Questione siriana, come orientarsi e con chi stare?

Re: Questione siriana, come orientarsi e con chi stare?

Messaggioda Berto » mer ott 31, 2018 1:53 am

Caccia israeliani attaccano in Siria un convoglio di armi diretto a Hezbollah
Sarah G. Frankl
30 ottobre 2018

https://www.rightsreporter.org/caccia-i ... OjteOn45X4

Due caccia israeliani hanno attaccato e distrutto in Siria un convoglio di armi diretto a Hezbollah. Lo riferiscono diverse fonti tra le quali la Reuters, Kan news e Arutz Sheva.

L’attacco sarebbe avvenuto nella Siria centrale dopo che i due caccia israeliani avevano sorvolato il nord del Libano per evitare di essere individuati dalla contraerea siriana.

Sarebbe il primo attacco israeliano in Siria dopo l’abbattimento di un aereo russo da parte della contraerea siriana durante un attacco israeliano contro una base iraniana in Siria e, soprattutto, sarebbe il primo attacco dopo il dispiegamento dei missili antiaerei di fabbricazione russa S-300 in Siria.

Da Gerusalemme tuttavia non arrivano né conferme né smentite su questa operazione che, secondo alcune fonti anonime sentite da RR, sarebbe stata organizzata e diretta dalla intelligence militare israeliana.

Nell’attacco sarebbero stati distrutti missili di precisione di fabbricazione iraniana diretti a Hezbollah nonché componenti non ben specificati di vari sistemi d’arma che sarebbero serviti ad aggiornare i missili già in possesso dei terroristi libanesi.

Il sistema di difesa di fabbricazione russa, S-300, non sarebbe entrato in funzione in quanto i caccia israeliani non sarebbero stati rilevati a dimostrazione che l’aviazione israeliana è perfettamente addestrata a superare tale sistema di difesa.
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Re: Questione siriana, come orientarsi e con chi stare?

Messaggioda Berto » dom dic 23, 2018 4:18 am

"Gli Usa lasceranno la Siria: ritiro delle truppe completo"
Matteo Carnieletto
19 dicembre 2018

http://www.occhidellaguerra.it/gli-usa- ... e-completo

Donald Trump lo aveva annunciato durante la sua campagna elettorale: i soldati americani impegnati in Siria avrebbero dovuto lasciare il Paese mediorientale il prima possibile. Questa intenzione è rimasta fino ad ora lettera morta, ma qualcosa potrebbe cambiare. Secondo quanto riporta il New York Times, infatti, l’amministrazione Trump sarebbe pronta a ritirare gli oltre 2mila militari impiegati in Siria nelle operazioni contro il sedicente Stato islamico. Lo stesso presidente, oggi ha twittato: “Abbiamo sconfitto l’Isis in Siria, la mia unica ragione per rimanere lì durante la presidenza Trump”. La notizia è stata poi confermata dalla Casa Bianca: “Cinque anni fa, l’Isis era una forza molto potente e pericolosa in Medio Oriente, ora gli Usa hanno sconfitto il califfato territoriale. Queste vittorie sull’Isis in Siria non indicano la fine della coalizione globale o della sua campagna. Abbiamo iniziato a riportare i militari statunitensi a casa, mentre portiamo avanti la transizione alla prossima fase della campagna”.

Come lasciare la Siria?

Abbandonare il Paese mediorientale non sarà facile. Gli Usa sono impegnati attivamente in Siria sin dall’inizio della guerra civile, nel 2011. Prima per sostenere i ribelli – la stessa Hillary Clinton lo racconta nelle sue memorie – e poi al fianco dei curdi, impegnati nella lotta contro le bandiere nere dell’Isis. E proprio le Forze democratiche siriane adesso potrebbero avere la peggio. Anche perché il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha minacciato una nuova offensiva militare dopo Ramoscello d’olivo, iniziata lo scorso gennaio. Proprio ieri, il giornale turco Yeni Safak annunciava che Ankara è pronta a schierare oltre 24mila soldati contro le milizie curde per eliminare i tunnel del Pyd, che i turchi considerano un movimento terroristico affiliato al Pkk. L’operazione militare, ha fatto sapere il presidente turco, potrebbe iniziare “da un momento all’altro”. E quest’azione militare, ha fatto sapere lo scorso 17 dicembre Erdogan, sarebbe stata concordata con gli Stati Uniti.

Lasciare il Paese, dicevamo, non sarà per nulla facile. Da una parte l’apparato militare chiede più tempo a Trump, dall’altra lo stesso presidente americano preme affinché i militari se ne vadano il prima possibile. In mezzo, rimangono gli alleati sul campo, ovvero i curdi che in queste ultime settimane hanno perso moltissimi uomini combattendo contro l’ultima sacca di resistenza dello Stato islamico a est del fiume Eufrate.

Il Wall Street Journal fa inoltre sapere, citando fonti ben informate, che l’esercito americano avrebbe informato i suoi alleati nella regione di voler iniziare “immediatamente” le operazioni di ritiro delle truppe. Così facendo, però, Trump contraddirebbe il suo consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, che aveva detto che le gli Stati Uniti avrebbero mantenuto la loro presenza militare nella regione fino quando le forze iraniane non avessero lasciato la Siria.

Nelle prossime ore, quindi, vedremo se vincerà la linea Trump, ovvero l’addio immediato delle truppe dalla Siria.

Cosa succederà in Siria?

L’eventuale allontanamento delle truppe Usa dalla Siria cambierà, e non poco, gli equilibri all’interno del Paese. Soprattutto i curdi, lasciati soli, dovranno necessariamente trovare un accordo con il governo di Bashar al Assad se non vorranno cadere sotto i colpi di Erdogan. Resta da capire, però, perché gli Usa hanno deciso di lasciare proprio ora la Siria. E, soprattutto, cosa hanno chiesto in cambio.

La guerra in Siria non è finita. E noi vogliamo tornare sul campo per raccontarvela. Scopri come aiutarci




UN GRAVE ERRORE
Niram Ferretti
19 dicembre 2018

https://www.facebook.com/permalink.php? ... __tn__=K-R

La decisione da parte dell'Amministrazione Trump di rimpatriare le truppe americane dalla Siria è uno di quegli errori le cui conseguenze si faranno sentire presto.

Già con Obama, gli USA fercero il possibile per non intervenire nel teatro di guerra siriano, permettendo di fatto ad Assad di superare la linea rossa stabilita da Obama nel 2013 e consentendo alla Russia di ritrovare un ruolo in Medioriente che non aveva ormai da più da trent'anni.

Noah Rothman su Commentary in un lucido e disincantato articolo dal titolo eloquente, "Un disastro in corso", scrive:

"Dire che questa mossa non ha quasi alcun senso operativo è un eufemismo. La lotta contro i gruppi terroristici è in corso. La lotta per assicurare un ordine post-conflitto in Siria continua. Non è del tutto chiaro come cedere la Siria all'Iran e ai suoi vassalli farà avanzare l'obiettivo dell'amministrazione Trump di contenere l'influenza iraniana nella regione, né il ritiro renderà meno probabili eventuali atti terroristici negli Stati Uniti e in Europa. Anche se la Casa Bianca conclude le proprie operazioni di superficie in Siria, la sua campagna sottostante intesa a colpire attori sia statali che non statali in quel teatro deve continuare affinché il presidente non indebolisca i suoi obiettivi strategici a lungo termine".

Difficile dargli torto.

Ora il territorio resta una spoglia da spartirsi tra Russia, Iran e Turchia e Israele si trova privata ai propri confini della presenza, seppure non cospicua, del contingente americano, 2000 soldati.

Il Generale Maggiore Yaakov Amidror, l'ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Benjamin Netanyahu, pur evidenziando che il contributo americano nell' arrestare l'avanzata dell'Iran in Siria sia stato prossimo allo zero, sottolinea come la decisione di Trump abbia tuttavia un peso rilevante sotto un profilo psicologico e diplomatico:

"Con il loro ritiro gli USA abbandonano la Siria e lasciano Israele sola. In quelle zone questa è una decisione di grande rilievo".

L'ex Direttore per gli Affari Strategici, il Generale Yossi Kuperwasser, dal canto suo ha messo in luce come il ritiro americano significa che "Le forze di Assad e gli iraniani avranno un totale controllo sulla Siria e potranno tentare di inviare armi dall'Iran attraverso l'Iraq verso la Siria e poi in Libano e non ci sarà nessuno in mezzo che possa impedirglielo"

La decisione di Trump che la missione americana in Siria è conclusa essendo stato raggiunto l'obbiettivo prefissato, la sconfitta dell'ISIS (anche se, in realtà il califfato è sempre presente, arroccato nelle zone rurali e più remote del paese) è in contrasto con la ben più lucida e realistica posizione di John Bolton, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, per il quale un radicamento dell'Iran in Siria è un obbiettivo da scongiurare e di importanza non minore rispetto a quello di sconfiggere l'ISIS.

Si tratta del primo e più vistoso contrasto tra l'Amministrazione Trump e Israele da quando Donald Trump è stato eletto. Non ci possono essere dubbi che la decisione presa abbia lasciato Israele con l'amaro in bocca, anche se le dichiarazioni ufficiali sono state improntate a un comprensibile sottotono. Ma i fatti restano quelli che sono.

Per concludere con Noah Rothman:

"Quasi esattamente sette anni fa, un altro presidente diede il via a un altro ritiro di soldati americani da un fragile paese in una fase postbellica. Allora come ora, il governo centrale di quel paese non aveva il controllo totale sull'intera nazione e il consenso politico necessario per preservare la pace non esisteva, ma tutto ciò non aveva alcuna importanza all'epoca. C'erano delle promesse della campagna elettorale da mantenere. Meno di tre anni dopo, le truppe americane erano tornate in Iraq, spargendo sangue prezioso e risorse economiche per recuperare del territorio che era stato loro solo pochi mesi prima".



Perché il Segretario alla Difesa Usa Mattis si è dimesso
Paolo Mauri
21 dicembre 2018

http://www.occhidellaguerra.it/perche-s ... si-dimesso

James “Cane Pazzo” Mattis ha rassegnato le dimissioni che diventeranno esecutive il prossimo 28 febbraio.Il Segretario della Difesa, scelto da Trump all’indomani della sua elezione e fedelissimo del presidente, ha riferito, in una lettera diffusa dai media, di non essere più allineato con la visione strategica della Casa Bianca.

“You have the right to have a Secretary of Defense whose views are better aligned with yours” – ha il diritto di avere un Segretario alla Difesa le cui visioni siano meglio allineate alle sue – sono state le parole esatte di Mattis, riferendosi ad un paio di nodi fondamentali che vengono espressi esplicitamente nella lettera di dimissioni.

Cosa ha scritto Mattis?

L’ormai ex Segretario alla Difesa nella sua lettera, dopo alcune frasi che riassumono brevemente i progressi compiuti dalla Difesa Usa grazie anche al suo operato al dicastero, sottolinea due aspetti fondamentali che, analizzando la retorica dello scritto, risulterebbero essere i punti di divergenza di opinione tra lui ed il Presidente Trump.

Il primo riguarda gli alleati degli Usa. Mattis scrive che la forza, come nazione, degli Usa è “inestricabilmente legata” alla forza del sistema unico e comprensivo di alleanze e partenariati. In particolare l’ex Segretario alla Difesa scrive che “non possiamo proteggere i nostri interessi senza mantenere forti alleanze o senza dimostrare rispetto ai nostri alleati”.

Il riferimento è, nemmeno troppo celato, alla politica di Trump di responsabilizzare i Paesi alleati degli Usa nel quadro del “America first”, ed in particolare quelli che fanno parte della Nato, per quanto riguarda la propria difesa. Più di una volta il Presidente Usa, anche in occasione del recente gelo con la Francia, ha sottolineato come la Nato ed in particolare alcuni importanti membri europei dell’Alleanza, non facciano abbastanza sforzi per aumentare il budget per le spese militari.

Mattis infatti cita esplicitamente la Nato dicendo che le “29 democrazie” che ne fanno parte “hanno dimostrato quella forza (di cui sopra n.d.a.) nel loro coinvolgimento per combattere al nostro fianco dopo gli attacchi dell’11 settembre”.

Il secondo nodo cruciale di questa rottura con la Presidenza, è rappresentato dal rapporto con Cina e Russia. Anche qui Mattis le cita esplicitamente dopo aver affermato la propria “risolutezza e non ambiguità” verso quei Paesi i cui interessi strategici sono in contrasto con quelli americani, generando tensioni crescenti.

Cina e Russia vengono apertamente citate nella lettera sostenendo che “è chiaro, ad esempio, che vogliano modellare il mondo in accordo con il loro modello autoritario” e che intendano “promuovere i loro interessi a discapito dei loro vicini, degli Stati Uniti e dei loro alleati”.

Se Mattis ha sentito il bisogno di puntualizzare così specificatamente la sua idea della visione strategica di Russia e Cina, è evidente che questa sia discordante rispetto a quella di Trump, che proprio nelle ultime ore ha preso la decisione di ritirare le truppe dalla Siria ed ha ordinato di ritirarle anche dall’Afghanistan dimezzandone il numero, fattori che potrebbero avere innescato la decisione del Segretario della Difesa ma che comunque rappresentano solamente la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.

La lettera, a conferma di quelli che sembrano essere più che meri sospetti, prosegue con una particolare sottolineatura: l’ex generale dei Marines scrive infatti che “la mia visione sul trattare gli alleati con rispetto e anche sull’essere cristallino in merito agli attori maligni e ai concorrenti strategici è fortemente dimostrata da più di 40 anni di esperienza in queste problematiche”.

Chi è James Mattis?

James “Mad Dog” (cane pazzo) Mattis è un ex generale dei Marines che si è congedato nel 2013 dopo 44 anni di carriera militare ed un numero enorme di comandi: sono almeno 20 tra cui si annovera ad esempio il prestigioso Central Command americano da cui ha gestito le operazioni militari Usa in Africa e Medio Oriente.

Il soprannome di “cane pazzo” gli fu affibbiato durante la Prima Guerra del Golfo, nel 1991, quando comandava, da tenente colonnello, il primo battaglione del settimo Marine. Successivamente altri incarichi di prestigio come il comando della Marine Expeditionary Force, il già citato United States Marine Forces Central Command, e la prima divisione dei Marines durante la guerra in Iraq. Dal 9 novembre 2007 all’8 settembre 2009, è stato nominato comandante del Nato Supreme Allied Command Transformation mentre fino all’agosto 2010 ha comandato lo United States Joint Forces Command.

Un falco amante della guerra. È stato paragonato dallo stesso Trump a George Patton, il “generale d’acciaio” invitto in Europa con la sua terza armata durante la Seconda Guerra Mondiale ma che diede più di un grattacapo a livello diplomatico al generale comandante delle forze alleate Eisenhower. Nell’aprile del 2015, parlando al Center for Strategic and International Studies, Mattis si scagliò contro l’accordo sul nucleare iraniano sottolineando come l’attenzione venga erroneamente concentrata solo sui gruppi terroristici come Isis mentre è l’Iran a rappresentare “la più forte minaccia per la stabilità e la pace nel Medio Oriente”.




Usa, Trump perde un altro pezzo: lascia l'inviato anti-Isis McGurk
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
2018/12/22

https://www.repubblica.it/esteri/2018/1 ... -214910338

WASHINGTON - In disaccordo per il ritiro delle truppe americane dalla Siria, lascia l'inviato americano presso la coalizione anti-Isis, Brett McGurk. È la seconda uscita nell'amministrazione Usa dopo quella del capo del Pentagono, John Mattis, in polemica con la decisione del presidente Usa, Donald Trump, di richiamare i soldati americani dalla Siria. Secondo i media Usa che hanno anticipato la notizia, le dimissioni di McGurk sono motivate dal "forte disaccordo" con la decisione del presidente Trump di ritirare le truppe.

Nella sua lettera di dimissioni, McGurk afferma che l'Isis è in fuga ma non è sconfitto e spiega come il prematuro ritiro americano dalla Siria potrebbe favorire nuovamente la sua ascesa. Appena 11 giorni fa, McGurk aveva detto che sarebbe stato "sconsiderato" ritenere che l'Isis fosse sconfitto e quindi non saggio riportare le truppe americane a casa.
rep
Nominato al suo incarico dal presidente Barack Obama nel 2015 e confermato da Trump, McGurk avrebbe dovuto lasciare l'incarico in febbraio, ma ha scelto di anticipare la sua uscita al 31 dicembre. "La recente decisione del presidente è arrivata come uno shock. Ha lasciato i partner della nostra coalizione confusi e sbalorditi", ha scritto in un'email ai colleghi McGurk, diplomatico di lungo corso e considerato da più parti il "collante" della coalizione anti-Isis . "Non posso portare avanti le nuove istruzioni" della Casa Bianca e "mantenere allo stesso tempo la mia integrità", aggiunge, osservando come l'Isis è in fuga ma non è sconfitto e come il ritiro prematuro degli Stati Uniti potrebbe favorire una sua nuova ascesa. Un concetto questo espresso ancora più chiaramente nelle scorse settimane dallo stesso McGurk: "nessuno può dichiarare la missione compiuta. La sconfitta del califfato fisico è una fase di una campagna di più lungo termine".

Ma il presidente Trump difende le sue scelte. Nel pieno della crisi per lo shutdown del governo, il capo della Casa Bianca si affida ancora una volta a Twitter per criticare i media e quelle che definisce le fake news sulla Siria: "L'Isis è fondamentalmente sconfitto e altri paesi, inclusa la Turchia, dovrebbero essere in grado facilmente di occuparsi di quel che ne resta". Proprio la telefonata di una settimana fa con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan avrebbe scatenato - secondo indiscrezioni - la decisione di Trump di ritirare le truppe Usa dalla Siria. "Vuoi sapere una cosa, è tutta tua. Io lascio", sarebbero state le parole di Trump a un Erdogan che gli ribadiva di non capire l'appoggio americano ai curdi siriani, considerati da Ankara una minaccia alla propria sicurezza nazionale. Parole che sono state una doccia fredda per i consiglieri del presidente, impegnati in un pressing di giorni per cercare invano di farlo tornare sui suoi passi. La Siria - è stata la risposta del presidente - costa agli Stati Uniti una "fortuna e per cosa? Che cosa ne ricaviamo?".
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Re: Questione siriana, come orientarsi e con chi stare?

Messaggioda Berto » lun dic 24, 2018 7:57 am

Le Uova del Serpente: La decisione di Trump di lasciare la Siria
Niram Ferretti
23 dicembre 2018

http://www.linformale.eu/le-uova-del-se ... e-la-siria

L’Autorità palestinese (Ap) è in vita artificialmente, in gran parte a causa di decenni di intransigenza politica e corruzione sistematica. Israele (che, occorre ricordare ha creato l’Ap) è il medico che si chiede se staccare la spina. L’amministrazione statunitense sta gradualmente soffocando gli aiuti nel tentativo di incentivare Mahmoud Abbas a tornare al tavolo dei negoziati, che ha lasciato dieci anni fa. Immemore del suo precedente, Abbas ha rilanciato pretendendo la sostituzione dell’inviato speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente, Jason Greenblatt, prima dell’inizio dei colloqui.

Ma c’è la sensazione che il mondo intero, compresi i palestinesi delle aree A e B, sia adesso in attesa della scomparsa dell’Autorità palestinese. Molti credono che il momento arriverà presto dopo la morte di Abbas. Tuttavia, con la possibile eccezione delle valutazioni dell’intelligence interna israeliana, nessuno sembra aver formulato i probabili scenari di ciò che accadrà in seguito al crollo.

Frammentazione

Mentre tutti i sistemi politici soffrono di un certo grado di disgregazione, gli estremi livelli di antipatia e ostilità di parte in seno all’Ap sono sconcertanti. Non solo si registra un baratro a quanto pare incolmabile tra Fatah e Hamas, ma le rivalità all’interno della leadership di Fatah e le loro manifestazioni armate sul terreno (Dahlan, Barghouti, Rajoub etc.), nelle città e nei villaggi della Cisgiordania, sono evidenti a chiunque segua la scena lì. Se state pensando alla “mafia” avete colpito nel segno. Esistono interi quartieri a Nablus, ad esempio, che prendono ordini direttamente da Gaza, anche se la città è teoricamente sotto il controllo di Ramallah. Al di fuori di queste aree, alcune strade sono controllate dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), mentre altre sono nelle mani di uomini che hanno giurato fedeltà all’Isis. Il livello di ostilità fra queste fazioni è confermato dal fatto che tutti quanti sono più inclini a trattare con gli israeliani che tra di loro.

Fuori dalle città, interi villaggi arabi appoggiano apertamente Hamas, mentre altri sostengono Fatah e altri ancora il Fplp. Questo appoggio è evidente nei graffiti presenti nelle piazze dei villaggi. Se non si ha accesso ai villaggi o alle capacità di raccolta delle informazioni da parte di Israele, il modo migliore per indovinare chi domina una data città è riuscire a collegare quanti atti terroristici rivendicati da Hamas (o da altri gruppi) sono perpetrati da individui provenienti da una determinata località. Se, ad esempio, ci sono due o più episodi di accoltellamento che sono rivendicati da un gruppo terroristico, si può tranquillamente dedurre che il villaggio è controllato da quel dato gruppo.

Disintegrazione

Non appena si aprirà ufficialmente la lotta alla successione di Abbas, ci saranno delle manovre immediate per ricoprire la posizione e consolidare il potere – non solo negli uffici del partito a Ramallah e Doha, ma anche nelle strade di Jenin, Tulkarem, Nablus e Salfit. Anche senza spargimento di sangue, le aree A e B perderanno rapidamente l’ultima parvenza di controllo amministrativo coeso. Subito, potrebbe accadere quanto segue:

I residenti avranno maggiori difficoltà a spostarsi in Israele e a volte sarà per loro impossibile farlo.
Gli spostamenti in seno alle zone arabe saranno rallentati perché vacilla la sicurezza di coloro che appartengono a gruppi rivali. Basterebbe che un poliziotto dell’Ap venga malmenato dai seguaci armati di Hamas per fermare il traffico fra le rispettive aree.
Di conseguenza, le forniture di beni, come cibo e medicine, così come la fornitura dei servizi municipali di base, diventeranno altamente inaffidabili e potrebbero cessare del tutto.

Pertanto, in tempi brevissimi e prima che venga versato del sangue, le condizioni di vita di molte comunità della Cisgiordania si deterioreranno bruscamente. Com’è normale, chi può permettersi di andarsene lo farà immediatamente, spostandosi soprattutto in Giordania. I benestanti avranno case e appartamenti ad Amman, mentre i meno abbienti dovranno farsi ospitare dai parenti. Decine di migliaia di persone in grado di assorbire i costi di interruzione della loro vita in Cisgiordania si dirigeranno verso est nella speranza di uscire dalla crisi nella sicurezza del Regno hashemita.

Tutta questa dislocazione accadrà prima che venga sparato un solo colpo. Quindi, il più ottimistico scenario post-Abbas per i palestinesi della Cisgiordania sarà quello di una situazione di stallo difficile, paralizzante e temporaneo che indurrà le classi abbienti a scappare a est verso il fiume.

La guerra

Le crescenti restrizioni e tensioni renderanno insostenibile questo impasse iniziale. Man mano che gli approvvigionamenti essenziali diminuiranno e le condizioni di vita peggioreranno, i gruppi armati più disperati inizieranno a correre dei rischi attaccando quelli che li incastrano. Tuttavia, la violenza che inevitabilmente esploderà non comporterà una netta vittoria per nessuna fazione, come l’ottenne Hamas, a Gaza, nel 2006. Eventuali vittorie saranno locali e limitate. Questo perché le aree A e B non possiedono né la contiguità territoriale né la duplice politica di Gaza. Piuttosto, una città andrà a Hamas e un’altra a Fatah. In un quartiere, il Fplp rimarrà dominante; in un altro, i fedelissimi dell’Isis continueranno a tenere la situazione sotto controllo.

In tali circostanze, gli abitanti prudenti fuggiranno disperati. La Giordania dovrà far fronte a un afflusso di profughi che potrebbero rapidamente passare da decine di migliaia a centinaia di migliaia. Oltre al peso che un simile afflusso potrebbe avere sui servizi municipali giordani e sui prezzi dei carburanti e dei prodotti alimentari nel regno, va rilevato che questi profughi saranno diversi dagli iracheni, dai siriani e dagli altri rifugiati che la Giordania ha ospitato in passato, perché si tratta di profughi giordani.

Il diliemma della Giordania

Come da me scritto in una precedente analisi, le vite dei palestinesi che abitano su entrambe le sponde del fiume Giordano sono inestricabilmente legate, sia a livello personale sia dal punto di vista istituzionale. La maggior parte dei residenti della Cisgiordania sono cittadini giordani. Molti hanno un passaporto valido giordano e ricevono salari e pensioni da Amman. La maggior parte ha parenti di primo e secondo grado oltre il fiume. Una minoranza considerevole possiede proprietà immobiliari su entrambe le sponde. In sostanza, le vite degli abitanti palestinesi in entrambi i lati del Giordano si intrecciano, come quelle degli egiziani residenti su entrambe le sponde del Nilo o degli americani che abitano su entrambe le rive del Mississippi. Le comunità di tutto il mondo sono unite dai fiumi e non separate dai corsi d’acqua.

Quelli che sfuggiranno alla violenza post-crollo dell’Ap saranno tecnicamente cittadini giordani che lasceranno città e i villaggi che erano giordani fino al giugno 1967. Infatti, sino a quando re Hussein, sotto la schiacciante pressione politica dei governi arabi, non annunciò il suo “disimpegno” dalla Cisgiordania, alla fine dell’estate del 1988, pressoché tutti nel mondo consideravano di fatto tali città e villaggi come territori giordani occupati.

Per tale motivo, le conseguenze del caos in quei territori ricadranno in gran parte sulla Giordania, anche se le aree sono sotto il controllo congiunto di Israele e dell’Ap.

Israele non prende parte alla crisi

Ci si può aspettare che Israele subirà immediatamente delle pressioni per colmare le lacune amministrative e di sicurezza lasciate dall’Ap. Tali pressioni saranno bilanciate dalla giustificata paura di Israele che un intervento di qualsiasi tipo lo esporrebbe al rischio di essere accusato di complicità nella fuga dei residenti palestinesi. Pertanto, è probabile che la risposta israeliana sarà misurata, incompleta e insufficiente per impedire che la situazione si deteriori ulteriormente.

L’Idf farà tutto il possibile per proteggere le comunità ebraiche sparse in tutta l’area C, ma è probabile che si fermerà prima di entrare nelle città per porre fine alle sparatorie tra le fazioni palestinesi. L’ingresso dell’Idf nelle aree A e B per arginare lo spargimento di sangue o per fornire aiuti sarebbe visto come una “invasione” e potrebbe incontrare una resistenza armata.

In poche parole, Israele sarà poco incentivato a rischiare tutto per l’ingrato compito di assistere i palestinesi rimasti nell’area. Se Israele finisse per inviare forze armate nelle città e nei villaggi palestinesi per fermare i lanci di razzi o di colpi di mortaio sulle città e sui villaggi (come è successo a Gaza), le operazioni militari dell’Idf sarebbero probabilmente limitate. Tali operazioni costituirebbero dunque un incremento bellico in quelle aree, il che non allevierebbe le difficoltà di tali zone.

La Giordania pondera una risposta

Con eventuali variazioni dello scenario descritto sopra, la Giordania dovrà scegliere fra l’ospitare passivamente ( e a tempo indeterminato) le centinaia di migliaia di profughi che fuggirebbero dalla violenza dell’Ap e l’opzione di intervenire attivamente per fermare il deterioramento della situazione di sicurezza all’interno dei territori e impedire l’esodo.

Di certo, un intervento giordano non riscuoterebbe consensi.

In Giordania, ci sono potenti forze politiche che si oppongono all’idea di essere coinvolte nei problemi della Cisgiordania, per non parlare della possibilità di ristabilire una unione politica con i palestinesi cisgiordani. Le tribù locali lealiste della Transgiordania temono ragionevolmente che la loro posizione privilegiata nella società e nel governo sia compromessa per facilitare la piena integrazione dei giordani della West Bank in un unico Stato.

La stessa Autorità palestinese resisterebbe di certo alla propria dissoluzione o sarebbe messa fuori gioco dall’assunzione di responsabilità da parte di Amman nei confronti dei palestinesi cisgiordani. La costruzione in gran parte politica dell’identità palestinese non sarà pacificamente abbandonata semplicemente perché non ha funzionato e/o non ha migliorato la vita dei suoi richiedenti.

Tuttavia, queste resistenze saranno probabilmente spazzate via dalle pressioni del momento e dalla realtà di una acuta crisi umanitaria che comporterà un afflusso di profughi. Il governo giordano sarà indubbiamente costretto a intervenire in qualche modo per fermare il deterioramento della situazione umanitaria nelle aree A e B. La sua massima priorità sarà quella di bloccare la nuova ondata di profughi. Politicamente, ciò corrisponde alla richiesta nazionalista di impedire la “scomparsa” dei palestinesi dalla Cisgiordania. Tale ragionamento riscuoterà subito il consenso anche da parte dell’opposizione islamista e dai politici tradizionali.

In effetti, il governo giordano può persino ricevere inviti a intervenire sotto forma di esplicite richieste dei dignitari locali. Nessun arabo in Cisgiordania oserà invitare “gli ebrei” a ristabilire l’ordine, perché ciò sarebbe universalmente considerato un tradimento. Tuttavia, sono già stati rivolti appelli alla Giordania, e al Re in particolare, a fornire aiuti, e tali appelli hanno ricevuto una risposta positiva.

Infine, vi è una eco storica nella convinzione che re Abdullah II bisserà l’operato del suo bisnonno re Abdullah I come salvatore (munqidh) dei palestinesi della Cisgiordania. Di fatto, molti palestinesi residenti in Giordania, i quali hanno assistito da lontano alla inettitudine e alla corruzione dell’Ap, hanno ravvivato l’idea del “Regno Unito” che precedette l’annuncio del disimpegno fatto da re Hussein nel 1988.

La posizione del governo israeliano rispetto all’intervento di Amman è facile da prevedere. Israele accoglierà con favore l’aiuto della mano ferma e responsabile offerto dai giordani per occuparsi della questione delle aree A e B. Dopotutto, per Israele, l’unico risultato positivo del disastro di Oslo è stata la separazione formale delle aree densamente abitate dai palestinesi dal resto della Cisgiordania (o area C), dove risiedono tutte le comunità ebraiche. Con l’intervento della Giordania, le aree A e B inizieranno di fatto la loro trasformazione nel territorio giordano. A dire il vero, questa non sarebbe la forma definitiva di un accordo tra Israele e la Giordania, ma sarebbe un primo passo verso la fine della violenza persistente che affligge i territori e la risultante miseria cronica dei loro residenti palestinesi.

Le conseguenze

Nella situazione descritta sopra, alcune delle parti coinvolte potranno presumibilmente beneficiare di un intervento giordano. I residenti palestinesi apprezzerebbero tale intervento perché ripristinerebbe l’ordine e le condizioni vivibili. Israele lo accoglierebbe con favore perché stabilizzerebbe la situazione generale nelle aree sotto il controllo dell’Ap e imporrebbe delle condizioni di sicurezza più rigorose contro gli atti di violenza armata. Per Amman, almeno a breve termine, questi sviluppi comporteranno problemi e crescenti rischi. Tuttavia, ci sono sostanziali vantaggi a medio e a lungo termine per la Giordania.

Israele, gli Stati Uniti e alcuni dei paesi arabi circostanti possono fare molto per segnalare alla Giordania la loro volontà di offrire e proteggere tali benefici, quali:

La temporanea custodia amministrativa da parte della Giordania delle aree A e B riporterebbe l’ordine e assicurerebbe condizioni vivibili alla popolazione e contrasterebbe (e probabilmente invertirebbe) l’esodo dei residenti palestinesi.
Gli attori regionali, tra cui gli Stati Uniti, forniranno un considerevole sostegno finanziario, diplomatico e militare alla Giordania, nel tentativo di quest’ultima di gestire la crisi.
Sarà raggiunta una riduzione a lungo termine delle tensioni fra la Giordania e Israele. Queste tensioni sono una piaga periodica derivante dall’approccio conflittuale assunto dall’Ap nei confronti di Israele. La cooperazione israelo-giordana è di fondamentale importanza per la sopravvivenza del regno. Da decenni, l’Autorità palestinesi ha un ruolo corrosivo tra i due governi. La sua rimozione porrà questa relazione vitale su un piano molto più sicuro.
Ultimo ma non meno importante, la Giordania non può permettersi di cedere l’affiliazione politica o la lealtà di una parte sostanziale della sua cittadinanza a un governo a Ramallah. Se, come alcuni sostengono, la maggior parte dei cittadini giordani si auto-identificano come palestinesi, un sistema politico palestinese sotto forma di uno Stato sovrano a pieno titolo (o anche una regione autonoma) concretizzerà una divisione fatale nella composizione del regno.

Tempistica

Vi sono segnali che indicano che ci stiamo rapidamente dirigendo verso uno scenario del genere. Israele potrebbe impedirlo, ma non ha interesse a lungo termine a sostenere questa smisurata fonte di insicurezza e di grattacapi diplomatici. Eppure, Gerusalemme ha un chiaro interesse a non figurare come la causa del crollo dell’Ap. Il suicidio dell’Autorità palestinese potrebbe facilmente essere interpretato dai detrattori di Israele come un politicidio, pertanto, il governo israeliano farà del suo meglio per tenersi a distanza di sicurezza quando arriverà la fine.

Altri fattori oltre alla morte di Abbas potrebbero innescare questa cascata di eventi che porteranno al caos. Ad esempio, una chiusura generalizzata delle scuole e dei servizi dell’UNRWA provocherebbe quasi certamente una esplosione di proteste da parte dei residenti più poveri dell’Ap. Inoltre, una grave carenza di fondi per pagare gli stipendi degli impiegati civili dell’Autorità palestinese porterebbe rapidamente allo stato di emergenza, poiché questi sono tra i più fedeli elettori di Abbas e quelli che tengono insieme la consunta Ap. Un fattore ancora più rilevante è che il mancato pagamento delle retribuzioni ai membri dei sei diversi servizi di sicurezza di Abbas potrebbe rendere ingovernabili le stesse aree controllate dall’Autorità palestinese. Questi uomini cercheranno di sostenere le loro famiglie lavorando per conto di chi paga loro gli stipendi. Non avendo un lavoro regolare, è probabile che provvedano a procurarsi in proprio il denaro per proteggere gli sfortunati abitanti di qualunque territorio sia sotto il loro controllo.

Riassumendo, una volta che il crollo dell’ordine pubblico sarà in atto, ben difficilmente le cose potranno tornare alla normalità e sarà pressoché impossibile impedire ai palestinesi della Cisgiordania di precipitarsi in massa ai punti di sicurezza. La contiguità della Giordania e la familiarità demografica delle comunità palestinesi su entrambe le sponde del fiume, faranno della Giordania la meta predefinita per la maggior parte di coloro che sfuggono alla violenza.

Il governo di Amman avrà soltanto due opzioni: occuparsi di quelle persone che attraversano il fiume verso est, oppure, offrire loro aiuto in loco, con la benedizione di Israele. È difficile immaginare che la Giordania sceglierà la prima alternativa, la più ardua.
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Re: Questione siriana, come orientarsi e con chi stare?

Messaggioda Berto » lun dic 24, 2018 1:04 pm

Trump ritira le truppe dalla Siria. E’ davvero un danno per Israele?
Ugo Volli
23 dicembre 2018

https://www.progettodreyfus.com/siria-trump-israele

C’è stata molta polemica intorno alla scelta di Donald Trump di ritirare le truppe americane dalla Siria e in parte dall’Afghanistan, con le conseguenti dimissioni del ministro della difesa Mattis. Tutti gli antitrumpiani e gli “antipopulisti” di ruolo e di complemento hanno intonato un coro di lamenti e deprecazioni. Per citare qualche titolo del “Foglio”, che per onestà verso i lettori potrebbe benissimo ormai cambiare il nome in “L’Unità”, “Iran e Stato islamico festeggiano” perché “L’America abdica da superalleato” e quindi dobbiamo fare fronte ai “disastri della fuga di Trump dalla Siria” o addirittura (questo lo dice Sofri) al “miserabile tradimento di Trump”. Tutti gli altri giornali italiani ed europei, almeno quelli “autorevoli”, sono compattamente schierati a spiegare che Trump sta distruggendo il “soft power” dell’America, che si è spaventato per le minacce turche (!?) e dunque coi suoi “madornali errori” compie un “suicidio strategico”, è uno sciocco, se non un collaboratore della Russia. Ma siamo sicuri che le cose stiano proprio così? L’unanimità in questi casi lascia sospetti.

Meglio seguire l’opinione di Caroline Glick, la più acuta commentatrice israeliana di politica estera e di sicurezza, che sostiene il contrario. Le truppe americane in Siria, spiega Glick, non hanno mai combinato granché sul piano militare e sono un’eredità di Obama che le mise lì per combattere l’Isis, ma anche per marcare il rovesciamento di rapporti con l’Iran, presentato come il nemico giurato dell’Isis che l’America doveva aiutare a diventare potenza egemone della regione e considerare suo alleato (anche se gli ayatollah hanno incassato i regali, ma mai contraccambiato). E’ vero che sul terreno le cose sono andate in maniera un po’ diversa, i soldati Usa hanno fatto da schermo ai curdi contro la Turchia e messo un po’ di bastoni fra le ruote russe. Ma il senso strategico della loro presenza alla frontiera nordorientale della Siria con Turchia e Iraq non era certo difendere Israele: chi l’avesse pensato probabilmente non ha mai guardato bene la carta geografica e si fa delle illusioni.

Non è mai accaduto in settant’anni e passa che Israele si sia fatto difendere sul terreno da un altro stato, anche perché non ce n’è mai stato uno disposto a farlo. L’America ha aiutato Israele con rifornimenti d’armi, copertura internazionale (impedendo cioè all’Urss di usare la sua potenza contro lo stato ebraico e usando il veto per togliere ai nemici l’arma del Consiglio di sicurezza dell’Onu), assistenza di intelligence e di controllo dello spazio aereo e marittimo. Anche questo non è sempre avvenuto, neppure durante le guerre, almeno non con la tempestività necessaria. Talvolta gli Usa sono stati piuttosto ostili, per esempio durante le presidenze Carter e Obama. Trump è di gran lunga il presidente più favorevole a Israele dalla fondazione e ha assicurato di nuovo, proprio in questi giorni l’appoggio e l’aiuto in caso di necessità.

Ma Israele sa benissimo di doversela cavare da solo, non è una colonia americana e talvolta i suoi interessi sono diversi da quelli degli Usa. L’opinione pubblica americana vuole chiudere una fase costosa (in termini di soldi ma anche di perdite umane) di impegni militari all’estero. Trump aveva promesso durante la campagna elettorale di muoversi in questa direzione e come sempre sta rispettando le sue promesse elettorali. Il Medio Oriente non è più vitale per l’America, il petrolio arabo è molto meno importante di un tempo. La principale ragione di impegno americano nella regione, come Trump ha detto giustificando i rapporti con l’Arabia, è proprio Israele e non è affatto detto che tenere truppe in Afghanistan o a est dell’Eufrate sia il modo migliore per tutelarli. Questo disimpegno toglie alcuni freni a Israele (gli stessi problemi di “non disturbare la coalizione” che obbligarono lo stato ebraico a non reagire ai missili di Saddam Hussein durante la Prima Guerra del Golfo) e gli permette di impegnarsi di più e non di meno nella difesa dall’Iran in Siria, come ha detto Netanyahu.

Israele deve usare ora la copertura americana per consolidare il fronte antiraniano, per minimizzare i pericoli che vengono dalla Siria e dal Libano, per non farsi imporre troppi vincoli nei rapporti con Hamas e l’Autorità Palestinese – anche se è inevitabile che debba essere molto prudente, capace di cogliere freddamente il limite politico del rapporto fra costi e benefici nelle sua azioni militari. Insomma, non è vero affatto che Trump abbia abbandonato Israele o che lo stato ebraico sia più solo di prima. La situazione strategica non è molto cambiata, anche perché in questa fase quel che conta è il dominio aereo, non sono previste in Siria operazioni sul terreno. E Israele su questo piano è fortissimo anche di fronte alla Russia. Dunque è ancora vero che la situazione politico-militare di Israele è la migliore dalla creazione dello stato. E resterà tale, soprattutto se alla guida dello stato continuerà a esserci, nonostante trame politiche e giudiziarie, quel grandissimo statista che è Bibi Netanyahu.
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Re: Questione siriana, come orientarsi e con chi stare?

Messaggioda Berto » mar dic 25, 2018 11:17 am

Siria, Erdogan invita Trump in Turchia dopo l'annuncio del ritiro delle truppe Usa
Mario Calabresi
2018/12/25

https://www.repubblica.it/esteri/2018/1 ... -215066799

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha invitato il suo omologo statunitense Donald Trump a andare in Turchia nel 2019, mentre Ankara e Washington stringono le loro relazioni per coordinare il previsto ritiro delle truppe americane in Siria. Lo ha annunciato ieri la Casa Bianca. Nel frattempo il presidente Usa fa sapere su Twitter di aver dedicato "un briefing alla vigilia di Natale" con il suo "team di lavoro sulla Corea del Nord". "Progressi compiuti - dice - in attesa del mio prossimo vertice con il Presidente Kim!".

Sebbene non sia in programma nulla di definitivo, Trump "è disponibile a un potenziale incontro in futuro", ha dichiarato Hogan Gidley, portavoce dell'esecutivo statunitense. Nel frattempo "una delegazione americana verrà in Turchia questa settimana", ha detto ai giornalisti il portavoce presidenziale turco Ibrahim Kalin. "Discuteranno i modi per coordinare (il ritiro) con le loro controparti turche".

Domenica, dopo una conversazione telefonica tra Trump e Erdogan, la presidenza turca ha affermato che i due leader "hanno accettato di coordinare militari, diplomatici e altri leader dei loro paesi per evitare un vuoto di potere che potrebbe derivare da uno sfruttamento del ritiro Usa e dalla fase di transizione in Siria ".

Il presidente Usa aveva anche comunicato via Twitter di avere discusso in un colloquio telefonico con il presidente turco di un ritiro Usa dalla Siria "lento ed estremamente coordinato". "Ho appena avuto una telefonata lunga e produttiva con il presidente della Turchia Erdogan. Abbiamo discusso dell'Isis, del nostro rispettivo coinvolgimento in Siria, e del ritiro lento ed estremamente coordinato delle truppe Usa dall'area. Dopo molti anni tornano a casa", ha scritto Trump. "Abbiamo discusso anche di "relazioni commerciali considerevolmente accresciute", aveva aggiunto il tycoon.

Kalin ha inoltre assicurato che il previsto ritiro degli Stati Uniti non inciderà sulla lotta contro il gruppo jihadista dello Stato Islamico (Isis) nel nord della Siria. "Non ci sarà alcuna interruzione nella lotta contro l'Isis. La Turchia mostrerà la stessa determinazione contro il nemico jihadista. Non v'è alcun modo per rallentare la nostra lotta contro questo nemico", ha ribadito. Ha assicurato, inoltre, che la Turchia non aveva bisogno in questa lotta della milizia curda Ypg sostenuta da Washington, ma che Ankara considera "terroristi", perché emanazione dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk).

La Turchia ha inviato lunedì nuovi rinforzi militari al confine con la Siria. Unità militari, cannoni Howitzer e batterie di artiglieria sono state inviate in convoglio nel distretto di Elbeyli, di fronte al confine siriano nella provincia turca di Kilis. Questo invio di rinforzi è iniziato questo fine settimana con l'arrivo di un centinaio di veicoli militari turchi nella regione di al-Bab, controllata dalle forze filo-turche nel nord della Siria . Rinforzi militari sono stati inviati anche nella città di Akcakale e nel distretto di Ceylanpinar nella provincia di Sanliurfae (Turchia sud-orientale).
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Re: Questione siriana, come orientarsi e con chi stare?

Messaggioda Berto » mer dic 26, 2018 10:43 am

Alta tensione in Medio Oriente. Israele intercetta missile siriano
Luca Romano - Mar, 25/12/2018

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/alt ... 21297.html

Il portavoce dell'esercito israeliano ha denunciato che un missile antiaereo sparato dalla Siria è stato intercettato dai sistemi di difesa aerea israeliani

Tensione alle stelle tra Israele e Siria. La contraerea siriana ha aperto il fuoco contro quelli che i media locali hanno definito "obiettivi nemici" nei pressi di Damasco.

Poco dopo l'esercito israeliano ha annunciato di avere intercettato un missile lanciato dalla Siria. Foto pubblicate sui social hanno mostrano l'esplosione di un missile antiaereo nelle vicinanze della città israeliana di Hadera. Nel 2011, l'esercito israeliano ha più volte bombardato installazioni militari del regime di Bashar al-Assad e dei suoi alleati come Iran o il movimento libanese scita Hezbollah, vicino a Teheran. L'agenzia ufficiale siriana Sana ha riferito che "un certo numero di obiettivi nemici è stato abbattuto" dalla difesa antiaerea. "Si tratta di bombardamenti israeliani", ha riferito alla France Press il direttore dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, Rami Abdel Rahman.

Aerei da guerra israeliani "hanno lanciato missili contro tre obiettivi", ha aggiunto Abdel Rahman, spiegando che gli obiettivi dei raid, effettuati dallo spazio aereo libanese, erano depositi di armi a sud e a sud-ovest di Damasco, appartenenti a Hezbollah o alle forze iraniane. Se confermato il coinvolgimento di Israele, si tratta del primo attacco israeliano dopo l'annuncio del presidente Usa, Donald Trump, del ritiro di 2.000 militari americani dalla Siria. Secondo gli esperti, Israele è una delle principali vittime della decisione di Trump, poichè permetterebbe al regime siriano e all'Iran di consolidare le loro posizioni militari in Siria, un paese. Da due giorni il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, assicura che la decisione di Trump non avrà effetti sulla politica israeliana contro la Siria. Gli attacchi alla Siria attribuiti a Israele sono calati di numero negli ultimi mesi dopo che un aereo militare russo è stato abbattuto dalle difese aeree siriane durante un attacco israeliano alla città di Latakia e i 15 soldati russi a bordo sono tutti morti. La Russia ha accusato Israele, che ha negato le responsabilità dell'attacco.
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Re: Questione siriana, come orientarsi e con chi stare?

Messaggioda Berto » mer dic 26, 2018 7:25 pm

Esercito siriano si posiziona a difesa del Kurdistan siriano
26 Dicembre 2018

https://breaking.rightsreporter.org/ese ... y9ztHDO24Q

Secondo una fonte militare curda le forze democratiche siriane guidate dai curdi (SDF) hanno ceduto il controllo di una città situata a sud-ovest di Manbij all’Esercito arabo siriano (SAA).

La mossa rientrerebbe nella strategia dell’esercito siriano volta a occupare la regione del Kurdistan siriano con la collaborazione delle forze curde prima di qualsiasi invasione turca.

Secondo la fonte l’esercito arabo siriano è attualmente in contatto con alcuni membri delle forze democratiche siriane a Manbij per organizzare la consegna della città all’esercito siriano, il che dovrebbe garantire che l’esercito turco non avrà strada libera nell’invasione del Kurdistan siriano, anche se da Ankara hanno fatto sapere che la mossa a sorpresa dell’esercito siriano non fermerà “l’operazione di pulizia” contro le forze curde.
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Re: Questione siriana, come orientarsi e con chi stare?

Messaggioda Berto » mer dic 26, 2018 8:31 pm

Il Kurdistan chiede aiuto a Israele: «basta parole, difendeteci»
Sadira Efseryan
Dicembre 26, 2018

https://www.rightsreporter.org/il-kurdi ... ifendeteci

Polemico con Netanyahu il direttore del Kurdistan Project at the Endowment for Middle East Truth (EMET): «se Netanyahu crede veramente a ciò che dice allora dovrebbe agire»

Domenica scorsa il ministro della Giustizia israeliano, Ayelet Shaked (nella foto), ha dichiarato che il ritiro delle truppe americane dalla Siria è una decisione sbagliata e che spera che la comunità internazionale non permetta alla Turchia di “massacrare i curdi”.

Lo ha detto in una intervista alla radio dell’esercito. «I curdi sono grandi eroi» ha detto la Shaked «grazie a loro e solo grazie a loro l’occidente è riuscito a sconfiggere il cosiddetto Stato Islamico» ha poi proseguito il Ministro della Giustizia israeliano.

«Sono nostri alleati e spero che vinceranno nella loro battaglia contro i turchi. Spero che la comunità internazionale impedisca a Erdogan di massacrare i curdi in Siria» ha detto ancora la Shaked.

«Questa decisione non aiuta Israele. Piuttosto rafforza Erdogan, un criminale di guerra antisemita che compie massacri del popolo curdo, e lo fa strizzando l’occhio alla comunità internazionale» ha infine concluso Ayelet Shaked.
In Israele tutti (o quasi) concordi che occorre aiutare il Kurdistan

Il Ministro della Giustizia israeliano non è l’unica a pensarla così. In Israele sono tutti (o quasi) concordi sul fatto che Israele dovrebbe in qualche modo aiutare i curdi siriani così come fece a suo tempo con il Kurdistan iracheno.

«Molti in Israele simpatizzano con i curdi perché sono perseguitati dagli stessi paesi o gruppi che odiano anche Israele» ha detto il giornalista israeliano, Seth Frantzman, in una intervista a Kurdistan 24.

Tuttavia in pochi in Israele hanno le idee chiare su come aiutare concretamente il Kurdistan e salvarlo dalle grinfie di Erdogan.

Israele ci aiuti. Basta parole
“Se Netanyahu crede davvero a ciò che dice, allora dovrebbe agire”

Sembra avere invece le idee molto chiare Dileman Abdulkader, direttore del Kurdistan Project at the Endowment for Middle East Truth (EMET).

«Se Netanyahu crede davvero a ciò che dice, allora dovrebbe agire. Basta parole, i curdi sono stanchi di parole vuote» ha detto Dileman Abdulkader a Kurdistan 24.

«Se Netanyahu crede che Erdogan sia un leader così malvagio il cui esercito massacra donne e bambini nei villaggi curdi, dentro e fuori dalla Turchia, può sempre armare i curdi e proteggerli con i tuoi F-35 nuovi di zecca» ha poi concluso polemicamente Abdulkader.

Escludendo a priori (ma forse anche no) che Israele impieghi la sua aviazione per proteggere i curdi, in molti chiedono alla politica israeliana di armare i curdi siriani per combattere i propositi stragisti di Erdogan così come fece con i curdi iracheni che combattevano Saddam Hussein, ma sono operazioni complesse.

Chi potrebbe veramente fare qualcosa per proteggere il popolo curdo dalle mire stragiste di Erdogan è la comunità internazionale, a partire dalle Nazioni Unite fino all’Unione Europea.

A parte le pressioni politiche, le Nazioni Unite potrebbero dispiegare abbastanza velocemente un contingente di caschi blu così come ha fatto in Libano, mentre l’Unione Europea potrebbe dare un contributo economico per il mantenimento di questa forza di interposizione.

Ma per farlo serve il parere favorevole del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dove tra i membri permanenti c’è la Russia che ha diritto di veto. Difficilmente Mosca permetterà a forze dell’Onu di entrare in Siria. Troppi occhi indiscreti.

L’Europa non ha un proprio esercito e non riuscirebbe mai a mettere insieme una forza di contrapposizione.

Alla fine cosa rimane ai curdi per non essere massacrati da Erdogan se non le armi che potrebbero essere fornite da una mano amica quale è Israele?
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Re: Questione siriana, come orientarsi e con chi stare?

Messaggioda Berto » dom dic 30, 2018 11:07 am

???

Siria, 8 anni dopo: Assad resiste. E il Califfo non è stato sconfitto
Gian Micalessin - Dom, 30/12/2018

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 22640.html

Intesa Russia-Turchia: Erdogan non attaccherà i curdi
Gli Usa lasciano il Paese: è Putin l'unico attore rimasto

Da ieri la guerra in Siria è praticamente finita. Le ultime incognite, dopo la riconquista di gran parte del Paese per mano di Bashar Assad, riguardavano la provincia di Idlib, tuttora occupata da decina di migliaia di jihadisti, e i territori curdi del nord-est minacciati - dopo l'annunciato ritiro americano - da un'invasione turca.

A rimuovere la minaccia di un'offensiva contro quei miliziani dell'Ypg considerati terroristi da Ankara in quanto fedeli al Pkk di Abdullah Ocalan, ci ha pensato il Cremlino. Nonostante le bellicose promesse delle ultime settimane, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha accettato il diktat di Vladimir Putin, rinunciando ad affrontare l'esercito siriano entrato venerdì a Manbij e pronto ad affiancare le milizie dell'Ypg anche in tutti gli altri centri curdi con il procedere del ritiro americano. Un diktat messo nero su bianco ieri a Mosca durante gli incontri tra il ministro della Difesa di Ankara, Hulusi Akar, quello degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, e il capo dei servizi segreti, Hakan Fidan, con i rispettivi ministri russi. Un summit definito «assai utile» dal titolare degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, che ha spiegato come Ankara abbia accettato di lavorare nel «rispetto incondizionato della sovranità e dell'integrità territoriale della Siria».

Erdogan, pronto nei prossimi giorni a incontrare Putin per sottoscrivere l'intesa, avrebbe rinunciato, insomma, a utilizzare i carri armati e qualche migliaio di ribelli siriani, trasformati in obbedienti milizie filo-turche, per occupare i territori curdi. In verità i colloqui di Mosca non sono stati altro che il riconoscimento dello scacco matto subìto da Ankara venerdì pomeriggio quando le milizie dell'Ypg hanno aperto le porte di Manbij alle truppe di Damasco accettando la sovranità e la protezione offerta da Damasco in cambio di una piena autonomia territoriale.
Ovviamente le truppe di Assad, logorate da otto anni di conflitto, e le milizie curde non sarebbero bastate, da sole, a vanificare un eventuale assalto della macchina da guerra turca. Ma a rendere assai solida l'asse curdo-siriano ha contribuito l'appoggio politico e militare di un Vladimir Putin con cui è sempre meglio non tirare la corda, come Erdogan ha imparato a proprie spese dopo aver abbattuto un aereo russo nel dicembre 2015. Consapevole delle incognite innescate dal ritiro annunciato da Donald Trump, il Cremlino nei giorni scorsi non si era limitato a sollecitare un'intesa tra Damasco e i curdi, ma aveva fatto capire di essere pronto a utilizzare la propria aviazione per difendere l'integrità territoriale del Paese e bloccare eventuali interventi turchi.

L'accordo, imposto con la forza da Mosca, apre nuove prospettive anche per la soluzione del nodo di Idlib, l'ultima grande provincia siriana ancora in mano ribelli. Un nodo inestricabile fino a quando Ankara non rispetterà l'impegno assunto con Mosca di disarmare e accogliere sul proprio territorio le decine di migliaia di jihadisti ancora presenti in quei territori. Ma la tempestiva soluzione dell'incognita turco-curda dimostra soprattutto come il ritiro deciso da Trump trasformi Putin nell'unico e vero ago della bilancia di un'imminente e auspicabile pace siriana. Un epilogo alquanto sconfortante per un'America che durante la presidenza Obama aveva strenuamente difeso la necessità di far cadere Bashar Assad. Oggi, dopo otto anni di carneficine e oltre 300mila morti, Assad è ancora al suo posto, l'Isis e le milizie jihadiste, figlie di quella stessa guerra, sono ancora lontane dall'essere sconfitte, mentre Erdogan si è trasformato da alleato in imbarazzante spina nel fianco della Nato. Un epilogo reso ancor più sconfortante dal via libera di Trump a un ritiro che, oltre a sancire il ridimensionamento degli Stati Uniti, diventa anche il riconoscimento dell'egemonia russa nella regione.
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Re: Questione siriana, come orientarsi e con chi stare?

Messaggioda Berto » mer gen 02, 2019 9:45 am

Trump ritarda il ritiro dalla Siria. Pentagono e alleati frenano il presidente
Lorenzo Vita
1 gennaio 2019

http://www.occhidellaguerra.it/trump-ri ... tardo-mesi

L’annuncio di Donald Trump di ritirare il contingente americano dalla Siria aveva sorpreso molti. Una notizia che poteva e che potrebbe rivoluzionare in modo definitivo lo scacchiere siriano, dal momento che i 2mila uomini delle forze americane rappresentano più che un elemento fondamentale nella guerra che sconvolge il Paese mediorientale da sette lunghissimi anni.

Per i sostenitori della scelta, la notizia del ritiro Usa appariva (e appare) come una sorta di via libera alla definitiva stabilizzazione della Siria. Esclusa la superpotenza guida della coalizione internazionale, è evidente che la strategia degli avversari di Bashar al Assad subirebbe un colpo forse definitivo.

Per i suoi oppositori, invece, le perplessità sono diverse. C’è chi crede che questo annuncio rappresenterebbe l’immagine plastica di un ritiro strategico degli Stati Uniti dal Medio Oriente. Altri, invece, temono l’immagine di una potenza capace di abbandonare gli alleati, sia locali (come i curdi), che regionali. Altri ancora, invece, ritengono che questo abbandono del campo siriano possa tradursi nella supremazia delle forze regionali a danno della geopolitica americana, con Russia, Iran e Turchia a diventare i veri e proprio imperi in grado di controllare il destino non solo della Siria, ma anche della regione.

Il Pentagono ha sintetizzato queste perplessità in un gesto: le dimissioni di James Mattis. Ma lo Stato profondo americano non si è limitato a questa azione. Le pressioni sulla Casa Bianca sono cresciute in maniera esponenziale al pari di quelle degli alleati regionali. In Siria non può esserci un ritiro rapido e definitivo delle truppe americane: serve tempo, possibilmente molto. Ed è su questa base che è iniziato l’assedio nei confronti del presidente Trump, accusato di essere stato eccessivo e irruento con un annuncio che può rappresentare una spartiacque fondamentale nella strategia americana.

Così, dopo settimane dalle parole del presidente, arriva una rivelazione del New York Times: Trump ha convenuto con il Pentagono sulla necessità di concedere almeno quattro mesi per ritirare i 2mila soldati schierati in Siria. Secondo il quotidiano americano, durante la sua visita in Iraq della scorsa settimana, Trump avrebbe detto al comandante delle forze statunitensi in Iraq e Siria, generale Paul LaCamera, che il ritiro avverrà nell’arco di alcuni mesi, in maniera ordinata e senza quella rapidità quasi irruenta che si poteva leggere nelle parole con cui il capo della Casa Bianca ha annunciato il ritiro.

Sempre secondo le fonti del Nyt, domenica Trump ha fornito rassicurazioni a Lindsay Graham, uno dei senatori repubblicani più critici sul ritiro delle truppe. E ieri, lo stesso presidente ha pubblicato un tweet sul fatto che gli Stati Uniti riporteranno “lentamente” a casa le truppe.

Trump cede alle pressioni del Pentagono? Sì e no. Il ritiro, in ogni caso potrebbe esserci. E quattro mesi non sarebbero sicuramente un periodo estremamente lungo in un conflitto che varcherà la soglia degli otto anni. Sicuramente la Difesa americana ha lanciato segnali chiari al capo della Casa Bianca sul fatto che non potesse esserci un ritiro immediato delle truppe senza destabilizzare una strategia pluriennale.

Ma è anche vero che, come spiegato su questa testata, molto probabilmente la notizia del ritiro americano è stata presa con estrema enfasi. Il ritiro degli Stati Uniti dalla Siria non significherebbe né l’abbandono del Medio Oriente da parte di Washington né dei suoi avamposti nel conflitto siriano. Gli Stati Uniti hanno troppi interessi nella regione e ne è consapevole lo stesso presidente repubblicano.

Trump ha voluto lanciare probabilmente alcuni segnali. Il primo, al suo elettorato, che lo ha votato anche per una nuova spinta “isolazionista” tipica di una certa parte del mondo repubblicano e che non ha mai considerato utile il coinvolgimento in Siria. Il secondo messaggio, agli alleati regionali, che Trump vorrebbe coinvolgere sempre più nella guerra al posto delle truppe Usa, come descritto anche dal suo tweet con cui ha sostanzialmente dato via libera alla Turchia nel nord-est siriano. Terzo messaggio, quello rivolto all’apparato interno: e infatti sono arrivate le dimissioni di Mattis, uno degli elementi più critici dell’amministrazione americana.

Questi messaggi sono arrivati ai destinatari. E adesso Washington potrebbe aver chiarito alcuni punti fondamentali. E adesso, Trump potrebbe aver deciso di tornare ad ascoltare i generali e i suoi alleati.


Alberto Pento
Così nessuno potrà accusare Trump di essere un guerreafondaio, dato che molti negli USA anche avversari democratici di Trump, alleati euro-asiatici e attori protagonisti nel Medio Oriente vogliono che gli americani restino in Siria a fare da ago della bilancia.
Gli USA, nonostante tutto, sono i più credibili e affidabili, nessuno si fida della Turchia, pochi della Russia e pochissimi dell'Iran.

Vito Russo
Fino alla fine devono prendere un mazziatone dai russi

Alberto Pento
La Russia non può dare alcuna mazziata se non a se stessa. Gli USA sono ancora la maggiore potenza politica-economica-militare del Mondo e per il Mondo sono ancora un faro di speranza, di democrazia, di libertà, di civiltà.
Un Putin che minaccia con l'atomica è allo stesso livello di Kim il coreano, una minaccia di disumanità per il Mondo intero.

Vito Russo
Alberto Pento hahahahaaaaaahahahaaaaaahahaaaahaaa dimenticavo la famosissima democrazia ameri cana
i dominatori dell oltreverso quelli che comendano il mondo....ecco questa sinceramente è la prima grandissima cazzata del 2019 e mi mancava!
Guerre fatte dalla russia nel 900?
Guerre fatte dagli yankee cani da guardia di israele?

Alberto Pento
Si pensi solo al regno del male, all'imperialismo sovietico che ha funestato il 900 e che aveva come fulcro la Russia e il suo impero zarista, da cui si sono sviluppate tutte le dittature social comuniste della terra in Asia, in Africa e in America, contro le quali gli USA erano in prima linea a difesa della libertà e del bene dell'umanità di tutto il Mondo.
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