Gli antisemiti e gli antisraelianiDefiniamo lo Stato d'IsraeleTratto dal libro: «Storia ebraica e giudaismo: il peso di tre millenni» di Israel Shahak*
http://www.disinformazione.it/definizioneisraele.htm Prefazione di Gore Vidal
Alla fine degli Anni Cinquanta, quel grande pettegolo e storico dilettante che era John F. Kennedy mi disse che nel 1948 Harry Truman, proprio quando si presentò candidato alle elezioni presidenziali, era stato praticamente abbandonato da tutti.. Fu allora che un sionista americano andò a trovarlo sul treno elettorale e gli consegnò una valigetta con due milioni di dollari in contanti. Ecco perché gli Stati Uniti riconobbero immediatamente lo Stato d’Israele. (…)
Purtroppo, quell’affrettato riconoscimento dello Stato d’Israele ha prodotto quarantacinque anni di confusione e di massacri oltre alla distruzione di quello che i compagni di strada sionisti credevano sarebbe diventato uno stato pluralistico, patria dei musulmani, dei cristiani e degli ebrei nati in Palestina e degli immigrati europei e americani, compreso chi era convinto che il grande agente immobiliare celeste avesse dato loro, per l’eternità, il possesso delle terre della Giudea e della Samaria.(…)
Capitolo I
Se non si mette in discussione il prevalente atteggiamento ebraico nei confronti dei non ebrei, non è dato capire neppure il concetto stesso di «stato israeliano» (Jewish State), come Israele preferisce definirsi. La generalizzata mistificazione che, senza considerare il regime apartheid dei territori occupati, definisce Israele come una vera democrazia, nasce dal rifiuto di vedere cosa significa per i non ebrei lo «stato israeliano». Sono convinto che Israele in quanto Jewish State è un pericolo non solo per se stesso e per i suoi abitanti, ma per tutti gli ebrei e per gli altri popoli e stati del Medio Oriente e anche altrove. Sono altresì convinto che altri stati o entità politiche del Medio Oriente che si proclamano «arabi» o «musulmani», definizioni analoghe a quella di «stato israeliano», rappresentano anch'essi un pericolo. Comunque mentre di quest'ultimo pericolo tutti ne parlano, quello implicito nel carattere ebraico dello Stato d'Israele è sempre taciuto e ignorato. Fin dalla sua fondazione, il concetto che il nuovo Stato d'Israele era uno «stato israeliano» fu ribadito da tutta la classe politica e inculcato nella popolazione con ogni mezzo.
Nel 1985, quando una piccola minoranza di ebrei cittadini d'Israele contestò questo concetto, il Knesset, approvò a stragrande maggioranza una legge costituzionale che annulla tutte le altre leggi che non possono esser revocate se non con procedura eccezionale. Si stabilì che i partiti che si oppongono al principio dello «stato israeliano», o propongono di modificarlo per via democratica, non possono presentare candidati da eleggere al Parlamento, il Knesset. Personalmente, io mi sono sempre opposto a questo principio costituzionale e quindi, in uno stato di cui sono cittadino, non posso appartenere a un partito di cui condivido il programma a cui è vietato eleggere i suoi, rappresentanti al Knesset.
Basterebbe questo esempio per dimostrare che Israele non è una democrazia, visto che si fonda sull'ideologia israeliana ad esclusione non solo di tutti i non ebrei ma anche di noi ebrei, cittadini d'Israele, che non siamo disposti a condividerlo.
Comunque il pericolo rappresentato da questa ideologia dominante non si limita agli affari interni, ma permea di sé tutta la politica estera d'Israele. E tale pericolo sarà sempre maggiore via via che il carattere israelitico d'Israele si accentuerà sempre più e crescerà il suo potere, particolarmente quello nucleare. Un'altra ragione per preoccuparsi è l'aumentata influenza d'Israele sulla classe politica degli Stati Uniti e per questi motivi oggi non è solo importante ma, addirittura politicamente vitale, documentare gli sviluppi del giudaismo e specialmente il modo di trattare i non ebrei da parte d'Israele.
Consideriamo la definizione ufficiale del termine «israeliano», che chiarisce la differenza di fondo tra Israele come «stato israeliano» e la maggioranza degli altri stati. Dunque, secondo la definizione ufficiale, Israele «appartiene» solo a quelle persone che le autorità israeliane definiscono appunto «israeliane», indipendentemente da dove vivono. Al contrario, Israele non «appartiene» giuridicamente ai suoi cittadini non ebrei, la cui condizione è ufficialmente considerata inferiore.
In realtà, questo vuol dire che se i membri di una tribù peruviana si convertono al giudaismo e così sono definiti e considerati, come ebrei hanno immediatamente diritto alla cittadinanza israeliana e a sistemarsi in circa il 70% delle terre occupate del West Bank, e nel 92% dell'area vera e propria d'Israele, destinate all'uso dei cittadini ebrei. A tutti i non ebrei, e quindi non soltanto ai palestinesi, è proibito usufruire di queste terre, e il divieto riguarda persino i cittadini arabi d'Israele che hanno combattuto nell'esercito israeliano e raggiunto anche gradi assai elevati.
Alcuni anni fa, scoppiò il caso dei peruviani convertiti al giudaismo. Ad essi furono assegnate terre nel West Bank vicino a Nablus, zona da cui sono esclusi i non ebrei. Tutti i governi d'Israele sono stati e sono pronti ad affrontare qualsiasi rischio politico, tra cui la guerra, perché gli insediamenti del West Bank restino sotto la giurisdizione «israeliana» come è affermato continuamente nei media, che sanno perfettamente di diffondere una menzogna, decisiva a coprire l'ambiguità discriminatoria dei termini «ebreo» e «israeliano».
Sono sicuro che gli ebrei americani o britannici accuserebbero subito di antisemitismo i governi degli Stati Uniti, o dell'Inghilterra, se questi decidessero di definirsi «stati cristiani», cioè stati che «appartengono» solo a cittadini definiti ufficialmente «cristiani». Conseguenza di una simile dottrina sarebbe che, solo se si convertissero al cristianesimo, gli ebrei diventerebbero cittadini a pieno diritto e, non dimentichiamolo mai, proprio gli ebrei, forti dell'esperienza di tutta la loro storia, sanno quanto grandi fossero i benefici per chi si convertiva al cristianesimo.
In passato, quando gli stati cristiani, e islamici, discriminavano quelle persone, compresi gli ebrei, che non seguivano la religione dello stato, bastava convertirsi per essere accettati come tutti gli altri. La discriminazione che lo Stato d'Israele sanziona nei confronti di tutti i non ebrei cessa nel momento in cui quelle persone si convertono al giudaismo, e sono riconosciute come tali. Ciò vuol dire che lo stesso genere di esclusivismo che gli ebrei della diaspora denunciano come antisemitismo è fatto proprio dalla maggioranza di tutti gli ebrei, come principio ebraico. Chi, tra di noi, si oppone sia all'antisemitismo che allo sciovinismo ebraico è accusato di essere affetto dall'odio di sé, concetto che ritengo assolutamente privo di senso.§
Nel contesto della politica israeliana il significato del termine «ebraico» (Jewish) e dei suoi derivati ha la stessa importanza del termine «islamico» così com'è ufficialmente usato in Iran o anche del termine «comunista» com'era stato ufficializzato nell'URSS. Comunque, il significato di Jewish non è chiaro né nella lingua ebraica né nella traduzione in altre lingue, per cui il termine ha dovuto esser definito ufficialmente.
Secondo la legge dello Stato d'Israele è da considerarsi «ebreo» chi ha avuto una madre, una nonna, una bisnonna e una trisavola ebrea, di religione ebraica, oppure perché si è convertito al giudaismo da un'altra religione, secondo i criteri riconosciuti e accettati come legittimi dalle autorità d'Israele. Chi si sia convertito dal giudaismo a un'altra religione non è più considerato «ebreo». La prima di queste tre condizioni non è altro che la definizione talmudica di «chi è ebreo», fondamento di tutta la tradizione ortodossa ebraica. Anche il Talmud e la legge rabbinica post-talmudica riconoscono la conversione di un non ebreo al giudaismo, come pure l'acquisto di uno schiavo non ebreo da parte di un ebreo cui segue una forma diversa di conversione, come un modo per diventare ebreo, purché la conversione sia avallata da rabbini autorevoli e autorizzati e si svolga secondo modalità per essi accettabili. Per quanto riguarda le donne, una di queste «modalità accettabile» è il rito del «bagno di purificazione», durante il quale tre rabbini ispezionano accuratamente la donna nuda.
La cosa è ben nota ai lettori delle pubblicazioni in lingua ebraica ma i media in inglese non ne parlano, anche se sicuramente susciterebbe un certo interesse. Mi auguro che questo mio libro, le cui fonti sono tutte in lingua ebraica, possa essere utile a correggere il divario tra l'informazione che viene data in lingua ebraica e quella che è tradotta in inglese e destinata all'esterno d'Israele.
Ufficialmente, lo Stato d'Israele ha una legislazione discriminatoria nei confronti dei non ebrei, che favorisce esclusivamente gli ebrei in molti aspetti della vita come, tra i più importanti, il diritto di residenza, il diritto al lavoro e il diritto all'eguaglianza di fronte alla legge.
Per quanto riguarda la discriminazione del diritto di residenza, si fonda sul fatto che, in Israele, il 92% della terra è proprietà dello Stato ed è amministrato dalla Israel Land Authority secondo i criteri del Jewish National Fund (JNF), affiliato all'Organizzazione Sionista Mondiale (World Zionist Organization). Sono regole fondamentali del JNF la proibizione a chi non è «ebreo» di stabilire la propria residenza, di esercitare attività commerciali, di rivendicare il proprio diritto al lavoro e questo soltanto perché non è ebreo. Al contrario, agli ebrei non è in nessun caso proibito stabilire la propria residenza o aprire attività commerciali in qualsiasi località d'Israele. Se discriminazioni simili fossero imposte in altri stati agli ebrei, si parlerebbe subito, e a ragione, di antisemitismo e ci sarebbero massicce proteste.
Quando invece quelle discriminazioni sono normalmente applicate come logica conseguenza della cosiddetta «ideologia ebraica», sono volutamente ignorate o, le rare volte che se ne parla, giustificate. Secondo le regole del JNF, ai non ebrei si proibisce ufficialmente di lavorare le terre amministrate dalla Israel Land Authority. E' vero che queste regole non sono sempre applicate né globalmente imposte, però esistono e vengono tirate fuori tutte le volte che servono. Di tanto in tanto Israele ne impone l'applicazione, come quando, per esempio, il Ministero dell'Agricoltura si scaglia contro la pestilenza di permettere che negli orti che appartengono a ebrei sulla National Land, la terra dello Stato d'Israele, la raccolta sia affidata a coltivatori arabi, anche se questi sono cittadini d'Israele. E severamente proibito agli ebrei insediati sulla National Land subaffittare anche una parte delle loro terre agli arabi, persino per tempi brevissimi e chi lo fa incorre in pesantissime multe.
Al contrario, non c'è nessuna proibizione se si tratta di non ebrei che affittano le loro terre ad altri ebrei. Nel mio caso, per esempio, io che sono ebreo ho il diritto di affittare un orto per il tempo della raccolta ad un altro ebreo, ma a un non ebreo, sia esso cittadino d'Israele o residente non naturalizzato, non è consentito.
Israele è uno stato fondato sull'apartheid. Questo è il principio primo di tutto il suo sistema legale, oltre che la dimensione evidente e verificabile ad ogni livello sociale, residenziale, del viver quotidiano. Tuttavia, la maggior parte delle leggi approvate dal Knesset, il parlamento israeliano, non sembrano discriminatorie, almeno nella forma. Se si analizzano con un po' di attenzione, si vede subito che, alla base dì tutte c'è la discriminazione tra «ebrei» e «non ebrei».
La Legge dell'Ingresso del 1952 aveva apparentemente la funzione di regolare l'accesso al paese ma, senza specificare tra «ebrei» e «non ebrei», recitava che «chi non è in possesso di un visto o di un certificato d'immigrazione sarà immediatamente deportato e non potrà più chiedere il rilascio dei visto». La definizione di chi ha le qualifiche per ottenere il visto d'immigrazione si trova nella parallela Legge del Ritorno: solo «gli ebrei».
Infatti, la clausola della deportazione degli «stranieri» è applicabile solo ai «non ebrei». Il Ministero dell'Interno non ha l'autorità d'impedire a un ebreo, anche se ha precedenti penali e può costituire un pericolo per la società, di esercitare il suo diritto a stabilirsi in Israele. Solo un cittadino straniero non ebreo ha bisogno del permesso, ma agli ebrei che giungono da altre nazioni vengono subito concessi tutti i diritti e i privilegi previsti per i cittadini d'Israele: il «certificato d'immigrazione» conferisce automaticamente la cittadinanza, il diritto di votare e di essere eletti anche se non conoscono una sola parola di ebraico. Il «certificato d'immigrazione» dà diritto immediato alla «cittadinanza» in virtù del ritorno nella «terra madre d'Israele» e a molti benefici finanziari che variano a seconda della nazione da cui provengono gli «ebrei». Per esempio, quelli che provengono dall'ex URSS ricevono subito una «gratifica complessiva» di $ 20.000 per famiglia.
Agli stranieri, cioè ai «non ebrei», può essere revocata la residenza anche se hanno vissuto in Israele anni ed anni, mentre nessuno può espellere gli indesiderabili se ebrei, com'è stato in moltissimi casi di trafficanti e comuni malfattori che sono persino riusciti a farsi eleggere nel Knesset. E ciò grazie alle leggi sulla cittadinanza del 1952 che, senza mai menzionare «ebrei» e «non ebrei», sono il fondamento primo dell'apartheid, insieme alle leggi sull'istruzione pubblica, alle norme della Israel Land Authority, che garantiscono la segregazione delle terre e le leggi matrimoniali religiose che sono mantenute separate dal codice matrimoniale civile.
I «non ebrei» debbono risiedere molti anni in Israele prima di ottenere la cittadinanza, possono essere espulsi dall'oggi al domani e debbono ufficialmente rinunciare alla loro cittadinanza originaria. Per esempio, i cosiddetti «diritti dei residenti che rientrano in patria» (doganali, sussidi per le abitazioni e l'istruzione) valgono solo per gli «ebrei», gli yored. La discriminazione più plateale è quella che appare nei documenti d'identità che tutti sono tenuti a portare con sé e ad esibire in qualsiasi momento. Sotto la dicitura «nazionalità» figurano le seguenti categorie: «ebreo», «arabo», «druso», «circasso», «samarita», «caraita» o «straniero». Dal documento d'identità i funzionari dello stato sanno subito a quale categoria appartiene la persona. Malgrado innumerevoli pressioni, il Ministero dell'Interno si è sempre rifiutato di accettare la dicitura «nazionalità israeliana». A quelli che l'hanno richiesta, viene risposto su carta intestata «Stato d'Israele» che «si è deciso di non riconoscere una nazionalità israeliana», mentre si ricorda che si ha il diritto a lasciare in bianco la voce «nazionalità», previa richiesta al ministero di competenza. Nella lettera non si specifica chi ha preso tale decisione né quando.
La legge sulla coscrizione militare del 1986 non sembra discriminatoria perché usa l'espressione «giovani di leva arruolati» come termine universale e riferibile a tutti i cittadini d'Israele. In realtà contiene un semplice marchingegno che ne fa una delle leggi più discriminatorie, un vero e proprio pilastro dell'apartheid: è la figura dell'enumerator, autorizzato a chiamare i giovani ad iscriversi nelle liste di leva, a convocarli al distretto con uno specifico richiamo alle armi. Nella legge si fa uso del termine «autorizzato», il che implicitamente lascia all'enumerator la facoltà di chiamare, o di non chiamare alle armi, i giovani in età di leva. Quelli che non ricevono la chiamata sono automaticamente esentati dal servizio militare. E’ semplicissimo: quelli che dai documenti d’identità risultano appartenenti al «settore arabo» non vengono chiamati.
Israele, lo Stato nazione del popolo ebraico e l’odio di sé[Carta di Laura Canali]
4/12/2014
Il disegno di legge voluto da Netanyahu antepone la religione alla democrazia ed è per questo criticatissimo. Se si accusa il governo israeliano si è anti-ebraici?
La scelta di Netanyahu: elezioni sull’idea stessa di Israele
di Anna Maria Cossiga
http://www.limesonline.com/israele-lo-s ... i-se/67526Il disegno di legge fondamentale dal titolo “Israele, Stato nazionale del popolo ebraico”, approvato dal Consiglio dei ministri israeliano il 23 novembre scorso con 14 voti a favore e 7 contrari, ha suscitato critiche in tutto il mondo.
Le accuse principali riguardano la preferenza accordata al carattere ebraico rispetto al carattere democratico dello Stato e il rischio di considerare i non ebrei all’interno di Israele (in particolar modo gli arabi) come cittadini di seconda categoria, con diritti individuali ma non collettivi di fronte alla legge.
Le critiche allo Stato d’Israele e alle sue politiche non sono certo nuove, né il premier Benjamin Netanyahu (che ha scatenato una crisi di governo in seguito alla quale ci saranno elezioni anticipate il 17 marzo 2015) gode esattamente di buona pubblicità all’estero. In un recente articolo del quotidiano israeliano Yedioth Ahronot, il giornalista Eytan Gilboa si lamenta della mancanza di obiettività da parte della stampa mondiale nel riportare le notizie su Israele. “Ormai da molto tempo – scrive – i media occidentali riportano notizie sbagliate, usano due pesi e due misure, esagerano, fanno un uso non equilibrato delle fonti, si servono di associazioni senza senso, di analogie ridicole, di interviste tendenziose e operano significative omissioni. Tali difetti – continua Gilboa – hanno origine da un senso di solidarietà con gli ‘oppressi’, dall’adozione della narrativa che fa dei palestinesi delle vittime, dalle diffuse voci critiche e conflittuali all’interno di Israele e dall’antisemitismo”.
Certo, non si può negare che alcuni paesi, e probabilmente i loro media, non siano esattamente sostenitori dello Stato ebraico; né si può mettere da parte l’antisemitismo che serpeggia ovunque con preoccupante frequenza. Tuttavia, sempre più spesso le critiche alle politiche del governo Netanyahu, e in particolare al suddetto disegno di legge, non vengono più soltanto dai detrattori di Israele.
Il Dipartimento di Stato Usa “si aspetta che Israele si attenga ai suoi principi democratici”. Abraham Foxman, Direttore della Lega Anti Diffamazione e da sempre ultra-sostenitore dello Stato ebraico e del suo governo, afferma che “il dibattito sul disegno di legge mina la stessa natura ebraica dell’identità nazionale dello Stato e che i tentativi di codificare ulteriormente tale concetto in una legge fondamentale derivano da una buona intenzione, ma sono superflui”. Anche le principali associazioni degli ebrei americani sono preoccupate.
All’interno di Israele si alzano le voci critiche degli stessi politici. I ministri Yair Lapid (Yesh ATid) e Tzipi Livni (Hatuah) hanno votato contro il disegno di legge e hanno avuto con il primo ministro uno scambio di opinioni esplosivo che ha portato al loro licenziamento e alla crisi di governo. Il presidente Reuven Rivlin, il suo predecessore Shimon Peres e il procuratore generale Yehuda Weinstein ritengono la legge pericolosa sia nella forma “dura” approvata dal Consiglio dei ministri sia in quella “edulcorata” che dovrebbe essere presentata alla Knesset la prossima settimana.
Dalla stampa israeliana giungono i giudizi più feroci. Il quotidiano Haaretz titola uno dei suoi articoli “Far entrare l’apartheid dalla porta di servizio”. Mentre in Sudafrica, sostiene l’autore Na’aman Hirschfeld, l’apartheid era l’ideologia ufficiale dello Stato, in Israele esso viene applicato in una forma che ne maschera la natura, tramite la legge marziale nei Territori occupati e il controllo militare dei palestinesi, la separazione fisica tra israeliani e palestinesi, la confisca di territorio e la costruzione degli insediamenti. Questo tipo di apartheid ha una caratteristica particolare: anziché essere l’ideologia fondativa dello Stato, è un apparato che gli sembra estraneo, un sistema di oppressione e di segregazione de facto di cui si tace completamente, sia nella retorica ufficiale, sia nella maggior parte dei media israeliani.
Si tratta piuttosto di un sistema che si manifesta nella prassi. Questo permette ai cittadini e a i politici di negarne l’esistenza, persino a se stessi. Oltre a questo, “la base democratica e secolare dello Stato è sotto attacco con il disegno di legge fondamentale che vuole fare dello Stato di Israele lo Stato nazionale del popolo ebraico e del popolo ebraico soltanto […]. È la fine del sionismo e il suo risultato finale è uno Stato ebraico che incarna la logica dell’antisemitismo”.
Un altro commentatore israeliano, Daniel Blatman, fa notare che nel XX secolo sono stati numerosi gli Stati che hanno approvato leggi sulla nazionalità. La presenza di minoranze sul proprio territorio faceva temere ai governanti che le loro aspirazioni all’eguaglianza fossero una minaccia. Le leggi emanate hanno portato alle persecuzioni e alla discriminazione codificata contro quelle minoranze. “Gli ebrei furono le prime vittime di quei regimi”. Nell’articolo, si ricordano le leggi polacche e romene degli anni Trenta e persino le leggi di Norimberga. “Ai promotori della legge appartenenti alle frange più estreme, tra cui i seguaci del defunto rabbino Meir David Kahane e i membri del movimento Lehava, non basta affermare il carattere ebraico di Israele e stabilire che solo gli ebrei hanno il diritto di avere uno stato nazionale: il loro modello sono le leggi di Norimberga.
Il sito di Lehava dichiara: “I matrimoni misti sono proibiti dalla legge di Dio, che vieta di mescolare il seme del Dio vivente con altre nazioni”. A questo proposito si sostiene che non si tratta di razzismo, ma che lo scopo è semplicemente quello di proteggere la nazione ebraica”. Anche i giuristi nazisti sostenevano che le leggi contro i matrimoni misti non erano razziste, ma che servivano – al contrario – per facilitare e regolare le relazioni ebrei e tedeschi nel lungo periodo.
In un editoriale, Gideon Levy sostiene che le politiche proposte da Naftali Bennett, ministro dell’Economia e degli Affari Religiosi e leader di Habayt Hayeudi (La Casa degli Ebrei), porterebbero a una soluzione molto semplice: uno Stato dell’apartheid. Lo stesso Bennett ha affermato che finalmente, grazie a questa legge, “Israele verrà considerato lo Stato-nazione del popolo ebraico e non soltanto quello della dignità umana e della libertà”.
Sostenere che Israele pratica l’apartheid o che le sue politiche verso gli arabi sono razziste può comportare essere accusati di antiebraismo. Dunque anche gli israeliani e gli ebrei che criticano le iniziative del governo Netanyahu sono antiebraici?
Il cosiddetto “odio di sé” che nutrirebbero alcuni ebrei è un antico dramma. Il primo e più tristemente famoso di tali ebrei è Otto Weiniger, giovane filosofo austriaco che nel 1903 pubblica Sesso e carattere. Nell’opera, “quasi una summa della misoginia e dell’antisemitismo viennese”, l’autore paragona gli ebrei alle donne, ritenute inferiori rispetto agli uomini tanto da fargli affermare che “la donna più elevata è infinitamente al di sotto dell’uomo più infimo”. È a questo spaventoso sentimento che dobbiamo attribuire i giudizi spietati di tanti commentatori israeliani?
Il grande filosofo e pensatore ebreo Martin Buber, sionista convinto ma sostenitore dell’intesa fra ebrei e arabi, scriveva nel 1925, alla vigilia del XIV congresso sionista: “Vi è un popolo senza terra, ma non vi è nessuna terra senza popolo. […] Questa terra può prosperare solo se c’è un rapporto di reciproca fiducia fra i due popoli. E questo vi può essere soltanto se quelli che arrivano, cioè in questo caso noi, vengono con leale e onesta volontà di convivere con l’altro popolo, sulla base del rispetto reciproco e l’attenzione per i diritti umani e nazionali di tutti”. Nel 1932 in Se non ora, quando? affermava invece: “Nella realtà della storia […] non si pone uno scopo giusto e poi si sceglie la strada che porta a quel fine comune come la offre la convenienza del momento. Una strada falsa […] porta a un fine falso […]. L’insegnamento di Isaia ci dovrebbe guidare nella nostra azione: ‘Sion sarà redenta per mezzo della giustizia’ (Isaia 1,27)”.
Buber era contrario alla superiorità della Realpolitik sull’etica, contrario a quanto affermato da Max Weber nel discorso in Politica come professione e cioè che “dal punto di vista sociologico, coloro che sono responsabili per il bene pubblico spesso sono costretti a utilizzare mezzi moralmente assai discutibili per promuovere ciò che è conveniente per il bene pubblico”.
Nonostante la sua grandezza, le posizioni di Buber si sono dimostrante perdenti all’interno del sionismo e la Realpolitik sembra aver vinto su tutti i fronti. Dobbiamo dedurre che anche Buber fosse un ebreo antiebraico? O trarre la conclusione, insieme a lui, che Israele ha raggiunto il proprio scopo attraverso la via sbagliata? Insomma, per quale strada si incammina lo Stato ebraico? Dove arriverà?
Chi avanza accuse di antiebraismo verso quanti criticano le politiche del governo israeliano, che siano ebrei o non ebrei, dovrebbe tenere a mente che essere “amici di Israele” non significa dargli sempre ragione, approvando qualunque cosa faccia.