Utopie demenziali e criminali - falsi salvatori del mondo

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Messaggioda Berto » mer dic 12, 2018 8:40 pm

Spaemann: “L’utopia multiculturale dell’Europa è pericolosa”
Il filosofo tedesco Robert Spaemann, scomparso a 91 anni
2018/12/11

http://www.controversoquotidiano.it/201 ... WXbfF07NG0

È morto a 91 anni Robert Spaemann, uno dei massimi filosofi tedeschi contemporanei, amico e compagno di studi di Joseph Ratzinger, erede della cattedra ad Heidelberg che era stata di Hans-George Gadamer. Un anno fa, assieme al filosofo inglese Roger Scruton, al francese Rémi Brague e al polacco Ryszard Legutko, Spaemann aveva lanciato la “dichiarazione di Parigi”, un manifesto a favore dell’“Europa in cui crediamo”. Ne riproponiamo qui le parti più interessanti.

Il futuro dell’Europa dev’essere liberale nel senso migliore del termine, ovvero garante di discussioni pubbliche appassionate, libere da ogni minaccia di violenza e di coercizione (…) Siamo in un vicolo cieco. La minaccia maggiore per il futuro dell’Europa non sono né l’avventurismo russo né l’immigrazione musulmana. L’Europa vera è a rischio a causa della stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità d’immaginare prospettive. I nostri Paesi e la cultura che condividiamo vengono svuotati da illusioni e autoinganni su ciò che l’Europa è e deve essere. Noi c’impegniamo dunque a resistere a questa minaccia diretta contro il nostro futuro. Noi difenderemo, sosterremmo e promuoveremo l’Europa vera, l’Europa a cui in verità noi tutti apparteniamo (…) Dobbiamo essere franchi ancora una volta: le società europee si stanno sfilacciando malamente. Se non apriremo gli occhi, assisteremo a un uso sempre maggiore del potere statalista, dell’ingegneria sociale e dell’indottrinamento culturale (…) I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo. Per di più, ignorano quali siano le fonti vere del decoro autenticamente umano cui peraltro tengono caramente essi stessi, proprio come vi teniamo noi. Ignorano, anzi ripudiano le radici cristiane dell’Europa. Allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratificanti di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza (…) Una società che non accoglie i figli non ha futuro (…) Riconoscendo il carattere particolare dei Paesi europei, e la loro impronta cristiana, non dobbiamo lasciarci confondere dalle affermazioni pretestuose dei multiculturalisti. L’immigrazione senza l’assimilazione è solo una colonizzazione, e dev’essere respinta (…) In Europa, i ceti intellettuali sono, purtroppo, fra i principali partigiani ideologici della boria dell’Europa falsa (…) Le nostri classi dirigenti promuovono i diritti umani. Combattono i cambiamenti climatici. Progettano una economia di mercato più globalmente integrata e l’armonizzazione delle politiche fiscali. Supervisionano i passi compiuti verso l’eguaglianza di genere. Fanno così tanto per noi! Che importa dunque dei meccanismi con cui sono arrivati ai loro posti? Che importa se i popoli europei sono sempre più scettici delle loro gestioni? In questo momento, chiediamo a tutti gli europei di unirsi a noi per respingere le fantasie utopistiche di un mondo multiculturale senza frontiere. Amiamo a buon diritto le nostre patrie e cerchiamo di trasmettere ai nostri figli ogni elemento nobile che noi stessi abbiamo ricevuto in dote.
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Messaggioda Berto » gio mag 30, 2019 6:29 am

Paul Hollander, morto l'aprile scorso, è stato uno dei più lucidi e acuti intellettuali del nostro tempo. Non molti lo conoscono.
Niram Ferretti

Riporto un articolo apparso sul Foglio del 2008 a firma di Tommaso Piffer. L'articolo è lungo, ma merita di essere letto fino in fondo.


https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

IL SUICIDIO DEGLI INTELLETTUALI

Come è stato possibile che intellettuali sensibili, colti e dotati di spirito critico abbiano potuto appoggiare, durante il secolo scorso, regimi repressivi e votati alla negazione dei più elementari diritti umani? È la domanda che continua a porsi Paul Hollander. Come è successo che personaggi del calibro di Pablo Neruda, Jean-Paul Sartre, Susan Sontag, George Bernard Shaw e tanti altri siano rimasti affascinati dalla Russia staliniana, dalla Cina maoista o dalla Cuba castrista, ignorandone completamente i difetti e le storture. E come ancora oggi vi siano affermati intellettuali che guardano con condiscendenza se non con simpatia ai fondamentalisti islamici che predicano l’odio e la distruzione dell’occidente.

Paul Hollander è uno storico ungherese che a questi temi ha dedicato buona parte della sua vita di studioso. Nato in Ungheria all’inizio degli anni Trenta, di famiglia ebrea, fu costretto durante la Seconda guerra mondiale a nascondersi per sfuggire alle persecuzioni naziste. Visse l’arrivo dell’Armata Rossa come una liberazione, rimanendo sinceramente affascinato dal comunismo. “Ne ero attratto – racconta – perché lo identificavo con l’Unione Sovietica, ed erano i soldati dell’Unione Sovietica ad aver liberato l’Ungheria dalla truppe naziste”. L’illusione però dura ben poco. Nel 1948 il Cremlino impone con la forza un regime autoritario alle strette dipendenze da Mosca, e il clima nel paese cambia rapidamente: gli avversari politici vengono sottoposti a processi farsa, ogni spazio di libertà viene soppresso. Sono vietati film e libri occidentali e imposto il culto di Stalin e del suo discepolo ungherese, Mathias Ràkosi. Il nonno di Hollander prima della guerra era un ricco commerciante: “Una mattina – ricorda lui – un poliziotto in motocicletta si presentò a casa nostra per consegnarci l’ingiunzione di lasciare Budapest entro ventiquattro ore”. Deportato in un paesino dell’Ungheria orientale a duecento chilometri di distanza dalla capitale, vive il dramma dell’esilio e l’umiliazione della continua sorveglianza politica, alla quale si unisce il divieto di ogni attività culturale e sociale.

Nel 1953 viene richiamato sotto le armi dove, classificato come politicamente inaffidabile, è costretto a seguire ripetuti seminari di rieducazione politica. Solo nel 1955 riuscirà a tornare a Budapest, grazie a un permesso di soggiorno che può ottenere perché ha iniziato a lavorare come muratore per una ditta di costruzioni. L’anno successivo i carri armati russi stroncano la giovane rivoluzione ungherese. Hollander decide di lasciare il paese. Il 19 novembre passa clandestinamente il confine con l’Austria e da qui raggiunge la Gran Bretagna. “Fu la migliore decisione della mia vita”, racconta. Ma fuggito nelle braccia delle libere società occidentali da un sistema repressivo e totalitario, Hollander scopre proprio che un settore considerevole della classe intellettuale occidentale è seriamente impegnato nella difesa del sistema sovietico e nella demonizzazione della propria. “In un certo senso – ci racconta – ero affascinato dal loro orientamento di sinistra. Allo stesso tempo mi irritava. Mi misi a cercare di capire la loro cecità”. Nel 1981 pubblica uno dei suoi libri più importanti, tradotto in Italia dal Mulino con il titolo “Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba” (1988). È un ritratto impietoso della classe intellettuale occidentale. Hollander mette in discussione la credenza assai diffusa secondo cui una caratteristica fondamentale degli intellettuali sia la difesa della libertà e la loro disposizione critica.

Al contrario, i resoconti dei viaggi compiuti nei paesi socialisti mostrano una predisposizione a farsi ingannare da burocrati di partito esplicitamente incaricati di falsificare la realtà a uso e consumo dei visitatori, da zelanti funzionari travestiti da operai che mostrano un’assoluta conoscenza delle opere del marxismo, o da villaggi modello costruiti ad arte e immediatamente smantellati dopo il passaggio del visitatore. Seppur riconoscendo che le manipolazioni delle esperienze dei visitatori ne avevano senza dubbio influenzato i giudizi, Hollander giunse alla conclusione che a essere decisivi non furono gli inganni, ma la predisposizione con la quale intellettuali affrontavano la realtà: “Noi volevamo ingannarvi – disse molti anni dopo un comunista cinese a una delle vittime delle sue mistificazioni – ma voi volevate essere ingannati”. Per capire questa predisposizione, prima di tutto bisogna guardare alle condizioni storiche che vi fecero da sfondo. La crisi economica a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta, così come quella degli anni Cinquanta e le proteste contro la guerra del Vietnam, il razzismo, il consumismo e la burocratizzazione nei primi Settanta contribuirono a dare forma a un diffuso malessere e un forte senso di alienazione rispetto alle società occidentali, e alla ricerca di modelli alternativi. L’Unione Sovietica, Cuba e poi la Cina fornivano questi modelli, grazie al combinarsi con l’universale fascino del messaggio socialista.

Le difficoltà economiche e sociali sono però solo una parte, e marginale, della spiegazione, e non la più importante. “Le società capitaliste – ha scritto Hollander – suscitano l’ostilità degli intellettuali soprattutto perché non possono soddisfare i loro bisogni di senso e di progetto nella vita, e si tratta, come si può vedere, di qualcosa che scatena l’ostilità che è abbastanza diversa dalla scoperta dello sfruttamento e di altre forme di ingiustizia sociale. Così la critica sociale alienata è spesso o in parte una reazione alla frustrazione dell’impulso religioso (o della ricerca di senso) di cui il critico attribuisce la responsabilità all’ambiente sociale”. Eliminata la categoria della trascendenza, l’intellettuale occidentale, specmachio di un’epoca che si voleva secolarizzata, tentava di rintracciare in diversi modelli sociali la risposta a quelle esigenze che la sua società non gli permetteva di realizzare. La ricerca non avrebbe dato buoni risultati: disinnamoratisi a partire dagli anni Cinquanta della Russia comunista, avrebbero cercato conforto nella Cina, poi nella Cuba castrista, poi nel Nicaragua, nell’Albania e via di seguito. A contribuire all’accecante innamoramento per i sistemi socialisti fu poi secondo Hollander anche uno straordinario senso di colpa per le supposte mancanze della società occidentale, che non tardò a manifestarsi in una vera e propria avversione per il sistema occidentale nel suo complesso. Non a caso il tema dell’antiamericanismo si rivelerà più di recente un nuovo campo di studio per lo storico ungherese.

Alla radice di questo fenomeno vi è secondo Hollander soprattutto una radicale avversione verso la modernità, che l’America simboleggia in tutti i suoi pregi e i suoi difetti. Si tratta di un fenomeno che ancora una volta riguarda in primo luogo gli intellettuali e coloro che ne vengono influenzati, come dimostra il fatto che il radicalizzarsi del sentimento antiamericano non diminuisce in nessun modo il costante e anzi crescente numero di quanti aspirano a vivere proprio negli Stati Uniti. Hollander è in un certo senso sinceramente affascinato da come l’infatuazione politica abbia privato molti intellettuali della loro capacità di discernere e di esercitare le loro facoltà critiche, contribuendo al radicarsi di un doppio standard morale con il quale giudicare la propria società e quella che si indicava come modello di riferimento, e determinando una “propensione a farsi ingannare” che fu abilmente sfruttata dai propagandisti dei regimi socialisti. Il libro sui “Pellegrini politici” si chiudeva con un interrogativo inquietante sugli effetti che la denigrazione della società di occidentali da parte degli intellettuali avrebbe avuto sul lungo periodo: “Gli intellettuali contribuiranno – si chiedeva – volontariamente o involontariamente, alla distruzione delle loro società relativamente libere, a causa delle loro illusioni su altre società e a causa delle loro ricorrenti fantasie su nuove forme di liberazione e realizzazione collettive”?

Oggi Hollander, davanti alla sfida posta all’occidente dall’islam radicale, vede in parte realizzarsi queste previsioni: “Gran parte degli intellettuali – ci dice – non hanno sufficientemente a cuore le società a cui appartengono, e non sono preparati a difenderle. Ma il radicalismo islamico è una minaccia ben più seria del comunismo, in quanto è molto più irrazionale e fanatico. I comunisti non compivano attentati suicidi, non c’era il culto della morte e del martirio” Se alla base dell’atteggiamento tiepido nei confronti del radicalismo islamico vi è un’avversione verso la società occidentale che è simile a quella degli intellettuali socialisti nel secolo scorso, altrettanto importanti sono le caratteristiche peculiari della situazione attuale, che ha determinato una forma di antiamericanismo secondo Hollander prima sconosciuta. Vi è innanzitutto l’inedita identificazione degli Stati Uniti, e di tutto ciò che ha a che fare con l’America, con un elemento demoniaco e non solo con l’ingiustizia sociale, la corruzione o lo sfruttamento economico. E’ una fase nuova che a dire il vero si manifesta a partire dai primi anni Novanta, e che con l’11 settembre ha avuto solo il suo apice, costringendo però lo stesso Hollander alla ridefinizione delle categorie concettuali delle quali si era servito precedentemente. “Nella mia definizione originaria – scrive in un saggio del 2004 – non avevo valorizzato il fatto che il sentimento antiamericano potesse culminare nella violenza politica. A quel tempo la maggior parte delle forme di antiamericanismo apparivano in larga parte retoriche o comunque espresse in modi che non avevano nulla a che fare con l’assassinio di massa”. Il secondo aspetto è la convergenza tra fondamentalisti islamici e antiamericani occidentali, fenomeno che manifesta la sua prima evidenza nella richiesta di “non giudicare” i terroristi e in quella di “comprenderli”.

Hollander constata come a partire dai giorni immediatamente successivi agli attentati di New York e Washington, l’antiamericanismo abbia trovato nuovo vigore nel tentativo degli intellettuali occidentali di spiegare gli eventi cercandone le cause profonde nell’atteggiamento degli stessi Stati Uniti. In questo si è verificata anche una inedita consonanza tra destra e sinistra: “Noam Chomsky, Norman Mailer, Susan Sontag o Gore Vidal – ha scritto Hollander nel novembre del 2002 – non avrebbero molto da dissentire dal leader della destra radicale ungherese Istven Csurka”, quando questi, dopo l’attentato contro le Torri gemelle, si è chiesto come gli americani si potessero aspettare che i popoli oppressi non reagissero alle “umiliazioni, gli sfruttamenti e i massacri portati avanti in Palestina”. La chiave di questa convergenza, per Hollander, è ancora in un odio verso gli Stati Uniti tanto profondo che rende possibile sorvolare su ogni altro elemento. “Il flirt della sinistra coi fondamentalisti islamici ha infatti questo di interessante, che – dice Hollander – i valori di questi ultimi sono tutto il contrario di quello che la sinistra ha sempre predicato e sostenuto. Abbiamo intellettuali di sinistra che, mentre si dicono sostenitori del secolarismo occidentale, simpatizzano con movimenti fanatici e rigidamente religiosi e con sistemi di pensiero che discriminano le donne, reprimono orientamenti sessuali non convenzionali e praticano i più barbari sistemi di politica criminale”. Come nel caso degli intellettuali che magnificavano il comunismo vivendo nei liberi paesi occidentali, vi è una profonda schizofrenia tra l’ideologia predicata e quella effettivamente vissuta, solo che ora si tratta di un fenomeno considerevolmente più marcato.

Nessuno degli intellettuali che flirtano con il fondamentalismo accetterebbe mai di vivere sotto un regime radicale islamico, dove verrebbe probabilmente riservato loro trattamento ben peggiore di quello di cui godono in occidente. Del resto, sono molto rari i casi di intellettuali che non si limitano a sostenere questi movimenti politico-religiosi ma che si convertono effettivamente all’islam. Per Hollander è una nuova conferma di come l’odio sia una forma potente di formazione della credenza politica, molto più della classe, l’etnia, la nazionalità o un qualche interesse materiale. Il frutto più compiuto di queste ultime riflessioni si trova nel volume “The end of commitment”, uscito due anni fa negli Stati Uniti, e all’interno del quale si incrociano molti dei temi della produzione dello storico ungherese. E’ in un certo senso una continuazione di “Pellegrini politici” scritta all’ombra degli attentati dell’11 settembre. L’oggetto dell’attenzione di Hollander sono questa volta i processi di disillusione politica che hanno portato gli intellettuali comunisti verso il ripensamento della loro adesione ideologica. Il libro ha un precedente illustre ed esplicitamente riconosciuto, quel “Il dio che è fallito” pubblicato all’inizio degli anni Cinquanta con le testimonianze tra gli altri di Arthur Koestler, André Gide e Ignazio Silone. Ma la parte probabilmente più interessante è quella che Hollander dedica a coloro che nonostante tutte le smentite della storia, le riprove del fallimento della loro adesione ideologica, le sofferenze subite a volte sulla propria pelle, non hanno rinnegato nulla di quello in cui avevano creduto, continuando pervicacemente a sostenere sistemi politici relegati dagli eventi negli archivi polverosi della storia.

Hollander, che nulla concede al politically correct (“la forma più diffusa dell’intolleranza istituzionalizzata nell’alta educazione americana”) non risparmia strali agli intellettuali occidentali che non solo non hanno ritenuto di dover rinnegare la loro adesione al comunismo, ma che oggi ancor più di prima rimangono ancorati all’acceso antiamericanismo che a questa adesione stava sotteso. E che hanno trovato nell’11 settembre la conferma di tutti i loro preconcetti nei confronti dell’America, imputando alla politica estera americana crimini assai più gravi degli attentati terroristi di bin Laden e di al Qaeda. Hollander, formidabile osservatore della realtà, come ogni descrittore onesto è anche cosciente del punto fino al quale ritiene di potersi spingere. La ragione più profonda di certi fenomeni di fascinazione politica è per lui uno di questi. Il modo migliore per descriverli – ha affermato in varie occasioni – è quello di collocarli tra le immortali espressioni dell’irrazionalità umana, che include quella di lasciarsi accecare da un odio logorante.


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Messaggioda Berto » ven giu 21, 2019 9:17 pm

Tikkunismo: il pericolo di una nuova religione politica
Ugo Volli
21 Giugno 2019

https://www.progettodreyfus.com/tikkuni ... Ipoebwnfy0

C’è una nuova religione nata nel seno, e forse sarebbe meglio dire al posto, dell’ebraismo americano. Possiamo chiamarla con Vic Rosenthal “Tikkunismo”. Il nome viene dall’idea di “tikkun ‘olam”, che nel lessico della Kabbalah significa “riparazione” o redenzione del mondo, quel lavoro che il mistico compie con la preghiera e altri mezzi rituali per recuperare le scintille di santità disperse nel mondo, anche nei suoi luoghi più impuri e malvagi, in seguito all’esplosione primordiale che nel linguaggio kabbalistico si chiama “shevirat hakelim”, “rottura dei vasi” della materia, incapaci di contenere la luce divina. Tutta questa connotazione mistica, con la ricca narrativa e le immagini che la circondano nella Kabbalah, è però del tutto perduta nel tikkunismo. Qui “tikkun ‘olam” significa letteralmente occuparsi dei mali del nostro mondo, l’ingiustizia, l’inquinamento, la violenza, la fame, la fuga di persone perseguitate e cercare di porvi rimedio.

Naturalmente non vi è nulla di male, anzi molto è lodevole in questa esigenza, sempre che sia compresa in maniera politica, cioè come una certa posizione ideale che deve confrontarsi con altre posizioni concorrenti, con interessi legittimi e anche semplicemente con i vincoli di compatibilità che limitano ogni progetto umano. Per esempio è chiaro che è bene, anche secondo l’etica delle Scritture ebraiche, combattere la fame e la miseria, cercare la giustizia sociale e la possibilità per ciascuno di vivere una vita dignitosa e promettente, liberare i popoli oppressi. Ma quando questo obiettivo viene posto come unico e assoluto, come nell’ideologia comunista, ne segue inevitabilmente un regime dirigista e totalitario che non solo comprime la libertà economica, sociale e ben presto anche quella di pensiero, ma fallisce il suo stesso obiettivo portando tutta la società (salvo i pochi privilegiati che la governano) alla miseria e all’ingiustizia che ne consegue. Così è accaduto sempre, in Russia e in Cina, a Cuba e in Venezuela.

Oppure è giusto (ed è ancora prescritto nell’ebraismo) aiutare e rispettare gli stranieri. Ma devono essere casi di emergenza limitati nel tempo e dovuti a problemi gravissimi; oppure deve trattarsi di una forma di integrazione economica che ha senso purché gli stranieri ospiti rispettino le leggi e la cultura che li accoglie e non cerchino di sovvertirla o rovesciarla; e anche nei limiti della possibilità economica e sociale della società accogliente di integrare davvero questi immigrati, di inserirli nella vita sociale ed economica. Se questi limiti sono superati lo straniero (che le Scritture ebraiche chiamano per lo più in questo contesto “gher”, cioè ospite, straniero residente) diventa un invasore o un parassita e la società che lo subisce si decompone. Non c’è certamente nella tradizione ebraica l’obbligo di amare i banditi come ‘Amalek, o i nemici come i Filistei, o gli oppressori come i Romani. L’obbligo di tutelare se stessi e la propria società precede quello di aiutare gli altri. Voglio richiamare qui il titolo della più lucida e obiettiva analisi del problema dell’immigrazione uscita in Italiano, ad opera di uno scienziato di sinistra, ma boicottata da tutti i media: “L’ospite e il nemico” di Raffaele Simone, pubblicata da Garzanti, cui penso di dedicare presto un articolo.

Ma nel tikkunismo queste esigenze non sono pensate col buon senso con cui si dovrebbero considerare le posizioni politiche, bensì con l’assolutezza del dovere religioso. La politica viene deificata. Essere ebrei non significa comportarsi secondo le regole millenarie basate sulla Torah e neppure credere in qualche cosa (anche Dio è opzionale per i tikkunisti), ma avere posizioni politiche intenzionate a “riparare il mondo”, naturalmente cioè di sinistra (che poi ci riescano è tutta un’altra questione, la storia mostra che le società più intolleranti, inquinanti, violente sono sempre state quelle totalitarie, di destra e di sinistra allo stesso modo). Per i tikkunisti, chi non è di sinistra, perché crede al mercato, alla libertà individuale, all’importanza delle culture nazionale, non è semplicemente uno che la pensa in maniera diversa, o magari un avversario politico. E’ il “fascista” la personificazione del male, che dev’essere demonizzato, esorcizzato e distrutto, soprattutto se ha raggiunto qualche influenza. E’ una posizione che influenza profondamente in questo momento non solo il mondo ebraico, ma in generale i media, la politica e gli intellettuali “autorevoli”, perfino la Chiesa con la figura di papa Bergoglio. Il fatto che questo travestimento e traviamento della politica in religione sia spesso in buona fede non rende più lieve il problema, ma lo aggrava: come discutere, come negoziare con chi ti considera il male assoluto?

C’è dunque un fatto generale, ma c’è soprattutto un problema specificamente ebraico del tikkunismo. Ed è il fatto che esso si sviluppa molto spesso in antisionismo, in disapprovazione, se non proprio odio, per l’esistenza dello Stato di Israele, magari sotto la foglia di fico del dissenso per il suo governo di centrodestra, regolarmente scelto alle elezioni negli ultimi quindici anni dal popolo israeliano. Le ragioni sono ovvie. Israele è lo stato nazione del popolo ebraico, e i tikkunisti sono contro gli stati e ancor più le nazioni, perché pensano che siano trappole contro gli oppressi. Israele è oggetto di una guerra ininterrotta da parte dei musulmani e degli arabi da oltre un secolo, da prima della sua fondazione. Ma musulmana è la maggior parte degli emigranti e gli arabi sono poveri (benché seduti sui depositi di materie prime più ricche del mondo). Dunque hanno ragione loro, a prescindere.

Di più, i tikkunisti non nutrono dubbi rispetto alla miracolosa nascita di un nuovo popolo, i “palestinesi”, generato dai servizi segreti sovietici poco meno di sessant’anni fa. E dato che questo “popolo” afferma di essere stato spossessato del loro stato, non importa che questo stato non sia mai esistito e che gli ebrei abbiano comprato a caro prezzo le terre che hanno risanato ed abitato, che i loro avi siano gli indigeni di quelle terre, che ci sia stata un’approvazione legale internazionale per la fondazione del loro stato. Quel che conta è che gli altri pretendano di essere delle vittime espropriate, e questo impone di appoggiarle, anche nel terrorismo. Infine Israele è alleato dell’America, ha abbandonato il socialismo diventando prospero, è un regime democratico pluripartitico senza un dittatore rassicurante con la faccia di Castro, di Maduro o di Mao – il che ai tikkunisti proprio non va giù.

Dunque il tikkunismo, che con altro nome (“progressismo”) è diffuso un po’ dappertutto nella “migliore intelligenza” occidentale, nel mondo ebraico costituisce una scissione particolarmente grave, anche perché gli antisemiti (che si presentano come “solo” antisionisti) hanno gran vantaggio e gusto a potersi appoggiare su esponenti dei loro nemici ebrei che dicono a voce alta di condividere il loro odio per Israele. E’ un pericolo, abbastanza secondario in Europa, più rumoroso e paradossale in Israele, ma veramente grave negli Stati Uniti. Esserne coscienti è essenziale per non cadere in questa trappola politica travestita da religione.


I peggiori sono quelli che si servono degli ultimi o dei presunti ultimi per derubare e opprimere tutti gli altri, tra cui la loro stessa gente.
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Messaggioda Berto » mer nov 03, 2021 9:03 pm

Il profeta e il falso paradiso
Caratteri Liberi
Niram Ferretti
30 marzo 2020

http://caratteriliberi.eu/2020/03/30/in ... -paradiso/

Il futuro brillerà di una luce fulgida, abbacinante. Per l’umanità finalmente redenta, sarà il paradiso in terra. La profezia messianica di Isaia, secondo cui il lupo e l’agnello pasceranno insieme troverà il proprio compimento. Il prezzo da pagare sarà alto, ma necessario. L’importante è avere le idee chiare, sapere dove si sta andando. Si incaricheranno di manifestare questa chiarezza in modo risoluto quelli che Eric Voegelin avrebbe definito i falsi Paracleti, indicheranno loro la strada, mostreranno l’approdo.

Ne I Demoni, il genio profetico di Fëdor Dostoevskij anticipa già tutto. Simile a un profeta biblico, siamo nel 1873, vede i bagliori tragici del futuro che avanza a larghi passi.

Sono già, anticipatamente recensiti a loro insaputa tutti i rivoluzionari e gli emancipatori a venire, da Bakunin a Engles, da Trockij a Lenin, da Benito Mussolini ad Adolf Hitler, da Karl Liebknecht a Rosa Luxemburg da Che Guevara a Mao Zedong e Pol Pot. Coloro i quali, stabilendo che l’escatologico è solo politico cercheranno di rovesciare l’assetto del presente per inaugurare lo Shabbat definitivo.

L’utopismo iconoclastico dei nichilisti raccontati da Dostoevskij, è la dura profilassi a cui, per fare venire in essere il regno della dis-alienazione, nessuno potrà sottrarsi. L’engelsiano “Tutto ciò che esiste merita di perire” ha, come antecedente, il gelido igiene giustizialista di Saint Just e come susseguente l’ebbrezza sanguinaria di Che Guevara. Quando gli ideali sono nobili ogni atrocità è giustificata.

Nei Demoni, nella riunione tra il comico e grottesco che si svolge a casa dei coniugi Virginsij, Sigalev, uno dei convenuti, ha concepito, in un libro da lui scritto, moderna Apocalisse, la ricetta che aprirà le porte del paradiso intramondano. Il suo riassunto verrà fatto ai presenti da un altro ospite.

“Egli propone, come soluzione definitive del problema, la divisione dell’umanità in due parti disuguali. Un decimo di essa riceve la libertà personale e un diritto illimitato sugli altri nove decimi. Questi invece devono perdere la loro personalità, trasformarsi in una specie di armento e, in una sottomissione senza limiti, raggiungere, l’innocenza primitiva”.

L’innocenza primitiva, quella che il Grande Timoniere Mao anticipava in un suo articolo del 1958:

“Giornalmente assistiamo al crollo di tutti i modi di pensiero decadenti e di tutte quelle parti della sovrastruttura che non reggono all’urto del nuovo. Ci vorrà ancora del tempo per spazzare via completamente tutti questi rifiuti ma è fuori dubbio che ormai tutto ciò ha perso ogni influenza. A parte le altre caratteristiche, i 600 milioni di cinesi hanno due particolarità salienti: sono, primo, poveri, secondo, immacolati. Può sembrare una brutta cosa, invece è un’ottima cosa. I poveri vogliono cambiamenti, vogliono agire, vogliono la rivoluzione. Su un foglio di carta pulito non ci sono macchie e così vi si possono scrivere le parole più belle e più nuove, vi si possono dipingere le immagini più belle e più nuove”.

Tentare di rovesciare il mondo per rifarlo nuovo è il più grottesco e spaventoso segno della hybris umana, del quale Dostoevskij era lucidamente consapevole, e già anticipato nel suo capolavoro del 1864, Memorie del sottosuolo, in cui, il tormentato protagonista del monologo irride gli edificatori dei presunti “palazzi di cristallo” in cui dovrebbero vivere gli uomini redenti.

Dostoevskij sapeva bene che la redenzione non verrà mai attraverso l’umano, che, in questa veste, essa sarà sempre una parodia, un inganno cupo, da pagare con la follia e con il sangue.

Così come sapeva che il male più seducente adotta gli abiti del bene. I Demoni annunciano l’irretimento che verrà, quando uomini e donne si sarebbero sottomettesse all’illusione, ai sogni sognati per loro da lestofanti e da invasati, i presunti iniziati al vero sapere della felicità.

Il Novecento, con le sue pile di cadaveri ammassati dai facitori del Progresso, delle utopie da realizzare, stava davanti a Dostoevskij, nella sua funesta e cataclismica terribilità.
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Messaggioda Berto » mer nov 03, 2021 9:04 pm

???

Mi capita a volte di valutare certi giudizi espressi su coloro che sono identificati con i sovranisti contrapposti ai globalisti.

Oriana Barbieri

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 1263177098

Il globalismo, a livello ideale, potrebbe essere paragonabile al cosmopolitismo degli Umanisti, che, giustamente, si sentivano figli del mondo. Una visione aperta e nuova, desiderosa di uguaglianza e di diritti condivisi, che, giunse a valutare i selvaggi come i migliori tra gli uomini perché privi di orpelli morali, di regole e di imposizioni. Essi apparivano capaci di vivere nella natura e nella consuetudine delle tradizioni ataviche, liberi e felici. Salvo poi scoprire che anche nelle tribù più primitive esistevano contrapposizioni sociali, diseguaglianze e spesso guerre tribali.
L’ Illuminismo si disgregò, di fronte alle crisi dovute alla incapacità della ragione di salvaguardare l’umanità da ciò che da secoli ci contraddistingue: la forza dei sentimenti e delle emozioni.
Certo il sonno della ragione genera mostri, ma se all’ umanità vengono a mancare empatia, condivisione di ideali, amore e tenerezza verso la famiglia, rispetto per la propria comunità e verso la propria Patria, allora si può essere certi che predomineranno totalitarismi e brutture che abbiamo già conosciuto.
Oggi i globalisti si scagliano contro i populisti insultandoli per la loro idea di popolo, di gruppo di appartenenza per tradizioni, cultura e abitudini, per la difesa dei confini , della propria civiltà cristiana. Si impongono con le forzature mediatiche che vorrebbero far apparire i sovranisti come i cattivi, i perfidi, i mancanti di umanità e di amore per il prossimo!
Si vogliono imporre scelte che disgregheranno le identità nazionali, le radici cristiano- giudaiche, le tradizioni di popoli che si sono formati nei corsi dei secoli e hanno conseguito lingua, usi e costumi che li hanno forgiati come nazioni!
Non si possono imporre modelli ideali, stupendi sul piano della razionalità ma poco realizzabili nella realtà.
Basta valutare come si diventa belve nel difendere la propria posizione.
Almeno è ciò che io vedo e sento quotidianamente!
Senza ragionevolezza non si può vivere! Senza ideali si muore!


Gino Quarelo

Gentile Oriana mi scusi se mi permetto di appuntare alcune considerazioni.

Forse bisognerebbe distinguere tra ideale e ideale che non è sempre buono in quanto ideale.

Secondo me senza cattivi ideali si può vivere bene e molto meglio che con gli ideali che uccidono e che ti fanno morire.
L'ideale come perfezionamento ragionevole e sensato della realtà è cosa buona e giusta e fa parte della realtà stessa come sua estensione naturale verso cui tendere e che completa, ma l'ideale come deformazione irragionevole, insensata, assurda e impossibile della realtà è cosa cattiva e ingiusta di cui si può e si deve fare a meno.
L'ideale è come la fede, se promuove, favorisce e genera la gioia e la vita è cosa buona da perseguire e coltivare, ma se promuove, favorisce e genera il dolore e la morte è cosa cattiva da eliminare.
Meglio vivere senza demenzialità ideali che avere delle idealità maligne.
L'ideale social-comunista nelle sue variazioni reali e storiche: fascista, nazista e comunista, come la fede nazi maomettana, sono cose maligne e malvage e non hanno alcunché di idealmente benefico, stupendo, meraviglioso, perfetto, sono solo presunzione che inganna.
Tutti gli uomini in ogni luogo e tempo hanno una qualche morale o etica (o legge/regola istintiva, sociale, politica, giuridica, religiosa tradizionale e ideale), e il cosidetto uomo selvaggio senza morale non esiste e non è mai esistito (la natura è morale e a volte è crudele che pare immorale; morale significa regola, legge, costume, misura), esistono invece comportamenti universalmente condivisibili come buoni e altri rigettabili non condivisibili perché cattivi.
I confini come quelli della propria casa e proprietà, del proprio paese (patria/nazione/stato) sono cosa buona e giusta ma non lo sono i confini imperiali circoscritti con la conquista, la violenza, il crimine a danno degli altri.
La Patria che ti da la vita e si prende cura di te è una buona Patria per cui si può anche lavorare e morire ma una Patria che ti rende la vita un inferno e che ti toglie la vita per mancanza di rispetto e di amore è una falsa Patria e va combattuta come male; così per ogni idealità demenziale e utopia irragionevole che comporti la calunnia e la demonizzazione, la violenza e la costrizione, la violazione dei valori (diritti e doveri) naturali e universali.
In Europa non esiste solo la tradizione religiosa giudaico-cristiana (che è variegata e conflittuale) ma anche quella laica, quella spirituale non religiosa e le altro religiose provenienti dalla preistoria e dal resto del mondo.

Non riesco a capire il costrutto che "l'Illuminismo si disgregò, di fronte alle crisi dovute alla incapacità della ragione di salvaguardare l’umanità da ciò che da secoli ci contraddistingue: la forza dei sentimenti e delle emozioni". Per me è solo la ragione che salva l'umanità e la fa progredire e la ragione non esclude i buoni sentimenti e le emozioni naturali. Sicuramente a "salvare"(perfezionare, migliorare) l'umanità non sono i miracoli delle religioni e le credenze nei loro idoli o i falsi ideali di Patria forzata che non ti rispetta, non tia ma e ti depreda.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Utopie demenziali e criminali - falsi salvatori del mondo

Messaggioda Berto » mer nov 03, 2021 9:05 pm

IL PENSIERO RAZIONALE E QUELLO IRRAZIONALE
IL PROGRESSO, LA REAZIONE E LA GRANDE TRUFFA
Riccardo Riva
19 dicembre 2020

https://www.facebook.com/groups/2097364 ... 4552497254


Il pensiero razionale nasce dal principio di non contraddizione, dalla ricerca scientifica che si nutre di dubbi, dall'amore per la libertà, dalla convinzione che, pur nella pari dignità dei singoli soggetti, il progresso è determinato dal valore degli individui, dal libero pensiero e dalla libera ricerca, dalla concorrenza, dall'impegno, dalla competizione, dalla meritocrazia e dalla libera iniziativa.
Da tutto quanto ciò è scaturita la società occidentale liberal-democratica, l'unica che possa oggettivamente definirsi progressista perché grazie ad essa il progresso si è davvero realizzato.

Il pensiero irrazionale si sviluppa invece sulla base di dogmi e di modelli di società di stampo illiberale basate sulle utopie (o meglio sulle distopie). Questo tipo di pensiero progetta società ideali modellate su schemi di gerarchie predefinite (Platone), di onnipotenza dello stato (Hegel), sul mito del buon selvaggio e del contratto sociale (Rousseau), sull'illusione della sostanziale uguaglianza fra ineguali e sulla messa in comunione dei beni (Marx).
Nella realtà i sogni di costoro si sono regolarmente trasformati in incubi e schiavitù, ma il pensiero zoppo, irrazionale e autoritario ha avuto molta presa sulle quelle che il grande liberale Kenneth Minogue definiva menti servili. Il bello è che codesto insieme di reazionari pecorili, che più di tutto temono la libertà, e particolarmente quella delle menti non servili, si definiscono progressisti.
Sino a qualche anno fa, prima che il socialismo reale gli rovinasse addosso, costoro si identificavano nel comunismo.
Oggi che l'illusione del comunismo è tramontata, si camuffano da liberal (senza la vocale finale), continuando a diffondere il loro pernicioso pensiero ammantato di egualitarismo e di buonismo tra le menti gregarie che purtroppo abbondano.
I pericoli più grandi che corre la civiltà occidentale sono oggi rappresentati dall'Occidente che odia se stesso e dal politically correct, la cui avanguardia è costituita dagli intellò dal pensiero radical chic (che forse sarebbe meglio definire radical shit). I peggiori reazionari attualmente in circolazione.
È vero che nel corso della storia l'irrazionalità è quasi sempre riuscita a prevalere sulla razionalità, ma mai come oggi era accaduto che l'egemonia della superstizione politica si sommasse a quella della superstizione religiosa dei preti e degli imam, illudendo le anime belle che il paradiso è possibile sia in cielo che in terra. E convincendo queste medesime anime belle dalla mente fortemente meschina che i principali ostacoli per raggiungere l'Eden siano rappresentati dall'egoismo delle persone capaci e da coloro che si ostinano a pensare su basi razionali.
Nella vecchia Europa la cosiddetta intellighenzia da un secolo e mezzo in qua ha marciato allineata e coperta dietro le insegne del socialismo; negli Stati Uniti invece la sinistra degli intellò ha cercato nuove vie. In primo luogo quelle dell'anticonformismo. Fu così che il bianco diventò brutto e il nero bello, che la cultura divenne imprescindibilmente esotica, alternativa e underground, esaltando le droghe, il comunitarismo hippy e tutte le stronzate che gli son venute dopo, dal black power al femminismo, dall'ecologggismo al veganesimo e all'esotismo, per arrivare sino all'esaltazione dell'LGBT e del suprematismo LM, alle quote rosa e a pois, alla favola del'antropic global warming. La cosa grave è che codesto culturame mmerricano ha contribuito a tenere in vita le cariatidi del veterocomunismo, dando loro nuova linfa, e che si sia verificata anche una saldatura tra l'oscurantismo marxistoide e quello papista bergoglista che, in odio alla liberaldemocrazia, riesce a predicare l'accoglienza finanche nei confronti dell'integralismo islamista.
La cosa un po' ripugnante e un po' comica è che questa orribile mescolanza di dottrine fondate sulla superstizione e sull'idiotismo sociale abbia dato vita a un pensiero politico imbecille che si autoproclama progressista, mentre, al contrario, rappresenta quanto di più reazionario c'è in circolazione.


LAKATOS, RAZIONALITÀ E IRRAZIONALITÀ

https://www.filosofico.net/Antologia_fi ... AZIONA.htm

Imre Lakatos (1922-1974) propone in questa pagina un confronto fra la concezione dello sviluppo della scienza sostenuta da K. R. Popper e quella di Th. S. Kuhn: per il primo la scienza è caratterizzata da una crescita razionale; per il secondo la razionalità funziona solo nell’ambito della ricerca “normale”, mentre il progresso scientifico costituisce una fatto “straordinario” e quindi ad esso contriubuiscono fattori non razionali. Lakatos prende le distanze dalla posizione di Kuhn che gli appare affetta da misticismo.

I. Lakatos, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici, § 1

Per secoli conoscenza ha significato conoscenza dimostrata: dimostrata mediante la ragione o mediante l’evidenza sensibile. L’onestà intellettuale esigeva che ci si astenesse da formulare asserti non dimostrati e si minimizzasse, anche nel pensiero, la lacuna fra speculazione e conoscenza stabilita. Le facoltà probanti della ragione o dei sensi erano state messe in questione dagli scettici più di 2000 anni fa; ma costoro furono sbaragliati dal trionfo della fisica newtoniana. I risultati di Einstein ribaltarono nuovamente la situazione; oggi pochissimi filosofi o scienziati pensano ancora che la conoscenza scientifica sia, o possa essere, conoscenza dimostrata. Ma non molti realizzano che in questo modo l’intera struttura classica dei valori intellettuali crolla e dev’essere sostituita: non si può semplicemente ridurre l’ideale della verità dimostrata a quella della “verità probabile”, come fanno alcuni empiristi logici, o quello della “verità per consenso (che muta)”, come fanno alcuni sociologi della conoscenza.

Ciò che distingue l’approccio di Popper consiste principalmente nell’aver afferrato tutte le implicazioni del crollo della teoria scientifica meglio corroborata di tutti i tempi: la meccanica newtoniana e la teoria della gravitazione di Newton.

Dal suo punto di vista, l’atteggiamento corretto non sta nella cautela nell’evitare gli errori, ma nella spietatezza nell’eliminarli. Audacia nelle congetture da un lato e severità nelle confutazioni dall’altro: questa è la ricetta di Popper. L’onestà intellettuale non consiste nel cercare di considerare o stabilire la propria posizione dimostrandola (o “probabilificandola”) – consiste piuttosto nello specificare con precisione le condizioni alle quali si accetta di rinunciare alla propria posizione. I dogmatici e ripeto i dogmatici marxisti o freudiani rifiutano di specificare queste condizioni: questo è il marchio della loro disonestà intellettuale. La convinzione (belief) può essere una debolezza biologica disgraziatamente inevitabile da tenere sotto il controllo della critica: ma la fede dogmatica (commitment) è, per Popper, un delitto vero e proprio.

Kuhn la pensa diversamente. Anch’egli respinge l’idea che la scienza cresca per accumulazioni di verità eterne. Anch’egli deriva la sua aspirazione principale dal rovesciamento della fisica di Newton da parte di Einstein. Anche per lui il problema principale è quello della rivoluzione scientifica. Ma mentre per Popper la scienza è “rivoluzione permanente” e l’atteggiamento critico è il cuore dell’impresa scientifica, per Kuhn la rivoluzione è eccezionale e, anzi, extrascientifica, e la critica, in tempi normali, è anatema. Anzi, per Kuhn il passaggio dall’atteggiamento critico al dogmatismo segna l’inizio del progresso – e della scienza “normale”. Secondo lui l’idea che con la “confutazione” si possa chiedere il rifiuto e l’eliminazione di una teoria, è “falsificazionismo ingenuo”. La critica della teoria dominante e la proposta di teorie nuove è permessa soltanto nei rari momenti di “crisi”. Quest’ultima tesi kuhniana è stata ampiamente criticata e non la discuterò qui. La mia preoccupazione è piuttosto che Khun, dopo aver riconosciuto il fallimento sia del giustificazionismo che del falsificazionismo nel fornire spiegazioni razionali della crescita scientifica, sembra ricadere ora nell’irrazionalismo.

Per Popper il mutamento scientifico è razionale o perlomeno razionalmente ricostruibile e ricade nell’ambito della logica della scioperta. Per Kuhn il mutamento scientifico – da un “paradigma” a un altro – è una conversione mistica che non è, e non può essere, governata da regole razionali e che icade totalmente nell’ambito della psicologia (sociale) della scoperta. Il mutamento scientifico è una specie di conversione religiosa.

Il conflitto tra Popper e Kuhn non concerne un punto puramente tecnico dell’epistemologia. Concerne valori intellettuali di fondo, e ha implicazioni non solo per la fisica teorica, ma anche per le scienze sociali che sono ancora a livello inferiore di sviluppo e perfino per la filosofia morale e politica. Se nemmeno nella scienza c’è un altro modo per giudicare una teoria oltre che il tener conto del numero, della fede e degli strilli dei suoi sostenitori, ciò vale ancora di piú per le scienze sociali: la verità si fonda sul potere. In questo modo la posizione di Kuhn giustificherebbe, senza dubbio non volutamente, il credo politico di base dei fanatici religiosi contemporanei (“studenti rivoluzionari”).

(AA. VV., Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1980, pagg. 164-166)
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Utopie demenziali e criminali - falsi salvatori del mondo

Messaggioda Berto » mer nov 03, 2021 9:05 pm

ASSOLUTAMENTE NUOVO
Giovanni Bernardini
3 novembre 2021

https://www.facebook.com/giovanni.berna ... 1259774411

Le ideologie di tutti i fanatici dell’assoluto sono caratterizzate, al di la delle divergenze anche molto profonde che le dividono, da alcuni fondamentali punti in comune.
Tutte aspirano ad un rinnovamento totale e radicale del mondo e dell’uomo. Non si tratta di modificare alcuni aspetti della realtà, migliorare le condizioni di vita degli esseri umani, costruire buone società regolate da buone leggi. NO, la società non va migliorata ma rivoltata come un guanto. Non si vogliono soddisfare le esigenze ed i desideri degli uomini in carne ed ossa di oggi: si deve trasformare in toto la natura umana.
Tutte segnano una rottura radicale col passato. Il nuovo non nasce dal vecchio, se così fosse non sarebbe l’assolutamente nuovo. Il nuovo nasce dal rifiuto e dalla distruzione del vecchio. L’assoluta novità è sorella gemella del nichilismo.
Tutte contrappongono alla assoluta, radicale novità cui aspirano la catastrofe, o l‘imbarbarimento, il degrado generalizzato. Se il nuovo non nasce dal vecchio cosa può spingere gli esseri umani a scegliere un rinnovamento radicale di cui nulla possono sapere? Una sola cosa: la prospettiva del baratro in cui tutti cadranno se non si avvieranno felici verso la trasfigurazione. Polemizzando contro i sostenitori del socialismo gradualista la rivoluzionaria polacca Rosa Luxemburg lo espresse molto chiaramente in uno slogan: socialismo o barbarie.
Tutte fanno programmi a lungo e lunghissimo termine. Non ragionano in termini di anni, guardano ai secoli, fanno previsioni secolari. Si pongono obiettivi che, se realizzati, sono destinati a durare millenni, addirittura in eterno. Il regno dello spirito santo di Gioacchino Fiore sarebbe durato un millennio. Il reich hitleriano sarebbe stato “millenario”, il comunismo marxiano segna la fine della “preistoria” del genere umano. Non ci sono limiti alla durata temporale della società perfetta comunista.
Si esaminino le “analisi” dei fanatici del misticismo pseudo ecologico, si ascoltino le farneticazioni di Greta Thunberg, gli slogan dei suoi seguaci, gli articoli dei tanti giornalisti che ammirano la ragazzina svedese. Ebbene, tutte le caratteristiche delle ideologie dell’assoluto sono presenti in quelle farneticazioni, quegli slogan, quelle “analisi”. Il misticismo pseudo ecologico è una nuova ideologia dell’assoluto. Non ha la grandezza del marxismo o del misticismo degli eretici medioevali, anzi, il suo livello culturale è tanto basso da essere deprimente. Ma è altrettanto pericoloso.
PS. Dimenticavo. NESSUNA ideologia dell’assoluto ha MAI realizzato le sue promesse. L’aspirazione al totalmente nuovo ha prodotto solo montagne di cadaveri. Talmente alte da poter essere considerate, loro si, una autentica “novità”.
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