzazione, non lo sacrificò, togliendogli ogni carica. Però, addossando tutte le colpe a Stalin, evitò di trascinarlo in un processo dagli esiti pericolosi: Kaganovich infatti aveva condiviso tutte le scelte di Stalin ed era stato tra i principali responsabili della carestia in Ucraina negli anni 1932-1933. Dopo l’allontanamento, Kaganovich rimase nell’ombra e nel silenzio, fino a un’intervista alla Repubblica (5/X/1990), l’anno prima di morire, dove ribadì il suo granitico punto di vista. Enrico Franceschini gli chiese: “Non ha mai avuto ripensamenti sugli arresti di quell’era, sulle violenze e le vittime della campagna di collettivizzazione delle campagne?”. Kaganovich rispose: “Il primo punto da ricordare è che la collettivizzazione fu il proseguimento di una linea leninista. Ci furono degli eccessi? Sì. Ma dove e quando non ci sono? Ci sono sempre. Quando combatti una guerra, è difficile stabilire in anticipo quante cartucce sparerai. Il nemico occupa una nostra città, dobbiamo riprenderla. Ma dentro la città c’è la nostra gente, degli innocenti che potrebbero essere uccisi nell’attacco. L’esercito griderà ugualmente: all’assalto, perché così deve essere, in tutti i tipi di guerra. Sì, il risultato è che soffrono anche gli innocenti. Ci furono vittime innocenti nella collettivizzazione delle terre. Ma c’erano anche i contadini ricchi, influenti, legati alla chiesa, che perturbavano, ostacolavano. Cosa si doveva fare? E nell’industria c’erano i sabotaggi. Oggi molti storici lo negano, ma era vero. Il sabotaggio c’era, e, dirò di più, c’è anche adesso”.
L’“Holodomor” iniziò (ammesso che certi fenomeni possano avere un inizio preciso e facilmente spiegabile) perché interi villaggi contadini si opposero al progetto di collettivizzazione delle campagne, previsto dal Primo piano quinquennale del 1929. Perciò tutti i contadini (piccoli, grandi e medi) che non accettarono di sottomettersi alla collettivizzazione, vennero bollati, con una campagna di denigrazione molto violenta, come “kulaki” (proprietari), e, soprattutto in Ucraina, vennero trattati come dei veri e propri nemici: caricati a forza sui treni e deportati lontano, con il risultato di impoverire ancor di più le campagne. Ma questi metodi rischiavano di riproporre i problemi sorti già nel 1923, quando si era fatto un primo tentativo di “sistemare i contadini”. Il potere sovietico era stato poi costretto a fare una parziale marcia indietro e frenare lo zelo repressivo dei propri miliziani. Stavolta, anche i comandanti dell’Armata rossa (non ancora “normalizzati”) esprimevano dei forti dubbi sull’utilizzo dei soldati nel reprimere il malcontento contadino. Quindi la collettivizzazione venne rallentata. Così, dal 55 per cento dei terreni collettivizzati del 1929 si scese al 22 per cento nel 1930. Per tornare però al 50 nel 1931 e al 60 per cento nel 1933. Nel 1934, il soviet rurale annunciò che i “kulaki” (che, nel 1928, venivano stimati in 5,6 milioni) erano diventati 149.000.
Grossman, sempre in Tutto scorre…, chiarisce bene come si inceppò la fragile macchina del potere bolscevico e iniziò a produrre fame e sangue. Di fronte al pericolo di nuove carestie, fu chiesto uno sforzo che era impossibile realizzare, proprio perché, per ragioni ideologiche, era stata compromessa la capacità produttiva della campagna, soprattutto di quella ucraina, fondamentale per la riuscita del Piano economico: “Dopo la liquidazione dei kulaki (tra il ‘29 e il ‘30) la superficie coltivata si era assai ridotta e il rendimento s’era abbassato; dai bilanci risultava invece che senza i kulaki la nostra vita era fiorita di colpo. Il Soviet di villaggio mentiva col distretto, il distretto con la regione, la regione con Mosca. Tutto come si deve (…). E a noi, al nostro villaggio, fissarono una quota che neanche in dieci anni avremmo potuto raggiungere! Al Soviet del villaggio anche quelli che non erano usi a bere andavano a ubriacarsi, per vincere la paura. Si vede che Mosca sperava soprattutto nell’Ucraina. E fu più di tutto con l’Ucraina che se la presero, più tardi”.
Nel 1930, compiendo un viaggio nell’Ucraina della collettivizzazione forzata, lo scrittore Isaac Babel’ scrisse ai parenti (il 16 febbraio) di averne riportato un’impressione entusiastica, soprattutto per la grandiosità dell’esperimento che “sorpassa tutto quanto abbiamo visto ai nostri tempi”. Evidentemente era ben cosciente, come si può dedurre da tutto il suo epistolario, che la Censura leggeva tutte le lettere. Infatti, nelle conversazioni private, raccontava un’altra storia. Secondo quanto riferito dallo scrittore di origine ungherese Erwin Sinko, che nel 1936 coabitò con lui a Mosca, Babel’ gli raccontò di aver provato in quei luoghi il senso di un’allucinazione terrificante la cui origine continuava a restargli incomprensibile, finché una notte non si svegliò di soprassalto e comprese di esser stato svegliato dal silenzio percepito nei villaggi visitati: “Villaggi dove non solo non c’era più neanche una vacca, ma nemmeno maiali e galline, e neppure cani, nessun animale vivente”. (E. Sinko, A Novel about a Novel. Moscow Diary, in: Isaac Babel’s Selected Writings, Norton & co, New York 2009).
La descrizione della fame contadina ucraina che fa Grossman, nel 1956 (mentre allora, nel 1933, non aveva visto né detto niente), è terribile: “C’erano coloro che facevano a pezzi i morti e li cuocevano, uccidevano i propri figli e li mangiavano. (…) Dicono che questi li han fucilati tutti quanti. Ma non erano loro i colpevoli, colpevoli erano quelli che riducevano una madre al punto di mangiare i propri figli. E’ per il bene dell’umanità che loro hanno ridotto le madri a quel punto”. Igort, l’attuale direttore del mensile Linus, con la graphic novel Quaderni ucraini. Memorie dai tempi dell’Urss (Mondadori, 2010) ci ha dato un documentato reportage storico, disegnato, di quella tragedia. Raccogliendo testimonianze, in vari soggiorni in Ucraina tra 2008 e il 2009, Igort è riuscito a ridare vita a storie, uniche e allo stesso tempo esemplari. L’ottantenne Serafina Andreyevna inizia a raccontare: “Avevo tra i 4 e i 5 anni quando la carestia arrivò…”. E’ come se parlasse di una grandinata, qualcosa contro la quale i contadini sanno bene che non ci si può ribellare: arriva e basta, si può solo cercare di limitarne i danni. In poco tempo la fame divenne l’ossessiva protagonista di tutto. Il cannibalismo fu una pratica diffusa: “rapivano i bambini, persino gli adulti e li uccidevano per mangiarli”. E anche i morti per fame venivano utilizzati: “C’erano dei bambini con cui giocavo… Morirono uno dopo l’altro. Quando questo avveniva tutti sapevano già… Non c’erano funerali, niente del genere. La casa veniva chiusa e poco dopo vedevi i camini fumare. Era un mondo triste quello in cui la morte di qualcuno portava speranza a qualcun altro”. Poi c’è la storia di Nikolaj Vasilievich, che vende al mercato gli oggetti di casa. La sua è una “memoria dal sottosuolo” reale, di un ucraino medio, sfiancato dalla vita, e dalla malasorte in amore, in salute e nel lavoro, dalla cattiveria degli altri: “All’epoca di Stalin la gente doveva dare ogni anno al kolkoz 300 litri di latte, 50 chili di carne, 300 uova. Ogni casa doveva produrre quel tanto, indipendentemente da quanti ci abitavano. (…) Mia madre era sola, non sarebbe mai arrivata a produrre abbastanza. Neppure se lavorava durissimo. Era un incubo”. Infine: Maria Ivanovna, ridotta a pesare, per pochi spiccioli, la gente al mercato. Da bambina vide, nel 1933, “i carri passare in città, con i cadaveri ammassati, nudi; c’era qualcuno ancora vivo, che cercava di liberarsi, ma era troppo debole per riuscirci; li scaricavano in fosse comuni, venivano lasciati cadere, tutti insieme, per essere ricoperti da poche manciate di terra…”.
Le guerre suprematiste e imperialiste della Russia di Putin
Le guerre di Putin: dalla Cecenia alla Georgia, tutti i conflitti della Russia dopo la fine dell'Unione Sovietica
Enrico Franceschini
10 marzo 2022
https://www.repubblica.it/esteri/2022/0 ... 340897694/
Quando crollò l’Unione Sovietica, nel 1991, sembrò che l’evento fosse avvenuto senza atroci spasmi, senza violenza, senza sangue. Certo, negli anni precedenti la repressione dell’Armata Rossa nel Baltico e nel Caucaso aveva causato vittime; e anche nel fallito golpe contro Mikhail Gorbaciov nell’estate di quello stesso anno avevano perso la vita tre giovani saliti sulle barricate per ostacolarlo.
Ma la scomparsa dell’Urss, formalizzata a dicembre, facendo sorgere al suo posto quindici nazioni indipendenti compresa la Russia, era stata una faccenda per lo più indolore. Si diceva che la Rivoluzione del 2017, al di là della retorica un golpe della minoranza bolscevica pressoché incruento e circoscritto a Pietrogrado, come si chiamava allora l’ex-San Pietroburgo e la futura Leningrado, era stata comunicata al resto dell’impero degli zar “con un telegramma”: e la fine di quel colossale e per molti versi mostruoso esperimento chiamato Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era stata simile.
“Abbiamo detto troppo presto che l’Urss era implosa senza spari e senza sangue”, commenta in questi giorni, di fronte alla brutale invasione russa in Ucraina, un diplomatico italiano che era a Mosca in quei giorni di trenta e passi anni fa. Del resto, dopo la rivoluzione del ’17 venne una spaventosa guerra civile fino al 2022, che ebbe per epicentro, corsi e ricorsi della storia, la guerra tra rossi e bianchi proprio in Ucraina. In modo analogo, nei tre decenni trascorsi dalla scomparsa dell’impero sovietico, di sanguinosi conflitti ce ne sono state tanti. Ecco quali sono state le guerre di Vladimir Putin.
Ha cominciato Putin a lanciare iniziative militari, dopo il crollo dell’Urss?
No. Già sotto Boris Eltsin, presidente della Russia, di fatto il successore di Gorbaciov e il predecessore di Putin, Mosca ha mandato le sue truppe a combattere in altre ex-repubbliche sovietiche, per reprimere rivolte o partecipare a conflitti locali: in Georgia nel ’91-’93, in Moldavia nel ’92 (dove si consolidò la Repubblica di Transnistria, un eclave russofono tuttora fedele alla Russia e separato dal resto della piccola nazione), in Inguscezia (una regione russa ai confini del Caucaso) sempre nel ’92, in Tagikistan nel ’92-’97, e soprattutto nella prima guerra cecena nel ’94.’96, quando Eltsin tentò di piegare la ribellione separatista della Cecenia, regione autonoma che produce l’1 per cento del petrolio russo e dunque di cruciale importanza.
L’ultimo conflitto ordinato da Eltsin fu in un’altra regione autonoma separatista russa, il Daghestan, nell’agosto ’99, ma è il caso di notare che dal mese prima al Cremlino, come primo ministro, c’era già anche Putin, che sarebbe diventato presidente a interim, su designazione di Eltsin, il 31 dicembre, poi confermato da un voto popolare tre mesi più tardi.
Dunque quale è stata la prima guerra di Putin?
La seconda guerra cecena, anche quella in realtà iniziata nell’estate del ’99 quando Putin era primo ministro, ma andata avanti con una ferocia senza precedenti fino al 2000 e poi ancora con operazioni limitate contro la guerriglia cecena fino al 2009. La capitale cecena Grozny (che in russo significa “la terribile”, nome imposto dagli zar dopo una guerra dei secoli precedenti) fu quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti russi: un modello per quello che Putin ha fatto in seguito ad Aleppo, in Siria, e per quanto sta facendo in Ucraina. Usando la forza senza limiti, e corrompendo alcuni capi ceceni per portarli dalla propria parte, Putin riuscì a vincere un conflitto che sembrava irrisolvibile.
C’è da notare che a scatenare la seconda guerra cecena o meglio l’attacco russo, violando accordi firmati dopo la prima guerra, furono una serie di attentati che fecero centinaia di morti a Mosca: vari osservatori, tra cui il difensore dei diritti umani Sergej Kovalev e l’ex-agente del Kgb Aleksandr Litvinenko (più tardi assassinato a Londra con il polonio radioattivo nel tè da agenti collegati al Cremlino), sostengono che fu l’Fsb, il servizio segreto russo erede del Kgb sovietico, del quale Putin aveva fatto parte per sedici anni e di cui era stato il capo prima di diventare premier e presidente, a mettere le bombe in edifici di civili, per accusare poi “terroristi ceceni”, suscitare indignazione nella popolazione russa e avere una scusa per ricominciare la guerra con metodi più duri di prima. Si calcola che ci furono tra 50 mila e 80 mila morti.
Ma la prova generale per l’invasione dell’Ucraina è stata un’altra?
Sì, è stata la guerra in Georgia nel 2008. Le somiglianze sono impressionanti. Un governo filo-occidentale, che era stato eletto democraticamente a Tbilisi al posto di uno filo-russo, aveva chiesto di entrare nella Nato per proteggersi dall’onnipresente minaccia di Mosca. Putin reagì invadendo due regioni autonome georgiane, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, dove un conflitto a intermittenza era in corso fin dai tempi dell’Urss, ufficialmente giustificando l’intervento con la necessità di proteggere la popolazione delle due regioni, a maggioranza russa, da discriminazioni del governo georgiano.
Da allora Abkhazia e Ossezia del Sud sono praticamente sotto il controllo del Cremlino e a Tbilisi, come risultato della guerra, si è insediato un governo di nuovo filo-russo. Tuttavia di fronte all’invasione dell’Ucraina ci sono state in Georgia manifestazioni di protesta talmente massicce contro Mosca da indurre l’attuale governo a chiedere, proprio nei giorni scorsi, l’adesione all’Unione Europea, sebbene i commentatori ritengano che si tratti più di una mossa politica per calmare la piazza che di una intenzione reale, poiché il procedimento di adesione richiederebbe comunque molti anni e non è chiaro come si concluderebbe, specie con due aree della Georgia ancora in stato di guerra contro Tbilisi. Un caso da manuale di quello che Putin ha fatto successivamente in Ucraina a partire dal 2014 a oggi.
Come si è svolta la “prima guerra” contro l’Ucraina, se così si può definire?
Con le stesse ragioni usate per l’intervento in Georgia, la protezione della minoranza russa, e le medesime motivazioni reali, impedire la richiesta di adesione alla Nato presentata dal governo filo-occidentale eletto a Kiev dopo un governo filo-russo, Putin ha invaso con le proprie truppe la penisola della Crimea, annettendola quasi immediatamente, e ha usato forze non regolari ma controllate dal Cremlino per invadere parte del Donbass, le regioni autonome di Donetsk e Lugansk, la zona mineraria dell’Ucraina che confina con la Russia ed è storicamente da sempre abitata in prevalenza da una popolazione di etnia e lingua russa. Quella “prima guerra ucraina” ha fatto 7 mila morti e decine di migliaia di feriti, suscitando in Occidente proteste un po’ più forti di quelle che avevano accompagnato l’invasione russa della Georgia nel 2008, ma non abbastanza forti da impensierire Mosca o da causare danni alla sua economia.
Perché la “seconda guerra” contro l’Ucraina è scoppiata proprio ora?
Ci sono varie ipotesi. In Ucraina la situazione era praticamente invariata rispetto al 2014. Ma altrove sono successe cose che possono avere spinto Putin a decidere che fosse il momento giusto per prendersi tutta l’Ucraina o perlomeno per prendersene un pezzo e installare un governo fantoccio a lui fedele nella parte che rimane formalmente indipendente: l’imbarazzante ritiro americano dall’Afghanistan; la Brexit che ha indebolito e diviso l’Europa, separando il Regno Unito dall’Unione Europea; un cancelliere appena insediato in Germania dopo il lungo governo di Angela Merkel; le imminenti elezioni presidenziali in Francia, potenziale distrazione per Parigi. La convinzione, insomma, di poterla fare franca, con una facile vittoria militare sul campo e senza pagare un prezzo troppo alto in sanzioni occidentali.
Ci sono state altre avventure militari sul fronte interno nell’era Putin?
Insurrezioni in varie regioni del Caucaso settentrionale, tra il 2009 e il 2017, hanno provocato l’intervento delle forze russe: non solo in Cecenia, come già detto, ma anche in Daghestan, Inguscezia, Kabardino-Balkaria e Ossezia del Nord. Inoltre Putin ha inviato truppe in Bielorussia e Kazakistan, l’anno scorso e quest’anno, per aiutare il regime autoritario locale a reprimere vaste rivolte popolari, così rimettendo sotto il controllo di Mosca anche quelle due ex-repubbliche sovietiche.
Nel frattempo Putin è entrato in guerra anche all’estero?
Sì, in Siria, in Libia, nella Repubblica Centroafricana, nel Mali, in modo diretto e manifesto oppure occulto, attraverso il dispiegamento del Gruppo Warner, unità di soldati mercenari che in realtà secondo molto osservatori dipendono dal ministero della Difesa e dal ministero degli Interni russo. Ma pure l’Unione Sovietica ha partecipato direttamente o indirettamente a numerosi conflitti durante la guerra fredda, dalla guerra di Corea a quella del Vietnam.
Le guerre di Putin nell’ex-Urss, in conclusione, sono una cosa diversa?
Le guerre di Putin nei territori dell’ex-Urss hanno un altro significato: sono la coda sanguinosa e violenta del crollo dell’Unione Sovietica, il tentativo di Mosca di riprendersi quello che considera suo. L’ossessione del capo del Cremlino: riparare “la più grande tragedia geopolitica del ventunesimo secolo”, come lui definisce la fine dell’impero dei Soviet, che altri leader e altri popoli consideravano invece la liberazione da una dittatura durata settant’anni, il tramonto dell’ultimo impero multi-etnico della terra.
La destabilizzazione politica dell'Ucraina, l'invasione della Crimea, la destabilizzazione del Donbass con l'istigazione del separatismo terroriusta e la guerra civilie, l'invasione dell'Ucraina
Vedasi in questo post i capitoli precedenti:
Antecedenti:
Fine dell'Urss e Indipendenza dell'Ucraina
1)
Le rivoluzioni arancioni. Rivoluzione di Euromaidan o Rivoluzione ucraina del 2014
2)
Leggi anti-protesta
3)
Rivolta di Kiev
4)
Rivoluzione ucraina del 2014 o euromaidan
(diversa articolazione e trattamento di cui anche al capitolo 1)
5)
L'invasione russa e l'annessione forzata della Crimea alla Russia nel 2014
6)
La guerra civile del Donbass, inizio del terrorismo separatista filo russo
7)
L'incendio della Casa dei sindacati di Odessa detta anche Strage di Odessa
8 )
La politica nazifascista di Putin eletto nei primi anni del 2000, incentrata sul suprematismo imperialista russo, il ripristino dell'impero russo che fu dapprima zarista e poi sovietico URSS.