Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » dom ago 12, 2018 2:51 pm

Ehud, il liquidatore
12 agosto 2018
Niram Ferretti

http://www.italiaisraeletoday.it/ehud-il-liquidatore

Prima di indossare gli occhiali e farsi crescere la barba, riciclandosi nella veste di saggio e guru, l’ex primo ministro israeliano e anche ex ministro della Difesa, Ehud Barak, era stato uno dei potenziali liquidatori dello Stato di Israele. Sotto l’allora egida di Bill Clinton, nel 2000, si accordò per concedere a Yasser Araft tra il 94 e il 96% della Giudea e Samaria più il 100% di Gaza con una compensazione di territori israeliani ulteriori ammontanti tra l’1 e il 3% per il 4 e il 6% dei territori della Giudea e Samaria che Israele si sarebbe trattenuto. Naturalmente, Gerusalemme sarebbe stata divisa in due. Fortunatamente per Israele Arafat disse di no e diede via alla Seconda Intifada.

Ehud Barak è ancora oggi un fautore della cessione da parte di Israele dei territori della Giudea e Samaria e di uno stato palestinese che sorgerebbe su quelle colline, stato demilitarizzato sul quale Israele sarebbe obbligato a fare da vigliante giorno e notte. Questo sarebbe l’happy end, la soluzione del conflitto, l’alternativa a ciò non potrebbe essere altro che quella di trasformare Israele in uno stato di apartheid. Si tratta, naturalmente, di un tertium non datur del tutto fraudolento, un po’ come quello di un altro Bara(c)k, Obama, per il quale l’alternativa al pessimo accordo sul nucleare iraniano poteva essere solo la guerra con l’Iran.

L’apartheid, come la guerra per Obama, è solo nella testa del barbuto Ehud, visto che dall’implementazione degli Accordi di Oslo, l’Area A e B della Giudea e Samaria sono entrambe sotto controllo palestinese e solo l’Area C, una porzione del territorio, è sotto piena sovraintendenza israeliana. Li vi abitano circa 150 mila arabi palestinesi, insieme ai cosiddetti “coloni” ebrei, mentre nell’Area A e B agli ebrei non è consentito alcun accesso. Quando si dice l’apartheid.

Recentemente, Ehud Barak si è scagliato contro il Ministro della Giustizia, Ayelet Shaked, rea, a suo dire, di avere dichiarato che se la Corte di Giustizia dovesse sovvertire la Legge Base sullo Stato ebraico, ciò equivarrebbe a un terremoto politico.

Barak, non ha potuto rinunciare alla coazione base di tutti i progressisti illuminati, dando alla Shaked della “fascista”. Per Barak che è invece democratico, l’Alta Corte dovrebbe respingere la nuova legge malgrado il fatto che essendo una legge costituzionale la Corte non ha alcun potere di rovesciarla. Ma per i Barak che vorrebbero uno stato demilitarizzato sulle colline della Giudea e della Samaria vigilato giorno e notte senza tregua da Israele, in un circondario altamente instabile, rendendolo un obbiettivo assai ambito per il terrorismo islamico, Israele dovrebbe essere governata dai giudici, gli unici (possibilmente tutti di sinistra) atti a determinare cosa sia o non sia giusto. Un bello Stato etico possibilmente binazionale, dove una legge assolutamente legittima come quella varata dalla Knesset, verrebbe gettata nel bidone dell’immondizia.

E pensare che una delle icone sante della sinistra israeliana, Isaac Rabin, nel suo ultimo discorso alla Knesset il 5 ottobre del 1995 dichiarò, “Aspiriamo a fondare uno Stato ebraico con una popolazione ebraica di circa l’80%”, dunque con una netta predominanza ebraica nazionale. Ma siccome una legge in questo senso è stata varata dal governo Netanyahu, essa per Barak e i suoi sodali, sarebbe per essenza, demoniaca, contraddirebbe infatti la Dichiarazione di Indipendenza del 1948. Anche qui ci troviamo al cospetto di una truffa.

La legge, infatti, non ha nulla a che vedere con i diritti civili delle minoranze già tutelati dal capitolo della Legge Base che si occupa della Dignità Umana e della Libertà, legge che la Corte Suprema ha chiaramente stabilito essere una legge democratica che sancisce l’eguaglianza di tutti i cittadini. Lo scopo della legge Base sullo stato nazionale è solo quello di definire Israele come lo stato-nazione del popolo ebraico.

Ma qui, come si sul dire, casca l’asino e si rivela dove porterebbe la strada di che Barak vorrebbe percorrere. Introdurre nella Legge Base sullo Stato Ebraico la questione dei diritti civili delle minoranze farebbe di fatto di Israele uno Stato binazionale.

Mesta storia quella della sinistra israeliana, condannata ormai da tempo a non essere altro che residuale testimonianza di una narrativa che trova solo consenso marginale in un paese che fortunatamente persiste nel volere restare ancorato alla realtà.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » sab ago 18, 2018 3:42 am

Che cosa rappresentano quelle bandiere palestinesi in Piazza Rabin
Ugo Volli
13 agosto 2018

http://www.progettodreyfus.com/israele- ... festazione

Si è tenuta un paio di giorni in Piazza Rabin a Tel Aviv, la sede più importante per i raduni politici di massa in Israele, una seconda manifestazione dopo quella dei drusi della settimana scorsa, contro la legge che proclama Israele Stato nazionale del popolo ebraico. Meno seguita della prima, ma comunque con un pubblico intorno alle trentamila persone, questo incontro era organizzato dalle organizzazioni degli arabi israeliani e naturalmente appoggiata dall’estrema sinistra. Il fatto stesso che si sia svolta pacificamente e senza inciampi di sorta dimostra la falsità della tesi fondamentale che vi si sosteneva, quella dell’incipiente o già realizzata fine della democrazia israeliana, della perdita di diritti per gli arabi, dell’apartheid e di tutta la propaganda antisionista che si è diffusa a piene mani in Europa nelle ultime settimane, a proposito di questa legge, legittima e non dissimile da analoghe clausole costituzionali in molti paesi occidentali. E insieme ne dimostra la necessità. Vediamo il perché.

La manifestazione, come dicevo, è stata organizzata dallo Higher Arab Monitoring Committee, un’organizzazione di raccolta degli arabi israeliani e vi hanno aderito tutte le Ong e i partitini di estrema sinistra; gli oratori principali erano il leader arabo Mohammad Barakeh, la professoressa di sociologia alla Hebrew University Eva Illouz, il deputato arabo Ayman Odeh l’editore di Haaretz Amos Schocken: una convergenza fra estrema sinistra intellettuale ebraica e dirigenti politici arabi che non è certo nuova. Quel che è una novità e che ha colpito molto i commentatori è stato il fiorire di bandiere palestinesi fra il pubblico e lo slogan più importante scandito durante la manifestazione: “Con lo spirito e il sangue ti liberermo o Palestina”.

Mentre da Gaza avevano appena smesso di lanciare razzi, palloni incendiari e bombe molotov sul territorio israeliano, a distanza di una settimana dall’ultimo sanguinoso attentato palestinista, arabi israeliani e estrema sinistra si ritrovavano a negare l’identità ebraica di Israele in favore non si capisce bene se di due stati o di uno stato binazionale, ma certamente della “liberazione della Palestina”. Quella stessa bandiera che durante gli scontri a Gaza è stata spesso esposta insieme alla svastica, veniva esposta nel “tempio della democrazia israeliana” come segno del progetto politico alternativo all’idea fondamentale del sionismo, cioè lo stato nazionale del popolo ebraico.

Difficile meravigliarsi che un progetto del genere sia adottato dagli arabi israeliani, perché fa parte della politica del doppio binario tradizionale per i palestinisti: Arafat parlava in inglese di pace e in arabo esaltava il terrorismo; Abbas rimprovera Trump per aver distrutto le prospettive di un accordo e finanzia i terroristi; gli arabi israeliani usano i loro privilegi di deputati alla Knesset, con tanto di immunità parlamentare e di supporto logistico e finanziario per andare in giro per il mondo a denunciare l’oppressione sionista, se non a contrabbandare materiali proibiti nelle prigioni e a partecipare alle flottiglie per Gaza; i propagandisti palestinisti vogliono uno stato binazionale e senza identità nei territori dello stato di Israele e allo stesso tempo rivendicano uno stato nazionale loro sullo stesso territorio, assicurando senza alcuna vergogna di volerlo judenrein, cioè senza nessuna presenza ebraica collettiva e neppure individuale.

Più preoccupante è che le bandiere e gli slogan palestinisti non rappresentino una linea rossa per la sinistra israeliana, da tempo totalmente isolata dal paese e priva di solidarietà col popolo ebraico, ma ormai così accecata dall’ideologia e dall’odio viscerale per Netanyahu da non pensare neppure al pericolo evidente e concreto che il progetto palestinista rappresenta per la sopravvivenza fisica loro e delle loro famiglie. La rinuncia al sionismo è ormai compiuta. Gli elettori israeliani l’hanno capito e li hanno da tempo condannati all’insignificanza politica. Speriamo che anche le comunità della diaspora capiscano il senso di queste posizioni, spesso sopravvalutate perché si ammantano di prestigio intellettuale e “morale”.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » ven ott 19, 2018 10:48 pm

“Knesset, fuori i parlamentari arabi che cospirano all’Onu contro lo Stato di Israele
27 agosto 2018
di Yossy Raav

http://www.italiaisraeletoday.it/knesse ... di-israele

Anat Berko membro del Comitato per gli affari esteri e la difesa della Knesset, ha risposto con determinazione e forza all’appello di un certo numero di parlamentari arabi ‘alle Nazioni Unite per promuovere una risoluzione che condanna la legge sulla nazionalità e lo stato di Israele.

“Ho seguito a lungo la condotta di alcuni deputati della lista comune, e con mio grande sgomento vedo che tutti sono d’accordo con il Brit Le’umit Demokratit (Balad). E, allora, penso che sia giunto il momento di togliersi i guanti quando si tratta di membri della lista comune e dire che ne abbiamo abbastanza”.

Secondo Berko, “nessun paese sovrano che abbia il rispetto di sé sarebbe disposto a far agire i suoi parlamentari contro se stesso nelle istituzioni internazionali. Ma non è tutto. È giunto il momento di denunciare loro legame con il movimento Bds, alimentando una propaganda d’odio contro lo Stato di Israele. Si uniscono ad Abu Mazen e ad Abu Mazen: tutto questo è impensabile e insopportabile.” Ma non è tutto c’è dell’altro “Il consigliere di Arafat, Ahmed Tibi, è il vice presidente della Knesset: è giunto il momento che lasci il posto. Se ne vada all’Onu a lavorare contro lo Stato di Israele…”
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » ven ott 19, 2018 10:48 pm

Giulio Meotti
19 ottobre 2018

https://www.facebook.com/giulio.meotti/ ... 9554921063

La famosa apartheid di Israele. Un bambino palestinese ha appena ricevuto il cuore di un bambino ebreo israeliano. Il trapianto è avvenuto allo Sheba Medical Center di Tel HaShomer. Il bambino donatore, di un anno, era appena deceduto per una malattia incurabile e i genitori avevano acconsentito alla donazione. Poche ore dopo è arrivata la richiesta da un ospedale di Ramallah. Allo stesso ospedale di Tel Aviv un bambino iraniano è stato operato per un tumore al cervello tramite la mediazione turca. C’è soltanto un paese al mondo che salva la vita dei bambini di un altro popolo i cui capi - come il leader di Hamas Sinjar - vogliono “mangiare i fegati degli israeliani” e tirano missili sui bambini israeliani, e i bambini di chi - come i leader iraniani - minacciano di uccidere i bambini di Tel Aviv. E quel paese è Israele. Chi ha ancora un po’ di decenza e di orgoglio dovrebbe inchinarsi di fronte alla nobiltá di Israele, il cui nome è sommerso dall’olezzo delle nostre menzogne.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » lun dic 03, 2018 2:06 am

Israele. Netanyahu contro gli ebrei etiopi, accolti solo in 1.000

https://www.notiziegeopolitiche.net/isr ... o-in-1-000

È stata una sorpresa amara per gli ebrei etiopi la decisione del governo israeliano di mettere un tetto al numero di coloro che possono lasciare il paese africano per essere accolti in Israele; una scelta che smentisce l’impegno preso nel 2015 di dare a tutti la possibilità di stabilirsi nello stato ebraico.
Mentre gli ebrei Falascia residenti in Etiopia sono 8.000, Tel-Aviv ha deciso di limitare questi permessi a 1.000, portando migliaia di loro a scendere nelle strade di Addis Abeba al fine di protestare contro il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e la sua decisione, che rischia di dividere intere famiglie, nelle quali spesso alcuni membri sono già partiti mentre altri sono ancora in Africa.
Per questo motivo Neggousa Zemene Alemu, coordinatore della comunità ebraica per Addis Abeba e Gondar, tramite una dichiarazione ripresa dall’agenzia Associated Press ha invitato tutti gli ebrei Falascia a non dare il loro voto al Likud, il partito che sostiene il governo che ha preso questa decisione che causerà loro problemi e sofferenze.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » lun dic 03, 2018 2:07 am

Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 02/12/2018, a pag.24, con il titolo "Il dilemma di Israele: Stato ebraico o Stato degli ebrei?" l'analisi di Paolo Sorbi, preceduta da un nostro commento.
Informazione Corretta

http://www.informazionecorretta.com/mai ... 0&id=72902

Non siamo al livello di Camille Eid, ma poco ci manca. Fin dall'inizio, dove Paolo Sorbi dichiara suo 'punto di riferimento' Dan Segre, il quale si rivolterà nella tomba. Una cosa è discutere su temi concernenti l'assetto istituzionalie di un paese, altro è avanzare tesi che nulla hanno a che vedere con la reale democrazia di Israele. Se il governo ha votato una legge che riafferma l'ebraicità dello Stato, non ci vuole una particolare intelligenza per coglierne il motivo. In un mondo che sempre più la nega attraverso iniziative delle quali il BDS è soltanto l'ultima, ricordare attraverso una legge le caratteristiche democratiche di Israele 'Stato ebraico' è non solo utile ma doveroso.
Operazione che Sorbi cita, inframmezzandola però con affermazioni che mettono in dubbio la natura democratica del paese. Pur non essendo al livello delle veline palestiniste, anche questa operazione mira a presentare Israele come una società dove vige l'apartheid. Il vecchio antigiudaimo che non muore mai, si è soltato dato una ripulita nel tentativo di rendersi presentabile.

Ecco l'articolo:

Fu Dan V. Segre, già docente a Stanford, grande studioso dei temi mediorientali, giornalista e diplomatico per lo stato d'Israele negli anni Cinquanta, mio punto di riferimento sui temi del futuro ebraico, a preannunciarmi qualche mese prima della sua morte, avvenuta nel settembre 2014, che saremmo arrivati presto ad una sorta di showdown sul futuro istituzionale di Israele. Stato ebraico o stato degli ebrei? Questo, in sintesi, il nocciolo dello scontro giuridico, politico e culturale che si sarebbe giocato da parte della destra sionista al governo - culturalmente erede del fondatore del revisionismo nazionalpopulista di Zeev Jabotinski - contro l'opposizione del sionismo nazionalprogressista erede del "padre della Patria", il laburista David Ben-Gurion.
Di tutto ciò, delle implicazioni geostrategiche, narra il numero di quest'ultimo settembre della rivista limes "Israele. Lo stato degli ebrei". A mio parere, in modo eccessivamente scientistico. Infatti, nel volume in questione, si scava poco sulle radici bibliche e sociologiche che ancora oggi differenziano, eccome, le molteplici culture ebraiche. Di questo, dei limiti dell'esperimento sionista, al contempo di appassionata stima ed affetto per quella stessa storia, è recentemente uscito un mirabile volumetto postumo dell'importante studioso domenicano padre Marcel Dubois a dieci anni dalla sua scomparsa. Pubblicato dalle edizioni Terra Santa: Israele. La spiritualità del giudaismo.
Ma torniamo alla questione della nuova legge sullo stato ebraico e non più stato degli ebrei. Il 19 luglio di quest'anno il parlamento israeliano ha votato una legge fondamentale "sullo stato nazionale del popolo ebraico". Diciamo subito che questo atto giuridico-politico definisce elementi che sono già presenti nella Dichiarazione di indipendenza proclamata il 14 maggio 1948. Si potrebbe dire: tanto rumore per nulla? Non è così. Cosa dice di tanto "estremistico" questa legge? 1) definisce lo stato di Israele come il luogo peculiare, nella storia dell'umanità, per l'esistenza del popolo ebraico, 2) Gerusalemme capitale indivisibile del popolo ebraico, 3) l'ebraico lingua ufficiale dello stato, subordinando al secondo livello la lingua araba e altre questioni, ripeto, già ampiamente presenti nella Dichiarazione di indipendenza. Certamente, nella legge approvata a luglio, vi sono forti ambiguità che esigono vigilanza.
Fa problema non tanto ciò che viene detto, ma quanto non si dice più. Manca, in questa nuova legge fondamentale nazionale, il raccordo con l'uguaglianza di tutti i cittadini e col carattere democratico dell'esperimento sionista. Le due fontane da dove lo stato di Israele trae la propria legittimità. Diritto di voto, diritti individuali civili, diritti religiosi e linguistici, diritti sociali, il tutto in nome dei principi di uguaglianza tra cittadini dello stato, che ha capitale Gerusalemme e che, come minoranze, sono anche arabo-israeliani, cristiani-israeliani, drusi-israeliani e altri gruppi sociali. Questa nuova legge "sullo Stato ebraico" si preoccupa del solo carattere ebraico dello stato di Israele, tacendo su tutto il resto.
Non è un vero terremoto, come abbiamo già detto, ma poco ci manca. La tensione giuridico-istituzionale tra uguaglianza e carattere nazionale ebraico, dal 1948, è stata produttrice di feconde dinamiche di integrazione sociale di molte minoranze, senza mai destabilizzare l'identità ebraica di fondo dello stato di Israele. Perché il governo di centro-destra ha rotto questo equilibrio? Da una parte è sottesa la paura di un futuro a medio termine demograficamente sfavorevole alla realtà ebraica, dall'altra ci si inserisce in una dinamica sovranista internazionale che mette in discussione la distribuzione dei poteri, il loro bilanciamento e pone controlli sulla cosiddetta "vittoria della maggioranza elettorale". Sbandierata come unica caratteristica della democrazia politica, il che è un semplicismo fortemente riduttivo rispetto all'articolazione liberale delle istituzioni giuridico-politiche che vivono nel bilanciamento di molti luoghi del potere. Il centro di queste preoccupazioni è trattato, nel volume di Limes, dalla bella intervista di David Assael al professor Sergio Della Pergola. Esperto demografo e trai più stimati studiosi dell'establishment accademico. Per Della Pergola è alta la preoccupazione di rottura del delicato equilibrio fra democrazia e carattere ebraico dello stato di Israele. In alcuni recenti studi mette in luce il divario che si sta creando fra giovani ebrei israeliani e americani con una crescita di un sentimento ultranazionalista nei primi e una crescita disaffettiva nei secondi, aumentando la polarizzazione fra Israele e larga parte della diaspora ebraica, sia in America che in Europa. Per Della Pergola certamente la nuova legge nazionale fondamentale non aiuta il superamento di queste polemiche, anzi le accentua. Altra osservazione critica è la questione della "santa separatezza" della nazione ebraica. Così come viene definita nel decisivo libro biblico dei Numeri, ove viene descritto il popolo ebraico nel suo stile di vita collettivo. Voluto da Dio "che dimori in disparte", "regno di sacerdoti e nazione santa". Commenta padre Dubois nel suo ultimo volumetto: «Se ciò è di ogni elezione, si può capire le conseguenze di una tale legge nel caso particolare del popolo eletto. Suo testimone in mezzo alle nazioni. La sua psicologia particolare porterà inevitabilmente il segno di questa vocazione all'assoluto». Spiritualità dell'ebraismo come sintesi organica di religione, terra e nazione. Cosa volevano, allora, i sionisti, nel 1948, nel distinguere, anzi separare, la nazione da religione per creare un "nuovo ebreo"? Figli della modernità e del movimento operaio europeo, i seguaci di Theodor Herzl e, più avanzato socialmente, di Achad Ha'Am percorsero il loro cammino sino alla fondazione dello "stato degli ebrei", così sosteneva anche Dan Segre, sognando una nuova laicità e un'autoemancipazione nazionale dai 'vecchi armamentari', così i sionisti progressisti, sostenevano dell'ortodossia religiosa che pur rispettavano.
Ecco è verso questa difficile comprensione della spiritualità giudaica e delle opzioni laiche sioniste, che sarebbe necessario scavare di più per cogliere l'estrema attualità delle contraddizioni che scuotono profondamente l'esperimento sionista. limo ciò è descritto, da parte di padre Dubois, nella sua recente pubblicazione. Innanzitutto viene focalizzata la condizione sociologica di un popolo, che nei millenni, è testimone dell'unicità della Parola rivelata. Condizione 'misteriosa' le cui opzioni comportano, nei tornanti della storia, decisioni anche tragiche per mantenere esplicita testimonianza di questa unicità di fede. Un popolo la cui esistenza è stata segnata dall'esilio tra le nazioni europee, in ebraico galuth, inteso come espiazione e sofferenza. Anche, però, galuth come attesa e ritorno nella terra dei Padri. Chi è dunque Israele? Chi è dunque ebreo oggi? In definitiva tutta la storia nazionale ebraica risponde laicamente alla fedeltà verso quella Voce che sollecitò Abramo ad incamminarsi incontro a quella terra da sempre promessa.



???

"Da ebrea e democratica mi batto contro una misura ingiusta e pericolosa". Intervista a Tzipi Livni sulla legge su Israele "Stato-nazione ebraica"
U. De Giovannangeli
2018/08/11

https://www.huffingtonpost.it/2018/08/1 ... sZmyNk22cU

Non ha dubbi: "Le prossime elezioni saranno un referendum sulla Dichiarazione d'Indipendenza, sui valori, i principi, che furono a fondamento della nascita dello Stato d'Israele. Una visione che la legge su Israele 'Stato-nazione ebraica' stravolge, e non perché riafferma l'identità ebraica come perno della nostra identità nazionale, ma perché fa di questa riaffermazione elemento di discrimine, di esclusione, l'esatto contrario di ciò che la Dichiarazione d'Indipendenza ha sancito. Settant'anni dopo, quella Dichiarazione resta per tanti noi il pilastro su cui si regge ciò di cui, giustamente, andiamo orgogliosi: il nostro essere Stato democratico".
A sostenerlo, in questa intervista concessa all'HuffPost, è una delle figure più rappresentative della politica israeliana: Tzipi Livni.

È la sua biografia pubblica a dar conto di ciò che ha rappresentato e continua a rappresentare nella politica d'Israele. Da poco sessantenne, Tziporah (in ebraico significa usignolo) "Tzipi" Livni nasce da una famiglia di eminenti sionisti di destra (suo padre fu ufficiale dell'Irgun, e poi parlamentare della Knesset per il partito di destra Herut). La giovane Livni, già brillante agente del Mossad, iniziò la sua militanza nel Likud, e, ironia della sorte, ebbe in Benjamin Netanyahu uno dei suoi primi mentori. La sua carriera di governo è fulminea e sempre sotto l'ala protettrice di Netanyahu. Quando "Bibi" assume per la prima volta l'incarico di premier, dal 1996 al 1999, vuole Livni a capo del programma di privatizzazione. Il sodalizio va avanti fino all'anno fatale: il 2005. L'estate di quell'anno fu caldissima, per certi versi drammatica, per Israele. L'allora primo ministro, Ariel Sharon, ordina l'evacuazione da Gaza e lo smantellamento di undici insediamenti ebraici nella Striscia. La destra oltranzista e l'ala dura del movimento dei coloni insorgono. Mai come in quelle settimane, che chi scrive visse sul fronte, Israele sembrava a un passo dalla guerra civile.

Il Likud si spacca: Netanyahu accusa Sharon di una scelta irresponsabile, che mettere a repentaglio la sicurezza stessa d'Israele. Tzipi Livni non ha dubbi: si schiera con Sharon, e con lei il futuro premier Ehud Olmert. Assieme, fondano il partito di centro Kadima che, anche sull'onda dell'emozione per l'ictus che colpisce Sharon, e dal quale "Arik" non si riprenderà più, diviene il primo partito alle elezioni legislative. Ma le fortune di Kadima durano poco. Senza Sharon, la giovane forza politica si frantuma, e allora Livni dà vita, nel 2012, ad una nuova forza politica, Ha'Tnuah (Il Movimento) che ha tra i suoi punti qualificanti la ricerca di una "pace nella sicurezza", che assume a sfondamento la formula "due popoli, due Stati". Tra gli incarichi di governo che ha ricoperto, quelli di ministra degli Esteri, ministra dell'Edilizia, ministra per gli immigrati e, per due volte, ministra della Giustizia. È stata ad un passo dal diventare la seconda donna primo ministro nella storia d'Israele, dopo Golda Meir. Nelle elezioni del 2015, Livni ha dato vita con il partito Laburista all'Alleanza Sionista. Dopo che Herzog, sconfitto alle primarie del Labour da Avi Gabbay, che non è parlamentare, Livni è diventata la leader dell'opposizione alla Knesset. È stata lei a motivare le ragioni del "no" alla legge sullo Stato-nazione ebraica, ed è stata lei a prendere la parola alla grande manifestazione (quasi 100mila) organizzata in Piazza Rabin a Tel Aviv dai Drusi israeliani. Dal palco, Tzipi Livni ha fatto una solenne promessa. Che ribadisce nell'intervista ad HuffPost: una volta tornata al governo opererà affinché quella legge "ingiusta, pericolosa, discriminatoria sia subito sostituita, proclamando al suo posto come legge fondamentale la "Dichiarazione di indipendenza" di Israele che garantisce piena eguaglianza a tutte le minoranze etniche.

Un appello di centinaia di intellettuali, la protesta della comunità degli arabi israeliani (quasi il 20% della popolazione), e ora anche quella dei Drusi. Tutti contro la legge sullo "Stato nazione ebraica", approvata a maggioranza dalla Knesset. Cosa c'è che non va in questa legge, visto che Israele nasce come focolaio nazionale ebraico?

Nasce dalla convinzione che così come è stata pensata, formulata, imposta, questa legge rischia seriamente di minare il carattere democratico d'Israele. Vede, recentemente mi sono fatta promotrice di una riunione a cui hanno partecipato i rappresentanti di oltre 40 organizzazioni della società civile attive su una gamma molto vasta di campi. Di solito, queste organizzazioni non si trovano d'accordo su tante cose. Stavolta, però, l'unità è stata totale. Perché quando si tratta di difendere la natura dello Stato d'Israele, presidiare i suoi valori fondanti, le divergenze vengono messe da parte e al centro si mette ciò che unisce. Il bene più prezioso: la nostra identità democratica. Una identità, non mi stanco mai di sottolinearlo, che non è in contrasto con l'affermazione dell'ebraicità d' Israele. La gravissima forzatura imposta dalle destre è quella di aver contrapposto questi due elementi, assolutizzando il secondo rispetto al primo. Così facendo non solo si mette a rischio la coesione nazionale ma si infligge una ferita mortale a quello che era e deve restare la Carta fondativa d'Israele: la Dichiarazione d'Indipendenza. In quella Dichiarazione, la natura democratica dello Stato d'Israele si fonda con l'affermazione d'Israele come focolaio ebraico. Quella dei padri fondatori dello Stato, il principio dell'inclusione, dell'apertura verso l'altro da sé, era un carattere precipuo dell'ebraismo e non qualcosa che avrebbe dovuto discriminare altri cittadini. Coloro che hanno usato l'essere Ebrei come arma di divisione hanno svilito l'essenza stessa dell'ebraismo, e di questo ne sono state consapevoli tante comunità della Diaspora che hanno apertamente criticato questa forzatura.

In effetti, l'approvazione di questa legge ha segnato un punto di crisi molto profondo nelle relazioni tra Israele e la Diaspora: gli ebrei progressisti, riformatori, che rappresentano la stragrande maggioranza al di fuori di Israele, sono sempre più preoccupati per la direzione che il Paese sta prendendo, sia sul piano religioso che su quello politico.

Condivido e faccio mie queste preoccupazioni, espresse con generosità da tanti che hanno sempre dimostrato con i fatti di essere dalla parte d'Israele. Essere lo Stato-nazione del popolo ebraico dovrebbe significare rappresentare anche gli ebrei del mondo. So che molti ebrei che vivono all'estero oggi - in particolare i giovani - si sentono molto alienati dallo Stato di Israele a causa di determinate tendenze che si sono determinate. Quello che sto cercando di fare è di invertire queste tendenze. In questo modo, credo di servire anche loro.

In una intervista concessa ad HuffPost, il grande storico israeliano, Zeev Sternhell, ha definito questa legge come la tomba del sionismo. È anche Lei di questo avviso?

Della considerazione del professor Sterhnell colgo il grido d'allarme, una preoccupazione sincera, ma non le conclusioni a cui giunge. In ogni incarico che ho svolto, ho sempre cercato di rappresentare il sionismo come ritengo sia rappresentato nella Dichiarazione di indipendenza. Per me Israele è lo stato-nazione del popolo ebraico, ma deve esserci l'uguaglianza per tutti i cittadini...

Non è questa la posizione dei rappresentanti della comunità degli arabi israeliani.

Lo so bene e ho ascoltato con grande attenzione gli interventi e le dichiarazioni critiche dei leader della comunità o della maggioranza di essa. Li rispetto ma non li condivido. Non so quantizzare il fenomeno, ma so di certo che arabi in Israele, così come alcuni dei loro rappresentanti in parlamento, non sono disposti ad accettare Israele come stato-nazione del popolo ebraico. Come leader dell'opposizione, continuerò a lottare per i loro diritti di vivere come cittadini con uguali diritti, ma non posso identificarmi con la loro richiesta di soddisfare le loro aspirazioni nazionali come palestinesi in Israele.

Da leader di opposizione, ritiene emendabile questa legge?

Direi proprio di no. Perché ciò che non va è l'impianto d'insieme, è la logica che la sottende. Il mio impegno è altro: se torneremo al governo, il primo atto sarà quello di sostituire questa legge ingiusta e discriminatoria, con la Dichiarazione d'indipendenza: sarà questa la nostra legge fondamentale.

Nel corso della sua lunga esperienza di governo, Lei ha guidato anche una delegazione israeliana ai negoziati con l'Autorità nazionale palestinese del presidente Abu Mazen. Crede ancora ad una pace fondata sulla soluzione a "due Stati"?

Resto convinta che 'due Stati per due popoli' sia nell'interesse d'Israele. Un investimento sul futuro. E così dovrebbe essere anche per i Palestinesi, i quali dovrebbero imparare la lezione della Storia, anche di quella israeliana. Ben Gurion fu un grande statista, il padre della patria, perché comprese che certe rinunce, anche dolorose, erano il prezzo da pagare per realizzare il sogno di uno Stato ebraico. Spero che un leader palestinese abbia lo stesso coraggio e la stessa lungimiranza.


Ebrei di sinistra, sinistre mostruosità umane assai razziste
viewtopic.php?f=197&t=2802


Alberto Pento

Credo che questi "democratici sinistri e centristi" siano o coscienti e irresponsabili/criminali manipolatori o non abbiano piena coscienza del fatto che la democrazia in un qualsiasi paese/stato del mondo, affinché possa sensatamente esistere garantendo a tutti gli stessi diritti politici, deve avere una base di valori fondanti e inalienabili condivisa da tutti i suoi cittadini, le sue comunità e le sue etnie, cosa che manca assolutamente in Israele alla sua componente maomettana che per ideologia e fede politico-religiosa esclude in modo tassativo la diversità religiosa e di pensiero e il rispetto altrettanto assoluto per queste diversità, come ben si può riscontrare in ogni paese a prevalenza maomettana.
Questa base è costituita dal nucleo dei valori, dei doveri e dei diritti umani naturali, universali e civili che i maomettani "tutti" non riconoscono minimamente;
questa base condivisa dovrebbe inoltre contenere una tendenza naturale alla fusione etnico-culturale e non precluderla e ostacolarla creando o alimentando ghetti e contrapposizioni etniche e religiose.
La manipolazione ideologico-politica o la mancanza di questa coscienza rende questi "democratici sinistri e centristi" estremamente pericolosi al pari se non più dei nemici antisemiti degli ebrei e antisionisti di Israele.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » ven feb 01, 2019 3:32 pm

"CIÒ CHE DOBBIAMO A ISRAELE VA BEN OLTRE CIÒ CHE POTREMO MAI RIPAGARE"
(Da: Times of Israel, 26.1.19)

https://www.facebook.com/alessio.tramat ... 7219650019

Articolo di Fred Maroun, arabo-canadese che visse in Libano fino al 1984, durante i 10 anni di guerra civile. Sostenitore del diritto di Israele di esistere come stato ebraico e di un Medio Oriente liberale e democratico in cui tutte le religioni e nazionalità, compresi i palestinesi, possano coesistere in pace tra loro.

Noi arabi abbiamo combattuto Israele per oltre 70 anni con due obiettivi apertamente dichiarati: distruggere Israele con la forza oppure distruggere Israele trasformandolo in uno stato arabo attraverso una “soluzione” che vedrebbe i cosiddetti profughi palestinesi invadere lo stato ebraico.

Varie coalizioni di eserciti arabi hanno tentato il primo metodo nel 1948, nel 1967 e nel 1973, e varie entità terroristiche arabe credono ancora di poter conseguire l’obiettivo in quel modo. Il secondo approccio è diventata la politica ufficiale di Fatah (sebbene non esplicitata in quanto tale ai mass-media occidentali) dal momento che ha deciso di sostenere d’aver accettato l’esistenza di Israele ma non come stato ebraico.

Se avessimo distrutto Israele, saremmo passati alla storia come i responsabili di un secondo genocidio del popolo ebraico non molto tempo dopo la Shoà. Resistendo e sconfiggendo le coalizioni di eserciti arabi che tentavano di distruggerlo, Israele ci ha evitato di diventare i secondi nazisti della storia.

Se fossimo riusciti a trasformare Israele in uno stato arabo, ci saremmo trovati con un ennesimo stato arabo fallimentare dove la democrazia è fittizia e dove sono invece reali la tortura, la museruola alla stampa e gli omicidi politici. Nella migliore delle ipotesi, la versione araba di Israele sarebbe stata un secondo Libano, un paese che scivola verso la teocrazia islamica con relativa restrizione delle libertà ed economia agonizzante.

Invece di tutto questo, gli arabi israeliani vivono in un paese di prim’ordine, con ampie opportunità economiche e libertà democratiche. Anche i palestinesi che vivono in Giudea e Samaria (Cisgiordania) e nella striscia di Gaza avrebbero potuto assicurarsi questi vantaggi se avessero optato per la pace e non per la guerra.

Israele ci ha salvati da noi stessi e continua a farlo anche oggi, porgendoci ripetutamente il ramo d’ulivo, mentre noi facciamo ripetutamente di tutto per respingerlo. Israele riconosce ai suoi cittadini arabi eguali diritti, anche se il mondo arabo ha brutalmente espulso praticamente tutti i suoi ebrei. Israele accoglie i visitatori dai paesi arabi, sebbene gli israeliani siano banditi dalla quasi totalità del mondo arabo e gli israeliani siano spesso male accolti anche nei pochi paesi che hanno firmato un trattato di pace con Israele. Israele si sforza scrupolosamente di non causare vittime civili quando si difende dai terroristi, sebbene i terroristi arabi non facciano mistero di mirare apertamente ai civili israeliani. Israele ha assistito i siriani feriti nella guerra civile siriana, sebbene la Siria sia ancora in stato di guerra contro Israele e continui a minacciarlo.

Se gli ebrei si fossero comportati come noi arabi, oggi non ci sarebbe un solo arabo in Israele, e nemmeno nei territori di Giudea, Samaria e Gaza. Non ci sarebbe nessuna pretesa che esista una “Palestina”.

Mentre trattavamo gli ebrei come se fossero meno di niente, loro hanno risposto trattandoci come esseri umani, e nel farlo ci hanno dato dignità. Hanno risposto alla nostra negazione della loro umanità riconoscendo la nostra comune umanità. Ma sta a noi decidere se vogliamo vedere quella umanità condivisa o se preferiamo continuare a odiare gli ebrei. Gli israeliani possono trattarci in quanto appartenenti ad un’unica umanità condivisa, ma non possono obbligare noi a comportarci di conseguenza.

Ciò che dobbiamo a Israele va ben oltre ciò che potremmo mai ripagare. Ma potremmo provarci, iniziando almeno a riconoscere la nostra comune umanità.

https://www.israele.net/quello-che-noi- ... JtsRhwJeKs
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » lun mar 11, 2019 9:46 pm

Rivlin: “Ebrei o arabi, in Israele i cittadini sono tutti uguali"
11 marzo 2019 - 4 אדר ב' 5779
moked/מוקד il portale dell'ebraismo italiano

http://moked.it/blog/2019/03/11/rivlin- ... tti-uguali

“Mi sono rifiutato e mi rifiuto di credere che ci siano partiti politici che hanno abdicato al carattere di Israele come Stato ebraico e democratico, democratico ed ebraico”. Israele “riconosce la totale uguaglianza di diritti per tutti i suoi cittadini”. A ribadirlo, il Presidente d’Israele Reuven Rivlin, che, ospite dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ha voluto mandare un messaggio chiaro ai politici nazionali: “non ci sono, e non ci saranno mai, cittadini di prima classe, come non ci sono elettori di seconda classe. Siamo tutti uguali nella cabina elettorale. Ebrei e arabi, cittadini dello Stato di Israele. I centoventi membri della Knesset non possono cambiare il suo carattere di Stato ebraico e non saranno in grado di cambiare il suo carattere democratico”. Rivlin ha apertamente criticato “le osservazioni del tutto inaccettabili sui cittadini arabi di Israele” fatte da alcuni politici durante l’attuale campagna elettorale. Il presidente non ha fatto nomi ma il suo commento è arrivato dopo la polemica tra il Primo ministro Benjamin Netanyahu e la modella e presentatrice televisiva Rotem Sela.

Sui social network Sela ha criticato il ministro della cultura Miri Regev (Likud) per aver affermato che il partito Blu e Bianco di Benny Gantz e Yair Lapid vuole stabilire un governo con l’aiuto dei partiti arabi. “Qual è il problema con gli arabi?? – ha scritto Sela sul suo account Instagram – Santo cielo, ci sono anche cittadini arabi in questo paese. Quando diavolo qualcuno in questo governo dirà all’opinione pubblica che Israele è uno stato di tutti i suoi cittadini e che tutte le persone sono state create uguali, e che anche gli arabi e i drusi e gli LGBT e – shoccante – le persone di sinistra sono umani”. A questo commento ha un po’ inaspettatamente risposto il Primo ministro Netanyahu, prima sui social e poi in apertura della riunione di gabinetto di inizio settimana. “Vorrei chiarire un punto che, a quanto pare, non è chiaro a persone leggermente confuse nell’opinione pubblica israeliana. Israele è uno Stato ebraico e democratico. Questo significa che si tratta dello Stato nazionale del solo popolo ebraico”, ha dichiarato. “Naturalmente rispetta i diritti individuali di tutti i suoi cittadini – ebrei e non ebrei. Ma è lo Stato nazionale, non di tutti i suoi cittadini, ma solo del popolo ebraico”.

A questa affermazione sembra aver risposto Rivlin che ha voluto ribadire sui social network la propria posizione scrivendo anche in arabo il concetto che cittadini arabi ed ebrei in Israele sono uguali. Il presidente – la cui moglie Nechama ha subito nelle scorse ore un trapianto polmonare – ha poi parlato dello stato attuale delle relazioni tra Gerusalemme e il Cairo, tema della conferenza all’Università ebraica. L’evento era infatti dedicato ai 40 anni dalla firma del trattato di pace siglato tra Israele e Egitto, firmato da Menachem Begin e Anwar al-Sadat. “La pace con l’Egitto deve ancora maturare in una realtà di frontiere aperte e di vita comune tra i due popoli – ha affermato Rivlin – ma ha anche permesso a tutti noi – israeliani, egiziani e poi giordani – di concentrarci sulle iniziative regionali di cooperazione finanziaria e sulle iniziative energetiche, idriche e turistiche che oltrepassano le frontiere”.
Tornando alla polemica Sela-Netanyahu, i quotidiani israeliani riportano anche la presa di posizione di un’altra star dello schermo, Gal Gadot. “Non si tratta di destra o sinistra, ebreo o arabo, laico o religioso. – ha scritto l’attrice – È una questione di dialogo, di discussione sulla pace e uguaglianza e sulla nostra tolleranza reciproca. La responsabilità di seminare speranza e luce per un futuro migliore per i nostri figli è nostra. Rotem, sorella, tu sei un’ispirazione per tutti noi”.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » gio apr 04, 2019 10:04 am

SCAMPOLO SUL FUTURO
Niram Ferretti
3 aprile 2019

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

Mentre in Israele gli ultimi sondaggi danno in testa il Likud sul partito Bianco e Blu, e la sinistra è ormai ridotta a testimonianza zombica di un passato che fu ma non è più, immaginiamoci già i titoli dei giornali e il furore dell'accanimento anti-israeliano, se Netanyahu dovesse vincere un'altra volta.

Si dirà che il paese è precipitato in un cupio dissolvi ultranazionalista e che oramai la cappa di una teocrazia militare fascistissima è calata su Israele, spegnendo ogni luce e ogni speranza. Si dirà che gli israeliani, intruciditi, hanno preferito a un uomo probo, militare di carriera, senza scheltri nell'armadio, un politico corrotto e privo di scrupoli. Gideon Levy si straccerà le vesti come Caifa e annuncerà l'avvento delle tenebre definitive. Si dirà questo e altro.

Se invece dovesse prevalere Gantz, allora avrà prevalso l'intelligenza sopra l'istinto animalesco, la speranza sopra la paura, l'onestà sopra il malaffare, il bene sopra il male. Finalmente si dimenticherà il fosco regno del cavaliere nero, e si inaugurerà una nuova era, un po' come accadde negli Stati Uniti quando dopo otto terribili anni di teocon e di Bush Jr, arrivò il Messia afroamericano e la Casa Bianca si trasformò nel Mulino Bianco.



RECEP TAYYIP NETANYAHU
Niram Ferretti
3 aprile 2019

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

In una intervista concessa al "The Times of Israel", Benny Gantz, assicura che non desidera alcun male per Netanyahu, che non vuole che finisca in prigione, e c'è da credergli, Gantz è un uomo d'onore. Però assicura che Netanyahu è un pericolo per la democrazia. Dove l'abbiamo già sentito suonare questo allarme? E' familiare. Sì, lo abbiamo già sentito suonare negli Stati Uniti a proposito di Trump, e in Italia all'epoca di Berlusconi e ora di Salvini. Anche loro erano (nel caso di Berlusconi) e sono, (in quello di Trump e Salvini) un pericolo per la democrazia.

Gantz ci informa, sempre nella stessa intervista, che Netanyahu potrebbe diventare come Erdogan, sì Erdogan. Israele si sta avviando al sistema turco.

Occorre citarlo.

"Cosa ha fatto Erdogan? Si è assicurato che non si possa indagare su di lui, che non si possa processarlo, nè lui nè la sua famiglia. Avremo la versione israeliana del sistema turco. Non sarà la stessa cosa, ma qualcosa di simile. Questo è ciò che accadrà qui".

Tempo fa il parolaio rosso Ehud Barak, durante un comizio, affermò che Netanyahu è come Ceausescu.

Gantz preferisce Erdogan. Se Netanyahu dovesse essere rieletto, dopo tredici anni che, a fasi alterne, è al potere, trasformerà Israele in un paese molto vicino alla Turchia.

Non è riuscito a farlo fino ad ora, e con un governo che aveva i numeri per farlo, trasformare Israele in una specie di dittatura turca, ma lo farà se dovesse essere riletto. Strano. Non una legge, non una per riformare la giustizia, che in Israele abbisogna di una profonda riforma strutturale, limitando lo strapotere dell'Alta Corte, è stata varata in questi anni dal governo di Recep Tayyip Netanyahu. C'è stata solo Ayelet Shaked che ha proposto nel programma del suo partito una riforma che va in questa direzione. Anche lei, naturalmente, è un pericolo per la democrazia, ma lo è più di tutti Netanyahu.

Gantz è molto preoccupato.

Certo, questo dittatore futuro, non è stato molto abile in tutti questi anni. Si è fatto regalare sigari e champagne millesimiato, avrebbe chiesto una copertura a lui più favorevole da parte della stampa avversa, ma non ha pensato a fare quello che fanno i veri dittatori o quanti aspirano ad esserlo, intralciare la democrazia con leggi speciali, pro domo sua, già nel 2015 quando venne rieletto, strangolare la stampa avversa per esempio, invece di elemosinare presunti favori, magari, perchè no?, cominciare a fare arrestare qualche oppositore con accuse false. Insomma, va detto, nella parte di Erdogan e Ceausescu, Netanyahu è davvero penosamente inadeguato.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » dom apr 07, 2019 1:53 am

IL TRUMPISMO DI BIBI
Niram Ferretti
6 aprile 2019

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

A pochi giorni dalle elezioni in Israele, Benjamin Netanyahu se ne esce con una dichiarazione trumpiana. Se verrà riletto, Israele annetterà gli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria. Questa la sua promessa elettorale.

“Applicherò la sovranità israeliana, ma non distinguo tra i blocchi degli insediamenti e insediamenti isolati. Dal mio punto di vista, ognuno di questi insediamenti è israeliano. Noi abbiamo una responsabilità nei loro confronti come govermo di Israele. Non ne trasferirò nessuno, e non trasferirò la loro sovranità ai palestinesi. Mi occuperò di tutti".

È improbabile che Netanyahu abbia fatto questa dichiarazione senza il consenso della Casa Bianca, e se l'ha fatta di sua iniziativa, è un forte azzardo soprattutto prima che il tanto annunciato piano di pace americano abbia visto la luce.

La sovranità israeliana sopra l'Area C della Giudea e Samaria, o Cisgiordania, o West Bank, dove vivono 400.000 cittadini ebrei, sanerebbe di fatto una situazione che permane sospesa dal 1967, quando Israele vinse la Guerra dei Sei Giorni, ed entrò in un territorio occupato abusivamente per diciannove anni e poi annesso illegalmente dalla Giordania nel 1951. Un territorio che il Mandato Britannico per la Palestina del 1922 assegnava interamente all'abitabilità ebraica.

Con gli Accordi di Oslo del 1993-1995 e la ripartizione del territorio in tre aree distinte, la A, la B e la C, l'Area C è rimasta fino ad oggi sotto la piena sovraintendenza israeliana.

Va ricordato che la Giudea e la Samaria rappresenta un territorio legalmente privo di un detentore sovrano e che su di esso Israele ha una rivendicazione totalmente legittima. Con gli Accordi di Oslo esso ha già ceduto una parte del territorio ai palestinesi in cambio di una pace che non è mai arrivata. La cosiddetta "occupazione" è di fatto cessata allora con il ritiro delle truppe israeliane da zone cedute all'Autorità Palestinese.

L'estensione della sovranità israeliana sopra l'Area C, rappresenterebbe, come la sovranità israeliana sopra il Golan e il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, l'affermazione del trionfo della realtà sull'ideologia e l'ipocrisia.

Rappresenterebbe, finalmente, dopo 52 anni, il ristabilimento della giustizia, il ritorno a Israele di un territorio che il Mandato Britannico gli aveva assegnato, a seguito di una guerra, quella del 1948, che ve lo aveva estromesso e dopo la sua cattura a seguito di un'altra guerra, quella del 1967, in cui gli eserciti dell'Egitto, della Giordania e della Siria, coadiuvati da altri stati arabi, lo avevano attaccato cercando di distruggerlo.

Nessun diritto internazionale intima a una nazione che ha conquistato un territorio perso da una nazione che l'ha aggredita di restituire questo territorio all'aggressore. Il diritto internazionale, dalla Seconda guerra mondiale a oggi, è unanime nel rigettare la legittimità di terriori conquistati da una nazione che aggredisce, non da una che si difende.

Sta ora a Netanyahu, se verrà riletto, mantenere la parola.



TRUMPETE
6 aprile 2019
Niram Ferretti

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

La dichiarazione di Benjamin Netanyahu, che se dovesse vincere le elezioni annetterà Giudea e Samaria, per inteso l'Area C, di fatto già israeliana dal 1993, è una dichiarazione tutta trumpiana ed è in linea con l'ufficializzazione da parte della Casa Bianca della sovranità israeliana sul Golan.

A tre giorni dalle elezioni in Israele, Netanyahu, con spregiudicata scaltrezza fa una dichiarazione che non può che risultare appetibile alla gran parte dell'elettorato, visto che solo il 34% degli israeliani è a favore di due stati. Finalmente, Netanyahu ha detto quello che avrebbe dovuto dire tempo fa, "Uno Stato palestinese rappresenta per noi una minaccia esistenziale".

Difficile che una mossa così eclatante non abbia il consenso della Casa Bianca, difficile che Netanyahu si muova su una questione così rilevante in modo estemporaneo e senza che non abbia nel presidente americano una sponda a cui appoggiarsi. Se così non fosse si esporrebbe al rischio di una clamorosa sconfessione pubblica da parte USA.

Trump è la carta da giocare. Il presidente americano più risolutamente dalla parte di Israele dal 1948 ad oggi, quello che maggiormente ha inciso sul contesto del conflitto modificando uno scenario che nessuno prima di lui osava toccare da decenni.

Se Benjamin Netanyahu dovesse vincere queste difficilissime elezioni, nessuno si inganni su chi gliele avrà fatte vincere.





Interessante analisi di Giulio Meotti sulle prossime vicende politiche in Israele:
Emanuel Segre Amar
7 aprile 2019

https://www.facebook.com/emanuel.segrea ... 2943159466

I suoi lo chiamano melekh yisrael, il re di Israele. Se martedì, alle elezioni, "Bibi" Netanyahu dovesse rivincere sorpasserebbe il mandato di David Ben Gurion. "Bibi o Benny": Netanyahu o Gantz, l'ex capo di stato maggiore alla testa di una coalizione di generali assieme al giornalista Yair Lapid. "La base di Netanyahu è meno entusiasta", dice al Foglio Nahum Barnea, il commentatore più noto del giornalismo israeliano che scrive su Yedioth Ahronoth. "Ma la cosa singolare è che la sfida oggi è fra la destra di Netanyahu e la destra soft di Gantz". La sinistra è morta. Appena il dodici per cento dell'elettorato si definisce tale. Gantz è il generale che assunse il comando del sud del Libano dopo che il suo predecessore fu ucciso da una bomba, il figlio di sopravvissuti alla Shoah che ha scalato così rapidamente i vertici di Tsahal da essere soprannominato "il principe".
"Anche le persone che odiano Netanyahu, quando chiudono gli occhi, non immaginano nessun altro nel suo ufficio", ha scritto Micha Goodman, autore di "Catch-67". Netanyahu potrebbe sopravvivere alle elezioni, farsi processare al mattino e guidare il paese nel pomeriggio.
Bibi ha lasciato poche cartucce agli avversari. Ha reso Israele più ricco e sicuro; ha usato la forza militare senza essere risucchiato dalle guerre; ha migliorato i rapporti con i vicini ostili e i leader mondiali (Israele ha appena avuto l'avallo americano alla sovranità sul Golan e ha ricevuto il presidente brasiliano Bolsonaro) e alle spalle ha già quattro vittorie elettorali che lo hanno incoronato primo ministro dal 1996 al 1999 e dal 2009 a oggi. Parlando alla Knesset, Netanyahu si è dato una pacca sulla spalla: "Questo decennio è stato un decennio meraviglioso, di crescita, di rafforzamento, di stabilità, di sicurezza, di prosperità". È la colonna sonora della sua campagna elettorale. Vi è però insoddisfazione per la bassa spesa pubblica e gli inadeguati investimenti nelle infrastrutture, conseguenze del progetto di Bibi di forte riduzione del debito pubblico e del taglio delle tasse. Gli elettori provenienti da ambienti conservatori religiosi e operai, immigrati russofoni e mizrahi (ebrei dal mondo arabo) restano la solida base del suo Likud.
Ne è un esempio Miri Regev, ministro della Cultura, la nemesi della "giunta culturale", come la chiama. "Persone che pensano che Cechov sia più importante di Maimonide", ha detto Regev, cresciuta a Kiryat Gat, città nel sud creata negli anni 50 per accogliere gli immigrati ebrei provenienti da paesi islamici. Famiglie numerose da società tradizionali, conservatici e nazionalistiche. Regev ha minacciato di dirottare i fondi dall'Israeli Opera e dai teatri di Tel Aviv - baricentro dell'intellighenzia di sinistra - verso le aree più svantaggiate. Ron Cahlili, autore di documentari, sintetizza così:
"È donna, è mizrahi e ogni venerdì pubblica foto di sé mentre cucina pesce speziato e parla del Monte del Tempio. La sinistra bianca non può accettarlo". La madre di Regev, Mercedes, immigrò dalla Spagna da adolescente e continua a guardare in tv le notizie in spagnolo. Il padre, Felix, viene dal Marocco e faceva il saldatore. Non sono ortodossi, ma "masorti", ebrei per tradizione, come molti sostenitori di Netanyahu.
A "spingere" Bibi c'è il voto russo, decisivo dopo le grandi ondate di immigrazione seguite al crollo dell'Unione sovietica. "I ricchi, gli artisti. .. queste élite, loro odiano tutti, odiano la gente", ha detto Bibi ai sostenitori. "Odiano i mizrahi, odiano i russi, odiano chiunque non sia uno di loro". Netanyahu è il "primo populista", se questa definizione ha un qualche significato (il disprezzo per la stampa e l'Europa, le politiche restrittive sull'immigrazione, l'amicizia con Visegrad e Trump, la vittoria sull'élite economica e intellettuale). Goodman ha suggerito che Netanyahu abbia costruito una carriera non come costruttore, alla Ben Gurion, ma come "colui che previene", chi avverte della catastrofe e poi, come Churchill, uno degli eroi di Netanyahu, la sventa. Un giornalista israeliano di Haaretz, Anshel Pfeffer, autore di "Bibi. The turbulent life and times of Benjamin Netanyahu", scrive che il premier ha in mente per Israele "una società ibrida di paure antiche e speranze high-tech, una combinazione di tribalismo e globalismo".
Commentando la sconfitta alle elezioni del 1996, Shimon Peres disse che gli "israeliani" avevano perso e che gli "ebrei" erano usciti vincitori. C'era del disprezzo in quella frase, ma anche della verità. Netanyahu è stato il più abile a sedurre l'identità di un popolo sotto assedio. E' l'''orientalizzazione'' di Israele, che guarda sempre più a est anche in termini di alleanze e abbraccia il sionismo religioso, forte fra gli ebrei sradicati della cultura araba. Netanyahu ha arricchito gli israeliani (quando Bibi ha sostituito Ehud Olmert il reddito pro capite era di 27 mila dollari, oggi è 37 mila), ha allacciato rapporti con i giganti asiatici (l'India in testa), il mondo arabo e l'Africa. In sicurezza, mai un azzardo. Secondo uno studio realizzato da Nehemia Gershuni-Aylho, Netanyahu ha avuto come premier il minor numero di vittime di guerra e di attacchi terroristici.
"L'idea di Netanyahu come custode di Israele, che protegge il paese dagli attacchi fisici e politici, risuona in molti israeliani sospettosi nei confronti dei palestinesi e del resto del mondo", scrive in "The resistible rise of Netanyahu" lo storico inglese Neill Lochery. Secondo Lochery, Netanyahu vince in quanto "outsider": è ashkenazita ma si fa carico della rimostranze sefardite; si è formato negli Stati Uniti ma è inviso alla diaspora progressista americana; vive in una delle città più ricche del paese (Caesarea) ma è il campione dei ceti popolari; è un falco che fa un uso misurato della forza; è un nazionalista cresciuto sulla Cnn.
Il segreto del successo di Netanyahu risiede in posti come Kiryat Malachi, la "città degli angeli", roccaforte del conservatorismo delle grandi famiglie. I figli della Israel hashniah, la seconda Israele, che non ha fondato lo stato, ma che ne è stato la forza, quella dei campi profughi di tende e Ddt spruzzato sui nuovi arrivati, i giovani relegati nell'esercito ai lavori più umili, mentre l'''élite'' come Peres scalava il ministero della Difesa. Lì, Bibi viene celebrato come un eroe perseguitato da una cricca di giornalisti e giudici liberal, un leader senza pari i cui peccati veniali (suoi e della moglie Sarah) sono perdonabili.
"I revisionisti di destra, gli ebrei religiosi, i mizrahi emigrati dalle terre arabe, la piccola borghesia delle nuove città, tutti dovevano essere fusi nel crogiolo del 'nuovo ebreo' e nella storia ufficiale israeliana" scrive Pfeffer. "Non ha funzionato. L"altra Israele' ha dominato la seconda metà della storia di Israele fino a ora e Netanyahu ne è stato il campione".
I laburisti hanno il maggior numero di voti in 28 delle 33 città più ricche, mentre il Likud gode di una maggioranza altissima nelle fasce medio-basse; in 64 di queste 77 città, il primo è il Likud. Netanyahu vince fra i "coloni" della Cisgiordania, ma anche nella periferia della Linea verde, in posti come Sderot (42,8), Ashkelon (39,8), Or Yehuda (40,5), Ramle (39,8), Tiberiade (44,5) e Kiryat Shmona (39,9). In quest'ultima città Peres e i suoi ministri vennero sonoramente fischiati quando si presentarono, mentre Netanyahu fu acclamato come un eroe. Sono le città sotto il tiro di Hamas e Hezbollah e città in maggioranza abitate da ebrei del mondo arabo. E nelle periferie, quando il voto non va a Bibi finisce ai partiti della destra religiosa o agli ultraortodossi, partner di coalizione di Bibi, che difficilmente si legherebbero in una coalizione con i generali pronti a cooptare nell'esercito i giovani delle scuole religiose. Netanyahu ha il 40 per cento dei voti in città periferiche come Beersheba e Ashdod. La coalizione centrista è forte nella megalopoli costiera da Tel Aviv ad Haifa e la "tribù bianca" degli ebrei ashkenaziti le cui famiglie sono da più tempo nel paese, laiche, connesse, colte, globalizzate, dai redditi superiori. A Kfar Shamriyahu, la città più ricca di Israele, i partiti della sinistra hanno il 75 per cento. Nehemia Shtrasler, un commentatore di economia, ha affermato che "tribù bianca", di cui era "presidente" lo scrittore Amos Oz, si riferisce a "un gruppo amorfo di ebrei di origine ashkenazita che vive a nord di Tel Aviv e che disprezza profondamente i religiosi". Un'altra espressione negativa che ricorre è "la tribù degli snob che mangiano sushi". A Tel Aviv, ad esempio, Netanyahu ha un bastione nel mercato Hatikvah, quello dei ceti popolari, rispetto al più turistico e hipster mercato di Hacarmel che vota a sinistra. I laburisti a Tel Aviv hanno il doppio dei voti del Likud. Un cliché, per tanti versi, ma un cliché con del vero.
Yair Lapid, il giornalista a capo di Yesh Atid che si è alleato con Gantz, è il "re dell'upper middle class", per usare la definizione di Haaretz. E' la "trumpificazione di Israele": "Anche in Israele i partiti di sinistra hanno perso il sostegno della gente comune; i lavoratori della classe medio-bassa sono passati in gran parte a sostenere i partiti conservatori di destra" scrive Tzvia Greenfield di Haaretz. "I partiti di destra come il Likud una volta erano la borghesia colta. Oggi riflettono gli stati d'animo e le tendenze della classe inferiore, che si sente esclusa e oppressa". Alle ultime elezioni, i laburisti hanno avuto il 45 per cento dei voti del dieci per cento di Israele che detiene la ricchezza. Affermava già negli anni 80 il sociologo Uri Wegman che si pensa a Israele come a una società super sviluppata, con un alto livello tecnologico e un modello di vita occidentale. In realtà Israele è un "microcosmo". Ha le caratteristiche degli Stati Uniti, dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo: l'espansione dell'high tech, la concentrazione urbana, l'ipertrofia terziaria, il deserto, la mancanza d'infrastrutture e un forte nazionalismo. La svolta ci fu nel dopo Kippur, quando una parte della sinistra laica flirtò con l'abbandono d'Israele, mentre i sefarditi fecero blocco. "Noi restiamo", dissero. Un medico, un architetto venuto dagli Stati Uniti o dalla Francia era sempre in grado di andarsene da Israele per reinserirsi in quelle società occidentali. Ma un ebreo sefardita può tornare in Siria, in Iraq, in Iran o in Marocco? No. Non è poi cambiato molto da allora, tanto che Netanyahu non ha avuto timore di alienare i rapporti con la grande diaspora liberal americana.
"Netanyahu ha dalla sua le parti più povere, la sinistra prende solo voti dai ceti medio-alti", dice al Foglio lo storico Ofir Haivry, vicepresidente dello Herzl Institute di Gerusalemme e fra i fondatori dello Shalem College: "La base di Netanyahu è più larga. Il consenso per la destra in Israele è al 70 per cento se togli gli arabi, che votano in blocco con la sinistra, facendo sembrare che ci sia una differenza piccola. C'è una estrema sinistra che è il cinque per cento di ideologici. Ma la maggioranza della sinistra israeliana è fatta di alti funzionari dello stato, pensionati medio alti, professori, professionisti, la cui carriera e vita sono sempre state basate su grandi istituzioni statali o quasi. Sono cresciuti nel mondo di Ben Gurion, mentre la società israeliana cambiava. Come i benestanti in Toscana che votavano ancora comunista senza comunismo. La 'tribù bianca' non vota tutta a sinistra, solo una parte. La maggioranza degli ashkenaziti vota per Netanyahu. Come chi ha un negozio, un imprenditore, uno dell'high tech, vota per Bibi. La sinistra è votata dai vecchi pensionati nelle case di riposo cresciuti dentro a una società socialista. L'immigrato vota a destra. I giovani, chi è arrivato trent'anni fa, votano tutti a destra. I poveri in Israele sono meno socialisti dei ricchi. I poveri vedono nel welfare un aiuto alle sezioni più forti del paese anziché alle cassiere dei supermercati. Mia nonna rimase vedova a 50 anni, otto figli, per lei fu un dolore morale essere pagata dal welfare se poteva lavorare. Così lavorava in tre posti diversi. La situazione economica sotto Bibi va benissimo, non esiste disoccupazione. Ci sono segmenti della popolazione cui non piace Bibi e se ci fosse un altro candidato la destra riceverebbe forse anche più voti. Il consenso ideologico è vastissimo per la destra. Le idee forti sono che non esiste una opzione per la pace con i palestinesi; una politica estera aggressiva verso l'Iran; economicamente a favore del libero mercato e meno assistenzialismo; infine un tradizionalismo culturale. E' come per voi italiani avere un crocifisso nelle scuole ... La sinistra vorrebbe un Israele meno ebraico e più multiculturale. A sinistra questa idea è molto forte. Al centro si tende a dirlo velatamente. Tutto il centro della politica si sta spostando a destra. La sinistra riceve il 15 per cento dei consensi. Israele è un simbolo per quello che sta succedendo in Europa, dove la nuova politica populista distrugge molto più a sinistra che a destra. Un ashkenazita ricco, colto, detesta Netanyahu per motivi ideologici: sono raffinati, benestanti, ma non si vedono come ricchi, sono come Jeff Bezos. E così in Israele i ricchi sono più a favore dei palestinesi. E temono che gli ebrei che vengono dall'islam diventeranno il ragionier Brambilla di Israele. E' lo stesso modo di pensare che spinge in occidente a tassare chi ha l'auto, 'tutti in autobus, tanto io vivo in centro e non devo prenderlo'. Oggi, a Torino, la sinistra è votata non dai proletari, ma dai benestanti. E' anche il problema in Israele, 'la bolla'. Qui il classico funzionario dello stato che poi lavora per una fondazione voterà sempre contro Bibi. Ma la demografia andrà tutta a vantaggio della destra. I figli della 'tribù bianca' votano Netanyahu. E Gantz e Yaalon e Lapid devono mascherarsi diventando più di destra. Lapid è bianco ma non della tribù, è antistatalista, non ha snobismo verso i ceti bassi. In Israele durante gli anni 90 c'è stato un tentativo forte della vecchia élite di dire 'siamo arrivati alla pace e dobbiamo pagare un prezzo'. Gli israeliani hanno tentato dieci anni, fino ad Ariel Sharon, quando si è capito che non ci sarà pace in questa generazione. Per cui tutte le zone di confine oggi hanno una visione realistica della sicurezza e votano Netanyahu. Vogliono un primo ministro che punti sulla sicurezza nazionale. Il problema di Gantz è di non voler essere troppo diverso da Bibi per vincere, ma così facendo non ha molto successo".
Gideon Rahat, professore all'Università Ebraica, ha detto che Netanyahu beneficia di un elettorato sempre più a destra dopo la Seconda Intifada. "E' il punto di rottura per molti israeliani", ha affermato Rahat. La percentuale di israeliani che favoriscono i colloqui con i palestinesi è scesa da oltre il 70 per cento al 50 per cento in dieci anni. Tra i sostenitori di Netanyahu è al 30 per cento.
Meglio continuare così che accettare uno stato palestinese a un tiro di cannone da Jaffa. "Può Israele sopravvivere senza Netanyahu?", si è chiesto il New York Times lo scorso 2 marzo. Il sole è sorto ogni volta dopo le guerre in cui il mondo arabo-islamico ha provato a cancellare Israele dalla mappa geografica. E sorgerà anche dopo l'eventuale caduta del re e l'ascesa del principe.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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