I fiołi de ła viołensa

I fiołi de ła viołensa

Messaggioda Berto » ven lug 08, 2016 5:00 am

I fiołi de ła viołensa
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Per me, una donna che ha subito la violenza dello stupro, se rimasta in cinta, ha tutto il diritto di scegliere se abortire e se abbandonare il frutto della violenza.
L'uomo è una creatura di D-o ma non è una proprietà di D-o, non è un bene, un servo o uno schiavo di D-o;
l'uomo, per quanto gli compete, è padrone e responsabile della sua vita, dei suoi atti.

Sarebbe una forma di legittima difesa.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: I fiołi de ła viołensa

Messaggioda Berto » ven lug 08, 2016 5:01 am

«Se non porti via tuo figlio, gli do fuoco». La tragedia dei “bambini di Boko Haram”
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luglio 7, 2016 Leone Grotti

Aisha Umar è stata rapita da Boko Haram, stuprata e messa incinta. Scappata, è tornata al suo villaggio con il figlio. Ma è stata cacciata

http://www.tempi.it/se-non-porti-via-tu ... 36-2jXV9Xm

Non le hanno perdonato di essere stata rapita da Boko Haram, detenuta per quasi un anno nella foresta, stuprata più volte dai jihadisti e infine messa incinta. Per questo quando Aisha Umar, 28 anni, è scappata ed è tornata nella sua casa natale di Gwoza, nello Stato settentrionale di Borno, in Nigeria, è dovuta scappare di nuovo.

«BRUCIO TUO FIGLIO». Un uomo è andato da Aisha e ha minacciato di bruciare Mohammed, il figlio di appena due anni concepito dopo essere stata stuprata da un combattente di Boko Haram: «Se non porti via tuo figlio, lo cospargo di benzina e gli do fuoco fino a che non rimarranno solo le ceneri». Così Aisha, madre di altri tre figli, è dovuta scappare a Madagali, a 22 km di distanza nello Stato di Adamawa, dove vive il fratello.

FIGLI DI BOKO HARAM. «Nessuno voleva giocare con mio figlio», racconta Aisha all’agenzia Reuters. «Lo chiamavano figlio di Boko Haram». L’uomo che ha minacciato di bruciare il bambino ha perso i suoi tre figli per colpa dei jihadisti, ma il suo odio e il desiderio di vendetta si mischiano alla credenza locale secondo la quale un bambino che ha nelle vene sangue jihadista non potrà che diventare jihadista da grande. «Il figlio di un serpente è un serpente», si dice in Nigeria, e anche le donne liberate vengono spesso respinte dai familiari nel timore che siano state indottrinate e radicalizzate da Boko Haram.

IL RAPIMENTO. Aisha come altre migliaia di donne è stata rapita nell’agosto del 2014 dai terroristi islamici, che hanno ucciso il marito sparandogli in testa. La donna è stata portata nella foresta Sambisa, quartier generale dei jihadisti, e sposata a un combattente. Dopo un anno è scappata e ha fatto ritorno al suo villaggio, dove ha scoperto che i tre figli erano vivi, avendo vissuto durante la sua assenza con i vicini.

«MAMMA, PORTALO VIA». Ma i bambini non hanno mai apprezzato il piccolo Mohammed: «La gente ha cominciato a insinuare che il loro fratellino era un bambino di Boko Haram e così non hanno più voluto giocare con lui. La mia figlia più grande mi ha detto un giorno: “Mamma, per favore, riporta questo bambino a suo padre e poi torna da noi”».

CONTINUA LA DISCRIMINAZIONE. Il trasferimento a Madagali non ha posto fine alla discriminazione. I suoi parenti non vogliono neanche toccare Mohammed, che in pubblico viene additato, insultato e tenuto a distanza da tutti. Aisha ha ormai raggiunto il limite della sopportazione, tanto da dichiarare: «Se qualcuno volesse portarsi via mia figlio, sarebbe il benvenuto».
@LeoneGrotti

Eh sì, lè na traxedia!


Nijeria, Senegal e ixlam
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Re: I fiołi de ła viołensa

Messaggioda Berto » ven lug 08, 2016 5:02 am

LA VIOLENZA SULLE DONNE NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
2 luglio 2014
di Michele Strazza -

http://www.storiain.net/storia/la-viole ... nde-guerra

In Belgio e in Francia nelle prime fasi del conflitto si registrarono numerosi stupri da parte di soldati tedeschi, puntualmente documentati da organizzazioni internazionali e da associazioni feministe. Nel 1919 a Versailles si decise di procedere contro i colpevoli, introducendo il reato di “crimine contro l’umanità”. Ma di fatto solo pochi processi furono istituiti.

Nell’agosto del 1914, nel corso dell’invasione del Belgio da parte dell’esercito tedesco le truppe germaniche si macchiarono di numerosi episodi di stupro ai danni delle donne belghe, suscitando allarmate reazioni nell’opinione pubblica.
Anche nel nord della Francia vennero denunciati casi di violenza carnale commessi dai reparti tedeschi, puntualmente registrati da una commissione d’inchiesta alleata.
Sulle violenze perpetrate in Belgio e nella Francia settentrionale forniscono informazioni importanti le testimonianze delle tante donne europee e americane, soprattutto dottoresse ed infermiere, che si recarono sul posto per assistere le vittime degli stupri.
Tra esse ricordiamo le volontarie dell’American Women’s Hospital che operarono tra le profughe. Entrando in contatto con le ricoverate della Matérnité di Chalons sur Marne, un ospedale dei “quaccheri” britannici, furono documentate tragiche situazioni, come quella di una bambina di soli 13 anni violentata da soldati ubriachi, poi aiutata da tutte le donne ricoverate durante la gravidanza e il parto.

Molte di queste volontarie erano anche convinte militanti femministe e colsero quell’occasione per elaborare importanti riflessioni “sul modo di pensare che predisponeva gli uomini alla violenza e che la guerra andava rafforzando”, scrivendo saggi immediatamente censurati dalle autorità. Così Ellen Newbold La Motte, infermiera della Croce Rossa in un ospedale militare in Belgio, nel suo The Blackwash of War (New York-London, Putnam, 1916), sostenne che la violenza sulle donne non si manifestava soltanto nello stupro, dovendo essere ricercata nella stessa mentalità maschile che considerava il corpo femminile un bene di consumo e di divertimento, proprio come il cibo e il vino.
Anche per Esther Pohl Lovejoy, ostetrica e suffragista americana, il problema della degradazione sessuale non era limitato al solo stupro. Dopo aver diretto in Francia nel 1917 l’American Women’s Hospitals, un ospedale condotto da sole donne, e aver operato in una Résidence Sociale parigina che accoglieva le profughe della Francia settentrionale, descrisse le sue esperienze in The House of the Good Neighbor (New York, Macmillan, 1919). Recatasi ad Evian-les-Bains “per vedere e conoscere di più” osservò: «E’ più difficile resistere all’effetto cumulativo della paura e del bisogno che alla violenza […] I figli della guerra sono la prova vivente di una forza più grande della violenza e dell’oltraggio deliberato. Sono il risultato della guerra, delle mutate relazioni e condizioni portate dalla guerra. Sono le conseguenze dei protettorati individuali che si sono stabiliti […]. Il soldato brutale che sfonda la porta di una casa con il calcio del suo fucile non è altrettanto pericoloso per l’onore e la felicità di quella casa di colui che arriva con un atteggiamento gentile e con un pezzo di pane per i bambini e che assicura alla donna protezione da tutti tranne che da se stesso».

Su tale linea alternativa le femministe del tempo si opposero alla centralità del dibattito sugli stupri, proponendo “un modo diverso di parlare del rapporto guerra e violenza alle donne”. Esse finivano, in tal modo, per contestare che lo stupro fosse “la sola sofferenza femminile ad avere riconoscimento pubblico” mentre i propri cari morti erano visti solo come “sacrifici volontari, generosamente offerti alla patria”.
Pur continuando a battersi per il riconoscimento degli stupri come crimini internazionali, come richiesto nel 1914 dall’International Council of Women, esse avevano come obiettivo quello di arrivare a una radicale condanna contro “la guerra in quanto tale”. Di qui il sottolineare lo stretto rapporto tra militarismo e violenza alle donne, in cui la seconda diventava diretta conseguenza del primo. Spiegava Grace Isabel Colborn nel 1914: «Il punto di vista militare è quello del disprezzo della donna, la negazione di qualsiasi valore che non sia la riproduzione. E’ questo spirito del militarismo, la glorificazione della forza bruta, che ha tenuto la donna in schiavitù politica, legale, economica».

La guerra rappresentava essa stessa “un oltraggio alla maternità” e la “degradazione del corpo femminile”. Temi, questi, che vennero riproposti, il 10 gennaio 1915, al Congresso di Washington al quale parteciparono 3.000 donne in rappresentanza dei movimenti femminili americani. Così si espresse Emmeline Pethick-Lawrence, femminista e socialista britannica: «Pensate a quegli uomini impregnati del sangue dei loro fratelli, pensate alla donne profughe prive di riparo che portano nel loro grembo violato i figli della generazione futura, pensate a quelle madri che cercano di soffocare i lamenti dei bambini tra le loro braccia, che si nascondono nei boschi, nelle fosse di qualche villaggio desolato, pensate a quei treni che riportano a casa i morti…Se gli uomini possono tollerare tutto questo, le donne non possono!»
Ma pur accettando un obiettivo generale come la condanna della guerra nella sua totalità, non si poteva rinunciare alla battaglia di far dichiarare lo stupro come un crimine internazionale. Il 10 marzo 1919 tre associazioni femminili, la Union française pour le suffrage des femmes, il Conseil national des femmes françaises e la Conférence des femmes suffragistes alliées inviarono una petizione alla Conferenza di Pace per l’istituzione di una commissione interalleata per la ricerca e la liberazione delle donne deportate e per la punizione dei colpevoli degli stupri. La petizione, firmata da ben 5 milioni di donne americane, affermava: «Tali crimini, oltre a rappresentare un mostruoso insulto alla dignità della donna, colpiscono il cuore stesso della società, la famiglia […] e pongono la società nell’alternativa seguente: o accettare la propria distruzione, tollerare il fatto che stuprare le donne e le ragazze, mutilarle, ridurle in schiavitù, costringerle alla prostituzione, diventi attraverso la forza del precedente una consuetudine ammessa dalle leggi di guerra, oppure condannare senza appello un tale precedente».

Le richieste delle associazioni femminili non avrebbero però trovato accoglimento. Infatti, nonostante la “Commissione sulla violazione delle leggi di guerra” della Conferenza avesse proposto l’istituzione di un Tribunale supremo internazionale e nonostante all’interno degli episodi di violazione delle “leggi di guerra, dell’umanità e della coscienza pubblica” avessero trovato spazio gli stupri commessi in Belgio nel 1914 e quelli di massa perpetrati in Serbia, venendo contemplato espressamente il reato di stupro, le conclusioni della Commissione non vennero accettate per la ferma opposizione dei rappresentanti degli Stati Uniti, i quali contestarono la definizione stessa di “crimine contro l’umanità”, ritenendo il concetto di “umanità” un principio vago e giuridicamente infondato. Stigmatizzando, infine, una netta distinzione tra lecito e illecito, dichiararono che la misura dell’ammissibilità di una pratica di guerra risiedeva nel vantaggio militare.
Si tenga presente che nonostante, alla fine della guerra, il Trattato di Versailles del 28 giugno 1919 avesse previsto per l’ex Kaiser un giudizio internazionale, non se ne fece niente per il rifiuto dei Paesi Bassi di estradare l’imputato e per la stessa opposizione degli Stati Uniti, dubbiosi sull’operatività di una Corte internazionale. Solo alcuni processi vennero svolti in Germania, a Lipsia, ma si conclusero con un nulla di fatto: 888 dei 901 imputati per crimini di guerra non vennero neanche processati mentre solo gli altri 13 furono condannati, ma non scontarono le pene.

Per saperne di più
Askin K.D., War Crimes Against Women. Prosecution in International War Crimes Tribunals – The Hague (L’Aia), Kluwer Law International, 1997.
Bianchi B., “Militarismo versus femminismo”. La violenza alle donne negli scritti e nei discorsi pubblici delle pacifiste durante la Prima guerra mondiale, in “DEP. Deportate, esuli, profughe”, n. 10, 2009.
Gaultier P., La barbarie allemande – Paris, Librairie Plon, 1917.
Hartman Morgan J., German Atrocities: An Official Investigation – London, Fisher Unwin, 1916.
Strazza M., Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali – Potenza, Consiglio Regionale della Basilicata-CRPO, 2010.
Toynbee A. J., The German Terror in Belgium – New York, George H. Doran, 1917.
Toynbee A. J., The German Terror in France – London, Hodder & Stroughton, 1917.
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Re: I fiołi de ła viołensa

Messaggioda Berto » ven lug 08, 2016 5:03 am

CENTOMILA FIGLI DELLA VIOLENZA
di ANNA MARIA MORI
25 febbraio 1992

http://ricerca.repubblica.it/repubblica ... lenza.html

Berlino - A raccontare l' orrore, a volte, bastano i numeri: a Berlino, subito dopo la liberazione, sono state stuprate dai "liberatori" centomila donne, vale a dire il 9 per cento di tutta la popolazione femminile berlinese dell' epoca (e i dati sarebbero stati forniti per difetto: ci sono fonti secondo le quali, ad essere stuprate, sarebbero state il 60 per cento delle berlinesi); in quella che allora era la Prussia orientale, dal dicembre ' 44, quando è iniziata la ritirata dei tedeschi, fino alla fine della guerra, le violentate da soldati dell' Armata Rossa furono due milioni: di queste, duecentomila sono morte, alcune ammazzate direttamente dai soldati che le violentavano. Altre in conseguenza dello stupro. E ancora: il venti per cento delle violentate, sono rimaste incinte: in Germania ci sono trecentomila figli dello stupro di massa del ' 45 (e anche questi sarebbero dati calcolati per difetto). Tutto questo appare nel documentario presentato al Festival di Berlino dalla regista e scrittrice Helke Sander (un suo libro di racconti è stato pubblicato due anni fa anche in Italia) e intitolato I liberatori e le Liberate: quattro ore di documenti ripescati in archivi trascurati da tutti, interviste a protagoniste e vittime, e ai figli delle vittime. Il documentario si apre e si chiude sul volto di una donna, in penombra, in fondo a un tavolo lunghissimo: è stata stuprata cento volte, ed esistono certificati d' ospedale che lo provano. E ci sono ancora documenti a proposito di una donna violentata centoventotto volte in una notte, davanti ai familiari: alla quindicesima volta è svenuta, ed è rimasta svenuta fino alla fine. Ci si chiede prima di tutto: come mai solo adesso? La Sander racconta i cinque anni di battaglie prima di poter cominciare materialmente il lavoro: non c' era televisione che la volesse finanziare. L' obiezione di tutti era politica: proprio adesso che c' è Gorbaciov, e che i rapporti tra la Germania e l' Unione Sovietica vanno così bene... Alla fine è stata una donna, capostruttura di una televisione pubblica, che, contro tutti, ha deciso di investire l' intero budget a sua disposizione nel progetto di Helke Sander: il risultato è qui, a disposizione di chi voglia fare ulteriori pensieri sul passato e sul presente. E, a guardare la platea che ha seguito tutte e quattro le ore del documentario, a Berlino, si direbbe che, sul tema, continuino a riflettere solo le donne: gli uomini erano praticamente assenti. Helke Sander, è stata solo la simpatia per Gorbaciov ad ostacolare per cinque anni la realizzazione del suo documentario? "Anche il fatto che la tragedia degli stupri sulle donne tedesche, attuati soprattutto dai russi dell' Armata rossa, e in misura infinitamente minore dagli americani e dai francesi, è sempre stato un argomento usato dalla destra contro la sinistra: tutti sapevano, da noi, tutti sussurravano, ma nessuno ne voleva parlare". Anche lei ci ha messo del tempo a decidere: anche se ha cominciato a pensarci cinque anni fa, erano comunque passati quarant' anni... "Forse anche a me è mancato il coraggio: ci pensavo, lasciavo andare il pensiero, poi dopo un po' di tempo ci tornavo su... Finché mi sono sentita forte: e ho deciso... Devo però anche aggiungere che se non ci fosse stata la caduta del Muro, mi sarebbero venute a mancare molte testimonianze, e molti documenti: per esempio quelli, importantissimi, dell' ospedale di Berlino Est, la ' Charité' , con i certificati di stupro, e le nascite di figli dello stupro". Molti suicidi E' sicura che siano duecentomila, i figli della violenza dei russi...? "Non ci sono i documenti per tutti. E, comunque, quelli che abbiamo ci consentono di fare questi numeri... Non c' è neanche da meravigliarsi tanto: a testimoniare tragicamente, al presente, della verità del nostro passato, è di questi giorni la notizia delle donne kuwaitiane: in cinquemila sono rimaste incinte in conseguenza degli stupri dei soldati iracheni, durante l' occupazione e la guerra; a nessuna è stato concesso di abortire; tutte sono state torturate psicologicamente in maniera drammatica; molte sono state mandate a partorire in Svizzera. Tutte hanno avuto un destino tremendo". Che conseguenze porta essere figlio di uno stupro? "Ne ho intervistati tre, ne conosco altri che però non hanno voluto parlare: è più difficile parlare con i figli, che con le madri stuprate. I figli vivono la loro nascita con un oscuro senso di colpa. Molti di loro si sono anche suicidati". E le donne? Quali conseguenze hanno subito? "Alcune sono impazzite, molte si sono suicidate: abbiamo le cifre dei suicidi a Berlino, e nell' aprile del ' 45 si passa dalla quota massima dei mesi precedenti, che allora era rappresentata da centocinquanta suicidi (era comunque tempo di guerra, e non sono pochi) a tremilaottocento. Normalmente, a suicidarsi, sono più gli uomini che le donne. Nell' aprile ' 45 le proporzioni cambiano: a suicidarsi sono state sicuramente di più le donne, come risulta dalla ricerca fatta allora in alcuni quartieri di Berlino". E' atroce, però si sa, è in tutti i libri di testo, a proposito di tutte le guerre: prima si conquista, poi si saccheggia e si stupra. E' la tragica normalità della guerra: che cos' è che l' ha spinta a fare questo documentario, il bisogno di dimostrare che anche quelli che una gran parte dell' umanità credeva migliori, e cioè i russi-sovietici, erano uguali o peggiori degli altri? "Io non pensavo che fossero migliori. Volevo solo capire perché tutto quello che si andava dicendo da quarant' anni sugli stupri dei russi, sotto forma di mormorio, non veniva detto pubblicamente. Un voto contro Volevo anche spiegare pubblicamente quello che non si è capito per anni: e cioè come mai, subito dopo la fine della guerra, le donne tedesche (perché gli uomini non c' erano più) hanno votato Cdu, anziché i socialisti, anche a Berlino, dove, prima, c' era una forte componente socialista e comunista. Le donne, come si è continuato a dire in quei medesimi mormorii, ' hanno votato contro i loro amanti-violentatori russi' . Questa è la verità". Nel suo documentario, lei ne ha intervistati parecchi di russi: dicono, più o meno, ' l' uomo è cacciatore' , ' le donne che si sono fatte violentare dai nostri soldati, noi le abbiamo considerate come patriote...' . "I russi hanno tutti accettato di parlare nella mia inchiesta. E nella loro assoluta ingenuità, si sono anche rivelati simpatici". Sempre nel documentario, lei dice che quelli che hanno stuprato di meno, sono gli inglesi... "E' così. Forse perché l' esercito inglese era il più omogeneo. Mentre quello francese aveva una forte componente di marocchini e tunisini, che non tenevano minimamente conto dei regolamenti che vietavano lo stupro, e, a loro volta, non erano assolutamente controllati da chi li doveva controllare. Molti continuano a dire ancora oggi che lo stupro, in guerra, è naturale: non è vero, non tutti gli eserciti lo praticano con tanta naturalezza. Alcune divisioni di cosacchi e dell' esercito prussiano, non hanno mai violentato". Cadaveri nudi Nel film lei mostra i cadaveri nudi e orrendamente mutilati di donne, con accanto ufficiali della Wehrmacht... "Ci sono stati villaggi della Prussia orientale, prima occupati dai tedeschi, poi presi dai russi, e dopo ancora riconquistati dai tedeschi: i tedeschi, a scopi propagandistici, hanno fotografato le donne stuprate e uccise dai russi: ci sono moltissimi documenti fotografici in questo senso. Esistono, in proposito, immagini ben più agghiaccianti di quelle che ho mostrato: non ce la facevo a guardarle... I russi hanno anche crocifisso le donne, inchiodate alle porte delle loro case". Anche i tedeschi, in Russia, non hanno scherzato... "In Russia sappiamo solo, dai rapporti della Wehrmacht, che esistono un milione di figli dei tedeschi occupanti: ma sembra che siano figli di un rapporto davvero consensuale. Comunque, le violenze ci sono state, eccome, anche se non abbiamo ancora i dati. Sappiamo solo con certezza che, a violentare, non sono stati quasi mai gli uomini della Wehrmacht, bensì i soldati delle Ss". Da una parte la tragedia orribile degli stupri, ancora oggi in Kuwait, e in Jugoslavia. Dall' altra i processi per molestie sessuali in cui ci sono ragazze americane che accusano uomini anche dopo averli scelti, dopo aver accettato di salire in camera con loro... Cosa pensa, in proposito? "Ho seguito poco: stavo lavorando accanitamente per finire il documentario per il Festival. Da quel poco che ho letto, mi pare che adesso ci sia un po' di esagerazione da parte delle donne... Però non fatemi dire di più: non sono documentata a sufficienza". "Tuttavia trovo terribile che gli uomini continuino a non occuparsi del problema degli stupri in guerra. Continuano a considerarli ' argomenti femminili' . E andando a scavare, scopri che argomentano: lo stupro è un modo come un altro di sentirsi vivi, di difendersi dalla paura della guerra. La logica, insomma, sarebbe: ' vorrei e dovrei ammazzare, violentare i politici che hanno voluto la guerra; non potendolo fare, mi sfogo sulle donne...' ".

http://www.maurizioblondet.it/centomila ... a-violenza
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Re: I fiołi de ła viołensa

Messaggioda Berto » ven lug 08, 2016 5:04 am

Kosovo, i figli dell' odio le nuove vittime della guerra
dal nostro inviato PIETRO DEL RE
11 settembre 1999

http://ricerca.repubblica.it/repubblica ... ttime.html

GINEVRA - Le prime, frammentarie testimonianze sugli stupri nel Kosovo risalgono al mese di aprile, quando i profughi cominciarono ad affluire verso l' Albania e la Macedonia. Poi, però, delle violenze sessuali subite dalle kosovare non se ne seppe più nulla. Non ne parlarono più le organizzazioni umanitarie, né i soldati della forza multinazionale di pace né i giornalisti, anche perché le prime a tacere erano le vittime stesse di questi abusi. Si è detto e scritto molto sugli incendi, sulle esecuzioni sommarie e sulle fosse comuni. Ma poco sugli stupri. "Eppure, le violenze sessuali sono state compiute con sistematicità dai miliziani serbi", dice la psicologa francese Dominique Serrano Fitamant, incaricata dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Fnuap) di valutare l' ampiezza e le conseguenze psicologiche degli stupri nel conflitto dei Balcani. "Sono stati stupri di massa, in serie, organizzati e pianificati in anticipo". La dottoressa Serrano Fitamant è appena rientrata da Pristina, dove ha incontrato oltre duecento donne violentate. Nel suo rapporto, parla spesso di "home sex": così i serbi chiamavano i luoghi di tortura dove venivano compiuti questi stupri collettivi. "Ne ho individivuati cinque, dove, una volta alla settimana, i miliziani portavano dalle trenta alle cinquanta donne. Quasi tutte uscivano morte". Lo stupro è una delle orrende componenti di ogni guerra. "Recentemente, è successo anche in Ruanda. Questa volta, però, in una società islamica e patriarcale come quella kosovara, è diventata un' arma per annientare le donne, per cercare di spezzare la loro identità, per fare in modo che venissero rifiutate dalla famiglia e dalla comunità. Con lo stupro si è cercato di disgregare il tessuto sociale del Kosovo", dice Carole Djeddah, responsabile del programma contro le violenze dell' Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). La dottoressa Djeddah sta preparando uno studio per affrontare questa realtà, che comprende anche il problema dei futuri figli della violenza, che vedranno la luce tra novembre e dicembre. "Le kosovare hanno subito abusi sessuali anche prima che iniziassero i bombardamenti della Nato. E già si cominciano a contare i bambini abbandonati negli ospedali di Pristina e di Pec. Poi, appena sono cadute le prime bombe, i serbi hanno messo in atto gli stupri di massa. Tra due o tre mesi, ci aspettiamo un picco delle nascite". Ma quante sono le donne violentate? Le associazioni locali e internazionali che lavorano sul problema parlano di ventimila casi di stupro. E dalle violenze compiute tra marzo e giugno, dovrebbero nascere mille o forse più bambini. "Sarà il Tribunale internazionale dell' Aja che si occuperà dei numeri: l' abuso sessuale è considerato un crimine di guerra. Ad ogni modo è difficile quantificare questi episodi, anzitutto per via della riluttanza delle donne a parlare", dice la Djeddah. Già, perché all' interno di una società tradizionalista come quella kosovara, lo stupro costituice il tabù assoluto, il disonore supremo. Per quel popolo, la violenza sulle mogli e sulle figlie è uno dei traumi peggiori con i quali dover fare i conti nei prossimi mesi, o nei prossimi anni. "I serbi stupravano anche per umiliare gli uomini, per dimostrare la loro incapacità a proteggere le donne. Nel Kosovo, le ragazze sono state violentate non solo per appagare la voglia sessuale dei soldati di Milosevic", spiega la Serrano Fitamant. In altre parole, le vittime degli stupri non erano soltanto un bottino di guerra. Queste violenze dimostrano anche l' odio atavico, interetnico tra due culture. "Alcune donne stuprate venivano lasciate in vita proprio per testimoniare il loro calvario, e per convincere le loro compagne a non mettere mai più piede in Kosovo". I serbi sceglievano per lo più ragazze giovani, tra i quindici e i venticinque anni. Spesso vergini. Venivano stuprate al momento della distruzione della loro casa, davanti a tutta la famiglia. O anche, durante la marcia verso le frontiere, in mezzo alla strada o su un camion. Le più sfortunate venivano rapite e portate nelle "home sex". La maggior parte di queste sono state uccise dopo aver ripetutamente subito violenze sessualida parte di decine di soldati. Perciò, di quei campi di stupri collettivi si hanno poche testimonianze dirette. Si conoscono però altri episodi di violenza inaudita: di donne in gravidanza sventrate per estrarre il feto e infilzarlo sulle baionette; di padri uccisi mentre tentavano di difendere le loro figlie dalla furia dei miliziani serbi; di ragazzine stuprate per ore, o per giorni, da diversi uomini. "Le donne rilasciate dopo gli stupri mostravano lacerazioni sul petto, ematomi sulle gambe, bruciature di sigaretta. Ho saputo di una madre fucilata davanti alla casa nella quale stavano violentando la figlia. Mi hanno anche raccontato di un edificio nel centro di Prizren, dove un piano era destinato alle armi, un altro ai militari e un terzo occupato da trenta kosovare. Una di questa era riuscita a fuggire, ma è stata subito riacchiappata e ammazzata", dice la psicologa francese. Adesso sarà necessario occuparsi delle vittime sopravvissute a queste violenze, creando, per esempio, strutture dove possano seguire una psicoterapia. "Per loro, c' è ancora il rischio che accada quello che è successo in Ruanda: ci sono state donne che hanno parlato, sono state fotograte, riprese dalle televisioni. E poi, una volta riconosciute, sono state ammazzate dai loro stessi stupratori. Si potrebbe anche ripetere l' errore della Bosnia, dove molte vittime, dopo aver confessato le violenze subite, furono rifiutate dalla famiglia", spiega la funzionaria dell' Oms. Bisognerà occuparsi delle donne incinte, della loro reintegrazione all' interno del nucleo famigliare, del problema dei bambini indesiderati. "In Ruanda, molti figli degli stupri sono stati abbandonati. Ci sono stati anche numerosi infanticidi. Bisognerà comunque occuparsi anche dei bambini che saranno accettati nelle famiglie, e che tra cinque anni, quando andranno a scuola, rischiano di venir marginalizzati dai loro compagni. Così come bisognerà pensare a quelli cui i miliziani hanno violentato la madre sotto agli occhi", dice Carole Djeddah. Oggi, il dovere della comunità internazionale è quello di rispondere alle necessità di queste donne, che l' Oms e il Fnuap stanno ancora valutando. "Dobbiamo agire sulle strutture sanitarie. Il punto d' arrivo delle vittime di violenze sessuali è sempre quello. Le donne, pur non confessando lo stupro, andranno negli ospedali perché avranno infezioni vaginali, dolori, gravidanze, problemi psicologici: tanti segnali che i medici e gli infermieri dovranno imparare a riconoscere. Una volta identificate le vittime, bisognerà offrire loro l' aiuto di cui hanno bisogno". I costi di queste violenze sul futuro del Kosovo potrebbero essere molti alti. Gli stupri hanno infatti un enorme impatto sulla salute pubblica di un paese. Ci sono le conseguenze immediate, come i problemi ginecologici o i traumi fisici; e quelle a medio e lungo termine, come lo stress psicologico, che può portare al suicidio o alla morte. Queste donne vanno protette e seguite da vicino, lungo tutto il percorso del loro calvario. Alcune di esse riusciranno a sublimare l' esperienza subita, magari occupandosi a loro volta di altre ragazze violentate. Ma sono pochissime. "La maggior parte di loro, rischia di finire in miseria, per via delle enormi difficoltà che avranno a ricostruire la loro vita, in una società che le stigmatizza". Per queste, la psicoterapia potrebbe non bastare. Probabilmente serviranno anche soldi e assistenza di ogni genere, perché sono donne che insieme alla loro verginità hanno perso tutto. Per loro lo stupro sarà una cicatrice perenne. Che potrebbe riaprirsi anche il giorno in cui verrà ricostruito un Kosovo pacifico e multietnico.
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Messaggioda Berto » ven lug 08, 2016 5:04 am

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Messaggioda Berto » ven lug 08, 2016 5:04 am

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Re: I fiołi de ła viołensa

Messaggioda Berto » ven lug 08, 2016 5:04 am

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: I fiołi de ła viołensa

Messaggioda Berto » ven lug 08, 2016 5:05 am

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: I fiołi de ła viołensa

Messaggioda Berto » ven lug 08, 2016 5:05 am

Le yazide fuggite dai campi dell’Isis che rifiutano i figli dello stupro
Parlano le donne violentate
di Lorenzo Cremonesi
27 gennaio 2015 | 07:10

http://www.corriere.it/esteri/15_gennai ... 491a.shtml

DOHUQ (Iraq settentrionale)
E adesso? Cosa faranno adesso le donne yazide rimaste incinte dei loro violentatori tra i jihadisti dello Stato Islamico? «Abbiamo già abortito, o lo faremo subito. Meglio morire, che avere i figli dei terroristi», dicono quelle che abbiamo incontrato negli ultimi giorni tra Dohuq, Zakho e i grandi campi profughi allestiti di fretta dai primi di agosto nelle regioni curde irachene.

Tra loro Hana Ali Haji, 25 anni, originaria del villaggio di Al Kojo, catturata il tre agosto e fuggita dai rapitori a fine dicembre, ha preso la «pillola del giorno dopo» due settimane fa. «I medici qui a Dohuq mi hanno detto che ero incinta di già oltre tre mesi. Era troppo tardi. Non ci ho pensato sopra due volte e ho abortito immediatamente, nonostante le possibili complicazioni mediche. L’uomo che mi ha violentata di più, tra altri quattro, si chiamava originariamente Alexander, un kazako cristiano 37enne convertito all’Islam col nome di Abdullah. Non ci picchiava come invece in genere fanno gli uomini iracheni. Però diceva che voleva un figlio maschio da me per educare una nuova generazione di combattenti della guerra santa. Sono tanti a pensarla come lui tra i volontari stranieri di Isis», aggiunge.
Le sue parole aprono spaccati nuovi sul mondo a noi così prossimo, eppure tanto remoto, del Califfato: davvero i pirati-guerriglieri con le schiave yazide (tutte rigorosamente convertite di forza) intendono creare una sorta di nuova «razza eletta» alla jihad? In questo caso l’aborto sarebbe il colmo della ribellione, l’estrema vendetta delle donne contro chi le ha violate. «Io non sono rimasta incinta. Ma se fosse avvenuto, non avrei esitato a impiccarmi o tagliarmi le vene, come hanno fatto tante altre ragazze sin dai primi giorni in quell’inferno», racconta Fakria Badal Halaf, 18 anni, violata dal tre agosto sino alla sua fuga rocambolesca a fine ottobre da un solo uomo.

Lei se lo ricorda benissimo. Dice: «Il suo nome di battaglia è Arkan, oppure Abu Sarkhan, ha 35 anni, è un sunnita di Mosul. Mi diceva che se fossi stata carina con lui non mi avrebbe passato ad altri, come è la regola tra loro. Ogni volta che noi abbiamo le mestruazioni si prendono una pausa e cercano di venderci ad altri gruppi. Ma lui mi ha tenuta. Diceva di non avere altre donne. Però ho scoperto che era sposato con due figli di uno e tre anni. Allora mi ha portato da sua moglie Sabrina, 21enne. Lei è andata su tutte le furie. Lo ha aggredito, mi ha dato della prostituta. Ma quando le ho spiegato che ero stata presa con la forza siamo diventate amiche, ha vietato ad Arkan di toccarmi, poi mi ha prestato il suo telefonino. Ho chiamato il mio fidanzato a Dohuq e segretamente abbiamo architettato la mia fuga. Ora lui dice che mi sposerà anche se non sono più vergine».
La sorte relativamente fortunata toccata a Fakria appare comunque un’eccezione nella tragedia corale delle yazide. «Quelle rimaste schiave sessuali di Isis sono in maggioranza giovani, spesso di età compresa tra i 12 e 25 anni. Quante? Non sappiamo con precisione, per ora abbiamo la documentazione di 1.582 rapite, ma potrebbero essere anche il doppio, stimiamo che il 90 per cento sia stato violentato. In questa fascia di età è plausibile pensare che tante possano essere incinte», dice Marzio Babille, rappresentante Unicef (l’agenzia Onu per l’infanzia) in Iraq. Un fenomeno che ricorda da vicino le bosniache violentate dai serbi due decenni fa, il dramma del Kosovo, le violenze in Congo, Uganda, Sudan, Niger.

Anche per le vittime di Isis i tabù sociali restano giganteschi. «Eravamo in sette prigioniere della stessa banda di ceceni. Io e un’altra abbiamo organizzato la fuga da Raqqa, in Siria, durante un bombardamento americano a fine novembre. Quei bombardamenti sono la manna. I terroristi sono presi dal panico ogni volta, scappano da tutte le parti e si dimenticano di noi. Le nostre cinque compagne però sono rimaste, dicendo che tanto le famiglie, i mariti o i fidanzati, le avrebbero rinnegate. Una aveva paura di essere uccisa dal padre per aver perduto la verginità», ricorda Wadha Ismahil, 27 anni, del villaggio di Al Jazera, presso la montagna di Sinjar. Continua: «A Raqqa c’è una ginecologa a cui chiediamo aiuto per abortire. Ma lei ha paura, dice che se lo facesse la ucciderebbero».
Per le giovani che sono riuscite a scappare o sono state «riscattate» dalle famiglie (i prezzi variano tra 200 e 2.000 dollari) i problemi non sono finiti. Ancora l’Unicef calcola che da agosto ad oggi siano meno di 600 tra donne e bambini. «Alcune si sono suicidate dopo il ritorno. Nella sola regione di Dohuq le donne incinte a opera dei terroristi dell’Isis sono almeno una ventina. La legge irachena vieta l’aborto, vorremmo creare un centro medico di assistenza», afferma Cheman Rasheed, responsabile dell’organizzazione non governativa «Wadi», finanziata anche dal governo tedesco. Un aiuto potrebbe venire da un centro di accoglienza. A questo fine il governo italiano ha appena stanziato un milione di euro, indirizzato per lo più ai profughi yazidi, di cui la metà per l’assistenza alle donne violentate. «Stiamo pensando a una casa rifugio e all’eventualità di un breve soggiorno curativo in Italia per i casi più gravi», dicono alla Farnesina.

Casi che non mancano. Per esempio Huda, una dodicenne venduta a Mosul, rivenduta a Raqqa, riuscita a scappare in Turchia con altre, che è diventata muta e trema come una foglia quando sente parlare arabo, o vede un uomo con la «barba lunga». Le donne del campo profughi di Bersev, presso Zakho, si passano il numero di un medico americano arrivato di recente, che sarebbe pronto a ricostruire la verginità. Le organizzazioni tradizionali yazide paiono poco attrezzate per l’emergenza. A Lalish, il loro centro spirituale sulle montagne a nord di Dohuq, abbiamo assistito al battesimo yazida di alcuni anziani e bambini che erano stati costretti a farsi musulmani. E non manca la voglia di vendicarsi. La storia di Sabrin, una diciassettenne che ha raccontato di aver ucciso il violentatore saudita col suo mitra mentre dormiva, aleggia come un mito tra i profughi.
Eppure, su tutto dominano dolore e sofferenza. Incubi notturni, insonnia, solitudine, fobie da stress. Ancora Hana, la ragazza che ha appena abortito, singhiozza apertamente nel ricordare quegli orrori. Con lei c’è anche la sorella 21enne Sana, a sua volta violentata. Padre, madre e due fratelli sono ancora tra i desaparecidos. Come lo è anche Adia, la terza sorella diciottenne rimasta prigioniera del suo violentatore, il 45enne Haider Karim, che Hana chiama «il russo».
Ricorda: «I terroristi vivono in gruppi di cinque o dieci uomini. E si passano più volte le più belle tra noi. Hadia piaceva a Karim, che era il capo e se la teneva per sé. Esigeva però che lei mostrasse piacere mentre la prendeva. Lei invece lo insultava. Allora lui la torturava. Ho visto che la puniva con scariche elettriche ai capezzoli. La teneva con le mani legate dietro la schiena anche per dieci giorni». L’intervista termina qui. Lei piange ed è davvero inutile insistere.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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