Eutanaxia e eujenetega

Eutanaxia e eujenetega

Messaggioda Berto » dom gen 26, 2014 10:17 am

Eutanaxia e eujenetega
viewtopic.php?f=141&t=458


Eutanaxia e eujenetega de na olta e de ancò.

Eutanaxia come mexerecordia e come altro ...

Eujenetega ente l'alevamento de le bestie o 'nimali tra cu li omani.

...

Ràça, ràsa, razza

viewtopic.php?f=44&t=774

Etimoloja de ràça del filologo Xane Semeran:

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... C3%A7a.jpg

asiro/assiro:

ḫaršâ (ràsa de cavaj)
ḫaršītu (raça de piegore)


cfr. co horses

http://en.wikipedia.org/wiki/Horse
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Re: Eutanaxia e eujenetega

Messaggioda Berto » dom gen 26, 2014 10:23 am

L'euxenetega de Platone:

http://it.wikipedia.org/wiki/Eugenetica

La parola eugenetica a rigore fa riferimento allo studio dei metodi volti al perfezionamento della specie umana attraverso selezioni artificiali operate tramite la promozione dei caratteri fisici e mentali ritenuti positivi, o eugenici (eugenetica positiva), e la rimozione di quelli negativi, o disgenici (eugenetica negativa), mediante selezione o modifica delle linee germinali, secondo le tradizionali tecniche invalse nell'allevamento animale e in agricoltura basate sulla genetica mendeliana, e quelle rese attualmente o potenzialmente disponibili dalle biotecnologie moderne.
Nel linguaggio comune, il termine si confonde spesso con l'eugenismo, che è l'ideologia che ritiene che la soluzione di problemi politici, sociali, economici o sanitari possa essere raggiunta attraverso l'adozione di pretese soluzioni eugenetiche.

Storicamente, l'eugenetica come campo di ricerca è stata per la prima volta suggerita da Platone (Pol. 458 segg.).

Il Cristianesimo medioevale, dando per scontata la degenerazione umana dal peccato originale e l'intrinseca negatività dell'atto sessuale, lascia alla sfera ultraterrena ogni possibilità di "miglioramento".

Nel Rinascimento Tommaso Campanella, nella prospettiva utopica de “La città del Sole” sostiene l'opportunità di combinare i matrimoni e controllare la vita sessuale dei cittadini.

Tra Settecento e Ottocento si afferma la frenologia, disciplina non scientifica che sosteneva di riuscire ad individuare dalla forma del cranio le tendenze psicologiche delle persone, in primis la propensione a devianza e criminalità.
Successivamente, Herbert Spencer prese a prestito i concetti chiave dell'evoluzione darwiniana e li applicò alle scienze sociali, sostenendo l'opportunità e la necessità delle differenze sociali allo scopo di assecondare il naturale processo di selezione dei più adatti.

La teoria è chiamata "determinismo biologico-ereditario".
Negli anni sessanta dell'Ottocento l'eugenetica venne portata in auge da Francis Galton (cugino di Charles Darwin) che teorizzò il miglioramento progressivo della razza secondo criteri analoghi a quelli dell'evoluzione biologica. Sosteneva necessario un intervento delle istituzioni per questo fine, mediante l'incrocio selettivo degli adatti. Galton ideò anche il termine, traendolo dal greco classico. Specialmente in Inghilterra ed in Germania, questa teoria ebbe grande successo, grazie anche alla forte impostazione positivista della scienza e all'ideale imperante di progresso della civiltà.



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Re: Eutanaxia e eujenetega

Messaggioda Berto » dom gen 26, 2014 10:29 am

L'eutanaxia de ancò dei malà terminali e de coeli ke li fa na vita da enferno.

http://it.wikipedia.org/wiki/Eutanasia
http://it.wikipedia.org/wiki/Aktion_T4
...


Taigeto o la rupe/ o sojo de sparta
http://it.wikipedia.org/wiki/Taigeto
È diffusa la leggenda che, nell'antichità, sul monte Taigeto venissero abbandonati i bambini spartani nati deformi e destinati a soccombere alle intemperie e alle fiere, ma uno studio dell'antropologo Theodoros Pitsios, dell'Università di Atene, ha mostrato che nell'area del monte Taigeto sono presenti solo ossa di adulti risalenti all'epoca spartana, probabilmente appartenenti a criminali condannati a morte, in analogia con la romana Rupe Tarpea.

http://www.semplicementemagda.com/gli-i ... -di-sparta

Olanda, eutanasia per bambini malformati. Libero: “Rupe Tarpea”
http://www.blitzquotidiano.it/rassegna- ... ea-1594270

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En laor – at work
One Life
http://www.youtube.com/watch?v=ZknxPkp5ki8
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Re: Eutanaxia e eujenetega

Messaggioda Berto » mar mag 13, 2014 2:14 pm

Ausmerzen

http://www.gadlerner.it/2012/04/25/ausmerzen-il-libro

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Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.

Lo speciale rapporto dei veneti con la psichiatria dipenderà forse dal fatto che sono un po’ tutti matti, da quelle parti?
Città e campagne che il capitalismo non ha mai irreggimentato del tutto nella sua regola tayloristica.
Modernità imbevuta di strapaese.
Fatto gli è che da Zanzotto a Rigoni Stern, da Malerba fino alla generazione irregolare dei Diamanti, Stella, Bettin cui è lecito accostare un maestro del teatro italiano contemporaneo qual è Marco Paolini, il Nord-Est si configura come il laboratorio intellettuale critico più sensibile ai temi della diversità.
Forse per contrasto alla cultura retriva di chi governa su quel territorio. Sarà un caso che pure la misconosciuta (da noi) riforma della psichiatria –valorizzata invece come esemplare in tutto il mondo- sia stata intrapresa da Franco Basaglia lassù fra Gorizia e Trieste?

Antiretorica eppure grave, intima e solenne come solo lui è capace di modularla riempiendo la scena, la voce di Marco Paolini ha saputo così riformulare per noi il dubbio progressista più scabroso del Novecento: vale la pena dissipare risorse, in tempo di penuria, per mantenere in vita dei “mangiatori inutili”?

Il computo indecente dei risparmi di cui beneficia una società “sana” praticando la sua igiene, cioè eliminando le “vite indegne di essere vissute”, è stato recuperato in un foglietto sfuggito alla distruzione degli archivi nazisti. Lista ritrovata in un armadio a Hartheim: “E’ calcolato che fino al 1 settembre 1941 sono stati disinfettati 70.273 pazienti… Calcolando un costo giornaliero di 3,50 Reichsmark, abbiamo fatto risparmiare 4.781.339,72 kg di pane; 19.754.325,27 kg di patate… E inoltre 2.124.568 uova”.

L’appunto autografo di Hitler che ordinava l’eutanasia, cioè la soppressione dei disabili, si presenta caritatevole, rivolgendosi ai medici e “autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio”. Ma non fatevi illusioni: se Marco Paolini ha sentito il bisogno di riscrivere completamente il testo teatrale che l’anno scorso inchiodò al video 1.709.000 telespettatori, proponendocelo ora nella forma compiuta di un libro (“Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute”, pagg. 177, Einaudi, euro 12), è perché non possiamo permetterci la consolazione di scaricare per intero quell’abominio tra le colpe storiche del Terzo Reich.

Vero è che la pratica di selezionare in quanto esistenze-zavorra i disabili e i malati di mente, così come di procedere alla loro sterilizzazione fin dal luglio del 1933, con l’istituzione di centottanta apposite corti genetiche, e poi di sottrarli alle famiglie, rinchiuderli in sei centri pseudo-ospedalieri, sottoporli a diete omicide, infine eliminarli nelle prime piccole camere a gas allestite dal Reich, è riconosciuta dagli storici come la fase preparatoria dell’immane sterminio pianificato industrialmente nei lager dal 1942 (???).
Non solo.
La collaborazione disciplinata di medici, infermieri, psichiatri, autisti e la rassegnazione con cui le famiglie sopportavano il prelievo forzato dei congiunti disabili, rivelarono ai gerarchi di Hitler quanto manipolabile fosse una società totalitaria assoggettata nel terrore.
Anche se il timore di uno scandalo pubblico propagato dai familiari per questa strage degli innocenti, indusse il Reich a circoscriverne le modalità dopo il 1941.

Non credo però che Marco Paolini avrebbe proseguito la sua ricerca fino a scrivere questo libro stupefacente se a sollecitarlo non fosse stata una scoperta imbarazzante:
l’eugenetica, pseudoscienza della selezione ottimale della specie umana, ben prima del nazismo, e ben oltre, affonda le sue radici nel positivismo della razionalità occidentale.

Da Cesare Lombroso a Francis Galton, da Alexander Graham Bell fino a Konrad Lorenz, i teorici dell’eugenetica sono stati riconosciuti dall’establishment come alfieri del progresso. La dogmatica delle compatibilità economiche e un’ambigua nozione di progresso nella ricerca medica, si sono combinate nel legittimare sperimentazioni il cui retroterra non è sempre e solo necessariamente razzista.
Certo, nel dopoguerra vigeva ancora in Svizzera la sterilizzazione dei Rom e dei Sinti; ma in Svezia (Xvesia o Xvisara) a motivare simili pratiche eugenetiche non era il pregiudizio etnico bensì la pretesa “bonifica degli elementi biologicamente tarati”.

Così la ricerca di Marco Paolini e di suo fratello Mario, musico terapeuta, è proseguita un anno oltre la rappresentazione dello spettacolo teatrale.
Ma non ne ha disperso l’impatto drammaturgico che in Paolini consiste nell’abilità di personificare il racconto, a tratti perfino capace di humour, umile nell’immedesimazione: cosa avremmo fatto noi al posto di quelle infermiere, abituate a praticare iniezioni a prescindere che guarissero o sopprimessero, in obbedienza alle prescrizioni mediche? E il medico che rivendicava la sua funzione sociale a beneficio di una collettività impoverita che doveva pur risparmiare per sopravvivere, dandosi priorità di tutela, e che magari si sforzava di non lasciar soffrire, sopprimendola, la vita indegna di essere vissuta, siamo così certi avesse una sensibilità tanto diversa dalla nostra? Non agiva forse anch’esso per il progresso?
Certo Paolini è capace di esprimere lo sdegno, attraverso un’ingenuità sapiente: “A ben guardare i centri di uccisione sono organizzati come macelli, travestiti da cliniche ma macelli. Soltanto la necessità di intrattenere rapporti con le famiglie, di giustificare i decessi, li distingue da una macelleria”.

Eppure prevale la naturalezza di quella scelta eugenetica di selezione che, infine, porterà complessivamente alla morte procurata di trecentomila esseri umani, censiti in un ufficio di Berlino al numero 4 di Tergartenstrasse e prelevati uno ad uno nelle loro case. Non si spiega altrimenti la scoperta, umiliante per le truppe d’occupazione statunitensi nel luglio del 1945, da cui prende spunto il racconto.
Finita ormai da oltre due mesi la guerra, a Kaufbeuren-Irsee, non lontano da Monaco di Baviera, nell’ospedale psichiatrico (“Luogo per sanare e curare”, recita il cartello all’ingresso) si è continuato a sopprimere i ricoverati. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, l’esercizio di una deontologia a prescindere dagli ordini del regime nazista ormai deposto.

Attraverso le testimonianze di medici e infermieri (solo due di essi si toglieranno la vita) Paolini ci restituisce lo stupore di chi non riteneva di avere nulla da rimproverarsi. Straziante è il ritratto di Ernst Lossa, soppresso all’età di quattordici anni nonostante la sua strenua resistenza alla Dieta E, completamente priva di grassi.
Ancor più piccoli di lui sono i ragazzini italiani dell’ospedale psichiatrico di Pergine in Valsugana, sui quali una corrispondenza burocratica narra sperimentazioni crudeli, sempre “a fin di bene”.
Mi piace ricordare infine l’incontro con una donna straordinaria che ha introdotto Mario Paolini alla ricerca di “Ausmerzen”: Alice Ricciardi von Platen.
Era una giovane dottoressa tedesca nel 1946, quando venne incaricata dall’ordine dei medici di raccogliere testimonianze per il secondo processo di Norimberga. Quei ricordi terribili non ne hanno scalfito la dolcezza, fino a quando si è spenta in terra toscana nel 2008.

https://www.youtube.com/watch?v=AWqAFR4iu3U&app=desktop

Marco Paolini - Ausmerzen
https://www.youtube.com/watch?v=AWqAFR4iu3U&app=desktop

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http://it.wikipedia.org/wiki/Aktion_T4
http://en.wikipedia.org/wiki/Action_T4
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http://www.ilfoglio.it/soloqui/7521

25 gennaio 2011 - ore 12:38
“Il permesso di annientare vite indegne di essere vissute”

Marco Paolini porta in scena, nella tv laica e di sinistra, l’orrore dell’eugenetica e dell’eutanasia. Racconta quel che fecero i nazisti, ma il suo sguardo è tutto rivolto all’oggi

E’ tutto pronto al Paolo Pini di Milano, l’ex ospedale psichiatrico tra Quarto Oggiaro e la Comasina, attrezzato come teatro, ostello della gioventù, spazio per mostre e luogo di ristoro. La nuova vita del manicomio inizia negli anni Novanta, diciott’anni dopo l’entrata in vigore della legge 180, la legge Basaglia, dal nome dello psichiatra triestino che chiuse i manicomi italiani. Stasera e domani qui, nella Sala delle cucine, si parlerà di eugenetica e di eutanasia, di scienza e di morale. E’ in scena “Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute”, ultima narrazione di Marco Paolini, il più intenso tra gli autori del teatro civile italiano. Lo spettacolo è un monologo sulle teorie eugenetiche e eutanasiche messe in atto dai nazisti, e dai loro successori, prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale per sterilizzare e poi eliminare disabili mentali e psichici, disadattati, storpi, ragazzi malformati con tare ereditarie. Al fine di migliorare la razza e di tagliare costi sociali.
Raccontando l’orrore nazista, Paolini vuole restituire il dolore dell’esperienza, il senso di responsabilità, il dilemma della scelta, la dimensione stessa del diverso. Ma soprattutto vuole offrire una prospettiva storica al dilemma che ancora oggi attanaglia le coscienze in fatto di eugenetica e di eutanasia. E infatti non è solo un uomo schivo, attore pudico e carismatico, capace di stare in scena per ore da solo e ammaliare il pubblico con una recita mai uguale a se stessa. “Dopo due ore di racconto, chiedo sempre agli spettatori come stanno, di cosa vogliono parlare”, confessa Paolini. “A volte mi risponde un medico, a volte un genitore, a volte un insegnante, a volte un cieco, un sordo… Solo se imposti le cose su una base di integralità, puoi discutere sull’onda delle emozioni, sopportando idee opposte, e avendo la civiltà di sviluppare i rispettivi argomenti sino in fondo, senza strillare”.
A conferma di questo suo civismo militante, domani sera, vigilia della Giornata della memoria, il canale tv La7 trasmetterà in diretta “Ausmerzen”, seguito da un dibattito fra il pubblico, animato da Gad Lerner, la star della rete Telecom che considera Paolini “un traguardo”. Così, nel salotto buono televisivo saldamente in mano alla sinistra laica e politicamente corretta stanno per irrompere due ore di televisione integrale (niente interruzioni pubblicitarie) su un tema impegnativo, al centro delle preoccupazioni non soltanto della chiesa e di intellettuali laici non allineati al pensiero dominante in materia, ma anche delle battaglie culturali di questo giornale. E’ possibile porre un limite all’onnipotenza della scienza? O in nome della tecnica e della produttività del sistema dobbiamo continuare a negare impunemente la dignità della persona umana? E qual è il rapporto che corre tra economia e società? Eliminare i deboli, gli idioti, i malati mentali, gli infelici, gli inguaribili, come fecero i nazisti per migliorare la razza e contenere la spesa sociale, è davvero un’esclusiva abietta dello stato totalitario? O una tentazione che percorre anche i regimi liberi e le democrazie? E che cosa succede quando la “brava gente” si mette in testa di avere ragione?

Paolini è un apostolo del teatro civile. Studia per anni le sue narrazioni, preparandole scrupolosamente con ricerche, interviste, testimonianze a tutto campo – si tratti del “Racconto del Vajont” o del “Sergente nella neve”, del “Gioco del Rugby” o del “Galileo”. E’ uno che crede nelle virtù catartiche del dramma, come un antico cittadino della polis, ma senza pose apocalittiche, e tenendo a bada le emozioni: “Vogliamo parlare di eutanasia oggi? Volevo fare un testamento biologico, ma sono rimasto sconcertato dal tono con cui si è discusso del caso Englaro, dal furore integralista di parole d’ordine brucianti”, dichiara in modo programmatico. “Non credo che in questo modo si sia reso un servizio alla mente umana. Personalmente, avrei voluto che non si coprisse con tanto fracasso un argomento dal quale pochi di noi sono colpiti direttamente. Ringrazio Dio di non essere fra quanti si trovano a vivere una situazione del genere, e come forma di rispetto chiederei innanzitutto di abbassare la voce. Non voglio entrare a gamba tesa nel dibattito, ma dare una prospettiva che aiuti a riflettere. A questo serve una narrazione come la mia: a fornire una base razionale, non solo emotiva, per dire: guardate cosa abbiamo alle spalle, guardate l’orrore commesso dai nazisti in nome dell’eutanasia, dell’eugenetica e della presunzione di risolvere ogni malattia su base scientifica”.

Anagraficamente, Paolini è un veneto che ama il sud e odia la Lega; “un veneto di minoranza” o, come dice lui, “che usa la lingua non per ergere muri o discriminare il forestiero, come fanno oggi gli impiegati alle poste di Conegliano, ma per ragionare con gli altri, anzi per fare in modo che il teatro ricrei la società, e gli uomini non impazziscano”. Caratterialmente, è un bellunese ruvido, montanaro, chiuso e così geloso di sé che rifiuta di confessare il suo mondo interiore: “Perché farmi giudicare per le mie opinioni, quando non ne ho una grande stima?”. Nemmeno sotto torchio rivelerebbe cosa davvero lo muova. “Non voglio mettere l’accento su ciò che penso, ma su ciò che faccio. Perché se pensi certe cose, ma non riesci a farle sentire, è velleitario dire quali siano le tue intenzioni”. Insomma, è un attore e un artista, nutre la convinzione che il teatro sia ancora quel luogo d’elezione utile a smascherare il potere e le sue mistificazioni, per dare un ordine al reale e un senso al mondo. E infatti è persuaso che solo una rappresentazione corale permetta il confronto tra tesi contrapposte, favorendo una dialettica ispirata alla ragione e all’uso pubblico della ragione, al riparo da sofismi, scorciatoie, da derive demagogiche: “Se dovessi scegliermi un ruolo del teatro classico”, confessa, “mi assegnerei quello del coro”.
Paolini pone col suo racconto i dilemmi che vuole suggerire alle coscienze contemporanee. Irradiarle nelle case degli italiani è l’ultimo exploit della piccola nave corsara che sta smuovendo le acque del nostro mare mediatico. “Servizio pubblico è anche quello di una tv privata e commerciale che abbia un rapporto onesto e costruttivo col suo pubblico”, dice infatti il direttore di rete de La7 nel suo ufficio romano in via della Pineta Sacchetti. In epoca di tagli, ristrutturazioni e controllo draconiano dei bilanci, è stato proprio lui, Lillo Tombolini, a convincere del progetto Gianni Stella, feroce risanatore, soprannominato dai dipendenti “er canaro”, e oggi strenuo difensore di Paolini. “Da uomo intelligente, si è convinto da solo”, si schermisce Tombolini. “Paolini, infatti, restituisce una realtà che nessuna lettura ti può dare. Impossibile spezzare l’emozione con lo spot”.
Il sodalizio tra Paolini e La7 nasce negli anni passati e si consolida col “Sergente nella neve”, racconto sulla ritirata dei soldati italiani in Russia, tratto dal libro autobiografico di Mario Rigoni Stern, trasmesso in diretta nel 2007 da una cava dismessa nei pressi di Zovencedo, in provincia di Vicenza. “Come faremo a riempirla di pubblico? Mi domandavo allora”, ricorda Tombolini. “C’era un freddo cane, pioveva, tirava un vento gelido. Per arrivare alla cava bisognava percorrere un viottolo sterrato nel bosco. A un certo punto, vidi decine di ragazzi arrivare a piedi, dopo una salita di tre chilometri. Paolini li aspettava intorno a un fuoco. ‘Venite a scaldarvi’, gridava, offrendo vin brûlé”. Questo per dire il calore, il legame comunitario, il contatto diretto, ingredienti base del suo teatro.

Dopo il successo del “Sergente”, Tombolini avrebbe voluto allestire un altro teatro su strada, con palco su via Mario Fani, per il trentennale del rapimento Moro. “Solo un anno per prepararlo? Troppo poco”, rispose Paolini, che avrebbe voluto intervistare tutto il Trionfale e conoscere uno per uno gli abitanti del quartiere romano per entrare con loro nel ricordo di quel giovedì 16 marzo 1978, giorno in cui fu rapito lo statista dc e uccisi i cinque uomini della sua scorta. Il fatto è che Paolini non è solo un teatrante eccentrico che studia i suoi spettacoli come uno studente universitario si prepara l’esame; quando sale sul palcoscenico ha l’ambizione di un cronista, che tenga a bada sia l’attore sia il teatro, “perché se l’attore e il teatro sono troppo presenti distraggono lo spettatore, e se ci metti troppo pathos, scateni nel pubblico l’adrenalina”. Così gran parte della sua preparazione consiste nel cercare il giusto tono della voce, nel costruire una presenza scenica non troppo invadente, per raccontare l’orrore rendendolo plausibile.

Per esempio “Ausmerzen”, “verbo gentile”, come dice Paolini, “che evoca la terra e il mese di marzo, quando i pastori, prima della transumanza, sopprimevano le pecore e gli agnelli troppo lenti, tant’è che in tedesco significa ‘sopprimere chi rallenta la marcia, chi è troppo lento per seguire il branco’” (ma è anche sinonimo di ‘sradicare, abbattere, eliminare, rifiutare, dimenticare, espungere, estirpare, radiare’) è la cronaca agghiacciante dello sterminio di massa, che prepara la soluzione finale, raccontata col distacco paradossale di uno che avrebbe potuto esserne sia la vittima sia il responsabile, e la freddezza di chi mettendolo in scena cerca di aiutare la gente a affrontare i dilemmi che pone. “Lo spettacolo segue le origini delle idee eugenetiche”, spiega infatti Paolini. “Racconta ciò che accadde in Germania tra il 1934 e il 1939, l’accelerazione della macchina burocratica tedesca verso la sterilizzazione di massa, quando l’eugenetica diventa disciplina universitaria, e poi il salto dalla sterilizzazione all’eliminazione. C’è la storia del primo bambino disabile sequestrato e soppresso. La fase ufficiale del programma T4 dura due anni, dal primo settembre 1939 all’estate 1941. Esiste persino un bilancio di 70.292 vittime, ma si tratta di stime. E c’è anche il racconto della così detta “eutanasia selvaggia”, termine che rischia di sembrare un alibi, ma indica la morte negli ospedali psichiatrici di altre 230 mila persone tra il settembre del 1941 e il settembre del 1945. La guerra finisce ai primi di maggio del 1945, ma la macchina eutanasica non si ferma, anzi continua a funzionare per anni. Tant’è vero che fino al 1948, negli ospedali psichiatrici tedeschi l’indice di mortalità resta altissimo. In Italia, invece, di quei dati non ci sono stime, mancano le statistiche”.
Farà sicuramente effetto assistere al racconto-spettacolo di Paolini dalle cucine dell’ex manicomio Paolo Pini, luogo in cui i malati di mente, una volta dimessi, hanno trovato alloggio, e persino lavoro, come addetti all’ostello, al ristorante, alla sala mostre, grazie a una cooperativa sociale e a varie organizzazioni di volontariato riunite sotto il nome di “Olinda”, che era quello scelto da Italo Calvino per la città immaginaria che cresce senza periferia, come una grande piazza aperta in cui convivono le persone più diverse. “E’ normale oggi per i milanesi venire qui a bere un caffè o mangiare un piatto di pasta in compagnia di persone che pur avendo problemi psichiatrici anche gravi, affetti da disturbi psichici e vissuti per anni come barboni in mezzo alla strada facendosi espellere ovunque, hanno finito per integrarsi, e oggi riescono persino a lavorare, con effetti terapeutici notevoli”, dice al Foglio lo psichiatra ticinese Thomas Emmenegger che del Paolo Pini è il direttore. Emmenegger crede in “un’impresa sociale”, dove ogni singola attività, legata al mangiare, al dormire, al pensare, alimenta un sistema complesso di cittadinanza, permettendo di mitigare competitività e produttività con altre forme di compensazione. Così il teatro per esempio surroga alle carenze dell’ostello, e il ristorante a quelle del teatro. E in questo luogo deputato alla solidarietà, che accoglie i disabili, gli psicotici, gli ossessivi, li nutre, li integra come parte di un tutto, restituendo loro un ruolo attraverso il lavoro, il racconto di Paolini non è solo un percorso, una testimonianza, ma una lezione di pedagogia civile.
“Cent’anni fa per finire in manicomio bastava che ci fossero troppi figli in famiglia, che qualcuno avesse un problema”, dice Paolini. “Molti ragazzi, di cui racconto in ‘Ausmerzen’, se avessero avuto un insegnante di sostegno si sarebbero salvati la vita. L’Italia è l’unico paese in Europa a non avere le classi differenziate. In Germania pure i sordi ce le hanno. Noi siamo gli unici matti che provano a tenere i disabili e i ritardati mentali in classe con gli altri bambini. Tutti ci studiano per copiarci, ma noi oggi rischiamo di rinunciare a questo modello perché non ce la facciamo più. In una certa regione del nord c’è persino un assessore alla Sanità che ha stabilito di escludere dai trapianti di organi i pazienti con un quoziente intellettuale inferiore al 60. Si rende conto? E invece ci servirebbe uno scatto d’orgoglio per riconoscere le cose buone che siamo riusciti a fare alla faccia dei paesi più ricchi di noi”.
Non per niente, “Ausmerzen” nasce da un’idea del fratello di Marco Paolini, Mario, di due anni più giovane, pedagogista di professione. “Lui lavora sin dai tempi del servizio civile coi portatori di handicap, mentre io sono un imbranato”, dice il fratello maggiore, “non sarei capace di star dietro ai bambini ritardati”. Mario oggi si occupa anche di formazione degli educatori dei bambini “con disabilità complesse”, come si dice in gergo, incapaci cioè di accedere a un lavoro, vuoi per un deficit neurologico, come una paralisi cerebrale infantile, vuoi perché privi di competenze linguistiche, per effetto di carenze relazionali. Insomma, vive a diretto contatto con un campione di popolazione che ai tempi di Hitler veniva considerata “geneticamente inguaribile” e perciò passibile di misure radicali. “Oggi sappiamo molte più cose di un tempo”, dice al Foglio Mario Paolini, citando i suoi maestri, Andrea Canevaro ed Enrico Montobbio, pionieri nella cultura dell’integrazione. “Ci sono conoscenze che scadono come un vasetto di yogurt. Perciò, non è corretto usare giudizi tranchant quando ci si occupa di disabili: meglio sentirsi compagni di strada, formare operatori che dedichino molto tempo all’istruzione. In passato, le persone disturbate, che avevano comportamenti aggressivi e autolesionistici finivano in manicomio. Oggi si è capito che il lavoro per molti di loro può avere un effetto terapeutico”.

Mario ha il viso dolce di un sacrestano veneto e il verbo pieno del cittadino ispirato. Solo pochi anni fa ha scoperto cos’era successo nella Germania nazista. Nel 2002, leggendo gli atti di un convegno su psichiatria e nazismo, tenuto nel 1998 nell’ex ospedale psichiatrico di San Servolo, venne a conoscenza del famigerato “Aktion T4”, il programma eutanasico e eugenetico nazista, così chiamato dall’indirizzo della villa berlinese, in Tiergartenstrasse 4, sede della Fondazione per la salute e l’assistenza sociale, che ebbe per legge il mandato di sterilizzare prima e sopprimere poi le persone affette da malattie ereditarie considerate inguaribili o da gravi malformazioni fisiche. “Mi consideravo un ottimista, ma quando lessi quegli atti mi resi conto di essere un cretino”, dice sgomento il pedagogista Paolini. “Stavo facendo un mestiere senza sapere che settant’anni prima gente come me aveva commesso quel che aveva commesso. Così, cominciai a studiare, a documentarmi, e mi accorsi che nella storiografia ufficiale di tutto ciò non c’era quasi traccia. L’università continuava a sfornare laureati in Psicologia e Scienza dell’educazione con una scarsissima conoscenza di questi fatti, che non erano l’ennesima nefandezza compiuta dai nazisti, ma l’effetto di una serie di procedure sviluppate in base al movimento eugenetico che a quei tempi accomunava la classe medica, più o meno consapevole delle sue conseguenze”. Mario Paolini cita “Die Freigabe der Vernichtunglebensunwerten Lebens” (“Il permesso di annientare vite indegne di essere vissute”), saggio del 1920 i cui autori, Alfred Hoche e Klaus Binding, rispettivamente un medico e un giudice, sostenevano il diritto dello stato di uccidere “persone mentalmente morte” e eliminare i “gusci vuoti di essere umani”. Insomma, erano i precursori nazi delle tesi care oggi a mille e mille eutanasici libertari.
Sconvolto dalla scoperta, Mario Paolini trovò un appassionato alter ego in Giovanni De Martis, consulente d’azienda col pallino della storiografia, presidente dell’associazione Olokaustos e fondatore dell’omonimo sito, oggi fra i più informati sul tema. Così un bel giorno propose al fratello Marco di girare un documentario con la loro società di produzione. “Partimmo insieme per la Germania”, ricorda oggi De Martis. “Andammo a intervistare il professor Von Cranach, direttore dell’Istituto psichiatrico di Kaufbeuren, massimo conoscitore dell’archivio di quella che negli anni Trenta fu la clinica dello sterminio. E andammo a trovare pure Alice Ricciardi von Platen, la studiosa che per prima, come membro della commissione medica al secondo processo di Norimberga (che finì per comminare lievi pene ai medici, agli psichiatri, al personale sanitario coinvolto) aveva ricostruito l’intero programma eutanasico nazista. Girammo molto, in senso fisico e cinematografico, ma poi finì tutto nel cassetto”.
Il documentario non venne mai realizzato. La cosa parve morire lì. Ma i materiali raccolti erano tali che premevano per essere utilizzati. Mario Paolini continuava a raccontare la storia dei nazisti assassini dei propri figli disabili, dello stato totalitario che organizza il sequestro, la sterilizzazione poi la soppressione fisica dei “pesi morti”, fissando parametri, procedure, stratagemmi vari, che serviranno come prova generale allo sterminio degli ebrei. Nel luglio 1933, cinque mesi dopo la nomina di Hitler alla Cancelleria, venne emanata la legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie. L’esecuzione era affidata al ministero dell’Interno attraverso i tribunali speciali per la sanità ereditaria, formati da due medici e un giudice distrettuale. Tra il 1933 e il 1939 si calcola siano state sterilizzate dalle 200 mila alle 350 mila persone. Più tardi poi, con l’invasione della Polonia e l’inizio della guerra, partì l’“Aktion T4”, che si protrasse fino al 1941 quando, sospeso per le proteste, venne continuato in altro modo. De Martis, intanto, continuando a fare ricerche, finì per scrivere una prima bozza di sceneggiatura, intitolata “Apolide”. Da questa bozza nacquero le due letture pubbliche tenute da Paolini nel 2008 al Paolo Pini di Milano e a Trieste. Il testo di stasera è l’ultima rielaborazione, passata al vaglio del pubblico e modificata in funzione delle sue reazioni. “Marco ha un’eccezionale capacità di sintesi” dice De Martis. “Rimuginando il testo, riesce a rielaborarlo di continuo finché non trova l’espressione migliore”.
Il racconto di stasera dunque, è stato già provato su gruppi di spettatori a Castelfranco Veneto, a Padova, a Quarto d’Altino, poi in Puglia, a Zara e Mantova. In scena con Paolini ci sarà anche una tedesca di ventitré anni, Naomi Brenner, che non è un’attrice ma una psicologa, che ha tradotto le fonti sensibili, per restituire la verità dei termini con tutte le sfumature necessarie. “Detesto il politicamente corretto”, dichiara infatti Paolini. “La mia non è un’operazione della memoria, e nemmeno un’archeologia confinata a sessant’anni fa. Vuol essere un racconto attuale. Come li chiamo questi disabili, con le parole che usavano i nazisti? Con quelle che usiamo noi? Con quelle che vorrebbero loro? La narrazione non può essere una cosa tranquilla come un saggio: citare le stesse parole che usavano i nazisti significa giocare con termini difficili”, spiega Paolini, che pur essendo un maniaco della preparazione, lascia spazio all’improvvisazione. “Il racconto è un flusso continuo. A volte mi esce una parola, a volte un’altra, a volte mi dico che schifo, attenzione, ho esagerato. Io sono un musicista, sto suonando le parole e mi vengono fuori sbagliate. Qualcuno è turbato, qualcuno protesta… cazzo. Allora a volte usi detestabili eufemismi, per esempio, il termine ‘infelici’ apre un abisso, perché fornisce una giustificazione mostruosa. E comunque, meglio sbagliare e poi vergognarsi, che starci a pensare, sennò non apri più bocca”.
Per il suo racconto, Paolini dunque si serve di documenti ufficiali, di atti processuali, di circolari della Cancelleria del Reich. Ricostruisce il modo in cui i nazisti organizzarono il censimento, racconta dei tribunali speciali che procedettero alla valutazione dei malati, per autorizzare la consegna o per organizzare il sequestro delle persone da “curare”, sterilizzandole prima e eliminandole in seguito. Descrive il modo in cui l’apparato dello stato nazista coinvolse i medici di base, che dovevano persuadere le famiglie a consegnare loro i figli, con la scusa di internarli in strutture ospedaliere create ad hoc per curarli meglio, salvo poi comunicarne ai genitori il decesso, avvenuto previa somministrazione di un cocktail di scopolamina e di luminol, negando loro però il diritto di riottenerne le spoglie, con un imbroglio sulla decorrenza dei termini. Intanto, i corpi di quelle vite indegne di essere vissute erano finiti nei forni crematori, prodromo alla soluzione finale. Insomma, una storia tremenda. L’eutanasia di massa, perpetrata in nome della razza, del miglioramento della specie, della “razionalità” del sistema sanitario e dell’intera società, venne decisa senza alcun consenso individuale. Era il trionfo dell’equivoco nazista, e cioè dell’idea che ci fossero vite indegne di stare al mondo, che lo stato e i funzionari pubblici determinavano, al di là della volontà dei loro stessi portatori o dei loro cari. “Lo stesso inventore dell’eugenetica Francis Galton (1822-1911) non pensò mai che questa scienza scellerata potesse tradursi in una pratica tanto violenta”, avverte oggi Giovanni De Martis. Ma la così detta eutanasia eugenetica non era un’esclusiva della Germania nazista. Era un progetto diffuso, praticato con successo da molti paesi del civilissimo occidente, la Svezia, la Svizzera, la Danimarca, la Gran Bretagna, e persino l’America. E mentre Paolini insiste sulla peculiarità dell’eutanasia nazista, che anticipa lo sterminio di massa, quello che gli sta a cuore è anche l’urgenza di riflettere su un dilemma che, nonostante le differenze, continua ad attanagliare il nostro presente.
“Non credo che la soluzione sia una deliberazione del Parlamento, che ce la caveremo con una legge. Chiunque affronti questa storia sta d’un male cane. Per questo, penso che raccontarla serva da contrappeso a ogni scorciatoia, rendendoci più attenti, più sensibili. D’altra parte, è imbarazzante interpretare documenti o storie come questi in un paese che rischia di farsi governare dall’onda emotiva. Fare una cosa del genere in tv è quasi criminale, perché fai stare male la gente”, avverte Paolini. “Ma il teatro è società. E allora un contrappeso ci vuole. Bisogna incivilire il confronto, parlare di eugenetica per dire che alla fine non migliora la vita. Se io riesco a ricreare la società col teatro, col dibattito, con la tv, tutto questo forse può servire a sconfiggere l’eugenetica, a superare la retorica del miglioramento, a riconoscerla e smascherarla. Forse se ci si frequenta di più non si impazzisce”.

Ma cosa nutre l’ambizione di Marco Paolini? Cosa c’è dentro la testa di questo pazzo che ha il coraggio di portare in tv l’orrore dell’Aktion T4 in un monologo di due ore? Chi è veramente questo montanaro bellunese che invoca il rispetto per la finitezza, il senso del limite, e difende senza condizioni la creatura umana? E’ un cristiano, un cattolico? Un ex comunista? Un cane sciolto? Un laico pentito? Un ateo devoto? Noi non l’abbiamo incontrato al Paolo Pini, dove di “Ausmerzen” non c’è stata nemmeno una prova, ma a Catania, dove Paolini era in tournée fino all’altro ieri col suo “ITIS Galileo”, ospite del Teatro Stabile. Niente di più incongruo di un bellunese nella città etnea. Ma basta una battuta, uno sguardo assorto sull’arborescenza che cresce spontanea sotto certi lastroni inamovibili, sigillati sul lastrico medievale di Palazzo Platamone, attuale sede dell’assessorato alla Cultura, per capire che il saltimbanco aedo del teatro classico, è un uomo attento, dotato di ironia: “La natura è improgettabile. Tra vent’anni i curatori di qualche museo berlinese verranno qui a inchinarsi di fronte a questa installazione spontanea intitolata ‘Erbacce’”.
La visita continua nell’atelier dell’assessore alla Cultura, Marella Ferrera, a Palazzo Biscari. La stilista-assessore mostra la nuova collezione, abiti tessuti a mano, con reti cucite su una composizione di centrini, e intarsi all’uncinetto formati da particolari di vecchie foto in bianche e nero che spiccano al centro. Sono le tracce dei ricordi e dei dolori delle spose per procura che cent’anni fa sbarcavano a Ellis Island, pronte a farsi impalmare da chiunque, persino da un perfetto sconosciuto oriundo siciliano o conterraneo, pur di ottenere un visto d’ingresso negli Stati Uniti. Era questo il nuovo mondo, il futuro riservato a milioni di emigrati (15 in tutto). “Ognuno di questi vestiti è come la rete da pesca di una piccola barca in cui è rimasto impigliato qualcosa”, commenta assorto Paolini. L’intervista col Foglio diventa la prova generale della tenuta scenica, del tono di voce, dell’intensità orale che servirà mettere in scena al Paolo Pini. “Nel 1920, quando le spose siciliane approdavano a Ellis Island, era il momento in cui gli americani applicavano l’eugenetica per rilasciare il visto d’ingresso agli emigranti”, dice Paolini. “Per entrare, dovevi compilare una serie di questionari, e dichiarare strane cose, per esempio se avevi l’abitudine di mangiare la verza, oppure il cavolo. Era un modo per discriminare i settentrionali dai meridionali, e scegliere i primi a scapito dei secondi”.

Per preparare “Ausmerzen”, Paolini ha letto pure il “Mein Kampf”: “Hitler aveva la fobia dei matti, raccontava di quelli che mangiano la cacca, ma aveva capito benissimo cosa stava succedendo in America. ‘Gli Stati Uniti, scriveva, sono più avanti di noi tedeschi: rifiutano certe razze per l’immigrazione’. Il che dimostra che non è il nazismo a creare il clima in cui poi si formano le idee radicali di sterilizzazione e eliminazione dei disabili, ma è il razzismo che si respira nei così detti paesi civili a creare il nazismo”.
E’ il primo colpo contro il luogo comune. Anche le democrazie, come dimostra la storia dei visti siciliani, hanno le loro zone d’ombra. “Esistono le idee eugenetiche legate a Galton alla fine dell’Ottocento”, insiste infatti Paolini, mentre gli occhi pervinca iniziano a brillare, cancellando i tratti della stanchezza. “Uno dei primi a interessarsi alle idee eugenetiche fu Mr. Bell, l’inventore del telefono. Il suo problema erano i sordi che bloccano il mercato. Commissionò uno studio sugli abitanti di una certa isola, mi pare Virgin Island (lo racconta De Martis), ed ebbe la conferma che la sordità è una caratteristica ereditaria. Sicché per risolvere un problema legato al mercato, Bell proporrà di sterilizzare i sordi, per impedirne la riproduzione, consentendo con ciò a tutta la popolazione di utilizzare il telefono. Perciò l’idea di respingere chi non è provvisto di caratteristiche genetiche gradite non nasce in una dittatura o in uno stato totalitario, ma in una democrazia a forte immigrazione”.
Del resto, era la stessa epoca in cui gran parte della popolazione dell’Italia meridionale venne sottoposta a osservazione dal frenologo Cesare Lombroso, che definendo i tratti fisiognomici del tipo bruzio, per corroborare la lotta al brigantaggio, fondò la scienza della criminologia. “Effettivamente, basta guardare le foto della Prima guerra mondiale, per vedere come rinviassero ancora a un carattere somatico prevalente”, replica Paolini. “I reggimenti sardi sull’altipiano di Asiago erano somaticamente diversi dai loro ufficiali piemontesi. Di fatto, gli italiani si guardano per la prima volta nelle palle degli occhi sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale. L’emigrazione interna ancora non esisteva. Un friulano alto, bianco robusto e un calabrese nero riccio e secco come i fichi di settembre, erano increduli di appartenere allo stesso paese. All’inizio, tra loro c’è diffidenza”. Poi però la trincea crea un legame. “La guerra certo lega, perché se fai la stessa tribolazione diventi fratello, e poi in quella tribolazione circolano idee nuove, le idee socialiste, le idee di solidarietà, nella sopportazione dei triboli fraternizzi persino con quelli che combattono dall’altra parte”.
Allora torna la domanda: il razzismo è una tendenza propria al nazionalsocialismo, dell’idea di uno stato fondato sulla purezza etnica o anche altro? “Non parliamo di tendenza, per favore”, esclama Paolini. “E’ pericoloso!”. E per dimostrarlo torna agli anni Settanta, quando si discuteva sull’innato e sull’acquisito, discettando su natura e cultura. “Di chi è la colpa se tu sei un delinquente, della società o della genetica? Ce lo domandavamo da ragazzi. La questione era chiara: chi sosteneva che sono i geni a determinare il carattere era di destra; se invece dicevi che era la società, passavi per uno di sinistra. La distinzione appariva in embrione in un libro di Erich Fromm e costellava le nostre discussioni adolescenziali tra chi citava le tesi di Konrad Lorenz, e chi replicava con quelle di Bertrand Russel. Tutte cose che approcciavamo ingenuamente, bevendoci brutte traduzioni. Oggi non si ragiona più così. Non si osa nemmeno. Però, se ci pensi, la genetica piano piano è diventata un elemento cardine nella soluzione dei nostri problemi. E’ al centro della possibilità di migliorare la nostra vita non solo per vincere le malattie, ma come strumento di controllo sociale, di controllo delle nascite, di orientamento anche estetico, nella selezione del sesso dei nascituri. Siamo arrivati allo shopping procreativo, a decidere come voglio il mio bambino. Ne discutiamo e ci arrabbiamo pure, perciò è importante sapere cosa il passato abbia prodotto di mostruoso, in questo senso. Ma se poniamo al genetista la domanda che assillava i ragazzi negli anni Settanta, e cioè quanto è determinato dall’impronta genetica e quanto invece è effetto dell’educazione e della società, lui sorriderà, spiegandoci che il nostro Dna non può fornirci più del sei per cento di ciò che noi siamo”.

Percentuale irrisoria. “Le differenze cromosomiche tra la più bianca antartica e la più nera aborigena delle popolazioni, mi dirà oggi il genetista, sono racchiuse in un numero infinitamente piccolo di elementi del corredo genetico della specie umana. Il che vuol dire che la velleità di creare un popolo in base a un patrimonio genetico comune, come quella della Germania nazista, si fonda su un assurdo, su un dato scientificamente falso; perché alla fine, se solo il sei, il sette, l’otto, diciamo pure il dieci per cento dipende dal corredo genetico, se guardandoci intorno ci scappa da dire, ‘questa è una società di stronzi’, il problema purtroppo non è risolvibile geneticamente, ma rinvia al discorso della scuola. In altre parole, non è che se mettiamo a posto il Dna l’Italia va meglio; perché il 90 per cento dipende da quello che guardiamo, sentiamo leggiamo. Perciò, puoi pure sceglierti il bambino che vuoi allo shopping genetico, ma sta’ tranquillo che se tu sei stronzo per educazione e per cultura, viene fuori stronzo anche lui. Dunque, non è questione di Dna o di concepimento, ma del lavoro che devi fare su te stesso. Su questo non c’è scampo. Certo, se interpreti la procreazione come marketing cui scegli il prodotto, la vera domanda è: vale ancora la pena di riprodurre una specie umana che ragiona in questo modo? Mi sembra di no. C’è una linea di demarcazione tra le preoccupazioni per la salute e il capriccio, il vizio, l’idea che il mercato mi mette a disposizione un prodotto e io sono come un bambino davanti alla vetrina, di un negozio, senza più i genitori di una volta che sapevano tirargli uno scappellotto, se cominciava a gridare voooglioooo quello!!!!!”.
La genetica così però ne esce a pezzi? “Certo, può tutelarci dalla malattia, ma non risolve la stronzaggine. Ora, i problemi che abbiamo di fronte sono per la maggior parte educativi, comportamentali. Non richiedono l’investimento da parte di una multinazionale e nemmeno il colpo di scena che migliori la specie. Tocca fare manutenzione, arte ordinaria, sulla quale non ci sono scorciatoie, come frequentare la scuola dell’obbligo, imparare a parlare senza ruttare o senza alzare la voce. Il che significa introdurre un’autolimitazione, fatto di per sé privo di appeal, ma necessario”.

Così, partendo dall’opposizione tra natura e cultura, e passando per lo studio del genoma, si arriva allo spettacolo di stasera. “Io racconto un pensiero mostruoso. Racconto di come brava gente possa arrivare a mettere in opera pratiche criminali avendo demolito, ma molto progressivamente, ogni freno inibitore. Alla fine, so che la causa di tutto questo è, da un lato, nelle idee eugenetiche, dall’altro nel mancato bilanciamento offerto da un sistema solido dotato di un senso del limite. Il mancato contrappeso all’eugenetica, che permette lo sterminio, però, non è un’idea scientifica. E’ un’idea morale e culturale: è il tessuto sociale in grado di avere il senso del limite. Un dittatore può anche avere la velleità di pensare che in questo modo si debellano le malattie e si migliora la specie, soprattutto se la specie avesse contezza che il miglioramento non avviene attraverso un colpo di scena, ma attraverso un costante lavoro di manutenzione, grazie al peso dell’esperienza, grazie all’autorevolezza della nazione, al ruolo dell’adulto… noi oggi però viviamo un’epoca che vede l’abiura degli adulti”.
Abiura degli adulti, dice proprio così Marco Paolini, usando una bella espressione per un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti, e cioè la morte della vecchiaia, il trionfo spasmodico della giovinezza, inseguita fuori tempo massimo da chiunque. “Gli adulti abiurano perché vogliono essere giovani. Questo ci chiedono il mercato e i modelli dominanti: tenerci giovani. E in questo c’è la complicità degli adulti, che rifiutano di farsi sorpassare, non mollano la sedia. Fare coming out, oggi, significa dichiararsi adulti”. Insiste Paolini, con sottinteso politicamente scorrettissimo. Dichiararsi adulti è ciò che richiede vero coraggio sociale, altro che dichiararsi gay. “Assumersi il compito della responsabilità, smascherare tesi grottesche. D’accordo la genetica, ma dove arriveremo? Dammi un contrappeso. D’accordo la ricerca sulle staminali e la possibilità di debellare malattie. Non voglio censurare alcuna opzione che mi permetta di battere queste strade. Dopodiché non voglio essere semplicemente il malato ansioso e spaventato che si rivolge al medico e non capendo di cosa stia parlando e, vedendo che magari la cura non funziona, un attimo dopo va dal mago. Io rispetto il dolore e l’ansia delle persone, ma non è un mondo di adulti quello che avrà bisogno del dottor Di Bella o chi per lui, per avere speranza, per trovare quel magico plus di energia che a volte manca nell’approccio con un medico bravo, ma incapace di trasmettere fiducia. Noi siamo fragili, perché siamo disposti ad affidare la soluzione dei problemi a chi non ha queste capacità. Mentre un adulto delle generazioni più solide, che accettavano la finitezza, non apriva subito a chiunque bussasse alla sua porta. Ecco, secondo me è questo che ci manca degli adulti, l’esperienza che, sulla base di qualcosa che non posso aver imparato solo io, ma anche la mia gente, permette di selezionare, di accettare una cosa, di decidere se vale la pena di fidarmi. Oggi non abbiamo più questa diffidenza istintiva che difende, siamo tutti creduli. Siamo fragili. Questo è il pericolo rispetto all’eugenetica. La Germania degli anni Trenta era fragile. Soffriva le conseguenze di una crisi economica devastante. Non voglio stabilire un nesso di tipo deterministico, ma è chiaro che una condizione di sofferenza diffusa che interessa molte fasce della popolazione, la perdita di sicurezza, l’inflazione galoppante, offrono il destro all’idea di eliminare gli inutili, di buttare a mare chi non produce, chi non ha pagato il biglietto e costa troppo. E se stai male è più difficile resistere alla lusinga di un pensiero cattivo, che anche i sani hanno, perché è un pensiero che alberga nel cuore di ogni persona, non solo dei cattivi. Solo che, se hai il contrappeso dell’educazione, o di un sistema di relazioni, lo puoi isolare, neutralizzare. Puoi vergognartene. In un momento di crisi, invece, quel pensiero diventa condiviso. E se poi il governo, arrivato al potere nel 1933, lo esprime nei manifesti, nei libri di scuola, nei corsi universitari, alla fine quando vedo tanti professori che dicono la stessa cosa, io di quel pensiero recondito non mi vergogno più, perché ormai ha assunto una cittadinanza”.
E’ strano parlare di miseria, solitudine, sofferenza, per spiegare il trionfo dell’eugenetica nazista, e farlo nel meridione. Qui da sempre manca il lavoro, e tutti si ricordano i poveri che mendicavano scalzi l’olio fritto nelle case dei ricchi. Eppure i matti, gli scemi del villaggio qui sono sempre stati una presenza familiare, come Cipì, che s’aggirava in pieno agosto, in un paesino della Calabria, coperto di strati di cappotti e impermeabili, le mani avvolte in sacchetti di plastica, e gli occhi da ebete puntati su di noi bambini che pure capivamo benissimo cosa voleva dirci con quei suoi strani suoni gutturali. “Attenzione”, risponde Paolini sorridendo. “L’unica forma di resistenza all’eutanasia di stato si ebbe nei paesini della Pomerania, del Baden Württemberg, della Sassonia, nei villaggi dei minatori della Ruhr, dove tutti si conoscono e il matto del villaggio ha un nome proprio. Sono pochi i casi dove il pulmino coi vetri oscurati che andava a prelevare i disabili, gli idioti, gli idrocefali, gli schizofrenici o gli psicotici girava a vuoto, senza poter fare il suo carico umano, perché gli abitanti di quei paesini erigono barricate”.

Paolini cita il libro di Alice von Platen, ma insiste sulla complicità dei medici. Dice che ci furono obiezioni di coscienza, ma molti inganni, ricatti, intimidazioni. Se rifiutavano di consegnare il figlio ritardato o storpio, le famiglie rischiavano di perdere la tessera annonaria. Gli unici episodi di resistenza avvennero in piccole comunità solidali che dei loro matti e dei loro storpi si prendevano cura. Oggi non se ne vedono più. “La società liquida rende tutti perfettamente uguali e omologabili. E appena arriva l’alluvione, ti parlo da veneto, in questi paesi dove si vive bene e tante case vanno sott’acqua, si dice ‘ci hanno lasciato soli’, lo stato non ci aiuta. Ma a parte i tempi tecnici per l’arrivo della Protezione civile, io dico, il tuo vicino di casa dov’era? Non ne hai? Se l’argine si rompeva trent’anni fa, sarebbe accorso per primo a darti una mano. Ma se tu i vicini non li vedi da sedici anni, questo ti rende più fragile, ti espone a idee bislacche come il pensare che il tuo rapporto col mondo passi per uno schermo al silicio, invece che dalla porta di casa. Oggi a noi manca la società vicinale, manca il prossimo, che determinava la prevalenza della vita pubblica su quella privata”.
A questo serve il racconto di Paolini, a ricordarci cosa è successo nella Germania di Hitler e a farci riflettere sul perché, a richiamarci al senso del limite e alla nostra responsabilità di uomini liberi, anche se nessuno oggi riesce a farsi soverchie illusioni. “Rispetto alla mostruosità di queste cose”, conclude Paolini, “un attore è come un’aspirina. Sono consapevole che devi avere un senso del limite pauroso, pur muovendo in una zona in cui se non fai vivere questa cosa qui, se non l’accendi, nessuno ti ascolta. E come faccio io ad accenderla? Non lo so. So solo che ho smesso di fare ‘Vajont’ perché nessuna tecnica teatrale mi permetteva di ripeterlo a teatro tutte le sere, mantenendo la mia integrità psicofisica. Ripetendo una cosa che costa fai del male, picchi duro, picchi i bambini. Mi sono accorto che ci sono cose che trascendono il mestiere, perché ti fanno soffrire davvero. Devi stare attento a non esagerare. Se ti fai coinvolgere ti si spezza la voce e rendi un cattivo servizio. Ci sono parti in cui corro dei rischi, trattenere il respiro sarebbe un po’ troppo liberatorio per chi guarda. L’unica cosa che posso fare per raccontarla bene questa storia, e provocare domande che turbano senza offendere, è creare un tono, fare in modo che siano parole sommesse, senza l’urtante presunzione che rende impossibile ragionare con gli altri. E poi, il vero soggetto di questo racconto non sono i cattivi processati a Norimberga, ma la brava gente, la gente come noi, quelli come me e te. Se creo indignazione, offrendo al pubblico solo un bersaglio, forse ho sfuocato l’obiettivo. La vera preoccupazione è che si impazzisce in gruppo e si rinsavisce da soli, ma ci vuole tempo”.

© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Marina Valensise
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Re: Eutanaxia e eujenetega

Messaggioda Berto » mar mag 13, 2014 2:43 pm

Konrad Lorenz

Immagine

http://it.wikipedia.org/wiki/Konrad_Lorenz

...

Nel 1937 Lorenz fece domanda alla Deutsche Forschungsgemeinschaft per una borsa di studio, facendosi raccomandare da accademici viennesi come simpatizzante del nazismo; la domanda ebbe esito positivo l'anno successivo, quando Lorenz allegò anche le "prove" che lui e sua moglie erano di origine ariana. Con l'Anschluss dell'Austria alla Germania (1938), Lorenz prese la tessera del partito nazionalsocialista e la sua carriera scientifica prosperò: nel 1940 ottenne la cattedra di psicologia all'Università di Königsberg e nel medesimo anno scrisse:

« Dovere dell'eugenetica, dovere dell'igiene razziale dev'essere quello di occuparsi con sollecitudine di un'eliminazione di esseri umani moralmente inferiori più severa di quella che è praticata oggi. Noi dovremmo letteralmente sostituire tutti i fattori che determinano la selezione in una vita naturale e libera. »

In seguito affermerà:

« Io, in effetti, ritenevo che dai nostri nuovi governanti potesse venire qualcosa di buono. [...] Lo pensarono praticamente tutti i miei amici e insegnanti, e anche mio padre, che era certamente un uomo gentile e molto umano. Nessuno di noi sospettava che la parola "selezione", nell'accezione data ad essa da questi governanti, significasse assassinio.[18] »

Nel corso della seconda guerra mondiale fu reclutato nell'esercito tedesco, inizialmente con l'incarico di portaordini-motociclista, poi di psicologo e infine di medico (1941) nel dipartimento di neurologia e psichiatria dell'ospedale di Posen; qui si occupò del trattamento delle nevrosi, specialmente dell'isteria e delle nevrosi compulsive.

Nella primavera del 1942 fu spedito al fronte orientale, vicino Vicebsk (nell'ambito dell'Operazione Barbarossa), e due mesi dopo fu fatto prigioniero dai sovietici. Nel 1944 fu internato nei campi di concentramento sovietici in Armenia; in Unione Sovietica fece peraltro significative esperienze:

« Dapprima mi misero a lavorare in un ospedale, a Chalturin [...]. Quando quest'ospedale fu smantellato, divenni medico di campo, dapprima a Oritschi, e successivamente in diversi campi in Armenia. Cominciai a parlare con qualche scioltezza il russo e feci buona amicizia con alcuni russi, quasi sempre dei medici. Ebbi occasione di osservare i sorprendenti paralleli possibili fra gli effetti psicologici dell'educazione nazista e di quella marxista. Fu allora che cominciai a capire la natura dell'indottrinamento in quanto tale. »
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Re: Eutanaxia e eujenetega

Messaggioda Berto » mar mag 13, 2014 5:58 pm

La selezione della razza? L' ha inventata l' America
Black: italiani, ebrei, sudamericani vittime dell' eugenetica Usa «La selezione della razza? L' ha inventata l' America»

http://archiviostorico.corriere.it/2003 ... 9078.shtml

UN LIBRO CONTROVERSO RICOSTRUISCE LA POLITICA DEGLI STATI UNITI CONTRO LE «ETNIE INFERIORI». CHE PORTÒ ALLA STERILIZZAZIONE DI OLTRE SESSANTAMILA PERSONE

dal nostro corrispondente ENNIO CARETTO LA DOTTRINA «Un modello da esportare in tutta Europa» WASHINGTON - È l' estate 1921, e l' Ufficio all' industria e all' immigrazione di New York non ha un momento di pace. L' Ufficio è nato per aiutare gli immigrati poveri, ma da qualche anno svolge un' altra attività: indaga su quelli «minorati moralmente, intellettualmente o fisicamente» per decidere come «metterli in condizione di non nuocere». Ha ormai migliaia di casi sotto esame. Il caso 430 riguarda Eva Stypanovitz, un' ebrea russa diciottenne: «E' debole di mente e in età da marito. E' una minaccia per la comunità», non bisogna cioè consentirle di avere figli. Il caso 918 concerne Vittorio Castellino, un italiano di 35 anni: «Da un punto di vista eugenetico ed economico non si può che condannarlo». Questi giudizi sono del biologo Charles Davenport, direttore dell' Ufficio del registro eugenetico presso il Cold Spring Harbor Laboratory di Long Island, un laboratorio finanziato da tre grandi dinastie americane, la Carnegie, la Rockefeller, la Harriman. La questione non è accademica: in nome dell' eugenetica, o purezza della razza, dal 1909 molti Stati (nel 1930 arriveranno a 27) emanano leggi per la castrazione dei «minorati». Gli archivi non lo dicono, ma è probabile che l' ebrea russa e l' italiano siano finiti su un tavolo operatorio. Le storie della ragazza e dell' operaio sono due delle tante - e tra le meno agghiaccianti - ricostruite da Edwin Black nel libro «La guerra contro i deboli: la campagna americana per creare una razza padrona», pubblicato dalla Four Walls Eight Windows. Black, autore del best seller L' Ibm e l' Olocausto, ha fatto luce su uno dei capitoli più bui e nascosti della democrazia Usa: la sterilizzazione di 60.000 persone - e l' invio in campi di concentramento e il divieto di sposarsi di un numero imprecisato di altre - nella prima metà dello scorso secolo. Si tratta di neri, di «indios» sudamericani, di ebrei, di arabi, di italiani, tutti coloro che provengono dal sud povero del mondo. Nelle parole di Davenport, l' obiettivo delle orrende misure è «l' igiene razziale» o pulizia etnica degli Stati Uniti, la depurazione dei nordici, gli anglo sassoni in particolare, da contaminazioni con «le etnie inferiori». Le misure non hanno il consenso popolare ma hanno quello scientifico e politico, dall' autorevole Journal of the American medical association al presidente Woodrow Wilson all' inventore Alexander Bell alla femminista Margaret Sanger. Soprattutto hanno quello giuridico. Nel 1927, il presidente della Corte suprema Oliver Wendell Holmes decreta che una ragazza madre, Carrie Buck, «sia resa sterile perché ritardata come i suoi antenati». Spiega che «tre generazioni d' imbecilli sono più che sufficienti». Oggi riesce inconcepibile che una democrazia come quella Usa possa avere compiuto violazioni così feroci dei diritti umani. Ma all' inizio del Novecento, l' America è in preda a violente convulsioni sociali, dovute all' immigrazione, ed è un terreno fertile per l' eugenetica, una dottrina elaborata dallo scienziato inglese Francis Galton, e adattata alle circostanze americane da Alfred Poetz, un medico tedesco residente nel Connecticut. Ne La guerra contro i deboli, Black sottolinea «la paura dell' imbastardimento» della classe dirigente: «Il termine usato - scrive - era: suicidio della razza. Non volevano incroci con la spazzatura bianca, come chiamavano i non appartenenti al loro gruppo. A tale scopo inventarono persino l' Iq, l' esame del quoziente di intelligenza». Black, che nel libro L' Ibm e l' Olocausto denunciò i rapporti tra la famosa società e il nazismo, va tuttavia molto oltre. Accusa il movimento eugenetico Usa di avere ispirato lo sterminio degli ebrei. «Poetz - riferisce - ritornò in Germania e vi propagò l' eugenetica. E Hitler si rifece ai nostri libri, che lesse voracemente, e ai nostri esperimenti, che imitò, fino alle aberrazioni di Mengele nei campi di concentramento. Soltanto il conflitto mondiale ci indusse a ravvederci». La tesi di Black - «l' abietta selezione della razza l' inventammo noi» - ha suscitato aspre controversie. Ma che l' amministrazione americana volesse esportare l' eugenetica è incontestabile, lo dimostra la nomina di Harry Laughlin, un suo crociato, a emissario all' immigrazione per l' Europa nel 1923. E sono incontestabili anche i legami coi nazisti. Nel ' 33, quando la Germania ordina la sterilizzazione di 400 mila cittadini tra cui gli epilettici e i deformi, il laboratorio di Cold Spring Harbour esulta: «Indubbiamente, le hanno influenzate i nostri parlamenti e tribunali». Black ammette che in quegli anni si verificò un cambio di staffetta Washington-Berlino alla guida dell' eugenetica mondiale, ma insiste che ancora nel ' 40, ' 41 la selezione della razza ariana veniva applaudita negli Usa, e fu uno dei motivi per cui inizialmente la superpotenza chiuse gli occhi all' Olocausto. Lo scrittore rievoca la traumatica vicenda di Edwin Katzen Ellebogen, uno dei fondatori del movimento, che internato a Buchenwald collaborò con le SS. Ricorda anche che al processo di Norimberga alcuni gerarchi nazisti citarono a propria difesa la sentenza del giudice Holmes del 1927. Papa Pio XI, rileva, fu uno dei pochi a condannare l' eugenetica prima della guerra, nell' enciclica del 31 dicembre 1930 sul matrimonio, in quanto scienza fraudolenta «che incide sui diritti naturali dell' uomo con interventi medici forzati». Per fortuna, il tentativo di Harry Laughlin d' imporre il modello eugenetico americano all' Europa fallì, sia pure con un' eccezione clamorosa, quella della Svezia, che dal 1934 sterilizzò 63 mila persone, in maggioranza donne. In Italia Mussolini ricevette la Federazione internazionale delle organizzazioni di eugenetica nel 1929, e come altri capi di governo europei acconsentì a sottoporre gli emigranti a severi esami prima della partenza: in media, per qualche anno l' Europa ne bloccò 88 su mille. Ma la prassi venne accantonata in fretta. Da parte sua, l' America adottò un sistema di contingentamenti: nel 1924, a esempio, ridusse la quota italiana da 42 mila a 4 mila, a favore delle razze nordiche. «Solo nel 1952 - evidenzia Black - fu promulgata la legge che consente a un immigrante di diventare cittadino americano indipendentemente dalla sua etnia o sesso». Nell' arco di quei trent' anni, le persecuzioni dei diversi all' interno della Superpotenza si fecero spietate: poliziotti nelle metropoli, sceriffi nelle province, riferisce Black, compirono ripetute retate nei loro presunti «covi». In alcuni Stati, le leggi eugenetiche rimasero in vigore fino agli anni Settanta, anche se non vennero più applicate. A corredo del libro, l' autore porta fotocopie di documenti e fotografie. Tra di essi, un film, La Cicogna nera, sull' eutanasia di «un infante contaminato che vola in paradiso», e un manifesto sui matrimoni «da non fare». «Fino a quando - dice il manifesto - noi americani, che siamo così attenti al pedigree dei nostri polli, maiali e vacche, lasceremo la discendenza dei nostri bambini al caso o al sentimento cieco?».

Caretto Ennio
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Re: Eutanaxia e eujenetega

Messaggioda Berto » mar mag 13, 2014 5:59 pm

Quel progetto di libertà che lega nazismo, femminismo ed eugenetica (passando dall'ONU)

http://comeulisse.blogspot.it/2013/07/q ... a.html?m=1

FONTE:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultu ... /3/353573/

L’efferatezza dei progetti eugenetici del nazismo (tra cui la famosa Aktion T4, il programma per l’eutanasia di persone affette da inguaribili malattie genetiche o da gravi malformazioni fisiche che tra il 1940-41 riuscì a eliminare circa 100mila tedeschi tra disabili fisici e mentali, tra cui molti bambini, prima di essere fermata dall’aperta e coraggiosa denuncia del vescovo di Munster, Clemens von Galen) ha portato molti a considerare il termine eugenetica indissolubilmente legato ai progetti di miglioramento della razza dei nazisti.
In realtà “l’eugenetica non è un’invenzione nazista, ma qualcosa che nasce dalla scienza e come progetto scientifico. L’eugenetica ha radici nell’illuminismo” (G. Israel), e colui che ha introdotto i principi di sanità della razza è uno scienziato inglese, Francis Galton, cugino di Darwin e sostenitore del darwinismo sociale.
Il clima culturale che ha condotto al successo dell’eugenetica alla fine dell’Ottocento in molti paesi occidentali (specie in Usa, Inghilterra, Germania e Svezia) è stato quello del laicismo scientista, di ispirazione positivistica, e dell’ideale progressista dello sviluppo della civiltà.
Ce lo conferma un testo appena apparso di Francesco Tanzilli, Per la donna, contro le donne. Margaret Sanger e la fondazione del movimento per il controllo delle nascite, Studium, Roma 2012, dedicato alla femminista radicale statunitense, Margaret Sanger, che fu l’ideatrice del termine birth control nel 1914.
Con questo termine l’allora giovane laicista progressista di orientamento anarchico (era nata nel 1879) indicava la necessità di elaborare una politica eugenista di controllo della natalità, considerato l’unico mezzo efficace per combattere la povertà e per ottenere la reale emancipazione delle donne, poiché ne stabiliva il controllo sull’attività sessuale e riproduttiva, liberandole dai vincoli familiari e dalla morale cristiana. Il birth control le appariva la chiave di volta della lotta a povertà, guerre e malattie e condizione di quel profondo rivolgimento sociale, che avrebbe realizzato l’autentico progresso dell’umanità. Va notato che l’impegno profuso per questa causa ottenne alla Sanger l’appoggio di alcuni tra i più noti propugnatori dell’eugenetica, che sostennero le istituzioni da lei avviate (la più famosa è la Planned Parenthood, associazione per la promozione dell’aborto e della maternità responsabile e pianificata, oggi molto influente nell’ambito delle politiche familiari dell’Onu) per diffondere la pianificazione delle nascite tramite la contraccezione, l’aborto, la sterilizzazione, lo screening prenatale e la fecondazione artificiale, nonché di eminenti personalità culturali e politiche del mondo statunitense per cui nel secondo dopoguerra la sua prospettiva eugenetica otterrà un impatto enorme sui costumi individuali e sulle politiche relative alla natalità adottate sia in Occidente, sia in paesi come India e Cina


Come è dunque possibile che questa figura, ben nota nei paesi anglosassoni e la cui opera ha avuto e ha un rilievo enorme a livello mondiale (il famoso H. G. Wells nel 1935 arrivò ad affermare: “quando la storia della nostra civiltà verrà scritta, sarà una storia biologica, e M. Sanger sarà la sua eroina”) sia ancora oggi praticamente ignota in Italia, al punto che il testo di Tanzilli è la prima monografia scientifica in lingua italiana?
Tra le tante ragioni che possono aver condotto a stendere finora un velo di oblio sulla storia e le ragioni di questa paladina dell’emancipazione delle donne e dei metodi eugenetici, c’è sicuramente il fatto che la sua storia rivela qual è il vero humus antropologico della campagna per l’emancipazione delle donne attraverso il “libero riappropriarsi del proprio corpo” e quali ne sono le inevitabili conseguenze.
Dall’analisi delle radici culturali dell’ideologia sangeriana Tanzilli fa emergere che l’adesione alla dottrina eugenista (che privilegerà nella seconda parte della sua vita rispetto all’ideale rivoluzionario, cosa che ha portato molti a sostenere l’esistenza di un’involuzione conservatrice ed autoritaria nel suo pensiero rispetto alle giovanili premesse libertarie) è stata un elemento comune agli intellettuali radicali dai quali la Sanger ha tratto ispirazione per elaborare il principio del controllo delle nascite, intellettuali con alcuni dei quali la femminista era in rapporto, ancor prima di avviare la sua attività propagandistica a favore della nuova causa. Ciò induce l’autore a sostenere con solide argomentazioni che la sua adozione di una prospettiva eugenista costituisca non tanto un tradimento degli ideali progressisti della giovane Margaret, ma ne sia piuttosto il coerente svolgimento : “Il nucleo ideologico comune alle diverse fonti impiegate da Margaret per redigere i suoi scritti sembra consistere in un peculiare individualismo radicale, imperniato su una concezione dell’uomo inteso come essere totalmente autonomo, appartenente esclusivamente a se stesso, del tutto indipendente da qualsiasi legame sociale o istituzionale, con piena facoltà di decidere in merito a ogni aspetto della propria vita (dalle relazioni affettive alla riproduzione) a prescindere da prescrizioni di carattere etico o religioso”. [leggere anche al link ]

La prospettiva di edificare una «nuova morale», in base alla quale la coscienza avrebbe dovuto coincidere con la volontà individuale, costituiva quindi una sorta di fil rouge che attraversava gli scritti della Sanger e dei suoi amici progressisti di inizio Novecento.
Il progetto del birth control era finalizzato all’edificazione di una «società pulita e intelligente» cui bisognava consacrare, come a una sorta di «nuova religione», l’intera vita del singolo e della società: “Intendevo suggerire – dice espressamente la Sanger − alle donne che nel ventesimo secolo dovevano dare se stesse alla scienza così come in passato avevano consegnato la propria vita alla religione”.




Ma se l’adozione di una prospettiva scientista non contrastava, anzi corroborava la lotta per il riconoscimento del diritto individuale alla regolamentazione dell’attività sessuale e riproduttiva, come è possibile che la Sanger sia diventata progressivamente paladina dell’intervento dello Stato nella programmazione di una seria politica eugenetica? Come nota Tanzilli questo accade per la contraddizione intrinseca della sua prospettiva antropologica: “Infatti, nella visione antropologica alla base del birth control movement ogni donna era al contempo sia depositaria del diritto a una libertà totale, sia responsabile del futuro dell’intera razza. Ogni scelta in merito alla sessualità e alla riproduzione era di esclusiva competenza del singolo individuo, ma tale scelta aveva un impatto enorme sulla popolazione futura e rendeva perciò indispensabile l’intervento dell’autorità pubblica”.
E questo, conclude mestamente l’autore, porta la paladina della donna moderna intesa come un “novello Prometeo”, invitata a liberare se stessa e l’intera umanità dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione propagate dalla religione, a sostenere che il gender femminile è anche “Pandora, la figura mitica inviata sulla Terra da Zeus insieme a un vaso all’interno del quale erano contenuti tutti i mali del mondo. Da questo particolare punto di vista, i controlli da parte delle autorità statali e sovranazionali sulla riproduzione apparivano alla Sanger non tanto rimedi necessari, quanto piuttosto strumenti di prevenzione per impedire ulteriori danni futuri. In questa prospettiva, la donna diveniva oggetto di programmi anti-natalisti presentati come interventi umanitari che non ostacolavano lo «spirito femminino» in quanto garantivano comunque un’assoluta libertà sessuale”.
Paradossalmente, proprio in nome della «liberazione» individuale della donna “ideale”, la Sanger giunge così a vincolare le donne “reali” ai dettami dell’eugenetica e all’autorità delle istituzioni cui compete la verifica (!) della qualità della popolazione e l’intervento (anche mediante procedure coercitive, Cina docet) per predisporre la selezione degli individui «adatti» a vivere in società. Per dirla con Del Noce: un’eterogenesi dei fini inevitabile in una prospettiva antropologica senza trascendenza, che finisce per andare contro le esigenze autentiche delle donne in carne ed ossa.

[Download "Woman and the new race"]
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Re: Eutanaxia e eujenetega

Messaggioda Berto » sab set 06, 2014 4:40 pm

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Re: Eutanaxia e eujenetega

Messaggioda Berto » gio dic 21, 2017 8:51 pm

Biotestamento, fine vita, eutanasia
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