Je suis Charlie e Trump, forza Trump!

Re: Je suis Charlie e Trump, forza Trump!

Messaggioda Berto » ven set 14, 2018 6:26 am

Trump blocca i finanziamenti alla UNRWA: un messaggio chiaro al mondo intero
Con il blocco dei finanziamenti gli USA lanciano un segnale
Ugo Volli

https://www.progettodreyfus.com/unrwa-palestinesi-trump

L’amicizia di Trump per Israele si conosceva da tempo (anche se durante le elezioni e nei primi tempi della presidenza non sono mancati i soliti sinistri propalatori di fake news a sostenere addirittura che fosse antisemita). In conseguenza a questa amicizia Trump ha fatto scelte importanti, a partire dalla designazione di David Friedman come ambasciatore americano in Israele, prima ancora di essere ufficialmente nominato presidente. Una scelta che per reazione indusse Obama negli ultimi giorni della sua presidenza a far passare una indegna mozione di condanna di Israele al consiglio di sicurezza dell’Onu, come ha raccontato John Kerry nel suo recente libro di memorie.

Poi ci sono stati lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, una serie di accordi militari, la difesa di Israele all’Onu e negli organismi internazionali, il rifiuto della giurisdizione punitiva della Corte dell’Aia, la difesa di Israele dall’Iran anche nel colloquio con Putin, la chiusura della rappresentanza diplomatica dell’autorità palestinese a Washington, il blocco dei finanziamenti alla stessa organizzazione e all’UNRWA. Quest’ultima è la scelta più importante, non solo sul piano finanziario (circa 360 milioni di dollari l’anno da decenni).

L’UNRWA infatti, sotto le vesti nobili di un’agenzia umanitaria dell’Onu, è uno dei principali responsabili della continuazione del conflitto fra arabi e israeliani. Ci sono tre aspetti principali di questa responsabilità. In primo luogo, l’UNRWA ha adottato una definizione dei “rifugiati palestinesi” che assiste davvero unica, che di per sé determina la continuazione della violenza. Essa definisce infatti “rifugiato palestinese” una persona “il cui normale luogo di residenza è stata in Palestina tra il giugno 1946 e maggio 1948, che ha perso sia l’abitazione che i mezzi di sussistenza a causa della guerra arabo-israeliana del 1948” La definizione di rifugiato dell’UNRWA copre anche i discendenti delle persone divenute profughi nel 1948 indipendentemente dalla loro residenza nei campi profughi palestinesi o in comunità permanenti. Si tratta di una grande eccezione alla normale definizione di rifugiato (per un approfondimento giuridico interessante è utile leggere anche questo articolo). L’eccezione dell’UNRWA non è affatto innocente, non solo perché porta il numero dei rifugiati veri, cioè ancora vivi e non integrati in altri stati, che oggi è stimabile in circa 50 mila, fino ai 5 milioni che l’UNRWA riconosce come rifugiati. Esso tradisce anche il progetto politico di tenere aperta la ferita della guerra, di evitare a tutti i costi la normalizzazione e l’integrazione dei rifugiati che è l’obiettivo di tutte le agenzie umanitarie e in particolare dell’UNHCR, il centro dell’ONU per tutti i rifugiati. E’ un progetto che ha al cuore l’idea del rovesciamento dei risultati della guerra di indipendenza del 1948 e dunque la distruzione di Israele. Se azioni analoghe fossero state usate per i risultati della Seconda Guerra Mondiale, l’Europa sarebbe sconvolta dal terrorismo di profughi dell’Istria italiana e dei sudeti tedeschi, dei polacchi orientali finiti sotto il dominio russo e di tutte le altre popolazioni che hanno subito lo spostamento dei confini.

Una seconda ragione è altrettanto grave. L’UNRWA gestisce scuoli, ospedali, forniture di cibo e altri soccorsi nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese e da Hamas: tutte azioni umanitarie di cui si vanta. Il problema è che in questa maniera l’UNRWA si sostituisce all’amministrazione dell’autonomia palestinese, assume molte funzioni dello stato. Questo fa sì che le organizzazioni palestiniste possano evitare di preoccuparsi di fornire alla propria popolazione tutti i servizi che ogni stato o amministrazione indipendente deve organizzare, lasciandole libere di usare le proprie risorse e il proprio potere per fare la guerra (armata o diplomatica o politica o terroristica) a Israele. I capi palestinisti non sono responsabili del benessere della loro popolazione, ma solo dell’organizzazione dell’odio per gli ebrei. Non si capisce la loro politica e anche gli orientamenti della loro opinione pubblica se non si considera la funzione di supplenza dell’UNRWA.

La terza area in cui l’UNRWA appoggia la lotta armata (cioè il terrorismo) contro Israele è più diretta. Praticamente tutti i suoi dipendenti (oltre 30 mila) sono arabi assunti fra i suoi supposti assistiti. Buona parte di loro sono membri di organizzazioni terroristiche come Hamas, che vince regolarmente le elezioni sindacali. Essi formulano e insegnano libri di testo che sono fanaticamente anti-israeliani, addestrano i bambini all’uso delle armi, diffondono fanatismo e incitamento alla violenza. Spesso le scuole e gli ospedali dell’UNRWA sono usate dai terroristi come depositi di armi, centri di comando e controllo, piattaforme di lancio dei missili. Quando questi usi sono smascherati l’organizzazione li denuncia e si scusa, ma è evidente una sostanziale tolleranza.

Insomma l’UNRWA è parte del problema del terrorismo palestinese, non certo della sua soluzione. E’ chiaro che nel breve termine il fatto che essa canalizzi aiuti internazionali sugli arabi di Giudea, Samaria e Gaza diminuisce la pressione sul governo e sull’esercito israeliano perché forniscano assistenza (anche se si tratta di cittadini di quel che pretende di essere uno stato autonomo) e che chi nello stato israeliano si trova a interagire con le masse arabe (per esempio il COGAT, l’amministrazione militare che governa le zone C e in parte B degli accordi di Oslo) può vedere con preoccupazione la perdita di finanziamenti dell’agenzia. Ma a medio e lungo termine il suo ridimensionamento e possibilmente lo scioglimento sono fra le condizioni per il ritorno alla calma nella regione. Ha dunque fatto benissimo Trump a togliere i finanziamenti americani. Peccato che, come per tutte le buone scelte dell’amministrazione americana, l’Unione Europea si opponga e cerchi di sostituirsi agli Stati Uniti. In questo progetto di aiuto al terrorismo purtroppo è presente anche l’Italia. E’ una vecchia eredità terzomondista, dominante nel nostro ministero degli esteri. Speriamo che cambi.



ONU - UNESCO e altri FAO - UNICEF (no grazie!) - e Facebook ?
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viewtopic.php?f=205&t=2404
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Re: Je suis Charlie e Trump, forza Trump!

Messaggioda Berto » mer ott 17, 2018 10:05 pm

Trump: "Chiunque entri negli Usa illegalmente sarà arrestato"
17 ottobre 201807:00

http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/tr ... 802a.shtml


"Chiunque entri negli Stati Uniti illegalmente sarà arrestato e trattenuto prima di essere rimandato indietro nel proprio Paese". Così Donald Trump su Twitter. Il presidente americano ha inoltre minacciato il taglio degli aiuti a Honduras, Guatemala ed El Salvador "se permetteranno ancora ai loro cittadini o ad altri di attraversare i loro confini e di raggiungere gli Usa con l'intento di entrarvi illegalmente".


Alberto Pento
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Re: Je suis Charlie e Trump, forza Trump!

Messaggioda Berto » sab mag 09, 2020 7:28 pm

Avenatti difende le donne da Trump e viene arrestato per le botte a una donna
di Simonetta Sciandivasci
2018/11/15

https://www.ilfoglio.it/societa/2018/11 ... PRVvSK2k6Y

Roma. L’avvocato di Stephanie Clifford, in arte Stormy Daniels, Michael Avenatti, è stato arrestato mercoledì pomeriggio a Los Angeles: avrebbe picchiato la sua ex moglie tanto da lasciarle il viso tumefatto. Una notte in prigione e 50 mila dollari di cauzione dopo, è tornato a casa. Si dichiara innocente. Stormy Daniels, lo ricorderete, è la ex pornostar che ha accusato Donald Trump di averla pagata 130 mila dollari, nel 2016, per tacere su una loro presunta relazione clandestina (una vecchia storia di più di dieci anni fa). Aveva dato la notizia, a gennaio scorso, il Wall Street Journal e l’allora avvocato personale di Trump, Michael Cohen, aveva risposto, a caldo, che si trattava di pettegolezzi infondati. Trump aveva parlato di truffa e Clifford, tramite Avenatti, gli aveva immediatamente fatto causa per diffamazione.

Sebbene fossimo freschi di #metoo e il curriculum di Trump fosse zeppo di storie simili, non ci eravamo scaldati molto (almeno da questa parte dell’oceano). Poco più di un mese fa, un giudice di Los Angeles ha respinto le accuse di Clifford, sostenendo che le parole di Trump siano state certamente colorite e inopportune, ma non sanzionabili (non in un paese libero e democratico, quantomeno), e ha condannato l’attrice al pagamento delle spese legali del processo. Della costumata reazione del presidente degli Stati Uniti c’è traccia, naturalmente, su Twitter, dove Trump era corso a scrivere, gaudente, che finalmente avrebbe potuto rivalersi su “Faccia da cavallo e il suo avvocato di quart’ordine”. La causa sull’accordo di non divulgazione delle relazione sentimentale tra Trump e Clifford, invece, è ancora in piedi. E chi lo sa che fine farà quel contenzioso così rilevante, dall’altra parte dell’oceano, ora che Avenatti è accusato del crimine più odioso, in questo momento, in occidente.

Proprio lui che, accidenti, nell’ultimo anno, cioè da quando ha preso l’incarico di legale di Stormy Daniels, è sempre stato sollecito e attivo e combattivo sui diritti delle donne, denunciatore della violenza su di loro, oltre che un antitrumpiano di tutto rispetto, con le carte talmente in regola da essere stato persino nominato tra i possibili candidati democratici alle primarie delle prossime presidenziali.

È un ribaltamento tragico e salato, un classico colpo di scena di quelli che ci fanno dire che il male e il bene sono sempre mescolati e che non ci si può fidare di nessuno e che negli armadi dei più accaniti eroi si nascondono sempre gli scheletri più grandi. Ma sarà che c’è di mezzo un avvocato. Bruno Cavallone, avvocato e letterato, ha detto in una vecchia intervista: “Vittoria e sconfitta nell’ambito del civile non sono mai totali, non c’è la vittoria trionfale e neppure la sconfitta tragica”. Vale anche per questo finale di partita, sebbene non attenga al civile (ce ne saranno altre, naturalmente, di partite, siamo solo all’inizio: la colpevolezza di Avenatti è ancora tutta da dimostrare e il #metoo s’è fatto più cauto, ultimamente). È successo qualcosa di assai simile diverse volte negli ultimi mesi (è finito accusato di molestie anche Justin Trudeau, il primo ministro canadese, primo della storia a dichiararsi femminista e a invitare tutti i maschi a diventarlo).

Qualcuno, negli Stati Uniti, ha parlato di “crudele ironia”, riferendosi a come la vicenda Avenatti possa essere letta come goduriosa vendetta (al bar la chiameremmo karma pesante) in favore di Brett Kavanaugh, nominato giudice della Corte Suprema americana dopo giorni di accuse e deposizioni contro di lui per molestie sessuali e stupri (Christine Blasey Ford ha reso la sua testimonianza davanti alla Commissione Giustizia del Senato, il mese scorso). La prima moglie di Avenatti, madre delle sue due figlie, è intervenuta per difenderlo, a sostegno di quanto lui ha dichiarato e reso noto tramite il suo ufficio legale: non sono mai stato un uomo violento, amo le donne, non mi lascerò intimidire, sono un uomo di cui le proprie figlie potranno sempre andare fiere. Lo stanno incastrando? È una trama da “House of Cards” (quando era “House of Cards” e cioè la politica americana, prima che facessero fuori Kevin Spacey e molto della sceneggiatura si perdesse in troppi “a un uomo lo avrebbe mai detto?”).

Il tempismo urla complotto e fato greco, molto più che nel caso di Anthony Weiner, che la carriera di brillante democratico se l’è fatta scippare dal vizio di mandare foto sconce alle minorenni (e sta scontando la sua pena in carcere, buono buono, tanto che uscirà prima del previsto). Ieri il Guardian dava notizia di un aumento impressionante delle violenze domestiche, in Inghilterra e a Londra in particolare, evidenziando la poca attenzione dei media sul tema. Tra pochi giorni verrà trasmesso il documentario della A&E “The Clinton Affair”, in cui Monica Lewinsky racconta di aver pensato al suicidio dopo la relazione con l’ex presidente.

Il clima, lo abbiamo imparato nell’ultimo anno, conta tanto nel condizionare i dibattimenti giuridici, quanto nell’istruire le accuse. In questo caso, però, c’è una signora con la faccia parecchio tumefatta e la polizia, giustamente, lo sottolinea.
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Messaggioda Berto » sab mag 09, 2020 7:29 pm

???


Trump, forse un medico lo esentò dal Vietnam per fare un favore al padre
Gioele Anni - Mer, 26/12/2018

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/tru ... HL7zNExcDQ

Il New York Times rilancia la storia pubblicando la testimonianza delle figlie di un podologo

Un certificato medico di dubbia verità, firmato da un podologo che aveva lo studio in affitto dal padre di Donald Trump.

Il New York Times riaccende i riflettori sul caso dell'esenzione dell'attuale presidente americano dalla guerra del Vietnam.

Nel 1968, quando il giovane Donald aveva 22 anni, sarebbe dovuto partire come tanti coetanei per la sanguinosa guerra nel sud-Est asiatico. Ma non fu arruolato a causa di una malformazione: un medico gli aveva diagnosticato speroni ossei nei talloni (o spina calcaneare, un'escrescenza ossea). Il presidente dice di non ricordare a distanza di anni chi firmò quel documento, ma oggi la storia è riproposta grazie alle dichiarazioni di Elysa Braunstein e della sorella Sharon, figlie del podologo Larry Braunstein: proprio l'autore del certificato incriminato.

"So che si è trattato di un favore", ha dichiarato Elysa Braunstein, spiegando che lo studio del padre era in uno dei locali di proprietà di Fred C. Trump, padre di Donald e costruttore edile a New York. "Se c'era qualcosa che non andava nell'edificio", ha aggiunto la dottoressa "mio padre chiamava Trump che se ne occupava immediatamente. Il certificato è stato un piccolo favore".

Il dottor Braunstein è morto nel 2007, ma le sue figlie dicono che il padre gli aveva raccontato spesso la storia di come avesse aiutato il giovane Trump ad evitare la leva militare per entrare nelle grazie del padre imprenditore. Nell'atto medico sarebbe stato coinvolto anche un altro podologo, Manny Weinstein, morto nel 1995: il medico visse in due diversi appartamenti a Brooklyn di proprietà di Fred Trump, e si trasferì nel primo proprio nell'anno in cui il futuro presidente Usa ricevette l'esenzione.

Il New York Times specifica comunque che non ci son prove o documenti dell'epoca, ma solo le testimonianze delle figlie di Braunstein.
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Re: Je suis Charlie e Trump, forza Trump!

Messaggioda Berto » sab mag 09, 2020 7:29 pm

Trump contro tutti: "Shutdown finchè non avremo un muro col Messico"
LaPresse Mer, 26/12/2018

http://www.ilgiornale.it/video/mondo/tr ... 21424.html

"Non posso dirvi quando riaprirà il governo, ma quello che posso dirvi è che non riaprirà finchè non avremo un muro, una recinzione o come volete chiamarla con il Messico". Donald Trump non cede: lo shutdown andrà avanti finché non otterrà il via libera ai 5 miliardi di dollari per finanziare una barriera fisica al confine con il Messico. Un concetto che il presidente statunitense ha ribadito parlando con i giornalisti alla Casa Bianca dopo la sua teleconferenza di Natale con le truppe USA. Il tycoon poi attacca nuovamente la Fed, accusata di alzare i tassi di interesse troppo velocementem e di essere "l'unico vero problema dell'economia statunitense".

Trump punta i piedi sul muro al confine col Messico, muore un altro bambino migrante
paolo Mastrolilli
2018/12/26

https://www.lastampa.it/2018/12/26/este ... agina.html

Nuova tragedia dell’immigrazione al confine tra Usa e Messico. Un bimbo di 8 anni di origine guatemalteca è morto mentre era sotto la custodia delle autorità americane, dopo aver attraversato illegalmente la frontiera. È la seconda vittima guatemalteca in pochi giorni, dopo la morte di una bambina di 7 anni. Intanto il presidente Usa, Donald Trump, minaccia di prolungare lo shutdown, la paralisi parziale delle attività del governo, fino a quando non arriveranno i fondi per costruire il muro al confine con il Messico. Dopo una telefonata con le truppe statunitensi nel giorno di Natale, Trump ha ricordato le sue richieste per sbloccare lo stallo politico che da sabato impedisce il lavoro di diverse agenzie dell’amministrazione. «Non posso dirvi quando il governo riaprirà, posso dirvi che non riaprirà finché non avremo un muro, una barriera, in qualunque modo la vogliate chiamare, è sempre la stessa cosa. È una barriera che impedisce alla gente di riversarsi nel Paese», ha tuonato il presidente.

In un comunicato, l’Agenzia americana per la sicurezza delle frontiere ha riferito che il bambino guatemalteco è morto oggi, il giorno di Natale, dopo la mezzanotte, al Gerald Champion Regional Hospital, nella città di Alamogordo, nello stato del New Mexico, nel deserto di Chihuahua. Il bambino ha iniziato a mostrare segni di «una possibile malattia» lunedì 24 dicembre, vigilia di Natale, ed è stato trasferito con il padre all’ospedale regionale. Una volta lì, i medici hanno stabilito che il bambino soffriva di un comune raffreddore; ma, quando stavano per dimetterlo, hanno constatato che il piccolo aveva la febbre e hanno deciso di tenerlo 90 minuti sotto osservazione, prima di dimetterlo prescrivendogli ibuprofene, un antinfiammatorio, e amoxicillina, un antibiotico. Ma nella notte sono peggiorate le condizioni di salute del bambino, che ha cominciato ad avvertire nausea e a vomitare, tanto che gli agenti lo hanno riportato nello stesso ospedale, dove è morto poco dopo la mezzanotte.

Il governo guatemalteco è stato informato e ha chiesto un’indagine «chiara» e la «salvaguardia» del giusto processo da parte delle autorità degli Stati Uniti sulle circostanze che hanno portato alla morte del bambino. Una richiesta già avanzata in relazione al caso di Jackeline Amei Rosmary Caal Maquin, la bambina di 7 anni morta l’8 dicembre in un ospedale pediatrico ad El Paso (Texas), dopo aver attraversato illegalmente il confine con il Messico insieme al padre. Il governo Usa ha negato responsabilità. Secondo l’ospedale la bambina è morta per disidratazione, febbre e choc setticemico, anche se i risultati dell’autopsia non sono ancora noti.


Alberto Pento
Il governo guatelmalteco ha poco da criticarem venga a prendarsi i suoi cittadini che criminalmente vorrebbero entrare negli USA, il governo va ritenuto responsabile.
Io se fossi Trump, caricherei a forza tutta questa gente e la riporterei a forza nel loro paese.
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Re: Je suis Charlie e Trump, forza Trump!

Messaggioda Berto » sab mag 09, 2020 7:30 pm

Il piano B degli Stati Uniti: cosa può succedere in Libia
Gli occhi della guerra
Mauro Indelicato
25 dicembre 2018

http://www.occhidellaguerra.it/quale-sa ... a-in-libia

Gli Usa, per bocca del presidente Donald Trump, lasciano dunque la Siria e ridimensionano il proprio impegno in Afghanistan. Dovrebbe essere questo il piano messo a punto dalla Casa Bianca, a meno di ripensamenti da parte dello stesso Trump. Le dimissioni del segretario della difesa, James Mattis, potrebbero comunque fungere da conferma delle intenzioni del tycoon newyorkese, visto che l’oramai quasi ex titolare del Pentagono non risulta d’accordo con questa strategia. Siria ed Afghanistan rappresentano due degli scenari principali, sotto il profilo militare e politico, che interessano il medio oriente. Il ridimensionamento delle missioni da parte americana sembra voler indicare un preciso intento politico: la regione, pur vitale per diversi interessi collegabili agli Usa, non è più in cima tra le priorità di Washington. Si lascia spazio e si cerca adesso di concentrare risorse ed energie in altri ambiti, almeno sarebbero queste le reali intenzioni di Donald Trump. Alla luce di tutto ciò, viene da chiedersi se questo discorso vale anche per l’altro fronte caldo della regione: la Libia.


L’attuale impegno americano in Libia

Lo scorso 29 novembre gli abitanti di Al Awinat, piccolo centro del Fezzan non lontano da Ghat, avvertono forti boati provenire da alcune località poco lontane nel deserto. Si intuisce subito che qualcosa di importante è accaduta e le colonne di fumo avvistate poco dopo le esplosioni suggeriscono, come ipotesi più accreditata, un raid aereo. Ed in effetti nel giro di poche ore arrivano le conferme ufficiali. Un bombardamento colpisce, in particolare, alcune postazioni di miliziani appartenenti ad Aqim (Al Qaeda nel Magreb Islamico). Ad annunciarlo è la stessa Africom, ossia il comando militare statunitense in Africa: “Sono stati effettuati – si legge – Alcuni raid contro obiettivi precisi di Aqim nei pressi di Al Awinat. Undici terroristi sono stati uccisi”. Il raid provoca proteste ed indignazione nei giorni successivi da parte della popolazione, la quale sostiene che le vittime siano in realtà undici giovani tuareg che nulla hanno a che vedere con il terrorismo. Ma sotto il profilo prettamente politico e militare, quanto accaduto ad Al Awinat mostra come gli Usa in Libia siano molto attivi e continuino ad usare uomini e mezzi nel paese.

Rispetto ad Afghanistan e Siria, la Libia dal punto di vista americano ha peculiarità non indifferenti. La guerra in Afghanistan è un conflitto iniziano dagli Usa nel 2001, per cacciare i Talebani rei di nascondere Osama Bin Laden. In Siria invece la missione arriva successivamente allo scoppio del conflitto e quello di Washington altro non è che un intervento nel bel mezzo di una guerra civile ancora in corso. In Libia invece il contesto è ancora più particolare: gli Usa inizialmente sembrano mantenere un ruolo di secondo piano quando la Nato nel 2011 decide di intervenire, lasciando a Francia e Gran Bretagna l’iniziativa. La Casa Bianca ed il Pentagono arrivano soltanto nel 2016, con i raid perpetuati contro l’Isis a Sirte e l’appoggio dato alle milizie di Misurata per strappare la città dal Califfato. Da allora però, gli Usa non sono mai andati via dalla Libia.

Washington in Libia avrebbe due o tre basi. Una a sud di Sirte, stanziata successivamente alla cacciata dell’Isis per dare manforte alle forze locali contro il possibile ritorno dei jihadisti nella città natale di Gheddafi. Un’altra, come si legge sul sito “AnalisiDifesa”, sarebbe nel sud della Libia e fungerebbe da centro di addestramento. Non ci sono certezze invece su una possibile terza base installata all’interno del territorio dell’ex colonia italiana. A queste basi, bisogna aggiungere quelle stanziate nei paesi limitrofi alla Libia: il riferimento è alla struttura militare di Sigonella in Sicilia, così come alla base presente nel nord del Niger. In questo paese poi, e precisamente ad Agadez, è in costruzione la più grande base per droni degli Stati Uniti nel continente africano. Inevitabile pensare che questa struttura in futuro fungerà da vero e proprio hub per le operazioni che gli americani vorranno intraprendere nel paese nordafricano. Tra basi interne ed esterne alla Libia, gli Usa possono contare su diversi mezzi e diversi uomini operativi sul fronte libico, un segno di come da Washington il dossier viene seguito da vicino e non sembra esserci aria di smobilitazione.


Il ruolo futuro degli Usa in Libia

A Palermo, in occasione del vertice per la Libia tenuto lo scorso mese di novembre, desta non poca curiosità il livello di rappresentanza inviato dagli Usa in Sicilia: da Washington arriva infatti David Satterfield, sottosegretario del Dipartimento di Stato. Né dunque il segretario di Stato, né altri importanti esponenti del governo o del Congresso. A differenza invece di altri paesi, in primis la Russia, che inviano capi di Stato o primi ministri. L’assenza di elementi di rilievo dell’amministrazione Trump lascia la scena alle bizze di Haftar, che fino all’ultimo fa parlare di sé per via dei dubbi circa la sua presenza, così come al primo ministro russo Medvedev ed al ministro degli esteri francese. L’impressione è quella di un atteggiamento politico degli Usa piuttosto defilato sulla Libia, un po’ come ad inizio conflitto nel 2011.

Un’impressione che sembra confermata nei fatti: a luglio, in occasione della visita del presidente del consiglio Conte a Washington, Donald Trump dà il via libera a Roma per una cabina di regia a guida italiana sul dossier libico. Gli Usa guardano dal dietro le quinte, lasciando spazio all’Italia ed alla missione Onu guidata dal libanese Ghassan Salamè: un atteggiamento in linea con quanto fatto negli ultimi mesi sul medio oriente, ma che non implica affatto un disinteressamento americano. Al contrario, la Libia per gli Stati Uniti continua ad essere di grande importanza soprattutto per la lotta al terrorismo islamista. Da qui anche la presenza di forze Usa all’interno del paese africano ed in alcune delle più importanti basi ad esso vicine. In poche parole, a fronte di un ruolo politico che sembra subire i mutamenti imposti da Trump all’agenda americana, sotto il profilo militare gli Usa in Libia sono presenti e, al momento, sono intenzionati a rimanere. Il ridimensionamento degli impegni in medio oriente non si traduce, per ciò che concerne il dossier libico, in un totale ed integrale disimpegno.
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Re: Je suis Charlie e Trump, forza Trump!

Messaggioda Berto » sab mag 09, 2020 7:31 pm

Trump a sorpresa in Iraq dopo annuncio ritiro Siria
Nord America
2018/12/26

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/n ... 938a3.html

Donald Trump vola in Iraq: una visita a sorpresa, la prima nei panni da comandante in capo dell'esercito Usa, per visitare truppe all'estero in zone di combattimento. Il viaggio organizzato in gran segreto arriva nel mezzo dello shutdown e a meno di un settimana dall'annuncio del ritiro delle truppe americane dalla Siria. Una decisione, legata alla 'vittoria' sull'Isis, che ha scatenato una vera e propria bufera sul presidente sia in casa - con le dimissioni del capo del Pentagono James Mattis - sia fuori, con gli alleati infuriati. In Iraq, davanti alle truppe alla base al-Asad, Trump accompagnato dalla First Lady Melania ha detto che al momento non ci sono piani per un ritiro delle truppe americane dal paese e ha difeso la sua scelta sulla Siria. La presenza americana nel Paese non e' mai stata a tempo indeterminato, ma aveva come obiettivo quello di strappare all'Isis le sue roccaforti militari. Un obiettivo centrato, secondo Trump che scarica sulla Turchia di Recep Tayyip Erdogan il compito di occuparsi di quello che resta dello Stato islamico in Siria.
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Re: Je suis Charlie e Trump, forza Trump!

Messaggioda Berto » sab mag 09, 2020 7:32 pm

I dementi disinformatori, calunniatori e diffamatori di Repubblica


Tanti tweet e pochi risultati: dalla Cina al Nafta, cosa resta delle guerre (a parole) di Trump
MAURIZIO RICCI
29 Dicembre 2018

https://www.repubblica.it/economia/rubr ... -215405230

Sotto la raffica di tweet, niente? Diciamo, per ora, molto poco. La burbanza di Donald Trump dà spesso a molti l’impressione di un vincente, in particolare nelle guerre commerciali che ha ingaggiato un po’ con tutti e nelle (mezze) intese che ne ha ricavato. Questo raccontano appunto i tweet ad uso e consumo dei suoi elettori. La Corea del Sud? Si è arresa subito. L’Europa? In ginocchio. Canada e Messico? Costretti a rimangiare i vecchi accordi e firmarne di nuovi. La Cina? Spalle al muro. Solo che sono fake news. Trump è riuscito ad imporre il metodo delle trattattive uno-a-uno anziché multilaterali. E’ un successo significativo rispetto ai principi dell’era Obama. Ma, poi, i risultati concreti, nei fatti e nei dettagli, sono modesti, deludenti, a volte contradditori. In più di un caso - come per le tariffe su acciaio e alluminio, che hanno favorito i produttori nazionali, ma colpito le aziende americane, dieci volte più numerose, che acciaio e alluminio li consumano – direttamente controproducenti. “L’arte di fare affari immaginari” l’ha definita il premio Nobel Paul Krugman, facendo il verso al vecchio libro di Trump, “L’arte di fare affari”.

COREA. Il primo obiettivo è stato la Corea del Sud. L’accordo entrato in vigore a settembre esonera Seul dalle tariffe su acciaio e alluminio, in cambio di una quota volontaria sulle esportazioni, limitate al 70 per cento degli anni precedenti. Ma l’ossessione di Trump sono le auto e la Corea si impegna ad alzare da 25 a 50 mila euro l’anno il numero di auto che ogni azienda americana potrà d’ora in poi esportare in Corea. È il caso più vistoso di “affare immaginario”: la Ford, l’azienda americana che esporta più auto nel paese, arriva appena a 10 mila. Quanto alla promessa di Trump di impedire che Seul svaluti la propria moneta per favorire il suo export, l’accordo non ne fa cenno.

EUROPA. Il secondo bersaglio era l’Europa. L’intesa preliminare raggiunta a fine luglio con Bruxelles prevede l’avvio di una trattativa su tariffe, regolamentazioni, ostacoli burocratici, standard sanitari e di qualità. Esattamente quello cui puntava Obama con il Ttip, il progetto di trattato transatlantico, sonoramente bocciato da Trump. Con la fregatura (dal punto di vista americano) che, questa volta, è esclusa l’agricoltura, storico punto dolente per gli agricoltori e l’industria alimentare Usa.

CINA. La guerra con Pechino a colpi di tariffe e ritorsioni non ha prodotto alcun effetto sul disavanzo commerciale Usa-Cina che, da marzo a ottobre, è andato inesorabilmente crescendo da 26 a 43 miliardi di dollari (al mese). Ora la Cina si è impegnata a comprare un po’ di soia (a novembre le relative esportazioni Usa erano scese a zero), ma non si sa quanto in buona fede: nei mesi invernali non può comprare dal Brasile, perché lì il raccolto è ancora lontano. Ancora una volta, comunque, Trump punta sulle auto. Pechino abbassa al 15 per cento il dazio sulle auto Usa, che aveva precedentemente alzato dal 25 al 40 per cento. Ma gli effetti sono marginali: la Cina importa solo l’1 per cento delle sue auto dagli Usa. E, per due terzi, sono macchine prodotte in America dalle tedesche Bmw e Mercedes. Le ditte americane, Gm e Ford, invece, sono colpite dai dazi americani sui prodotti cinesi, perché esportavano negli Usa dalle loro fabbriche in Cina.

NAFTA. Adesso si chiama Usmca, ma, secondo il Peterson Institute of International Economics è praticamente uguale al precedente. Le (marginali) modifiche ottenute da Trump hanno l’effetto di determinare prezzi più alti per i consumatori, aggravando la crisi di vendite delle case americane, come Ford e Gm, che già sono costrette a tagliare fabbriche e manodopera. Il risultato, dice il Piie, potrebbe essere un paradossale aumento delle importazioni di auto da Europa e Asia. Trump, naturalmente, potrebbe reagire con dazi sulle auto straniere, ma il risultato finale sarebbe comunque danneggiare i consumatori con prezzi più alti.



La Repubblica in crisi: i social la distruggono. "Giornale dei ricconi"
Lunedì, 17 settembre 2018
Giuseppe Vatinno

http://www.affaritaliani.it/mediatech/l ... 60543.html

“Dopo i tagli adottati negli ultimi dieci anni, il Gruppo Gedi, editore di Repubblica, ha prospettato ulteriori, pesanti interventi sul costo del lavoro giornalistico. La redazione ha respinto all'unanimità la proposta dell'azienda e ribadito l'indisponibilità a confrontarsi, in questi termini, sul futuro del quotidiano. E ha invitato gli azionisti a farsi carico di criticità che non possono essere addebitate al corpo redazionale, ma a scelte manageriali, di marketing ed editoriali .Nel momento in cui Repubblica è sotto attacco da parte della maggioranza di governo, i giornalisti esigono dall'azienda che si mettano in campo tutti gli strumenti e i comportamenti necessari per difendere il giornale, per proteggerne l'autorevolezza e la libertà, per tutelare la comunità dei lettori…”

Questo l’inizio del comunicato della redazione. Repubblica, diretta da Mario Calabresi, è in crisi per i tagli all’organico da parte dell’editore e sui social si scatenano i commenti sarcastici.

LaLaura dice:

Siamo solidali con i poveri giornalai di Repubblica. L'austerità è una ruota che gira, ieri a noi oggi a loro. Li ricambieremo con la stessa spietata indifferenza per il loro futuro.

DiabolMark:

Già che ci siete portatevi il nonnetto. A Londra non vedon l'ora di ascoltare i suoi soporifici sermoni.

Empedocle:

La dura legge dei mercati...vi piace fare i neoliberisti col sedere degli altri?

Matteo Brandi:

Giornale buono solo per la lettiera del gatto.

Andrea:

Del resto sono anni che scrivono articoli sulla bellezza della mobilità del lavoro e la svalutazione dello stesso, perché scioperano?

Quello che si contesta al quotidiano, ma direi all’intero gruppo che possiede, tra l’altro, L’Espresso, Le Scienze, Micromega, è l’insopportabile retorica liberista insieme alle grandi protezioni economiche che finora ha goduto.

Sono anni che la Repubblica è in caduta libera perché è diventato il giornale di un élite ristretta di ricconi asserragliati nei loro attici di Roma, Milano e New York con le bandierine multicolore della pace e le tasche gonfie di soldi di Carlo De Benedetti.

Dal canto suo, Eugenio Scalfari, il fondatore, ha dato segni di cedimento intellettuale, come quando ha attribuito falsamente parole a Papa Francesco sulla non esistenza dell’inferno.

Ma anche le altre pubblicazioni del gruppo sono in crisi. A partire da Le Scienze, diretta insipidamente da Marco Cattaneo che invece che parlare appunto di scienza fa politica disorientando i suoi lettori storici.

La crisi di Repubblica e del gruppo editoriale non è solo la crisi di un giornale ma è la crisi di un intero modello culturale che si avvia all’estinzione.

E poco vale la ridotta del comunicato che parla di “Repubblica sotto attacco dalla maggioranza del governo”, oltretutto deontologicamente scorretta. Come ha scritto un utente di twitter è: “La dura legge dei mercati...vi piace fare i neoliberisti col sedere degli altri?”. Facile fare la retorica liberal quando si ha il deretano protetto.

Ed io aggiungerei: chi semina vento raccoglie tempesta.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Je suis Charlie e Trump, forza Trump!

Messaggioda Berto » sab mag 09, 2020 7:32 pm

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Je suis Charlie e Trump, forza Trump!

Messaggioda Berto » sab mag 09, 2020 7:33 pm

Trump vuole arrestare l'ex direttore dell'FBI Comey e dagli States sono sicuri, a breve ci sarà il più grande scandalo della storia americana
La Nuova Padania
30 Aprile 2020
Riccardo Rocchesso
https://www.lanuovapadania.it/cronaca/t ... americana/

Sembra che stia per scoppiare uno scandalo in America, ma non uno normale, il più grande della storia secondo molte fonti americane.

Donald Trump, è un po’ che vuole far arrestare l’ex direttore dell’FBI, James Comey, che è stato in carica sia con Obama che con lui un anno.
Il presidente lo aveva già allontanato nel 2017 dal suo incarico e, notizia di poco fa, apparsa direttamente sul suo profilo Facebook e Twitter, Donald annuncia che è stato “preso”.


Che sia solo un anticipo del mega scandalo che sconvolgerà gli Stati Uniti?

Trump, in sordina, secondo alcune agenzie di stampa come Fox News, CNBC e Wall Street Journal, sta facendo una lotta interna verso alcuni elementi, secondo lui corrotti, dello Stato Americano. E Trump, con i suoi tweet, non fa altro che mandare messaggi in codice che precedono, spesso indagini e arresti.

Nel 2016, secondo i repubblicani, ci sono state delle interferenze nelle votazioni americane a favore dei democratici e ci sarebbe in corso una vera e propria caccia alle email e alle prove di tutto ciò.
Ma questa sembrerebbe solo la punta dell’iceberg.

Sono molti i fronti aperti di Trump, a livello di “pulizia” dell’apparato statale americano ed infiltrazioni estere, come nella sanità, e sono molte le persone che sono state prese di mira. Per citarne alcune: Anthony Fauci, sotto indagine per conflitto di interessi e finanziamenti, forse illeciti all’OMS, Hillary Clinton sotto mirino per le elezioni del 2016 e lo scandalo PizzaGate e Bill Gates, che ha ricevuto su una petizione a suo carico 500.000 firme poco dopo che Trump ha tolto i fondi all’OMS.

Sta per scoppiare qualcosa di grande, di mai visto, negli States?
Che conseguenze ci saranno per l’Europa e per l’Italia?




Trump e Putin annunciano un piano di disarmo e cooperazione Russia-USA-Cina
AlterLab
Di Umberto Pascali
Washington, 8 Maggio 2020

https://www.alterlab.info/2020/05/08/tr ... -usa-cina/

Nel giorno in cui il tentato golpe del Deep State contro Donald Trump viene ufficialmente sconfitto, con il proscioglimento del Gen Michael Flynn (l’ex consigliere di Trump vittima di una montatura legale che lo dipingeva come agente russo) , Vladimir Putin e Trump discutono amichevolmente al telefono il lancio di una collaborazione tripartita tra USA, Russia e Cina per il disarmo e la cooperazione. Il Deep State, le agenzie di intelligence e i loro burattinai a Wall Street e Silicon valley, gli autori di quattro anni di provocazioni e false accuse di interferenza Russa nelle elezioni americane, sono adesso in preda al panico.

Putin e Trump “partners contro il comune nemico”

La ragione della telefonata, come pure di un precedente comunicato congiunto, era la celebrazione del 75mo anniversario della vittoria Russo-americana contro il nazismo. L’enfasi era tutta sulla cooperazione e la vittoria contro il “nemico comune”, il nazismo, come e’ adesso “nemico comune” il Coronavirus.

In un comunicato pubblicato dal Cremlino si legge “I due presidenti hanno sottolineato l’importanza storica delle relazioni alleate che collegavano le due nazioni durante la Seconda guerra mondiale e hanno permesso a entrambi i paesi di porre fine a una minaccia comune. I leader hanno sottolineato che sulla base di queste tradizioni, la Russia e gli Stati Uniti possono ottenere molto nel risolvere i problemi urgenti del nostro tempo, compreso il mantenimento della stabilità strategica, la lotta antiterroristica, la risoluzione dei conflitti regionali e il controllo dell’epidemia.“

“Discutendo sulla pandemia di coronavirus, i presidenti sono stati positivi riguardo alla cooperazione bilaterale e hanno convenuto di continuare a rafforzare il coordinamento in questo settore. In particolare, il presidente degli Stati Uniti si è offerto di inviare una spedizione di attrezzature mediche in Russia…”

Trump ha fatto eco in uno scambio coi giornalisti mentre si trovava in Texas per coordinare la risposta alla crisi del Coronavirus. “E’ stata una bella telefonata… “La Russia sta attraversando un periodo difficile con lo stesso COVID-19. Sono stati colpiti come tutti gli altri sono stati colpiti. E abbiamo parlato a lungo.
E anche, questo è il 75 ° anno – e sapete cosa significa il 75° anniversario! Mi ha chiamato perché eravamo partners in una guerra che abbiamo vinto. Ed è stato molto bello. Ha chiamato – e’ stata una chiamata di congratulazioni, una chiamata di celebrazione, perché era il 75 ° anniversario. Inoltre, ho suggerito se ne hanno bisogno di ventilatori, perché abbiamo molti ventilatori, ci piacerebbe inviarne alcuni e lo faremo al momento opportuno. Invieremo loro alcuni ventilatori.”
“È stata una bella telefonata. E ricordatevi questo: la frode dell’interferenza Russa ha reso molto difficile per la Russia e gli Stati Uniti confrontarsi. La Russia è una nazione molto importante. Perché non dovremmo avere a che fare l’uno con l’altro… Ma è stata la montatura dell’interferenza Russa – una frode assoluta, disonesta. Ha reso molto difficile per il nostro paese collaborare con il loro paese. E ne abbiamo discusso. Ho detto: “Sai, è un momento molto appropriato”. Perché ora le cose stanno aggiustandosi, si stanno mettendo a posto, con la prova che è stata una bufala tutta questa indagine. È stata una vergogna totale.“

Trump ha aggiunto una frase che sta facendo impazzire i giornalisti (“ma cosa vuole dire? E’ una minaccia?) e sta gelando il sangue ai capetti dello Stato Profondo: “Non sarei sorpreso se vedessi accadere molte cose nelle prossime settimane. Questo è solo un pezzo di un puzzle molto disonesto.”

E ha messo l’accento sul negoziato per il disarmo, finora congelato o buttato a mare tra le tante provocazioni della Quinta Colonna washingtoniana. Un giornalista ha chiesto a Trump: “Lei ha cercato di organizzare un vertice sul controllo degli armamenti con il presidente Putin e il presidente Xi. Sta avendo nessun risultato?”

Trump: “Stiamo parlando del controllo degli armamenti con la Russia e andremo avanti con questo. E ne stiamo parlando molto seriamente: avere il controllo degli armamenti. Hanno molte armi nucleari, e anche noi. E stiamo parlando di un controllo degli armamenti con la Russia. Si. Vorrebbero farlo. Ci piacerebbe farlo.”

Si torna all’accordo Cina-USA fatto saltare dal COVID?

E Trump non è stato timido sulla questione Cina. È noto che molti dei neoconservatori accampati nel partito Repubblicano vorrebbero cogliere l’occasione del coronavirus per provocare una guerra aperta con la Cina. Finora Trump aveva dato l’impressione di volere una linea dura fino allo scontro con la Cina, accusata di aver lasciato arrivare l’infezione negli USA. Questa viene vista a Washington come la linea del segretario di Stato, Mike Pompeo. Ma stavolta Trump ha fatto una delle sue giravolte destinate a confondere gli avversari e, ancor più, i suoi alleati non fidati. In una comunicazione scritta passata dalla Casa Bianca alla stampa accreditata sui legge che “Trump ha ribadito che gli Stati Uniti sono impegnati in un efficace controllo degli armamenti che include non solo la Russia, ma anche la Cina, e attende con impazienza discussioni future per evitare una costosa corsa agli armamenti“.

Il 4 maggio scorso in un’intervista al New York Post, Trump aveva insistito che sebbene il virus fosse venuto dalla Cina, La leadership cinese (cioe Xi Jinping) “non l’aveva fatto apposta”. E quindi il coronavirus non poteva diventare un casus belli in nessun caso. “Non voglio parlare di guerra, non parliamo di guerra! E’ una cosa triste, Avevamo abbiamo appena concluso un accordo commerciale con la Cina qualche mese fa. Prima di questo [la crisi del Coronavirus] avevamo appena concluso un accordo commerciale, c’era un grande ottimismo. E poi succede una cosa del genere… e diventa la cosa predominante su tytto.”

Trump si riferiva all’accordo commerciale raggiunto il 12 dicembre scorso e firmato alla Casa Bianca il 15 Gennaio dal vice premiere cinese Liu He e Trump. Proprio prima che il Coronavirus sconvolgesse tutto e portasse Cina e USA sull’orlo di una guerra calda. Trump aveva lavorato per lungo tempo per arrivare ad un accordo, lo stesso, apparentemente aveva fatto il presidente Xi. Nell’aprile del 2019, in una delle tappe negoziali alla Casa Bianca, Trump aveva teatralmente chiesto a Liu He cosa pensasse del “ridicolo” ammontare speso in armamenti dai due paesi. “Stanno producendo tante armi, armi tremende. Anche noi. Avevamo appena approvato $ 716 miliardi per l’esercito l’anno scorso, e ora probabilmente faremo di più quest’anno”, aveva esclamato Trump ai giornalisti alla Casa Bianca . “Tra Russia e Cina e noi, stiamo tutti spendendo centinaia di miliardi di dollari di armi, compreso il nucleare, il che è ridicolo”. Un accordo commerciale sarebbe seguito da un accordo sul disarmo, che ne pensa il vicepremier? E, pronto, Liu He aveva risposto a gran voce: “Penso che sarebbe un’ottima idea!” Uno scambio pubblico che aveva gelato il sangue ai grandi predatori del Complesso Militare Industriale. Avevano visto in faccia la fine del loro enorme potere.

Poi era arrivato il Coronavirus…

Ritorno alla realtà?

Ma la sconfitta del Deep State nel momento più pericoloso riapre la possibilità di tornare al dialogo Russia-Cina-USA. Riusciranno i grandi oligarchi a sabotare anche questo accordo? Anche gli osservatori più cinici, non pensano che sarà possibile.

Nessuna rete di sicurezza sembra ora in grado di salvare gli spioni professionisti che hanno veduto la loro anima ai grandi oligarchi finanziari. La leadership dell’FBI, che con il direttore James Comey (licenziato da Trump) aveva inventato il Russiagate e aveva spalleggiato il partito democratico nel tentativo di impeachment del presidente, è stata completamente epurata.

Ed ora sembra arrivato il momento dell’uscita di scena, con le buone o con le cattive, anche per il successore di Comey, l’attuale direttore Christopher Wray, anche lui complice nell’operazione ma in posizione piu subdola e fumata. Il grande complice di Comey, il fautore della tortura e del terrorismo come arma di guerra, il direttore della CIA, John Brennan, anche lui cacciato in disgrazia, sta abbandonando ogni speranza di tornare a ordire le sue trame grazie al “materiale” accumulato in anni di spionaggio. Brennan, che conservava il sostegno ben pagato dei media, sta perdendo le sue pedine corrotte e ricattate non solo nel Congresso ma persino nella stampa.

Il 7 maggio 2020 rimarrà nella storia come il giorno in cui l’insurrezione contro lo stato e la Costituzione americana sono state sconfitte. Il Dipartimento di Giustizia ha ufficialmente scagionato da ogni accusa la prima grande vittima del tentato golpe, il consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale, il generale Michael Flynn, intrappolato illegalmente con accuse visibilmente false per ordine di Comey.

Flynn, ex direttore del Defense Intelligence Agency (DIA) era ed e l’uomo che sa dove sono sepolti gli scheletri a Washington. Flynn era rimasto in carica solo tre settimane. Si preparava a ripulire le stalle di Augia del Deep State. Ma i suoi nemici sapevano bene che non avrebbero avuto scampo contro un uomo che conosceva tutti i loro più inconfessabili traffici.

Perciò era stato preso in una trappola dell’FBI scattata pochi giorni dopo l’inaugurazione di Trump. Dopodiché era stata scatenata l’Operazione Impeachment diretta da un altro ex direttore dell’FBI, James Mueller.

Da quel momento è stato un susseguirsi di trucchi sporchi attuati col sostegno totale dei media. Tutto è stato tentato per impedire il consolidarsi dell’amministrazione Trump e, in particolare, per impedire una collaborazione tra Trump e Putin entrambi colpevoli di non essere al servizio dei grandi oligarchi finanziari.

Una collaborazione tra i due presidenti e col presidente cinese Xi Jinping come rappresentanti degli interessi e aspirazioni dei rispettivi popoli sarebbe stata una campana a morto per gli interessi finanziari che avevano dominato gli Stati Uniti e gran parte del mondo per parecchi decenni. Erano state questi predatori finanziari che avevano distrutto la grande opportunità emersa nel 1989 con la caduta del muro di Berlino.

Erano state queste forze che avevano impedito la dissoluzione della NATO (ormai inutile dopo la fine dell’Unione Sovietica) e l’avevano trasformata nelle legioni dell’impero mondiale usando come base la cosiddetta superpotenza americana che nel frattempo veniva saccheggiata economicamente.

Questa era stata la ragione per cui gli americani avevano votato Trump il cui programma era fine delle guerre senza fine (le legioni della NATO) e fine del saccheggio dell’economia reale.



Cadono le accuse contro Flynn, crolla un altro pilastro del Russiagate. E ora si mette male per Comey
Atlantico Quotidiano
8 Mag 2020

http://www.atlanticoquotidiano.it/rubri ... per-comey/

Il caso Flynn è andato, chiuso. Ma non finisce qui, lo Spygate è solo all’inizio. Ieri sera il Dipartimento di Giustizia ha presentato una mozione al giudice federale Sullivan in cui ritira le accuse contro il generale Flynn, a seguito delle rivelazioni contenute nei documenti rilasciati nei giorni scorsi su richiesta della difesa, di cui abbiamo già parlato su Atlantico. Documenti da cui emerge uno schema meticolosamente pianificato per indurre il generale a dire qualcosa di sbagliato o di impreciso, per poterlo perseguire per falsa testimonianza o almeno farlo licenziare. In una parola: per incastrarlo.

L’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump va dunque verso il proscioglimento e la completa riabilitazione, mentre la posizione dell’allora direttore dell’FBI James Comey, come vedremo, si aggrava. Potrebbe presto essere chiamato a rispondere della sua condotta nel Russiagate.

Pesanti come macigni le frasi che si leggono nella mozione, che suonano come altrettanti capi d’accusa nei confronti degli ex vertici dell’FBI e del DOJ. “Dopo una ponderata revisione di tutti i fatti e le circostanze del caso, comprese le informazioni di recente scoperte e divulgate… il governo ha concluso che l’interrogatorio del signor Flynn era non collegato a, e non giustificato dall’indagine di controintelligence dell’FBI nei confronti del signor Flynn”. Una indagine che, si ricorda nella mozione, l’FBI era pronta a chiudere già il 4 gennaio perché, nelle sue stesse parole, non aveva portato ad alcuna informazione di illecito. “Il governo non è persuaso che l’interrogatorio del 24 gennaio 2017 fu condotto su basi investigative legittime e, quindi, non crede che le dichiarazioni di Flynn, anche se non vere, potessero valere come prova”.

Ma c’è di più. Non solo il DOJ dice che l’FBI non aveva una legittima ragione legale per interrogare Flynn, ma anche che non ci sono prove sufficienti che il generale abbia davvero mentito agli agenti durante l’interrogatorio illegale di quel 24 gennaio: “Inoltre, non crediamo che il governo possa provare oltre ogni ragionevole dubbio le false dichiarazioni”. L’intera indagine su Flynn era basata “unicamente sulle sue telefonate con Kislyak”, l’ambasciatore russo a Washington. E le chiamate erano “del tutto appropriate”.

Poco prima della presentazione della mozione, si è dimesso dal caso il procuratore Brandon Van Grack, che aveva fatto parte del team Mueller e aveva ottenuto l’ammissione di colpevolezza di Flynn, minacciando di perseguire il figlio se non avesse firmato e nascondendo numerose prove a discolpa, quelle che stanno venendo fuori nelle ultime settimane.

Ma la decisione del DOJ di ritirarsi non chiama in causa solo Van Grack. I passaggi della mozione che vi abbiamo riportato, i documenti già declassificati e quelli usciti ieri, che vedremo tra breve, indicano che dall’allora Attorney General ad interim Sally Yates, al direttore dell’FBI Comey e al vice McCabe, fino agli agenti Strzok e Page, hanno tutti inventato una ragione fasulla per interrogare Flynn e mentito sulle sue risposte per incastrarlo.

Testimoniando al Congresso il direttore Comey ricordò che nonostante non avessero notato i segnali tipici di chi sta mentendo, “la conclusione degli investigatori era che lui stava chiaramente mentendo”. “Non c’è dubbio che stava mentendo”. E confermava che con “mentire” intendeva proprio l’intento di ingannare: “Sicuro”.

Nella mozione del DOJ questa versione viene smentita: “Dopo l’interrogatorio – si legge – gli agenti espressero incertezza sul fatto che Flynn avesse mentito. Gli agenti riportarono alla loro leadership che Flynn aveva mostrato ‘un atteggiamento molto sicuro’ e ‘nessun indicatore di inganno’. Entrambi gli agenti avevano l’impressione in quel momento che Flynn non avesse mentito o che non ritenesse di dichiarare il falso”. E quando al direttore Comey fu chiesto se Flynn avesse mentito, riporta il DOJ, lui rispose: “I think there is an argument to be made he lied. It is a close one”.

Sempre Comey ha confermato al Congresso l’esistenza di un rapporto degli agenti FBI sull’interrogatorio di Flynn del 24 gennaio, ma non è mai stato fornito fino ad oggi da FBI o DOJ, che anzi hanno affermato che non esiste.

Da un altro documento declassificato ieri, emerge che la vice AG Sally Yates dichiarò all’FBI di aver appreso delle telefonate di dicembre tra Flynn e Kislyak, e che avevano riguardato anche le sanzioni, dal presidente Obama in persona, al termine di una riunione nello Studio Ovale il 5 gennaio, sullo scadere quindi della transizione tra le due amministrazioni, e di esserne rimasta sorpresa. Il presidente chiese se bisognava trattare Flynn diversamente e il direttore Comey, anche lui presente come il vicepresidente Biden, fece riferimento al Logan Act ma non ad una indagine su Flynn, sempre secondo la versione della Yates, non smentita.

Il 6 gennaio Comey, come ricorderà lui stesso, aggiornò Sally Yates e da quel giorno “niente, per quanto ricordi, accade fino al 13 gennaio”, quando David Ignatius pubblica sul Washington Post un pezzo in cui riporta delle telefonate Flynn-Kislyak e parla della possibile violazione del Logan Act.

Ricapitoliamo: del 4 gennaio è il rapporto dell’FBI che chiude l’indagine su Flynn perché non aveva prodotto nulla. Almeno dal 5 gennaio il presidente Obama sa delle telefonate e del loro contenuto (le sanzioni), anche se come l’FBI stessa scriveva nel rapporto conclusivo non c’era nulla di illecito o inappropriato. Del 24 gennaio l’interrogatorio alla Casa Bianca in cui Flynn viene incastrato – e dello stesso giorno le note in cui l’agente Priestap si chiede se lo scopo è farlo confessare o indurlo a mentire per poterlo perseguire o almeno farlo licenziare.

Il 4 gennaio, con il coinvolgimento del “7° piano” (dove sono gli uffici di Comey e McCabe), l’agente Strzok aveva ottenuto di tenere aperta un’indagine praticamente chiusa, ma da quel giorno non succede niente fino al 13 gennaio, cioè fino al leak (illegale) a Ignatius, che a questo punto appare evidente sia servito, facendo esplodere pubblicamente il caso, a “giustificare” la prosecuzione dell’indagine e l’interrogatorio.

Dai documenti declassificati ieri, sappiamo anche che le trascrizioni delle telefonate Flynn-Kislyak furono opera dell’FBI, che per Comey “erano tenute molto strette”, e che della stessa FBI fu la decisione di rivelare il nome di Flynn in esse. Il che restringe di molto il cerchio per quanto riguarda il nome di chi può averle passate a Ignatius.

I motivi per cui l’FBI aveva deciso, fin dall’agosto 2016, di aprire un’indagine di controintelligence su Flynn emergono da un altro documento e appaiono davvero debolucci: Flynn viene “nominato consigliere del team Trump su questioni di politica estera nel febbraio 2016; ha legami con varie entità affiliate allo stato russo, come riportato da informazioni pubbliche; ed è stato in Russia nel dicembre 2015, come riportato da informazioni pubbliche”.

Va ricordato anche che nel 2014 il presidente Obama aveva licenziato Flynn, allora a capo della Defense Intelligence Agency. All’epoca il generale sosteneva che non si combattesse abbastanza il terrorismo islamico e aveva prodotto un rapporto in cui si avvertiva come il caos in Siria avrebbe favorito la nascita dell’Isis. Denunciava incompetenze e fallimenti dell’intelligence, sostenendo la necessità di una sua riforma di sistema. Note anche le sue posizioni intransigenti sull’Iran, in particolare la sua totale contrarietà all’accordo sul programma nucleare. Da consigliere per la sicurezza nazionale di Trump avrebbe potuto contribuire a spazzare via la principale eredità di politica estera di Obama – cosa che è comunque avvenuta.

Ieri sera, intervistato dalla CBS, l’Attorney General William Barr ha spiagato la decisione del Dipartimento di ritirare le accuse contro Flynn: “Voglio assicurarmi di ripristinare la fiducia nel sistema. C’è un solo standard di giustizia. E credo che… la giustizia in questo caso richieda di respingere le accuse contro il generale Flynn”. A dimostrazione della condotta non in buona fede degli investigatori, “una cosa che le persone vedranno quando guarderanno i documenti, è come il direttore Comey abbia volutamente aggirato il Dipartimento di Giustizia e ignorato il vice procuratore generale Yates”. Barr ha ribadito comunque che sulle origini del Russiagate, sia prima che dopo le elezioni, sta indagando il procuratore Durham e se emergeranno comportamenti penalmente rilevanti, gli autori verranno perseguiti.

Molto più duro il presidente Trump sul caso Flynn:

“È stato preso di mira dall’amministrazione Obama. E fu preso di mira per cercare di abbattere un presidente. Quello che hanno fatto è una vergogna e spero che verrà pagato un prezzo alto. Un alto prezzo dovrebbe essere pagato. Non c’è mai stato niente di simile nella storia del nostro Paese. Ciò che hanno fatto, ciò che l’amministrazione Obama ha fatto è senza precedenti. Non è mai successo. Mai. Una cosa del genere non è mai accaduta prima nella storia del nostro Paese e spero che molte persone pagheranno un prezzo enorme. Perché sono persone disoneste, corrotte… Sono feccia. Feccia umana. Il Dipartimento di Giustizia dell’amministrazione Obama è stato una vergogna e sono stati beccati… È tradimento, è tradimento”.

Insomma, il caso Flynn è stato montato sulla base di un interrogatorio illegittimo e le telefonate incriminate erano “del tutto appropriate”.

Non c’era fondato motivo nemmeno per mettere sotto sorveglianza Carter Page e, tramite lui, la Campagna Trump.

Furono nascoste alla Corte FISA prove a discolpa sia di Page che di Papadopoulos.

Il falso dossier Steele, pagato dai Democratici e dalla Clinton, pieno di disinformazione russa.

Cosa resta del Russiagate? Zero. Ma non leggerete nulla di tutto questo sui giornali italiani che nel 2017 fecero da megafono alla più grande bufala della storia americana, mentre in realtà si consumava il più grande scandalo politico dai tempi del Watergate.



Obamagate peggio del Watergate: tutte le impronte di Obama nella campagna per sabotare la presidenza Trump
Atlantico Quotidiano
13 maggio 2020

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... nza-trump/


“Obamagate makes Watergate look small time!”, il Watergate è poca cosa in confronto all’Obamagate. “Il più grande crimine politico della storia americana”, un crimine “molto grave”. I roboanti tweet del presidente Trump di ieri e dei giorni scorsi aprono di fatto quello che lui stesso ha ribattezzato “Obamagate” e sembrano suggerire che l’inchiesta del procuratore Durham sulle origini dell’indagine di controintelligence sulla presunta collusione con la Russia stia puntando al bersaglio più grosso: l’ex presidente Obama.

Sui media italiani, gli stessi che per mesi hanno cavalcato e fatto da megafono alla bufala del Russiagate, è probabile che non leggerete e non sentirete nulla di quanto sta accadendo in questi giorni a Washington.

Ma come si è arrivati al coinvolgimento dell’ex presidente Obama in quello che l’Attorney General William Barr ha di recente definito “un intero schema di eventi per sabotare la presidenza Trump”?
Da un passaggio della testimonianza declassificata dell’ex vice procuratore generale Sally Yates, che abbiamo riportato già la scorsa settimana. La vice AG dichiarò al team del procuratore speciale Mueller di aver appreso delle telefonate di dicembre tra il generale Flynn (consigliere per la sicurezza nazionale entrante) e Kislyak (l’ambasciatore russo a Washington), e del loro contenuto, sanzioni comprese, dal presidente Obama in persona, al termine di una riunione nello Studio Ovale il 5 gennaio 2017, sullo scadere quindi della transizione tra le due amministrazioni, e di esserne rimasta “sorpresa”.
Presenti anche il vicepresidente Biden, il direttore dell’FBI Comey e il consigliere per la sicurezza nazionale Susan Rice. L’incontro seguiva una riunione più allargata con tutti i vertici della comunità di intelligence Usa (Brennan della CIA e il DNI Clapper) che aveva come oggetto la valutazione sulle interferenze della Russia nelle elezioni presidenziali appena tenutesi con l’esito che sappiamo. Dell’indagine su Flynn e delle sue telefonate con Kislyak si parlò anche nella riunione allargata precedente?

Dalle audizioni a porte chiuse della Commissione Intelligence della Camera declassificate la scorsa settimana (57 in tutto tra 2017 e 2018, 6.000 pagine) sappiamo che l’allora direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, testimoniò a luglio del 2017 di non aver mai informato il presidente Obama dell’oggetto di quelle conversazioni. Ma durante la sua audizione del 2 marzo, il direttore dell’FBI Comey aveva dichiarato che fu proprio Clapper ad informare il presidente prima dell’incontro nello Studio Ovale con Rice, Comey e Sally Yates.

Le identità dei funzionari dell’amministrazione Obama che erano a conoscenza delle chiamate tra Flynn e Kislyak sono diventate uno snodo chiave nell’indagine del procuratore Durham. Il nome di Flynn e i contenuti dei suoi colloqui con Kislyak erano informazioni classificate ai massimi livelli, eppure furono passate al Washington Post all’inizio di gennaio per creare un pretesto affinché l’FBI interrogasse Flynn. Un grave illecito. Di ieri la notizia che l’attuale direttore dell’Intelligence Nazionale, Richard Grenell, ha autorizzato la declassificazione dei nomi dei funzionari che autorizzarono l’identificazione di Flynn nelle trascrizioni delle intercettazioni.

Ora sappiamo, dalle note del capo della controintelligence Bill Priestap, che abbiamo già riportato, dagli altri documenti di recente declassificati e dalla richiesta del Dipartimento di Giustizia di lasciar cadere le accuse contro Flynn, che in quelle conversazioni telefoniche non c’era nulla di inappropriato, che l’FBI già il 4 gennaio era pronta a chiudere l’indagine, ma che al 7° piano dell’agenzia (direttore e vice) decisero di tenerla aperta e di interrogare, pur senza basi investigative legittime, il primo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, per indurlo in errore così da poterlo incriminare o farlo licenziare. In una parola, una trappola, che avrebbe letteralmente fatto esplodere il Russiagate.

Due giorni dopo l’interrogatorio del 24 gennaio, Sally Yates, in quel momento procuratore generale ad interim, utilizzò quelle trascrizioni per cercare di far licenziare Flynn, avvertendo la Casa Bianca che il neo consigliere si era “compromesso” con una falsa dichiarazione ed era “vulnerabile” ai ricatti russi. Cosa che sapeva benissimo essere falsa.

Ma la versione della Yates, non smentita, indica che almeno dal 5 gennaio il presidente Obama era a conoscenza dell’indagine e del contenuto delle telefonate, e mostra come il direttore Comey abbia volutamente aggirato il Dipartimento di Giustizia e ignorato la vice procuratore generale. Il team Durham starebbe indagando per verificare i sospetti dei legali di Flynn, secondo i quali fu proprio Obama a ordinare a Comey e alla Yates di continuare l’indagine sul generale, sul presupposto della violazione del Logan Act, proprio durante l’incontro del 5 gennaio. Sulla base evidentemente di una motivazione politica, dato che elementi a suo carico non erano emersi, nemmeno nelle telefonate con Kislyak, e l’indagine era già praticamente chiusa dal giorno prima. Insomma, sarebbe stato Obama il vero architetto del Russiagate.

C’è anche una prova “logica”. Nelle dichiarazioni del vice direttore McCabe e del capo della controintelligence Priestap, la decisione dell’FBI di non procedere con un “briefing difensivo” al candidato Trump sul rischio che qualcuno della sua squadra stesse colludendo con la Russia viene sempre motivata con il fatto che all’epoca non sapevano esattamente chi della Campagna fosse coinvolto con i russi e non volevano pregiudicare l’indagine influenzando il comportamento dei sospettati. Ci sta. La motivazione però non regge più all’indomani dell’elezione di Trump, dal momento che l’FBI aveva ormai individuato quattro persone, tra cui il generale Flynn, su cui concentrare le proprie indagini in altrettanti filoni dell’inchiesta Crossfire Hurricane. Eppure, ancora nessun “briefing difensivo” a colui che era nel frattempo diventato il presidente eletto.

Quindi arriva l’incontro del 5 gennaio. Nei suoi appunti, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale Susan Rice ricorda che “dal punto di vista della sicurezza nazionale, il presidente Obama ha affermato di voler essere sicuro che, mentre ci impegniamo con la squadra entrante, stiamo attenti nell’accertare se c’è qualche motivo per cui non possiamo condividere completamente le informazioni per quanto riguarda la Russia”. Inoltre, scrive la Rice, “il presidente ha chiesto a Comey di informarlo di qualsiasi sviluppo nelle prossime settimane che dovrebbe influenzare il modo in cui condividiamo informazioni classificate con la squadra entrante”. E il direttore dell’FBI eseguirà l’ordine.

Obama sapeva che il presidente Trump avrebbe nominato Flynn consigliere per la sicurezza nazionale. E sapeva che era in corso un’indagine dell’FBI su Flynn, sull’ipotesi che collaborasse con la Russia. Eppure, ordinò ai suoi di non metterne al corrente il presidente eletto.

Anche dopo l’insediamento della nuova amministrazione, Comey ha continuato a seguire il suggerimento di Obama non informando Trump e, anzi, violando prassi e protocolli il 24 gennaio ha mandato i suoi agenti alla Casa Bianca per interrogare Flynn.

Delle due l’una, come ha osservato Margot Cleveland di The Federalist, o il presidente Obama voleva lasciare un sospetto “agente russo” alla Casa Bianca, o sapeva che l’intera indagine era una bufala, una montatura.

In effetti, le impronte di Obama sulla campagna di sabotaggio (e spionaggio) ai danni del team del presidente eletto erano già evidenti nel marzo 2017, quando scrissi questo articolo.
Solo sette giorni prima di andarsene, come riportava Usa Today, l’allora presidente modificò la linea di successione al Dipartimento di Giustizia in modo che un suo uomo si trovasse a supervisionare l’indagine sui legami Trump-Russia nel caso il nuovo Attorney General Sessions fosse stato costretto a ricusarsi (come poi è avvenuto). E come riportato dal New York Times, solo 14 giorni prima di lasciare, Obama aveva esteso i poteri della NSA (Executive Order 12333) per consentirle di condividere le trascrizioni delle “comunicazioni personali intercettate” con altre 16 agenzie federali (tra cui l’FBI) prima di applicare le restrizioni previste dalla tutela della privacy, in modo che funzionari a lui fedeli ovunque nell’amministrazione potessero più facilmente avere accesso, utilizzare, ed eventualmente passare alla stampa amica, passaggi attentamente selezionati. Lo stesso NYT riportava che negli ultimissimi giorni di presidenza Obama, alcuni funzionari della Casa Bianca si sono fatti in quattro per assicurarsi che le informazioni fossero preservate e diffuse il più possibile tra le agenzie governative, ad uso e consumo di eventuali ulteriori indagini e della stampa.

Ma nei giorni scorsi sono emersi ulteriori elementi rilevanti rispetto all’incontro del 5 gennaio nello Studio Ovale che chiama in causa l’ex presidente Obama.

Cosa è emerso dalle audizioni a porte chiuse dalla Commissione Intelligence della Camera? È emerso che proprio mentre era in corso l’inchiesta del procuratore speciale Mueller, e mentre i Democratici e la stampa liberal (e di mezzo mondo) alimentavano la narrazione del Russiagate fino alla procedura di impeachment, gli alti funzionari dell’amministrazione Obama, nel chiuso delle stanze della Commissione presieduta dal Democratico Adam Schiff, ammettevano di non aver visto “prove empiriche” di una collusione tra la Campagna Trump e la Russia. A cominciare dall’ex DNI James Clapper: “Non ho mai visto alcuna prova empirica diretta che la Campagna Trump o qualche suo associato stesse complottando o cospirando con i russi per interferire nelle elezioni”. Preoccupazioni sì, “prove aneddotiche”, ma niente di più. In questi termini anche l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Susan Rice, l’ex vice consigliere Ben Rhodes (“non ho visto prove specifiche”) e l’ex ambasciatrice all’Onu Samantha Power. Persino l’ex Attorney General Loretta Lynch, alle cui dipendenze era l’FBI, che indagava sulla Campagna Trump almeno dal 31 luglio 2016, se non da prima.

L’allora direttore ad interim dell’FBI, Andrew McCabe, ammetteva che il dossier Steele non era stato verificato. E oggi sappiamo dal rapporto Horowitz che fu l’elemento “essenziale” per ottenere, ingannando la Corte FISA, l’autorizzazione a sorvegliare Carter Page.

Ma c’è di più. Sempre in una di queste audizioni, John Podesta, il presidente della Campagna Clinton, ha ammesso che sia lui che la candidata Dem sapevano di aver commissionato la ricerca di materiale compromettente sui legami di Trump con la Russia. E ha ammesso che tramite lo studio legale Perkins Coie, il Comitato nazionale democratico e la Campagna Clinton si sono divisi fifty-fifty i costi della Fusion GPS e del dossier Steele, anche se ha precisato di averlo saputo dopo le elezioni e la sua prima testimonianza al Senato. Il legale della Campagna Clinton Marc Elias ha testimoniato di aver spedito il conto della Fusion al manager della Campagna, Robby Mook.

Importanti rivelazioni anche nella testimonianza declassificata di Michael Gaeta, l’agente dell’FBI che dall’ambasciata di Via Veneto, a Roma, gestiva la fonte Christopher Steele. Gaeta ha dichiarato di aver chiesto a Steele nel luglio 2016 “se il dossier non era verificato. Disse che non aveva alcuna conferma indipendente da altre fonti”. Eppure, Gaeta inoltrò il dossier ai piani alti dell’FBI. Tra luglio e ottobre 2016, furono sei i rapporti riguardanti Trump e la Russia che come informatore retribuito Steele ha passato all’FBI. Gaeta ha inoltre testimoniato di aver annotato in rapporti FD-1023 il suo primo incontro con Steele il 5 luglio 2016 (a Roma) e l’ultima conversazione, a novembre, ma l’ispettore generale Horowitz non ne ha menzionato alcuno nel suo rapporto. All’ex agente britannico la sede centrale dell’FBI accordò un lauto compenso, che gli fu offerto durante un altro incontro, il 3 ottobre, anche questo a Roma, con tre agenti del team che indagava sulla Campagna Trump. Circa un mese dopo, la chiusura formale del rapporto con Steele, dopo aver scoperto che stava diffondendo parti del dossier alla stampa e a mezza Washington.

Insomma, da prima dell’insediamento del presidente Trump alla Casa Bianca, l’FBI, il Dipartimento di Giustizia e i funzionari apicali dell’amministrazione Obama, sapevano tutti che non c’era alcun elemento concreto che provasse una collusione del team Trump con la Russia. Nulla era emerso su Flynn. Il dossier Steele era una bufala, che l’FBI sapeva – come accertato dall’ispettore Horowitz – essere non verificato, pagato dal Comitato nazionale democratico e dalla Campagna Clinton, nonché pieno di disinformazione russa. Anche il contatto Papadopoulos-Mifsud, usato per giustificare l’apertura dell’indagine Crossfire Hurricane il 31 luglio 2016, non aveva portato a nulla, come mostra il colloquio di fine ottobre 2016 con un informatore di recente declassificato. Eppure, i funzionari – ex o ancora in carica – fedeli a Obama inondavano di leaks la stampa liberal per alimentare la narrazione del Russiagate e delegittimare la presidenza, facendo credere che dalle indagini stavano emergendo tonnellate di prove, pur sapendo che era vero il contrario. Sulla base di questa montatura è stato nominato il procuratore speciale Mueller, il cui scopo era di porre le basi per l’impeachment, nel caso di maggioranza Dem anche al Senato, e il cover-up dell’indifendibile indagine di controintelligence condotta dall’FBI. “La vittoria di Donald Trump – sentenzia il board del Wall Street Journal – ha aumentato le possibilità che questo spionaggio senza precedenti su un avversario politico venisse scoperto, il che sarebbe stato per lo meno imbarazzante”. “Prendere di mira Flynn, e vendere lo screditato dossier Steele”, ha consentito di mantenere “bollente” il Russiagate e di aprire l’indagine Mueller, che dopo due anni “non ha prodotto prove di collusione”.
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