Trump Donald

Re: Trump Donald

Messaggioda Berto » mar dic 24, 2019 10:18 pm

Stati Uniti in orbita: Trump lancia le forze spaziali americane
Federico Giuliani
20 dicembre 2019

https://it.insideover.com/guerra/trump- ... y-3izfsbNs

Oltre all’esercito (Army), alla marina (Navy), all’aeronautica (Air Force), ai Marine e alla Guardia Costiera, gli Stati Uniti potranno contare su una nuova branca dell’esercito: le forze spaziali. Già annunciata nel 2018, adesso l’armata spaziale americana prenderà ufficialmente forma in seguito alla firma da parte di Donald Trump del National Defense Authorization Act.
Questa legge, oltre a garantire un budget militare annuale da 738 miliardi di dollari, mette a fuoco diversi punti militari strategici sui quali intende puntare Washington nel medio periodo. Tra questi spicca la creazione della cosiddetta Space Force, che avrà il compito di proteggere le risorse americane situate oltre i confini terrestri. Le forze spaziali Usa saranno formate da 16 mila uomini (alcuni provenienti dall’Air Force, altri civili) e guidate dal generale Jay Raymond. Risponderanno inoltre alla Air Force del Segretario Barbara Barrett, avranno una propria uniforme e, molto probabilmente, anche un proprio inno.

Le forze spaziali Usa

Soddisfatto il Segretario alla Difesa Usa, Mark Esper, che ha sottolineato come l’istituzione delle forze spaziali rappresenti “un passo storico” e “un imperativo strategico” per la nazione americana: “Lo spazio è diventato così tanto importante per il nostro modo di vivere, la nostra economia e la nostra sicurezza nazionale che dobbiamo essere pronti a proteggerci da azioni ostili. Questo nuovo servizio ci aiuterà a contrastare le aggressioni, difendere i nostri interessi nazionali e affrontare potenziali avversari”. La spiegazione di Esper fa luce su una questione fondamentale: lo spazio non è più un posto lontano che appare ogni tanto in qualche film di fantascienza ma una dimensione da proteggere con apposite forze armate. “Mantenere il predominio americano nello spazio è ora la missione delle forze spaziale degli Stati Uniti”, ha aggiunto Esper. Il personale, come detto, non supererà le 16 mila unità ma la spiegazione di un corpo così ridotto è presto detta. Il lavoro di questi uomini ruoterà attorno alla tecnologia, ed è per questo che le forze spaziali richiederanno meno personale di quanto non ci si possa aspettare. “Istituendo le forze spaziali degli Stati Uniti stiamo elevando lo spazio in modo commisurato alla sua importanza per i nostri interessi nazionali di sicurezza e per quelli dei nostri partner e alleati”, ha infine dichiarato Raymond, il futuro capo dell’armata spaziale.

Un patto con il Giappone?

Quella degli Stati Uniti non è certo un’idea originale e inedita. Tralasciando il fatto che già da tempo Washington auspicava di estendere i propri tentacoli oltre l’atmosfera terrestre, anche il Giappone aveva palesato l’interesse di creare un’apposita forza di autodifesa spaziale per proteggere i propri interessi in orbita. Un paio di mesi fa, nel corso della riunione annuale con i più importanti ufficiali dell’esercito, il premier nipponico Abe Shinzo aveva messo sul tavolo un piano ambizioso: trasformare le Forze di autodifesa Aerea (Asdf) in Forze di autodifesa Aerea e Spaziale entro il 2020. Stati Uniti e Giappone hanno già raggiunto accordi specifici in materia “spaziale”, tra cui la possibilità per il sistema giapponese Quasi Zenith Satellite di essere equipaggiato con un sensore di localizzazione spaziale prodotto dal Dipartimento della Difesa Usa. Ora che Washington ha fatto il passo più importante, cioè quello di istituire ufficialmente apposite forze spaziali, non è da escludere un possibile patto di ferro tra americani e giapponesi per difendere lo spazio dalle minacce russe e cinesi.
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Re: Trump Donald

Messaggioda Berto » mer dic 25, 2019 7:19 pm

Trump rimane il favorito per la corsa alla Casa Bianca
Andrea Massardo
23 dicembre 2019

https://it.insideover.com/politica/ecco ... y9eepjWK3w

Negli ultimi mesi Donald Trump è risalito nei sondaggi, recuperando buona parte del terreno che aveva perso durante la vita dell’esecutivo americano. Nonostante il voto di impeachment cui è stata chiamata ad esprimersi il legislativo e nonostante le notizie legate alla sua persona, il presidente vola più alto che mai. Che cosa induce però gli americani a riporre la propria fiducia nelle mani del Tycoon, il presidente più vulcanico degli ultimi 50 anni degli Stati Uniti d’America?

L’economia traina il consenso

A differenza dei suoi predecessori quando sono arrivati alla tornata della rielezione, Trump ha dei grandissimi alleati dalla sua parte: i dati dei mercati, oltre a quelli relativi all’occupazione lavorativa americana. Dalla sua elezione l’economia degli Usa ha visto una rinascita, avvenuta grazie ad una costante ripresa economica e con l’incremento della popolazione occupata del Paese. Il semplice fatto che sotto la sua amministrazione l’economia abbia raggiunto un livello definibile a livello tecnico di “piena occupazione” gioca un ruolo favorevole, soprattutto perché interessa le fasce di elettori storicamente democratiche.

Ma non c’è solo questo. I mercati e le grandi società hanno risposto bene alle dottrine economiche repubblicane, riportando in patria gli investimenti anche esteri che erano fuggiti anni fa dal Paese. Solidificato dunque il voto dei fedelissimi e con le braccia protese verso quelli democratici, Donald Trump potrebbe essere molto più sicuro della vittoria di quanto facciano credere i media avversari: e non esiste impeachment che tenga.

Politica estera, contano i proclami

Mentre l’economia americana tocca la vita dei cittadini ogni volta che escono di casa, la politica estera è qualcosa di più lontano, che tocca la persone soltanto per gli echi cui rimanda. In questo ambiente, alzare la voce e battere i pugni conquista l’elettorato molto di più di quanto sembrerebbe, soprattutto a causa dell’affinità caratteriale tra Trump ed il cittadino medio americano. Ecco dunque che viene letto come positivo un mancato accordo con la Corea del Sud sulla divisione dei costi militari a causa della distanza tra domanda ed offerta: perseverare è meglio che abbassarsi alle richieste estere; e il presidente americano è diventato famoso per le sue posizioni esclusivamente aut aut. Medesimo ragionamento per quanto riguarda la Corea del Nord: meglio nessun accordo che assecondare le richieste di Kim Jong-un.

L’impeachment è una questione “dem”

Nonostante negli Stati Uniti la procedura di impeachment sia un inciampo politico decisamente grave e accaduto poche altre volte nella storia americana, non sembra aver avuto troppo rilievo nel consenso elettorale del Tycoon. Anzi, i dati sembrano evidenziare come il procedimento abbia di fatto aumentato il favore di cui gode presso la popolazione.

La verità è molto semplice: mentre nel partito democratico americano prevale una sorta di necessità nel presentare personaggi dal viso pulito e che potrebbero essere visti dall’elettorato come il vicino della porta accanto, il mondo repubblicano è differente. Dirigenti d’azienda, grandi funzionari pubblici, impavidi investitori e, qualche volta, personaggi famosi della televisione: tutte persone dall’impatto rilevante a livello mediatico. In un Paese dove uno dei più grandi giocatori di basket ha tenuto il popolo attaccato alle televisioni per seguire l’esito di un processo, appare chiaro come l’essere indagati non ottenga l’impatto negativo che normalmente ci si aspetterebbe: se non è da tutti i giorni, perlomeno è interessante. Non è infatti un caso che lo stesso Micheal Bloomberg, avversario politico di Trump e presidente dell’omonima emittente televisiva, abbia seguito la questione dell’impeachment con i piedi di piombo.

Gli exit poll e le reali scelte della popolazione, ovviamente, rimangono separate da un fiume che rende impossibile stabilire a priori chi possa uscirne vincitore. Il fatto evidente è che l’unica carta che si potevano giocare i democratici è già stata scoperta, senza sortire l’effetto sperato. Adesso Trump ha strada libera per portare avanti i suoi programmi e per lavorare a delle nuove promesse elettorali, dopo essersi lasciato alle spalle il rischio di perdere il favore dei cittadini americani.
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Re: Trump Donald

Messaggioda Berto » ven gen 10, 2020 7:57 pm

La politica estera di Trump dovrebbe piacere ai libertari, ma resterà incompreso da intellettuali e politici
10 dicembre 2020

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... GZTZ8aBmZM


Al quarto anno di presidenza di Donald Trump si può esprimere già un giudizio sulla sua politica estera, specie dopo che si è concluso, con un plateale 1-0, l’ultimo scontro con l’Iran. E, come c’era da attendersi, non è scoppiata alcuna terza guerra mondiale. Dovrebbero già essere fugate molte paure, se non altro.

La sinistra, sia quella europea che quella americana (sempre più simili fra loro, sia nel linguaggio che nei programmi) dovrebbe essere ormai certa che Trump non è un agente di Putin intento a esportare il programma reazionario di qua e di là dell’Atlantico. Se non altro perché Trump ha affrontato la Russia a testa alta, anche militarmente, in più di un’occasione e adesso sta fermando l’espansionismo iraniano, anch’esso negli interessi di Mosca (che usa l’Iran, oltre alla Siria, come suo avamposto nel Medio Oriente). La destra sociale, che invece sperava che Trump fosse realmente un agente della Russia, ha diritto di dirsi delusa. Ma se quel che temeva di una presidenza Clinton era l’interventismo democratico, almeno su questo aspetto può stare serena (realmente serena, non in senso renziano), perché Trump è uno dei pochissimi presidenti nel secondo dopoguerra a non aver coinvolto gli Usa in nessun conflitto. Se vogliamo usare categorie politiche che vadano oltre la destra e la sinistra, possiamo vedere che Trump ha finora condotto una politica estera più vicina agli ideali libertari. Per libertari, qui, intendiamo i “libertarians” americani, quelli che, in politica estera, vogliono tornare alla radice dei rapporti dell’America con il resto del mondo, “Pace, commercio e amicizia onesta con tutte le nazioni, ma alleanze vincolanti con nessuna” (George Washington).

Pace: Donald Trump non ha coinvolto gli Usa in nessuna nuova guerra, appunto. Ha ereditato un conflitto già in corso con l’Isis e lo ha concluso in meno di un anno. Ha ridotto al minimo indispensabile il contingente in Iraq e in Afghanistan. Talvolta anche con gran disappunto per gli alleati locali (i curdi in Siria, per dirne una). Ha intenzione di ritirare quasi del tutto le forze americane dall’Africa. Appena possibile, farebbe lo stesso anche in Corea del Sud e in Europa, quando le condizioni lo dovessero permettere. Quando una “linea rossa” viene passata, Trump reagisce in tre modi: o con le sanzioni economiche, o con una dimostrazione di forza (come le esercitazioni in Corea e le rappresaglie senza vittime in Siria), oppure uccidendo il singolo responsabile di un attacco agli americani (come è stato per il generale Soleimani e pochi mesi prima con Al Baghdadi). Finora non è mai ricorso alla guerra. È raro trovare nel secondo dopoguerra, una volta che gli Usa sono diventati una super-potenza, un presidente così “pacifista”. Prima di Trump si ricordano solo gli esempi di Eisenhower, che tuttavia fu responsabile di almeno due guerre segrete (il golpe in Guatemala e quello in Iran) e di Carter, che però era un internazionalista convinto ed è stato promotore di diversi organismi sovranazionali, come il Comitato Helsinki per i diritti umani. Nella storia recente, dunque, Trump è un caso unico.

Commercio: molti libertari storcono il naso, a ragion veduta, per dazi e sanzioni che abbondano nell’era dell’amministrazione Trump. Però, nel mondo altamente regolamentato del XXI Secolo, se c’è un problema di asimmetria commerciale con la Cina o con l’Ue, è perché la Cina e l’Ue sono protezioniste, non l’America. Per risolvere queste asimmetrie, ci sono solo due vie: coinvolgere tutto il mondo in un nuovo trattato internazionale o in un nuovo organismo sovranazionale per ridefinire le regole del commercio, oppure negoziare con la nazione che crea il problema di protezionismo. Trump sceglie la seconda strada, che è (paradossalmente) la meno invasiva: tratta e applica misure punitive in modo temporaneo, finché la controparte non si apre al libero mercato. Non è una strategia perfetta, l’ideale sarebbe ridurre a zero le proprie tariffe, lasciando perdere il protezionismo altrui (che tanto danneggia chi lo applica molto più di chi lo subisce). Ma fra le varie offerte politiche negli Usa, rispetto ai castelli sovranazionali costruiti da Roosevelt fino a Obama, la politica di Trump appare quanto di più vicino vi sia al commercio delle origini.

Amicizia onesta con le nazioni, ma alleanze vincolanti con nessuna: Trump si è ritirato dall’accordo di Parigi sul clima e da quello di Vienna sul nucleare iraniano, perché erano trattati decisi da altri, anche se con la mediazione americana, che nulla facevano per promuovere il benessere (nel primo caso) e la sicurezza (nel secondo) dei cittadini e contribuenti americani. Perché vincolarsi a un trattato che rallenta la crescita industriale degli Usa e comporta costi e tasse in più, anche se nel nome dell’ecologia? E perché rischiare di veder sorgere un Iran nucleare, ad esclusivo vantaggio dei suoi partner economici europei? Quanto alla più vincolante delle alleanze, la Nato, il presidente americano ha fatto presente più volte che non intende mantenere di peso gli alleati europei, pagando il grosso della spesa militare. In compenso, “l’amicizia onesta” con le nazioni alleate, in primo luogo con Israele, con il Regno Unito, con l’Arabia Saudita e con la Polonia, si è rafforzata in questi anni, nel nome di comuni interessi e di una reciproca difesa. Inoltre ha sostenuto con atti concreti, molto più che Obama, i nordcoreani che fuggono dal regime, i cristiani in Medio Oriente, i cinesi di Hong Kong in lotta per la libertà, gli iraniani che resistono alla teocrazia.

La politica estera di Donald Trump è dunque oggettivamente la più simile a quella libertaria, a quella delle origini degli Stati Uniti. Ma i libertari attuali non lo ringrazieranno affatto. Vuoi perché obnubilati dalla loro stessa passione ideologica, vuoi perché troppo impegnati ad adulare la politica di Putin, Ron Paul (candidato presidente molteplici volte) e i suoi seguaci continuano ad accusare Trump di interventismo democratico e irresponsabilità, manco fosse un neocon come Bush figlio. In assenza di guerre, si inventano di sana pianta presunti interventi segreti Usa in Venezuela o anche a Hong Kong, dando voce, sempre ed esclusivamente, alla propaganda di regime dei nemici degli Usa. Nel caso della crisi con l’Iran, i libertari del Ron Paul Institute sono stati prontissimi ad alimentare l’allarmismo. Al tempo stesso ci sono i libertari più moderati, più inclini a comprendere la sinistra della destra, che non sopportano Trump fin dal primo giorno. Anzi, fin dalla prima campagna delle primarie repubblicane. Anche autorevoli think tank come il Cato Institute, continuano ad accusare il presidente per ogni sua mossa, arrivando a empatizzare con l’Iran. Adesso sono in estremo allarme per la crisi iraniana, come se la guerra mondiale fosse ancora dietro l’angolo. Trump resta dunque il presidente più incompreso dagli intellettuali e dai politici, anche quelli che dovrebbero fare un tifo sfegatato per la sua rielezione. Sarà ugualmente incompreso dalla gente comune? Aspettiamo il prossimo novembre e vediamo. Intanto un risultato, se non ci sono imprevisti, è stato ottenuto: non ci sono nuove guerre. Scusate se è poco.
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Re: Trump Donald

Messaggioda Berto » dom gen 12, 2020 9:16 pm

Trump e Obama: politiche estere a confronto
Autore Andrea Muratore
12 gennaio 2020

https://it.insideover.com/politica/trum ... dYFnlRzbzY

Quando nel 2016 fu eletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump basava buona parte della sua agenda di politica internazionale in relazione all’operato del predecessore Barack Obama, principalmente per propugnarne un ribaltamento completo: sul tema dei grandi accordi di libero scambio, dell’approccio degli Usa a storici rivali come l’Iran e Cuba e a alleati come Israele e Arabia Sauditi e in materia di relazioni con l’Europa Trump si presentava come l’anti-Obama per eccellenza.

Media e commentatori hanno a lungo abusato dell’espressione “isolazionismo” per definire l’America First trumpiano, ma l’espressione è fuorviante. L’amministrazione Trump ereditava le conseguenze di un ventennio in cui, complici gli errori in politica estera e la crisi finanziaria, l’influenza Usa sugli affari globali aveva conosciuto un, seppur relativo, declino senza che venissero inficiati i principali determinanti della potenza a stelle e strisce.

Dall’egemonia militare alla capacità di determinare il mantenimento dello status quo della globalizzazione, passando per una sostanziale e maggiore stabilità sistemica rispetto ai rivali principali (Cina e Russia) gli Usa usciti dalle amministrazioni Bush e Obama tutto erano fuorchè l’ombra di loro stessi. Trump ha desiderato ottenere dallo status “imperiale” di Washington dividendi che fossero anche economici e non solo politici, sostenendo che la globalizzazione di matrice statunitense e neoliberista avesse contribuito a privare i cittadini americani di quote di benessere non indifferenti, ma non ha certamente, né aveva intenzione di farlo, rottamato l’apparato globale a stelle e strisce.

Il risultato è stata una politica estera diversificata a seconda dei teatri di operazione, in cui il confronto con l’amministrazione Obama non è stato a tinte nette, ma variabile nel corso degli anni e dei contesti. Vi sono scenari in cui Trump ha effettivamente operato un rollback in direzione di un maggiore interventismo (Iran e Cuba principalmente), altri in cui si è inserito nelle rotte tracciate dal predecessore esercitando maggiore pressione strategica (Venezuela, Cina, rapporti economici con la Germania) e uno, quello delle relazioni con la Corea del Nord, in cui ha intensificato il dialogo in maniera sorprendente.


Iran e Cuba: Trump rovescia Obama

Gli accordi sul nucleare del 2015 siglati dai Paesi membri del Consiglio di Sicurezza Onu,dalla Repubblica iraniana e dalla Germania hanno rappresentato uno dei maggiori risultati diplomatici dell’amministrazione Obama. Intenta a cercare le modalità più consone e meno disonorevoli per districarsi dall’ircocervo mediorientale e a cristallizzare la situazione. Il tutto con grande scorno degli storici alleati degli Usa nella regione, Israele e Arabia Saudita, a cui la nuova amministrazione repubblicana si è profondamente riavvicinata.

Obama si era trovato in una sorta di limbo: non era riuscito né a uscire con entrambi i piedi dal Medio Oriente né a costituire il famoso “pivot asiatico” di contenimento della Cina. Trump ha rilanciato il contenimento statunitense della Repubblica Islamica e fondato proprio sul rapporto tra Tel Aviv e Riad, intente in un silenzioso riavvicinamento mediato anche dall’insolita convergenza d’intenti tra sionisti, Islam wahabita e evangelici radicali, l’agenda mediorientale.

L’Iran è stato colpito duramente e nuovamente etichettato come rivale esistenziale, in un climax di tensioni che nel caso Soleimani ha avuto il suo momento apicale. Il riavvicinamento di Obama è stato completamente azzerato, analogamente a quanto fatto da Trump nel contesto dei rapporti con Cuba.

Il calcolo politico interno è in entrambi i casi fondamentale: Trump ha pescato enormemente dal bacino elettorale degli evangelici più radicali, fortemente sionisti e occidentalisti, e ha conquistato Stati chiave come la Florida ottenendo i voti della diaspora anticomunista cubana. Sotterrando il riavvicinamento tra Washington e L’Avana mediato dalla triangolazione tra Obama, Raul Castro e Papa Francesco, l’amministrazione Trump ha ripreso l’embargo contro Cuba e riattivato la legge Helms-Burton che consente alle aziende Usa espropriate dalla Rivoluzione castrista di fare causa. La norma mette a rischio gli interessi delle imprese europee e canadesi che usano i beni nazionalizzati decenni fa e mira a portare, gradualmente, la repubblica cubana al collasso economico.


Gli scenari di maggiore continuità

In America Latina Cuba ha rappresentato un caso a parte. In generale, Trump ha proseguito con il sostanziale distacco dimostrato da Obama per il continente sudamericano, focalizzandosi con intensità su un novero ristretto di Paesi. Oltre al Brasile in cui si è manifestata nuova sintonia dopo l’ascesa di Jair Bolsonaro, a occupare l’agenda di Trump è stato soprattutto il Venezuela di Nicolas Maduro. Oggetto di una pressione politica ed economica che indurisce le precedenti manovre di Obama senza però stravolgerle.

Anche nei confronti dei rivali chiave degli Stati Uniti, Russia e Cina, si può dire che sia stato fatto molto rumore per nulla. La grand strategy di convergenza russo-cinese (attorno a cui gravitano Paesi chiave come Iran e Turchia), iniziata nel 2014, è proseguita con baldanza anche nel triennio trumpiano: semmai, nell’interesse dei decisori strategici americani è ora la Cina ad occupare il primo posto come minaccia alla sicurezza nazionale. Ma in questo campo stiamo parlando di direttrici di lungo corso che i singoli Presidenti difficilmente possono scalfire: Trump ha potuto approfondire il pivot asiatico e rafforzare la strategia anticinese proprio perché dal Congresso al Dipartimento di Stato ha trovato comunanza d’intenti nell’ostilità contro Pechino. Dovendo parimenti assecondarne le pulsioni nel caso del rapporto con Vladimir Putin.

Potrà sembrare invece più sorprendente ai più, ma è suffragata dai fatti, la continuità nell’approccio tra le amministrazioni al contenimento economico della Germania: Berlino, vista da Washington come unica potenza europea capace in prospettiva di unire gigantismo economico e proiezione politica, è stata puntualmente nel centro del mirino di Obama, mentre Trump ha solo reso palese ciò che il predecessore compiva a fari spenti. Obama fu investito dallo scandalo di spionaggio della Nsa, rivelante le spericolate manovre nei confronti della Germania, rafforzò il contenimento antirusso nel tentativo di frenare la saldatura geoeconomica tra Mosca e Berlino e con la copertura politica al Dieselgate avviò le manovre americane di attacco al deficit commerciale con la Germania. Trump ha fatto il resto con la guerra commerciale e le recenti sanzioni al North Stream.


Il rebus coreano

Lo scenario meno decifrabile è sicuramente quello della Corea del Nord. Osso durissimo per gli apparati americani, unica media potenza rivale di Washington dotata del decisivo deterrente atomico. Nei cui confronti Trump ha alternato momenti di aspra rivalità a fasi di negoziazione culminati negli storici incontri bilaterali con Kim Jong-un.

Trump si è più volte presentato al mondo come l’araldo della pace e il primo sponsor del dialogo col Pyongyang, mentre Kim ha alternato fasi di apertura al processo di denuclearizzazione e momenti di irrigidimento, puntando però a accusare l’entourage di Trump piuttosto che il Presidente stesso.

La realtà dei fatti è che la Corea rimane un ginepraio. Lo era per Obama e lo è per Trump. Attorno al trentottesimo parallelo si accumulano focolai di tensione e di complessità geopolitica tali da rendere difficili ogni manovra operativa. La Corea del Nord, a cavallo tra la Cina e il quadrante pacifico vegliato dagli Usa, vive di rendita di posizione. E probabilmente continuerà a fare così anche dopo la fine del mandato di Trump.

La conclusione che si può trarre dal confronto tra le politiche estere di due Presidenti agli antipodi come Obama e Trump è di duplice natura. Entrambi hanno dimostrato tanto la capacità della Casa Bianca di agire su diversi scenari in maniera incisiva secondo le proprie preferenze politiche quanto la sua dipendenza dal “capitale fisso” costituito dalla somma di interessi e proiezioni degli apparati e dal vissuto storico della superpotenza Usa.

Sul lungo periodo, né l’uno né l’altro hanno ottenuto l’obiettivo di svincolarsi dal teatro mediorientale ma sono stati accomunati dalla comune consapevolezza del Pacifico come teatro del futuro. Al contempo, Obama e Trump si sono distinti per la prassi e le modalità di azione, fondamentali nel campo della politica internazionale. Gradualiste, in certi casi al limite del timido, quelle di Obama, fondato sul leading from behind. Decisioniste quelle di Trump, il cui “America First” si è sostanziato nella scelta dell’amministrazione di operare brusche virate tra fasi di maggiore durezza verso i rivali del Paese e periodi più dialoganti in cui, gettando sulla bilancia il peso della sua potenza, Washington mirava a passare all’incasso.

Nel complesso, non c’è stata traccia di una vera “dottrina” né nell’era Obama né tantomeno in quella Trump. L’approccio geopolitico dell’America è frutto della somma delle decisioni dei teatri operativi e delle spinte contrapposte nel potere di Washington. Scottati dall’ubriacatura interventista dell’era Bush, Obama e Trump hanno portato avanti una strategia funzionale, nelle intenzioni, a preservare il ruolo di leadership americana in una fase di transizione dall’unipolarismo al multipolarismo che entrambi hanno avuto intenzione di rendere il più lunga possibile. Consci del fatto che i determinanti militari, economici, politici e demografici della leadership globale saranno ancora a lungo terreno di competenza maggioritaria degli States.
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Re: Trump Donald

Messaggioda Berto » sab gen 18, 2020 8:04 pm

Stati Uniti, Trump cancella la dieta nelle mense scolastiche voluta da Michelle Obama per combattere l'obesità infantile
18 gennaio 2020

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/0 ... e/5677838/


Nel giorno del 56simo compleanno di Michelle Obama, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump cancella l’Healthy, Hunger-Free Kids Act voluto nel 2010 proprio dalla ex First Lady per combattere l’obesità tra gli adolescenti: la legge introduceva nelle mense scolastiche una più sana alimentazione offrendo solo latte scremato e tagliando drasticamente i grassi e il sodio dal menu. Ora Trump azzera tutto: riduce l’offerta di frutta e verdura per lasciar spazio a “cibi più tradizionali” come pizza, hamburger e patatine. Del resto, “chi meglio delle scuole conosce i propri ragazzi”, dicono dal Ministero dell’Agricoltura.

Un cambio di rotta richiesto soprattutto da Brandon Lipps, vice segretario dell’United States Department of Agriculture (USDA), ovvero agenzia responsabile della gestione dei programmi nutrizionali per quasi 30 milioni di studenti in 99mila scuole americane. Lipps giustifica la sua decisione “necessaria per risolvere le normative messe in atto durante l’amministrazione Obama”. Norme troppo restrittive, sempre secondo il vice segretario, che avrebbero fatto aumentare la quantità di cibo sprecato e non consumato. Non solo, per Lipps i cambiamenti adottati permetteranno di risolvere altri problemi: ad esempio, le scuole che cercavano di implementare soluzioni innovative come la merenda da prendere al volo da un carrello o i pasti in classe, sono state costrette a dare ai bambini due banane per soddisfare i requisiti federali.

Non è dello stesso parere Colin Schwartz, vicedirettore degli affari legislativi del Center for Science in the Public Interest, secondo il quale se i nuovi standard venissero approvati “creerebbero un’enorme lacuna nelle linee guida sull’alimentazione scolastica, aprendo la strada alla possibilità di scegliere pizza, hamburger, patatine fritte e altri cibi ricchi di calorie, grassi saturi o sodio al posto di pasti scolastici equilibrati, e questo ogni giorno”.
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Re: Trump Donald

Messaggioda Berto » sab gen 18, 2020 8:04 pm

Dazi, Trump vince la guerra: 200 miliardi dalla Cina
Rodolfo Parietti - Gio, 16/01/2020

http://www.ilgiornale.it/news/economia/ ... MftrkfDQ6c

Pechino acquisterà altre merci Usa e The Donald esulta: «Intesa storica». Ma molte tariffe restano

«È un accordo epocale, una pietra miliare che cancella gli errori del passato». Più che una cerimonia per celebrare la raggiunta intesa commerciale fra Stati Uniti e Cina, quello andato in onda ieri alla Casa Bianca è stato un one man show.

Teatrale e gesticolante, con un timing da attore consumato buono per attirare l'applauso dei 200 invitati, Donald Trump ha tenuto la scena per quasi un'ora, lasciando al quasi ingessato vicepremier cinese, Liu He, il ruolo del comprimario. Alla fine, The Donald aveva la faccia del vincitore.

E, in effetti, per come appare configurato il deal della Fase Uno, non ha tutti i torti. L'America incassa da Pechino l'impegno ad acquistare beni Usa per 200 miliardi di dollari nei prossimi due anni. C'è un po' di tutto, con numeri da capogiro economico per entità, un fiume in piena di denaro che si riversa sull'industria americana (32,9 miliardi di dollari nel 2020 e 44,8 miliardi l'anno successivo), sull'energia (18,5 miliardi quest'anno e circa 33,9 miliardi nel '21), sui servizi, banche comprese (12,8 miliardi entro fine dicembre e 25,1 miliardi), e sfiora i 33 miliardi per quanto riguarda l'agricoltura. Un ammontare che riporta il livello degli acquisti cinesi di soia, sorgo, carne di maiale e olii al 2017, cioè prima dello scoppio della trade war. Ossigeno puro per le aree rurali degli States falcidiate dai fallimenti (i salvataggi statali hanno toccato i 28 miliardi) che a novembre, quando si voterà per le presidenziali, non faranno mancare al tycoon la loro riconoscenza. Ma anche una molla per l'intera economia a stelle e strisce, la cui crescita, secondo il Beige Book della Fed, è stata «modesta» a fine 2019.

Oltre al piano di acquisti, l'intesa va a toccare alcuni punti sensibili finora ritenuti non negoziabili dal Dragone. Come per esempio l'accesso al mercato cinese delle società finanziarie. Dal prossimo aprile sarà rimosso il limite di capitale azionario straniero nei settori delle assicurazioni vita, pensione e malattia e verrà consentito alle compagnie assicurative americane di partecipare a tali settori. Inoltre, viene sottoscritto l'impegno a sradicare la vendita di merci contraffatte, oltre a imporre una tempistica stretta, massimo 30 giorni dall'entrata in vigore del patto, entro la quale presentare un «piano d'azione per rafforzare la protezione della proprietà intellettuale». Il documento contiene infine l'obbligo a evitare svalutazioni competitive, un punto per la verità superato dopo che l'altro ieri l'America aveva depennato i rivali dalla black list dei manipolatori di valute. Resta, invece, in piedi la barricata cinese sui sussidi statali.

La sostanza, però, non cambia: quella di Pechino ha l'aria di essere una resa su tutta la linea, salutata da Wall Street con un nuovo record del Dow Jones, per la prima volta sopra i 29mila punti. L'ex Impero Celeste porta infatti a casa solo briciole. Gli Stati Uniti hanno infatti deciso di dimezzare i dazi del 15% su 120 miliardi di importazioni cinesi, concesso un rinvio sine die su ulteriori aumenti delle tariffe, ma hanno mantenuto le misure punitive su 360 miliardi di beni made in China (e Pechino ha fatto lo stesso con oltre 100 miliardi di esportazioni statunitensi). «Se le togliessimo non avremmo altre carte da giocare - ha spiegato Trump - Le elimineremo solo se ci accordiamo sulla Fase Due». La Fase Tre, a suo dire, non ci sarà.

In ogni caso, restano le perplessità sul pieno rispetto di quanto concordato. La Casa Bianca ha già minacciato di alzare il tiro se Pechino non terrà fede agli impegni presi. «È proprio così. Il presidente ha la possibilità di aumentare le tariffe», ha affermato il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin. La telenovela commerciale potrebbe non essere ancora finita. Ma se le cose andranno per il verso giusto, The Donald ha già in tasca il biglietto per restare altri quattro anni alla Casa Bianca.
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Re: Trump Donald

Messaggioda Berto » sab gen 18, 2020 9:14 pm

Alan Dershowitz: 'Trump, nessun reato commesso'
Lo intervista Paolo Mastrolilli
18 gennaio 2020

http://www.informazionecorretta.com/mai ... U.facebook

Titolo: «La strategia di difesa del giurista liberal: 'Nessun reato, è solo un voto di sfiducia'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/01/2020, a pag.11, con il titolo "La strategia di difesa del giurista liberal: 'Nessun reato, è solo un voto di sfiducia' ", l'intervista di Paolo Mastrolilli a Alan Dershowitz.
Grande democrazia gli USA, in quale altro paese democratico, il giurista più famoso, elettore del Partito Democratico, avrebbe accettato la difesa di un Presidente repubblicano?

«Se il presidente fosse condannato per questi due capi d'accusa, gli Stati Uniti diventerebbero una repubblica parlamentare. Questo non è quanto volevano i padri fondatori, e provocherebbe un grave danno di lungo termine per tutti i futuri capi della Casa Bianca». Appena le agenzie battono la notizia che il professore emerito di Harvard Alan Dershowitz si è unito al collegio difensivo di Trump, per il processo di impeachment davanti al Senato, provo a chiamarlo. Sul cellulare del celebre avvocato, già membro del «dream team» che aveva ottenuto l'assoluzione di O.J. Simpson, scatta subito la segreteria. Lascio un messaggio, e 43 minuti dopo è lui a richiamare.

Perché ha accettato l'incarico?
«La spiegazione è su Twitter. Presenterò i miei argomenti durante il processo al Senato, sulle ragioni costituzionali contro l'impeachment e la rimozione. Non sono partitico, mi ero opposto all'incriminazione di Clinton, e ho votato per Hillary. Quando però si tratta della Costituzione, i temi in gioco vanno al cuore della sua sopravvivenza. Parteciperò per difendere l'integrità della Costituzione e prevenire un pericoloso precedente».

Perché la condanna di Trump violerebbe la legge fondamentale? «
I due capi d'accusa non sono previsti. La Costituzione consente l'impeachment solo per tradimento, corruzione, o altri gravi crimini e reati minori». Il primo articolo accusa il presidente di abuso di potere, perché ha usato il proprio ufficio allo scopo di costringere il collega ucraino Zelensky ad aprire un'inchiesta sul figlio del suo rivale politico Joe Biden.
Non è un reato?
«È un concetto troppo vago, e non è previsto dalla Costituzione. Tutti i presidenti usano il loro potere per favorire le proprie prospettive politiche. Quanto all'abuso di potere, Lincoln aveva sospeso l'habeas corpus, Roosevelt aveva internato migliaia di giapponesi americani, Kennedy aveva autorizzato le intercettazioni del telefono di Martin Luther King. Anche Obama e Bush figlio sono stati accusati di abuso di potere. Se i padri fondatori avessero voluto l'impeachment per questo comportamento, lo avrebbero messo nella Costituzione. Se non è previsto, non è neppure necessario discutere i fatti».

Il secondo articolo accusa Trump di aver ostruito il Congresso, mentre investigava sul caso Ucraina. «Anche questo non è un reato previsto dai padri fondatori. La Casa Bianca ha sostenuto che prima di autorizzare i membri dell'amministrazione a collaborare con l'inchiesta, serviva un ordine dell'autorità giudiziaria. Questo argomento è ancora in discussione nei tribunali, che hanno convenuto sul fatto che sia ammissibile analizzarlo. Diverso sarebbe stato se i democratici avessero accusato Trump di corruzione, ma non l'hanno fatto perché probabilmente non ritenevano di avere le prove».
I democratici vorrebbe ascoltare nuovi testimoni. «Se le accuse avanzate non sono previste dalla Costituzione, non sarebbe neanche necessario discutere i fatti. Bisognerebbe archiviare il processo».

Perché lei sostiene che la condanna del presidente provocherebbe un danno di lungo termine alla sua carica? «Gli articoli di impeachment non contengono reati, ma divergenze politiche, e quindi il procedimento in corso non è di natura giuridica. Se il Trump fosse rimosso, ciò dipenderebbe dal fatto che il partito a lui contrario ha più voti in Congresso, e questo è esattamente lo scenario che i padri fondatori aborrivano. In sostanza gli Usa diventerebbero una repubblica parlamentare, dove il capo dell'esecutivo può perdere il potere per un voto di sfiducia da parte del Congresso. Ma questo non è il sistema previsto dalla nostra Costituzione. Perciò la condanna la violerebbe, producendo un pericoloso precedente per tutti i futuri presidenti».
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Re: Trump Donald

Messaggioda Berto » mer gen 22, 2020 8:04 am

Trump vuole un accordo di libero scambio con Berna
21 gennaio 2020

https://www.cdt.ch/economia/trump-vuole ... xEPtxpv-ng


Il presidente degli Usa Donald Trump vuole negoziare un accordo di libero scambio con la Svizzera. Oggi è a Davos (GR) per parlare di questo tema con la presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga, ha detto davanti ai media. Quest’ultima ha aggiunto di voler discutere non solo di economia, ma anche di clima e buoni uffici.

«Mi piacerebbe avere un accordo di libero scambio con la Svizzera», ha detto Trump ai media, essenzialmente svizzeri e statunitensi, a margine del Forum economico mondiale (WEF), prima dell’incontro delle due delegazioni. «Vediamo cosa possiamo fare», ha affermato, aggiungendo che i due Paesi stanno lavorando anche su altre questioni.

Il presidente degli Usa aveva già dato segnali positivi al predecessore di Sommaruga, Ueli Maurer, lo scorso maggio, come aveva detto lo stesso consigliere federale. Ma il presidente dell’Unione svizzera dei contadini (USC) Markus Ritter aveva però manifestato scetticismo sulla possibilità di raggiungere rapidamente un accordo a causa della questione agricola.

Trump non ha fatto menzione del mandato di potenza protettrice esercitato dalla Svizzera in Iran, che è all’ordine del giorno dell’incontro con Sommaruga. Diverse fonti, tra cui l’ambasciatore iraniano a Berna, hanno recentemente dichiarato che il ruolo della Confederazione è stato utile per calmare la situazione dopo l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani. A causa di questa crisi e dell’abbattimento dell’aereo ucraino in Iran, il capo della diplomazia di Teheran Mohammad Javad Zarif ha deciso di non venire a Davos.

«Sono felice di continuare i nostri contatti» tra governi, ha detto la presidente della Confederazione a Trump. Ha aggiunto di voler discutere «qualcosa che riguarda tutti noi, il riscaldamento globale».

Sommaruga ha poi spiegato al suo prestigioso interlocutore la «diversità» della Svizzera che si riflette nella composizione linguistica del Consiglio federale. Ha fatto anche riferimento alla presidenza di turno, che è detenuta da «uomini e donne». «Very good» (molto bene), ha replicato il presidente statunitense.




Davos, Trump si presenta come il modello da imitare per far dimenticare l’impeachment
21 gennaio 2020

https://www.lastampa.it/esteri/2020/01/ ... jHC8-z0qFo


DALL’INVIATO A DAVOS. «Il sogno americano è tornato, ed è più grande, migliore e più forte di sempre». È il messaggio che il presidente Trump ha lanciato dal World Economic Forum di Davos, aggiungendo che «gli Stati Uniti sono nel mezzo di un boom economico che il mondo non ha mai visto prima». Quindi ha concluso: «Il tempo dello scetticismo è finito. Uniamoci tutti per realizzare al meglio le nostre potenzialità».

Il capo della Casa Bianca ha esaltato i successi dell’economia americana, per usarli a tre scopi: far dimenticare il processo di impeachment, cominciato oggi al Senato; preparare il terreno per la sua rielezione a novembre; e spingere i Paesi europei a seguire il suo modello, basato sull’idea di «mettere i cittadini, i lavoratori e le famiglie al primo posto».

Il discorso di Trump a Davos è servito a farsi pubblicità e distogliere l'attenzione dai suoi guai

Il capo della Casa Bianca ha ricordato l’accordo commerciale parziale appena concluso con la Cina, e quello con Messico e Canada chiamato Usmca, la disoccupazione ai minimi degli ultimi 50 anni, e il boom di Wall Street, per dimostrare che ha mantenuto la promessa fatta a Davos due anni fa di far tornare grande l’America. Questo argomento gli serviva da una parte per far passare in secondo piano l’impeachment, che non ha neppure menzionato, e dall’altra per iniziare a costruire l’argomento centrale per la sua rielezione. Quando infatti ha detto che «i socialisti radicali non riusciranno a deragliare la crescita degli Stati Uniti», si riferiva ai suoi avversari democratici in vista delle elezioni di novembre.

Nello stesso tempo Trump ha sollecitato i Paesi europei a seguire il suo modello, e puntare sull’indipendenza energetica, che possono ottenere solo attraverso le forniture di gas e petrolio americano. Ha esaltato la storia del Vecchio Continente, citando ad esempio il Rinascimento e la costruzione del Duomo di Firenze, per ricordare un tempo in cui la creatività, l’innovazione, e la fiducia nella capacità di superare tutti gli ostacoli prevalevano anche sull’altra sponda dell’Atlantico. Se però l’Europa sceglierà la via dello scontro, come ad esempio sta facendo sulla digital tax, diventerà inevitabile la replica della guerra commerciale appena condotta contro la Cina. Su questo punto ha raggiunto una tregua con la Francia, durante la telefonata di lunedì col collega Macron, in cui hanno concordato di congelare la tassazione dei colossi digitali fino alla fine del 2020. La stessa intesa però non esiste ancora con altri Paesi, tipo l’Italia, che quindi rischiano ritorsioni. Tutti temi tornati in discussione durante il suo primo incontro con la nuova presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen.

Anche sull’ambiente, Trump ha rivendicato di averlo protetto, senza farlo a scapito della crescita. Così ha respinto le critiche ripetute a Davos da Greta Thunberg, e le sollecitazioni per tornare a rispettare gli impegni presi dagli Usa con l’accordo di Parigi. Questa non è solo la sua linea difensiva, ma è l’agenda su cui intende impostare la campagna per la rielezione a novembre.


Commenti

Paolo Verni
L'impeachment è una bufala dementocratica. I Rep al senato hanno la maggioranza. Tre anni di gestazione e una 40ina di milioni di dollari buttati nel cesso. L'unico dato positivo è che sta storia gli si rivolterà contro. Preparate i pop corn ;-)

Gino Quarelo
La Stampa uno dei peggiori giornalacci italiani.
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Re: Trump Donald

Messaggioda Berto » mer gen 22, 2020 9:14 am

Le demenzialità del nazi comunista Furio Colombo


Blog | Impeachment, il processo a Trump sta per cominciare. Anzi, sta per finire
Il Fatto Quotidiano
di Furio Colombo
21 gennaio 2020

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/0 ... e/5680174/


Sta per cominciare, nella solenne cornice di Capitol Hill (ala riservata al Senato), il processo di impeachment contro Donald J. Trump, 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. O, molto più probabilmente, sta per finire. E per finire – come tutte le premesse sembrano indicare – nella farsa d’una più che prevedibile, prefabbricata e sfrontata assoluzione del reo.

Mitch McConnell, leader della maggioranza repubblicana del Senato – ovvero il capo di quello che, secondo la Costituzione, dovrebbe essere il “super partes” corpo giudicante – non ha infatti lasciato, in proposito, nessun margine al dubbio. Non ci sarà processo alcuno. O meglio: ci sarà un processo, ma non si tratterà che d’una continuazione, in altra sede, del “cover-up” da Donald Trump (il “reo” in questione, per l’appunto) allestito durante la procedura d’impeachment nella House of Representatives. Vale a dire: altro non sarà questo processo che una formalità tesa, con la massima rapidità possibile e in perfetta coordinazione con i desideri – o meglio, con gli ordini – dell’imputato, a sancire l’assoluta innocenza del medesimo. Giusto il tempo di votare, insomma, e tutti a casa.

Questo, con ammirevole equilibrio ed equidistanza, è andato dicendo il “giudice” Mitch McConnell. E questo è quanto, nel pieno rispetto della preannunciata “coordinazione”, s’apprestano ora a ripetere gli avvocati del giudicando. In sostanza: qui non c’è nulla da giudicare. Questo tornerà a sostenere, in una sorta di arringa in tre tempi, Pat Cipollone, leader del collegio di difesa.

Primo tempo: non c’è nulla da giudicare perché il nostro cliente, Donald J. Trump, did nothing wrong, non ha fatto nulla di male. Secondo tempo: non c’è nulla da giudicare perché, se il nostro cliente qualche male ha fatto, questo male non è un reato. E, terzo tempo: non c’è nulla da giudicare perché dovesse questo male esser anche un reato – come peraltro ha chiaramente sentenziato tre giorni or sono il Gao, Government Accountability Office, una sorta di Corte dei Conti – tale reato non rientrerebbe nella categoria degli impeachable crimes, i crimini passibili di impeachment previsti dalla Costituzione.

Proprio questa – la non punibilità con impeachment dell’“abuso di potere” di cui il presidente è accusato – a quanto pare sarà la tesi che prof. Alan Dershowitz, un assai celebre e piuttosto screditato avvocato costituzionalista da Trump all’uopo reclutato, specificamente sosterrà di fronte al Senato (per capire quanto giuridicamente risibile sia tale tesi, vale la pena leggere questo editoriale scritto ieri, per il Washington Post, dal professor Lawrence H. Tribe).

Non ancora chiaro è, invece, cosa sosterrà un’altra delle celebrità legali chiamate in difesa del presidente, quel Kenneth Starr la cui (mala)fama ha una chiara e – date le circostanze – alquanto grottesca origine. Fu proprio lui infatti a condurre anni fa, nelle vesti di Special Counsel, le lunghe e laboriose indagini che, partite da un molto fasullo scandalo immobiliare in quel dell’Arkansas, portarono infine all’impeachment di Bill Clinton per il caso Lewinsky.

Assai interessante – dovesse Starr, eventualità questa assai improbabile, dedicare al tema qualche minuto della sua arringa d’apertura – sarebbe tuttavia sapere per quale ragione lui, che a suo tempo chiese la rimozione d’un presidente per la tresca con una collaboratrice (o meglio: per aver negato quella tresca), vada ora reclamando l’assoluzione d’un presidente che ha usato come strumento di ricatto denaro pubblico – danaro stanziato dal Congresso nel nome della sicurezza nazionale – per ottenere da un capo di Stato straniero atti tesi a danneggiare un rivale politico.

Come fin troppo chiaramente traspare dal riassunto di quella che Trump, con stolta iattanza, insiste a chiamare una “telefonata perfetta”. Ovvero: dal presumibilmente alquanto “limato” riassunto – unico documento reso pubblico dalla Casa Bianca – del colloquio telefonico intercorso tra Donald Trump e il presidente ucraino Volodymir Zelensky lo scorso 25 di luglio.

Nel mese trascorso tra la messa in stato d’accusa del presidente – votata lo scorso 18 dicembre alla Camera lungo un pressoché perfetto discrimine partitico, democratici per il sì, repubblicani per il no – la speaker della House of Representatives, Nancy Pelosi, ha invano cercato, ritardando l’invio dei capi d’accusa, di strappare a McConnell qualche garanzia in merito alla conduzione del processo. Chiamare testimoni? Soppesare infine le prove e i documenti che di Trump – ipse dixit – dovrebbero dimostrare l’innocenza, ma che lo stesso Trump ha chissà perché mantenuto rigorosamente e rabbiosamente segreti? Cercare la verità?

Neanche parlarne, ha sistematicamente risposto McConnell. L’unica possibile verità è, in questo processo, quella per la quale “ci sono i voti”. Vale a dire: non quella rivelata da fatti, testimonianze e documenti, ma quella che lui, in accordo con il reo, definirà e sosterrà grazie alla maggioranza repubblicana (54 a 46) che controlla.

È possibile – improbabile, ma possibile – che qualche breccia si apra in questo muro. Dopotutto, numeri alla mano, basterebbero quattro defezioni in campo repubblicano – chiamiamoli quattro sussulti di politica e umana decenza – per rendere possibile la chiamata di testimoni e l’apertura di qualcosa che assomigli al vero processo reclamato dalla Costituzione. E non manca chi, contando su questa aritmetica e sulla forza dei fatti, va pronosticando colpi di scena.

Su un punto Mitch McConnell ha, però, tutte le ragioni del mondo. La verità che questo (non)processo, finisca come finisca, già ha da tempo confermato – l’unica verità che davvero conta, perché si basa sul conteggio dei voti e perché è proprio da questo che dipenderà l’esito dell’impeachment – sta nella realtà dell’ormai completa “trumpizzazione” del partito repubblicano. Quello che era – e che di tanto in tanto così continua a chiamare se stesso – il partito di Abraham Lincoln è oggi il partito di Donald Trump. O ancor peggio (volendo citare l’ultimo libro, The Conservative Sensibility, di George Will, antica colonna dell’intellettualità conservatrice): è il partito del “culto di Trump”. E di Trump – l’uomo da Dio inviato per annientare l’America liberal – è ormai disposto a coprire e benedire, dimentico d’ogni decoro, tutti i peccati.

Tutti. Anche quelli che lui stesso ha confessato con maldestra arroganza. Perché proprio questo, a prescindere dai documenti, dalle testimonianze e dalle prove che ha mantenuto segreti, è a tutti gli effetti Donald J. Trump: un reo confesso. Un reo confesso che la maggioranza repubblicana s’appresta, salvo sorprese, ad assolvere senza processo. Faranno altrettanto, il prossimo novembre, gli elettori americani?
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Re: Trump Donald

Messaggioda Berto » dom gen 26, 2020 9:44 am

Donald Trump istituisce la Giornata Nazionale della Santità della Vita il 22 gennaio, anniversario della Roe vs Wade.
Redazione RS
22 gennaio 2020

https://www.radiospada.org/2020/01/dona ... YJHWkN9JSE

WASHINGTON, DC, 22 gennaio 2020 (LifeSiteNews) – Il presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump ha dichiarato che il 22 gennaio, anniversario della decisione Roe v. Wade del 1973 che impone l’aborto su richiesta in tutto il paese, è “Giornata della santità nazionale della vita umana”.
In un proclama pubblicato ieri , Trump ha dichiarato che “ogni persona – i nati e i non nati, i poveri, gli abbattuti, i disabili, gli infermi e gli anziani – ha un valore intrinseco” e ha affermato che gli Stati Uniti “ribadiscono con orgoglio e fermamente il nostro impegno per proteggere il prezioso dono della vita in ogni fase, dal concepimento alla morte naturale“.
Ha propagandato i successi della vita della sua amministrazione in patria e all’estero.
Il proclama fa riferimento agli sforzi della sua amministrazione per costruire “una coalizione internazionale per dissipare il concetto di aborto come diritto umano fondamentale” e affermava che la sua amministrazione si opporrà “a qualsiasi progetto che tentasse di far valere un diritto globale all’aborto finanziato dai contribuenti su richiesta, al momento della consegna“.
“Non ci stancheremo mai di difendere la vita innocente – in patria o all’estero“, ha promesso.
Il proclama fa inoltre riferimento al recente calo del numero e del tasso di aborti in America.
“Gli americani dovrebbero celebrare questo calo del numero e del tasso di aborti, che rappresenta vite salvate“, ha detto Trump.
Trump ha esortato il Congresso a “vietare l’aborto dei bambini a termine“. Sulla scia della campagna, ha ripetutamente citato la difesa portata avanti dai democratici dell’aborto durante tutti e nove i mesi di gravidanza e persino la loro opposizione al divieto di infanticidio .
Trump ha anche ringraziato in particolare i professionisti e coloro che sostengono le donne in “gravidanze inaspettate” e che aiutano a “fornire cure alle donne che hanno avuto aborti“.
Nella Proclamazione ha scritto:
“Come nazione, dobbiamo rimanere fermamente rivolti alla verità profonda che tutta la vita è un dono di Dio, che dona a ogni persona valore e potenzialità incommensurabili. Innumerevoli americani sono instancabili difensori della vita e campioni per i più deboli tra noi. Siamo grati per coloro che sostengono le donne che hanno avuto gravidanze inaspettate, coloro che forniscono cure alle donne che hanno avuto aborti e coloro che accolgono i bambini nelle loro case attraverso l’affido e l’adozione. Nel National Sanctity of Human Life Day, celebriamo il meraviglioso dono della vita e rinnoviamo la nostra determinazione a costruire una cultura in cui la vita è sempre venerata”.
Gli attivisti a favore della vita hanno già elogiato Trump per essere il “presidente più a favore della vita nella storia“. Ha nominato giudici conservatori e a favore della vita in vari tribunali; impedito ai dollari dei contribuenti di finanziare l’aborto all’estero ; ha tolto finanziamenti al Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, che coopera con il regime cinese di aborto forzato; ha firmato una legge che consente agli stati di tagliare fondi alla più grande corporation americana per l’aborto, Planned Parenthood; e tagliato circa $ 60 milioni a Planned Parenthood.


Di seguito il testo della Proclamazione:

“Ogni persona – i nati e i non nati, i poveri, gli abbattuti, i disabili, gli infermi e gli anziani – ha un valore intrinseco. Sebbene ogni percorso sia diverso, nessuna vita è senza valore o è insignificante; i diritti di tutte le persone devono essere difesi. Nel National Sanctity of Human Life Day, la nostra Nazione ribadisce con orgoglio e forze il nostro impegno a proteggere il prezioso dono della vita in ogni fase, dal concepimento alla morte naturale.
Di recente, abbiamo visto riduzioni del numero totale e del tasso di aborti nel nostro paese. Dal 2007-2016, il periodo più recente di analisi, il numero e il tasso di aborti sono diminuiti rispettivamente del 24% e del 26%. Il tasso di gravidanze adolescenziali – la stragrande maggioranza delle quali non è pianificato – è quasi costantemente diminuito nell’ultimo quarto di secolo, contribuendo al più basso tasso di aborti tra gli adolescenti dalla legalizzazione dell’aborto nel 1973. Tutti gli americani dovrebbero celebrare questo calo del numero e tasso di aborti, che rappresenta vite salvate. Tuttavia, c’è ancora molto da fare e, come presidente, continuerò a lottare per proteggere le vite dei non ancora nati. Ho aderito alla legislazione in base al Congressional Review Act che consente agli Stati e ad altri beneficiari di escludere le organizzazioni che eseguono aborti dai loro progetti di Titolo X. La mia amministrazione ha inoltre emanato dei regolamenti per garantire che i progetti di pianificazione familiare del Titolo X siano chiaramente separati da quelli che svolgono, promuovono o si riferiscono all’aborto come metodo di pianificazione familiare; proteggere i diritti di coscienza degli operatori sanitari e delle organizzazioni, anche per quanto riguarda l’aborto; e garantire che il governo federale non costringa i datori di lavoro che obiettano, sulla base di credenze religiose o convinzioni morali, a fornire assicurazioni per i contraccettivi, compresi quelli che ritengono possano causare aborti precoci. Inoltre, ho invitato il Congresso ad agire per vietare gli aborti di bambini a termine che possono provare dolore.
La mia amministrazione sta inoltre costruendo una coalizione internazionale per dissipare il concetto di aborto come diritto umano fondamentale. Finora, 24 nazioni in rappresentanza di oltre un miliardo di persone hanno aderito a questa importante causa. Ci opponiamo a qualsiasi progetto che tenti di far valere un diritto globale all’aborto finanziato dai contribuenti su richiesta, fino al momento del parto. E non ci stancheremo mai di difendere la vita innocente – in patria o all’estero.
Come nazione, dobbiamo rimanere fermamente rivolti alla verità profonda che tutta la vita è un dono di Dio, che dona a ogni persona valore e potenzialità incommensurabili. Innumerevoli americani sono instancabili difensori della vita e campioni per i più deboli tra noi. Siamo grati per coloro che sostengono le donne che hanno avuto gravidanze inaspettate, coloro che forniscono cure alle donne che hanno avuto aborti e coloro che accolgono i bambini nelle loro case attraverso l’affido e l’adozione. Nel National Sanctity of Human Life Day, celebriamo il meraviglioso dono della vita e rinnoviamo la nostra determinazione a costruire una cultura in cui la vita è sempre venerata.
ORA, PERTANTO, IO, DONALD J. TRUMP, Presidente degli Stati Uniti d’America, in virtù dell’autorità che mi è stata attribuita dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti, proclamo il 22 gennaio 2020 come Santità Nazionale di Giornata della vita umana. Oggi chiedo al Congresso di unirsi a me per proteggere e difendere la dignità di ogni vita umana, comprese quelle non ancora nate. Chiedo al popolo americano di continuare a prendersi cura delle donne in gravidanze inaspettate e di sostenere l’adozione e l’affido in modo più significativo, in modo che ogni bambino possa avere una casa amorevole. E infine, chiedo a tutti i cittadini di questa grande Nazione di ascoltare il suono del silenzio causato da una generazione persa a noi, e quindi di alzare la voce per tutti coloro che sono stati colpiti dall’aborto, sia visti che invisibili.
IN FEDE DI CHE, ho qui messo la mia mano questo ventunesimo giorno di gennaio, nell’anno del nostro Signore duemila venti, e dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America il duecentoquarantaquattresimo.
DONALD J. TRUMP”





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Io sono per la vita ma non sono assolutamente cristiano e sono anche per la legittima difesa, tra cui annovero anche l'aborto quando necessario (in caso di malattia grave e di stupro).
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