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REPLICA A BRACALINI, LA QUESTIONE MERIDIONALE È TUTTA COLPA DEI SAVOIAdi FRANCO SIGNORELLI
2015/16/17 (?)
https://www.miglioverde.eu/replica-a-br ... dei-savoiaDopo aver letto l’editoriale di Romano Bracalini “Perché il Sud è povero ed arretrato? Ecco le cause e le colpe” ed aver fatto sbollire la comprensibile prima reazione di dispetto alle evidenti inesattezze sulle quali la tesi di Bracalini si fonda, ho deciso di scrivere una concisa replica. Non per polemica, ma per amore del lettore. Non per puntare il dito contro Bracalini e contro la redazione de “l’Indipendenza”, che dà adito a tali macroscopiche inesattezze, ma per far capire che, Carlo Levi docet, le parole sono pietre. Esse hanno conseguenze e per questo bisogna misurarle attentamente.
La storia del meridione d’Italia (bisogna sempre ricordare infatti che si tratta di una parte della nostra Italia, non di un posto sottosviluppato da denigrare) è talmente complessa che nessun editoriale potrà mai delucidarla. Ciò che mi preme è unicamente dare qualche spunto perché chi legge abbia voglia di documentarsi a fondo.
La dominazione normanna e soprattutto la sveva fecero raggiungere al Sud d’Italia uno splendore mai più eguagliato, pur dominando anche su gran parte del settentrione, su parte dell’odierna Val d’Aosta, Svizzera e Germania meridionale. E ciò smentisce in maniera evidente l’affermazione di Bracalini, secondo il quale “L’abbandono del Mezzogiorno era tale che dalla caduta dell’impero romano all’avvento della dinastia borbonica, non si aprì una sola strada rotabile che mettesse in comunicazione le province fra loro e queste con la capitale”. Basta leggere l’enciclopedia Treccani per rendersi conto che le reti di comunicazione all’interno del regno del Sud e fra questo e gli altri stati erano ben sviluppate per gli standard del tempo. Esse ricalcavano in parte la rete viaria romana, com’è logico, formando in più un nuovo tessuto viario a forma stellare composto di strade brevi, ramificate, che da tutti i centri attivi si irradiavano in ogni direzione con una complessa articolazione collinare, che contrastava con la regolarità e la linearità del sistema viario romano basato su uno schema centralistico e comprendendo inoltre altre vie di comunicazione, non solo terrestri ma anche fluviali e marittime.
Le dominazioni angioina ed aragonese ed i vicereami asburgici e savoiardo (ebbene sì anche la casata Savoia mise il suo zampino nel Sud ancor prima dell’Unificazione, salvo poi scambiare la Sicilia con la Sardegna…), segnarono purtroppo un lungo periodo di declino fra il 1266, data della cacciata degli Svevi, e 1734, data dell’avvento al trono di Napoli di Carlo III di Borbone. Da tener presente, però, che tale declino non era limitato al Sud, ma interessava tutta la penisola, frammentata e dominata in gran parte da popoli stranieri (??? quali?).
E si trattava di declino relativo, considerando le bellezze architettoniche edificate in quel periodo e che ancora costellano il meridione.
In seguito, l’avvento dei Borbone segna un progresso innegabile per tutto il Regno delle due Sicilie, che dura fino all’annessione al Regno d’Italia. I Borboni portarono il Regno delle Due Sicilie all’avanguardia in numerosi campi, dalle lettere alla musica e alle scienze, dall’industria al commercio e alle telecomunicazioni, dall’agricoltura all’allevamento del bestiame, senza trascurare il fatto che nel Meridione vi era la più alta percentuale di medici per abitanti (1 su 958 a fronte di 1 su 1834 in Piemonte, Luguria, Lombardia, Toscana e Romagna) smentendo l’affermazione di Bracalini che “L’unico ceto medio che si era potuto formare era quello degli avvocati”.
Numerosi progressi sociali, un tasso di disoccupazione tra i più bassi d’Europa, una pressione fiscale diretta ed indiretta ed un costo della vita nettamente inferiori rispetto agli altri Stati preunitari facevano sì che il Regno delle Due Sicilie fosse il più popoloso della penisola e Napoli fosse di gran lunga la città più grande d’Italia, mentre Palermo rivaleggiava con Roma e Messina aveva il doppio degli abitanti di Reggio Emilia o di Brescia.
Ciò smentisce ancora una volta Bracalini quando scrive che “Dopo gli spagnoli, il regime borbonico assestò al Mezzogiorno il colpo finale”. Chiunque voglia acquisire dati obiettivi a conferma di ciò che scrivo non ha che consultare dati e cifre del primo censimento della popolazione del Regno d’Italia del 1861, a pochi mesi dall’Unità. Il Regno delle Due Sicilie contava 5 milioni di occupati, di cui gran parte specializzati in vari campi, dall’agricoltura all’industria al commercio, sul totale nazionale di 11 milioni. Forse ancor più eloquente per chi è abituato a ragionare in termini di “spread” risulterà la considerazione che la rendita dei titoli di stato del Regno delle Due Sicilie nel 1860 era del 120% alla Borsa di Parigi e che il Ducato del Regno delle Due Sicilie valeva 4.25 lire piemontesi ed era garantito in oro nel rapporto di uno ad uno, mentre il rapporto lira/oro era di tre ad uno (ogni tre lire piemontesi in circolazione ve ne era solo una in oro).
Il colpo di grazia al Meridione non lo hanno dato affatto i Borbone ma purtroppo i Savoia. Il Nitti stesso, egli sì giornalista imparziale, oltre che insigne statista, scrisse che i Savoia, mettendo fuori corso il Ducato, triplicarono la massa monetaria incamerata con l’annessione del Sud. Sotto i Savoia il meridione piombò in una condizione di pre-feudalesimo. Essi introdussero in un sol colpo ben 22 nuove tasse, mentre la pressione fiscale diretta al Sud era rimasta immutata dal 1815 al 1860, pur aumentando le entrate fiscali in tale lasso di tempo da 16 milioni di ducati a 30 milioni, dimostrazione incontestabile di crescita economica. Il governo Savoia Smantellò le industrie del Sud, un esempio per tutti le Regie Ferriere di Mongiana, in Calabria, trasferendole al Nord, dando così inizio all’emigrazione, fenomeno assente durante il regno borbonico, e guadagnando così nei secoli manodopera a basso costo. Abolirono inoltre il protezionismo, aprendo il mercato a prodotti esteri a basso costo ed ancor più bassa qualità, determinando il declino dell’agricoltura del Sud (???). Smantellarono i cantieri navali e gli arsenali e quindi la flotta mercantile che sotto i Broboni era la seconda del mondo, dopo quella inglese (???). Addirittura l’industria ceramica di Capodimonte, nota in tutto il mondo, venne quasi azzerata con l’annessione del Regno delle Due Sicilie a quello piemontese.
Eppure la maggior parte dei meridionali hanno accettato di pagare questo prezzo altissimo all’Unità d’Italia. Dimostrazione ne è il fatto che i più strenui difensori dell’unità nazionale sono proprio i meridionali. Ciò che risulta insopportabile è l’imbattersi a cadenza regolare in articoli e pubblicazioni del tenore dell’editoriale di Bracalini, che sputano sentenze antimeridionali come fossero verità inappuntabili.
Invito quindi il lettore a formarsi una propria opinione documentandosi a fondo. Il web è una fonte inesauribile. Basta leggere gli scritti di Nitti, quelli di Denis Mach Smith, consultare gli archivi dell’Ufficio Storico della Marina Militare o dello Stato Maggiore dell’Esercito, oppure leggere le tante pubblicazioni sul Sud e l’Unità d’Italia di Gennaro de Crescenzo, di Giuseppe Ressa, di Mario Intrieri.
Chiunque abbia uno spirito aperto potrà rendersi conto che la questione meridionale è molto più complessa di quanto scrive Bracalini. E soprattutto che è profondamente sbagliato trarne spunti antimeridionali. Siamo tutti meridionali, nel senso che la storia del meridione è storia italiana e chi dà credito a chi denigra il meridione in quanto tale cade in un falso storico paragonabile alla “Constitutum Constantini”. Per dirla con Aristotele, la causa della difficoltà della ricerca della verità non sta nelle cose, ma in noi, che chiudiamo gli occhi alla verità come fa la nottola alla luce del giorno. Per pigrizia, comodità, faziosità, sempre per ignoranza.
La locuzione questione meridionale indica, nella storiografia italiana, la situazione di difficoltà del mezzogiorno d'Italia rispetto alle altre regioni del Paese.https://it.wikipedia.org/wiki/Questione_meridionale Utilizzata la prima volta nel 1873 dal deputato radicale lombardo Antonio Billia, intendendo la disastrosa situazione economica del Mezzogiorno in confronto alle altre regioni dell'Italia unita, viene adoperata nel linguaggio comune ancora oggi.
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L'INVASIONE BARBARICA SABAUDA DEL MEZZOGIORNO D'ITALIA: QUELLO CHE NON SI ...Di ANTONIO GIANGRANDE
https://books.google.it/books?id=aQX3nA ... 0Q6AEIJDAA???
SUD ITALIA: ARRETRATEZZA O COLONIALISMO INTERNO? (prima parte)intervista a cura di Francesco Labonia
https://forum.termometropolitico.it/235 ... onale.html SUD ITALIA: ARRETRATEZZA O COLONIALISMO INTERNO? (seconda parte)intervista a cura di Francesco Labonia
http://www.rivistaindipendenza.org/Teor ... talia%20(2).htm
Questa mi pare un buona fonte, ben articolata e documentata:Questione meridionale e confronti finanziari, economici e infrastrutturali con il resto della penisola
(trasporti ferroviari, stradali e marittimi, società sas, imposte, spese pubbliche, ... )https://it.wikipedia.org/wiki/Questione_meridionale « Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C'è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl'intimi legami che corrono tra il benessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale. »
(Giustino Fortunato)
La locuzione questione meridionale indica, nella storiografia italiana, la situazione di difficoltà del mezzogiorno d'Italia rispetto alle altre regioni del Paese.
Utilizzata la prima volta nel 1873 dal deputato radicale lombardo Antonio Billia, intendendo la disastrosa situazione economica del Mezzogiorno in confronto alle altre regioni dell'Italia unita, viene adoperata nel linguaggio comune ancora oggi.
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Nel campo dei trasporti vennero conseguiti alcuni primati sorprendenti, come la prima nave a vapore in Italia e il primo ponte di ferro. Ma all'investimento in strade e ferrovie, reso difficile dall'entroterra collinoso, venne soprattutto preferito il trasporto marittimo, facilitato dalla significativa estensione delle coste tanto che la flotta mercantile borbonica divenne la terza in Europa per numero di navi e per tonnellaggio complessivo, anche se la marina mercantile degli altri stati pre-unitari del nord aveva un tonnellaggio superiore. I tonnellaggi delle flotte mercantili peninsulari nel 1858 erano i seguenti: Regno di Sardegna 208.218; Granducato di Toscana 59.023; Modena 980; Stato pontificio 41.360; Due Sicilie 272.305; Venezia e Trieste 350.899. Su di un totale di 932.785 tonnellate, il regno borbonico ne aveva quindi meno di un quarto.
Sulla consistenza della flotta mercantile borbonica lo storico meridionale Raffaele De Cesare, nel suo libro La fine di un Regno (pp. 165–166) scrive, fra l'altro, testualmente:
« “La marina mercantile era formata quasi interamente di piccoli legni, buoni al cabotaggio e alla pesca e la montavano più di 40.000 marinari, numero inadeguato al tonnellaggio delle navi. La navigazione si limitava alle coste dell'Adriatico e del Mediterraneo, e il lento progresso delle forze marittime non consisteva nel diminuire il numero dei legni ed aumentarne la portata, ma nel moltiplicare le piccole navi. La marina mercantile a vapore era scarsissima, non ostante che uno dei primi piroscafi, il quale solcasse le acque del Mediterraneo, fosse costruito a Napoli nel 1818. Essa apparentemente sembrava la maggiore d'Italia, mentre in realtà alla sarda era inferiore, e anche come marina da guerra, era scarsa per un Regno, di cui la terza parte era formata dalla Sicilia e gli altri due terzi formavano un gran molo lanciato verso il Levante. La marina e l'esercito stavano agli antipodi: l'esercito era sproporzionato al paese per esuberanza, la marina per deficienza.” »
L'inaugurazione nel 1839 degli 8 km della Napoli-Portici, prima ferrovia italiana, aveva suscito grande entusiasmo. Tuttavia, solo 20 anni dopo le ferrovie settentrionali si estendevano per 2035 km, mentre Napoli era collegata soltanto con Capua e Salerno, totalizzando appena 98 km di linea ferrata. Analogamente, secondo Nicola Nisco, nel 1860 erano privi di strade e quindi di fatto irraggiungibili ben 1621 paesi su 1848, dove il transito avveniva su tratturi e mulattiere, infatti la scarsità di infrastrutture stradali si faceva sentire molto nel Sud borbonico, che poteva contare su una rete stradale di soli 14.000 km, mentre la sola Lombardia, quattro volte più piccola aveva una rete stradale di 28.000 km, con la rete stradale del centro Italia allo stesso livello della Lombardia, per metri al km².
La penuria di capitali era sentita ovunque, ma particolarmente al Sud, dove i risparmi venivano immobilizzati in terreni o in monete preziose. Nel saggio "Nord e Sud", Nitti rileva che quando le monete degli stati preunitari vennero unificate, al sud vennero ritirate 443 milioni di monete di vari metalli, da confrontare con i 226 milioni di tutto il resto d'Italia.
La sostituzione consentì di ritirare diversi tipi di metalli preziosi, generando la sensazione di una vera espropriazione, tanto che ancora nel 1973 Antonio Ghirelli sostiene che 443 milioni di lire d'oro siano "finiti al Nord".
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Va ricordato che lo sviluppo del Piemonte ebbe un prezzo: i conti pubblici vennero gravemente inficiati sia dallo sforzo di modernizzare l'economia che dalle guerre di unificazione. Con la nascita dell'Italia unita il passivo di bilancio del Regno di Sardegna fu incamerato nelle casse del neonato Stato italiano, che finanziò negli anni successivi all'unità la costruzione di molti km di strade e ferrovie, in tutta la penisola e particolarmente nel Sud, allora con poche strade (14.000 km) e pochissime ferrovie (circa 100 km), ma la realizzazione di tali infrastrutture non avviò un parallelo sviluppo economico del meridione rispetto al resto della penisola.
Il divario economico era già allora evidente considerando il dato statistico riferito alle società in accomandita italiane al momento dell'Unità, in base ai dati relativi alle società commerciali e industriali tratti dall'Annuario statistico italiano del 1864. Le società in accomandita erano 377, di cui 325 nel centro-nord, escludendo dal computo quelle esistenti nel Lazio, nel Veneto, del Trentino, nel Friuli e nella Venezia Giulia. Comunque, il capitale sociale di queste società vedeva un totale di un miliardo e 353 milioni, di cui un miliardo e 127 milioni nelle società del centro-nord (sempre prescindendo da Lazio, Veneto, Trentino, Friuli, Venezia Giulia) e soltanto 225 milioni nel Mezzogiorno. Per fare un paragone, il totale della riserva finanziaria dello stato borbonico era pari a 443,200 milioni di lire; praticamente un terzo del capitale delle società in accomandita del centro-nord escludendo diversi territori non ancora annessi. Le sole società in accomandita del Regno di Sardegna avevano un capitale totale che era quasi doppio di quello dello stato borbonico: 755,776 milioni contro 443,200 milioni di liquidi. Si tenga conto sempre poi che in questo calcolo sono escluse tutte le società per azioni del nord-est, poiché non era incluso nel 1861 nel regno d'Italia.
Giustino Fortunato nella sua analisi delle condizioni dell'Italia meridionale al momento dell'Unità, osservava quanto segue riguardo alla politica borbonica:
« "Eran poche, sì, le imposte, ma malamente ripartite, e tali, nell'insieme da rappresentare una quota di lire 21 per abitante, che nel Piemonte, la cui privata ricchezza molto avanzava la nostra, era di lire 25,60. Non il terzo, dunque, ma solo un quinto il Piemonte pagava più di noi. E, del resto, se le imposte erano quaggiù più lievi — non tanto lievi da non indurre il Luigi Settembrini, nella famosa 'Protesta' del 1847, a farne uno dei principali capi di accusa contro il Governo borbonico, assai meno vi si spendeva per tutti i pubblici servizi: noi, con sette milioni di abitanti, davamo via trentaquattro milioni di lire, il Piemonte, con cinque [milioni di abitanti], quarantadue [milioni di lire]. L'esercito, e quell'esercito!, che era come il fulcro dello Stato, assorbiva presso che tutto; le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti, come per le plaghe d'Oriente.” »
Infatti, Fortunato osservava ciò che è chiaramente provato sui bilanci dello stato borbonico: le spese erano rivolte in stragrande maggioranza alla corte od alle forze armate, incaricate di proteggere la ristrettissima casta dominante del regno, lasciando pochissimo agli investimenti per opere pubbliche, sanità ed istruzione e la natura veramente classista della politica economica borbonica risalta dalle seguenti cifre relative ai bilanci dello stato.
Nel 1854 la spesa governativa borbonica contava 31,4 milioni di ducati dei quali 1,2 milioni erano quelli per istruzione, sanità, lavori pubblici, mentre erano ben 14 milioni i ducati spesi per le forze armate e 6,5 milioni per il pagamento degli interessi sul debito pubblico, oltre alle ingenti spese per la corte regale.
Il bilancio dello stato borbonico previsto per il 1860, prima ancora che Garibaldi sbarcasse a Marsala, quindi in stato di pace e non di guerra, ribadiva anche in questo caso la sproporzione fra le spese militari e di repressione e quelle per la popolazione. Le spese previste, esclusa la Sicilia (con bilancio separato) sommando il bilancio direttamente speso dallo stato centrale (16.250.812 ducati) e quello ripartito fra gli enti locali (19.200.000 ducati) per un totale di 35.450.812 ducati erano così ripartite: Esercito 11.307.220; Marina 3.000.000; Esteri 298.800; Governo centrale 1.644.792; debito pregresso 13.000.000; lavori pubblici 3.400.000; Clero e istruzione 360.000; Polizia, giustizia 2.440.000.
Le spese militari rappresentavano circa il 40% del bilancio totale, sommando anche le spese per polizia e giustizia si arriva al 47% del bilancio, mentre alle spese per istruzione e clero era destinato solo l'1% del bilancio totale di 35.450.812 ducati. La Sicilia aveva l'ultimo bilancio rilevabile espresso in lire 41.618.200, al cambio del 1859 di 4,25 lire per ducato stimato equivalente a 9.793.000 ducati.
Un'attenta e critica analisi del sistema finanziario dei Borbone fu descritto nei particolari da Giovanni Carano Donvito, nella quale pose in luce come l'ex governo napoletano “…se poco chiedeva ai suoi sudditi, pochissimo spendeva per essi e questo pochissimo spendeva anche male…”.