Falsi cittadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Falsi cittadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » gio gen 26, 2017 7:55 am

BASTA CON QUESTO GIULIO REGENI

https://www.facebook.com/FrancamentePar ... 2896207737

I Regeni, gli Arrigoni, i Giuliani, peggio ancora Vanessa e Greta, non mi hanno mai fatto granché pena.
Appartengono a quella generazione purtroppo degenerata di persone che, quando dichiarano guerra a qualcuno, si aspettano che il nemico li attenda a braccia e a cosce aperte.
Invece il nemico, guardate un po', qualche volta reagisce e ti ammazza.
Mica come in Italia dove se tiri gli estintori alla Polizia e la Polizia reagisce e ti ammazza, ti dedicano un'aula del Parlamento e processano il poliziotto.
Mica come in Italia dove si pagano i riscatti a due signorine che, in preda ad un delirio narcisistico, vanno a fare la guerra ad Assad.
Altrove hanno un'altra concezione della realtà, se mi permettete un po' più sana, laddove ci sono gli amici ed i nemici e se sei in questa seconda categoria, muori.

Al Sisi è l'uomo che ha riportato alla normalità E ALLA LAICITA' l'Egitto dopo che era stato travolto dalle demenziali primavere arabe, finanziate e promosse dagli USA i quali avevano deposto Mubarak per mettere al suo posto uno dei Fratelli Musulmani (di cui Regeni era un simpatizzante dichiarato) alleati dell'ISIS, quelli che vogliono trasformare ogni paese in un avamposto islamico, dove il diritto positivo è tratto dal Corano.

Il che dovrebbe spiegarci, una volta e per tutte, chi siano gli USA, ma questa è un'altra storia.
Regeni era dunque, che ne fosse consapevole o meno non conta (anzi, se non lo era, è addirittura peggio) un nemico del regime di Al Sisi e dunque UN AMICO DELL'ISIS; ed è stato ammazzato come, dal punto di vista egiziano, era giusto che fosse; perché nei paesi sani, i nemici si fanno fuori.
Quindi no, non mi accodo ai peana per l'anniversario della morte di Regeni.
Lo farei se, morendo, avesse fatto l'interesse del mio paese.
L'universalismo luttuoso non farà mai parte della mia cultura.
Per me esistono morti di serie A e morti di serie B, anche all'interno del mio paese.
Gli Arrigoni, i Regeni, non sono morti per il mio paese, sono morti per il loro narcisismo, per la loro pretesa, tipicamente occidentale, di ficcarsi in faccende che non riguardavano loro.
Perché l'altra faccia del provincialismo italiano, quello erbavicinista, quello che altrove le cose sono sempre migliori, è anche questa; ignorare le tante schifezze che ci sono in Italia.
Su tante cose Regeni avrebbe potuto indagare in Italia, nell'interesse del mio, del nostro paese.
Invece ha deciso di mettersi al servizio di una causa all'interno di un paese che non conosce, al quale non doveva nulla e che non gli doveva nulla, scegliendosi i nemici sbagliati con tutta la prosopopea e l'ignoranza di chi si sente investito non si sa di quale missione e va a ficcarsi in affari che non sono i suoi.
Era inevitabile che pagasse le conseguenze di questa follia.
E vi prego, non parlatemi di dottorati e cazzate varie.
Questo era un signore che scriveva, sotto pseudonimo (quindi sapendo di correre qualche rischio) per un quotidiano fintocomunista, da sempre vicino quindi a quel falso e farlocco terzomondismo dietro il quale è facile intravedere l'impronta stellostrisciata. Forse era persino una spia; ed è facile immaginare che gli inglesi (in Egitto e in Russia asseriscono che fosse una spia inglese) abbiano riservato a lui lo stesso trattamento che riservano alle spie: dopo averle usate, le ammazzano affinché non diventino schegge impazzite o anche solo per usarle al fine di sputtanare Al Sisi.
Io per ragioni di lavoro, ho frequentato la Libia, altro territorio niente male.
Ho avuto un cliente importante, uno che aveva le mani in pasta negli affari commerciali di mezza Tripoli e quindi, se fossi stato pervaso dalla stessa farloccaggine narcisistica di Regeni, gli agganci per fare qualche indagine, volendo, li avrei avuti.
Ma non sono mai andato ad infischiarmi di come la Libia gestisse i suoi affari interni, proprio perché sono interni.
Nel momento in cui io mi fossi intromesso negli affari di Gheddafi, mi avrebbero dovuto far fuori come era giusto che fosse.
Invece, pensate voi, la Libia l'ho frequentata per un anno e mezzo e nessuno mi ha torto un capello.
Perché quando io vado a casa altrui, ci vado nella consapevolezza di essere un ospite, non il padrone di casa.
Anche se capisco che questo sia difficile da capire visto che noi italiani da settant'anni dobbiamo subire la prepotenza di potenze straniere che vogliono decidere *NEL LORO ESCLUSIVO INTERESSE* la politica italiana.
È un fatto di abitudine, ecco.
Noi non sappiamo quale sia esattamente casa nostra, perciò non riusciamo a concepire la casa altrui.
E perciò non riusciamo a concepire che quando qualcuno vede casa sua in pericolo, reagisce, spara e ci ammazza. E infatti, noi in Italia quelli che reagiscono ai malviventi, li mettiamo in galera.
Anzi, da questa vicenda, ne possiamo anche trarre un insegnamento significativo; e cioè che noi, i nostri nemici, li dobbiamo ammazzare come l'Egitto ammazza i suoi.
L'Italia è piena di Regeni che andrebbero messi, se non sotto terra, almeno in galera.
E invece ne facciamo degli eroi.
Abbiamo una percezione completamente alterata della realtà e non ce ne rendiamo proprio conto.
E questa è la causa di tutti i nostri guai.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » lun apr 24, 2017 8:51 am

Dalla Libia alla Siria, la strana storia di un giornalista free-lance finanziato da un miliardario
Pubblicato il 20 aprile 2017 in Internazionale/Medio Oriente di Redazione
http://www.sinistra.ch/?p=6415

I media mainstream italiani stanno dando grande enfasi in queste ore alla storia eroica di Gabriele Del Grande, 35 anni, giornalista mai iscrittosi all’Ordine dei Giornalisti italiano, originario di Lucca. È stato fermato in Turchia nella provincia sud-orientale di Hatay, al confine con la Siria e sarà espulso dal Paese. Fonti giornalistiche occidentali affermano che Del Grande sia stato preso in consegna dalle autorità turche perché sprovvisto del necessario permesso stampa, senza il quale non puoi esercitare come giornalista. Ma, forse, c’è dell’altro…

Un free-lance e un magnate
La fiaba di un free-lance idealista e di un magnate filantropo

Bisogna infatti sapere che Del Grande, che deve la sua popolarità ai flussi migratori, gestisce il blog Fortress Europe, creato nel 2006 come “osservatorio sulle vittime della frontiera”, il quale è stato finanziato nientemeno che dalla Open Society Foundation del miliardario George Soros. A confermarlo è anche la Agenzia Giornalistica Italiana (AGI) ma basterebbe navigare sul sito di Soros per scoprirlo (vedi). La Open Society Foundation è un ente che – stando anche a WikiLeaks – oltre a lucrare sull’emigrazione di massa, finanzia i partiti politici anti-russi e favorevoli all’Unione Europa, e gestisce una rete di think tank atti a influenzare l’opinione pubblica a favore del globalismo. In modo particolare Soros è ritenuto vicino ai movimenti eversivi filo-imperialisti, protagonisti ad esempio del colpo di stato fascista in Ucraina e delle cosiddette “primavere arabe” che hanno destabilizzato la Libia e la Siria facendo esplodere il dramma dei profughi. Insomma: con questi sponsor Del Grande non è propriamente l’immagine del free-lance indipendente e idealista di cui si parla e già nel 2013 la Radiotelevisione pubblica della Svizzera Italiana gli dava ampio spazio (link).

Prima di affrontare la guerra siriana questo strano free-lance ha raccontato il conflitto libico accusando i giornalisti della sinistra anti-imperialista di raccontare il falso: fra le vittime dei suoi anatemi non solo Valentino Parlato de “Il Manifesto”, ma anche “TeleSur”, il canale Tv latinoamericano promosso dal Venezuela di Hugo Chavez, definito in sostanza come poco affidabile. Insomma: solo Del Grande sapeva quello che accadeva davvero in Libia ed era naturalmente la solita retorica mielosa di una presunta rivolta di popolo per la libertà e la democrazia, senza alcuna ingerenza neo-coloniale estera. Basta vedere cosa è la Libia oggi per capire quali interessi rappresentava in realtà questo giornalista. Ma andiamo a leggere quale era l’accusa che Del Grande rivolgeva al governo libico di Muammer Al-Gheddafi: “l’unica forma di opposizione interna negli ultimi decenni è stata quella dell’islam politico. Represso durissimamente dalla dittatura!”. In pratica l’aver contrastato con forza il terrorismo di matrice islamista sarebbe stato …negativo!

Ma questa uscita quasi simpatetica nei confronti dell’eversione islamista non è una gaffe… in altre occasioni il nostro strano free-lance si è espresso in termini ambigui, tanto che sembra, secondo voci per ora non confermate, che il suo fermo sia avvenuto mentre tentava di entrare illegalmente in territorio siriano dalla Turchia in compagnia di miliziani jihadisti. Del Grande, in effetti, ha più volte parlato dell’aggressione ai danni della Siria come di un movimento “rivoluzionario” e ha definito i terroristi come dei “partigiani”. In un suo testo è arrivato persino a descrivere la bandiera nera delle bande armate integraliste come un “simbolo dell’internazionalismo islamista” (sic!) arrivando a spiegare che molti terroristi “sono venuti semplicemente per seguire un grande ideale di solidarietà con la comunità musulmana sunnita siriana, a cui sentono di appartenere al di là delle frontiere”. Solidarietà sì, ma per rovesciare un governo laico, instaurare un regime di terrore estremista dedito alle decapitazioni? Non mancano foto che lo ritraggono con la bandiera dei ribelli siriani, quelli armati dagli Stati Uniti, mentre fa il segno della vittoria. Anche qui: più che un reporter super partes, appare come un militante ben addentro a una dinamica di guerra.

“Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono” diceva Malcolm X…

Ecco chi è Gabriele Del Grande. Il paladino dei migranti sostenuto da Soros
Eugenio Palazzini

http://www.ilprimatonazionale.it/sinistra-2/62621-62621

Del Grande è un giornalista, blogger e documentarista italiano arrestato in Turchia lo scorso 10 aprile. Inizialmente il motivo della reclusione era incerto fino a quando la Farnesina in una nota ufficiale uscita il 15 aprile ha precisato che Del Grande “è stato fermato perché si trovava in una zona del Paese in cui non è consentito l’accesso”, ovvero al confine con la Siria. Da martedì, stando alle dichiarazioni della fidanzata Alexandra D’Onofrio, è in sciopero della fame. La stessa D’Onofrio, nell’intervista odierna a Repubblica, ha dichiarato che il compagno si trovava nella zona turca inaccessibile “per ricostruire in un libro la memoria di quella guerra: come sono nate le prima proteste, come è stata la fuga dalla Siria” ma non voleva passare il confine e “potrebbe aver sbagliato strada”.

Fin qui, dubbi a parte sull’accaduto, nulla di nuovo su quanto sappiamo del blogger lucchese e della vicenda di cui è protagonista. E fermo restando che è un preciso dovere del nostro governo adoperarsi per la liberazione di un cittadino italiano detenuto all’estero, qualunque sia il reato di cui il cittadino è accusato, così come il nostro governo ha il dovere di non abbandonare a se stessi italiani rapiti in territorio straniero, è compito precipuo di una testata giornalistica non limitarsi a riportare informazioni impacchettate bensì far luce il più possibile sulle vicende non del tutto chiare ai lettori.

Cerchiamo quindi di chiarire meglio chi è Gabriele Del Grande. L’attività principale del giornalista toscano è legata al suo blog Fortress Europe, in cui cataloga le vicende e i naufragi dei migranti africani che tentano di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo. Si tratta di una sorta di novero dei singoli tragici eventi a partire dal 1988, un’attività quindi di costante monitoraggio anche retroattivo che però sul sito è ferma al 16 febbraio 2016. Dopo aver collaborato con testate di sinistra come L’Unità e Peace Reporter, ha pubblicato tre libri e un reportage sulla guerra in Siria pubblicato nel 2013 da Internazionale. Il racconto inizia così: “Ieri non ho dormito per entrare in Turchia clandestino, a piedi..”. Per passare realmente il confine tra la Siria e la Turchia evidentemente non aveva sbagliato strada. Testimonianze quelle di Del Grande frutto di un viaggio che secondo Internazionale avrebbe intrapreso senza appoggiarsi né all’esercito siriano né ai ribelli. Chi scrive è stato in Siria tre volte durante il conflitto e si permette di dubitare che questo sia stato possibile, con un punta di sospetto in più a vedere la foto del blogger lucchese che lo ritrae con gli attivisti siriani della “radio libera” Newroz. Ovvero, come facilmente deducibile dalla bandiera anti-Assad alle sue spalle, con i “ribelli” con cui secondo Internazionale non avrebbe viaggiato in Siria.

Del Grande nel 2014 ha poi girato un docufilm, ‘Io sto con la sposa’, dove narra lo stratagemma escogitato da alcuni palestinesi per raggiungere la Svezia passando prima dall’Italia: hanno inscenato un matrimonio con tanto di corteo nuziale per evitare controlli della polizia. Ma non vogliamo ovviamente pensare che l’intento fosse celebrare l’immigrazione clandestina. Tornando infine all’attività principale di Del Grande, ovvero quella di blogger, scopriamo poi che il suo Fortress Europe ha ricevuto “supporto” dalla Open Society Foundations (come riportato sul sito ufficiale della fondazione) del miliardario e “filantropo” (mai come nel sostegno ai flussi migratori senza limiti) George Soros.
Si proprio lui, lo stesso che contribuì con la speculazione finanziaria ad affondare la Lira italiana (???). Un supporto che di solito, ma certo non possiamo affermare sia questo il caso, quando si tratta della Open Society si traduce in cospicuo finanziamento.
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » lun mag 01, 2017 10:45 pm

Turchia, il giornalista Rai Amedeo Ricucci rimprovera del Grande: "Ha fato solo una stupidaggine colossale"
29 Aprile 2017

http://www.liberoquotidiano.it/news/sfo ... mc=sfoglio

Passata la sbornia di entusiasmo per il rientro di Gabriele del Grande dalla Turchia, dove era stato rinchiuso in carcere senza un'accusa ben precisa, arrivano le prime bacchettate al giornalista dai colleghi inviati di guerra più esperti, a cominciare da due volti noti della Rai come Ennio Remondino e Amedeo Ricucci.

Su Facebook è quest'ultimo che gli riserva il rimprovero più duro, Ricucci si considera "amico di Gabriele del Grande e adesso che tutto è finito bene - ha scritto sul suo profilo - voglio dire che in Turchia ha fatto una stupidaggine colossalel". Secondo Ricucci, del Grande è stato innanzitutto superficiale: "Chiunque va da quelle parti per un lavoro giornalistico, non può non sapere che serve un accredito stampa. Perché Gabriele non l'ha chiesto? Non mi risulta che ne abbia parlato in conferenza stampa e però, se si decide di contravvenire alle regole, bisogna accettarne le conseguenze senza fare i martiri. Per anni, quando si entrava in Siria illegalmente dal confine turco, noi giornalisti abbiamo rischiato di farci espellere dal Paese - oltre a pagare una multa salatissima, di 3000 o 5000 dollari se non ricordo male - e nessuno si è mai sognato di protestare e di ergersi a paladino dei diritti umani".

In tanti stavano già sfornando i santini di del Grande come nuovo simbolo della lotta contro la stretta sulle libertà civili del governo turco, ma è proprio su questo che Ricucci chiarisce il suo pensiero: "Il fermo di Gabriele si è protratto fino ai limiti del consentito - 14 giorni, come previsto dalla legislazione d'emergenza, se non erro - e bene hanno fatto sia le autorità italiane sia la società civile a mobilitarsi per vigilare sulla situazione. Ma per favore, non confondiamo fischi per fiaschi: la stretta alle libertà civili in Turchia, così come il fatto che ci siano 150 giornalisti nelle galere turche, hanno poco a che vedere con il fermo di Gabriele, che è del tutto legittimo, ripeto, sulla base delle leggi vigenti, giuste o sbagliate che siano".

L'attacco di Ricucci non vuol essere personale, ma da lezione per il giovane giornalista: "Non ce l'ho con Gabriele, dico solo che poteva e doveva essere più accorto (e magari evitare qualche parola di troppo, al suo ritorno, sulla libertà di stampa che sarebbe stata violata)".
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » mer giu 14, 2017 9:45 pm

???

Giulio Regeni, l'amica islamica che lo ha tradito: uno sviluppo clamoroso sulla sua morte
14 Giugno 2017

http://www.liberoquotidiano.it/news/est ... A.facebook

La ricercatrice islamica che lo ha tradito. Regeni, la terribile scoperta sulla sua morte

Era chiaro a tutti che qualcuno avesse tradito Giulio Regeni. Oggi uno di questi traditori ha un nome e un cognome, ha una faccia. E' quella di Noura Wahby, egiziana, compagna di studi a Cambridge. Secondo quanto riporto L'Espresso, è lei, la ricercatirce che per prima lanciò l'allarme della scomparsa di Regeni, a non convincere gli inquirenti.

Le telefonate - A sollevare qualche sospetto sul suo comportamento c'è una telefonata. È il 13 ottobre: Giulio incontra per la prima volta Mohamed Abdallah, il sindacalista che poi l'ha consegnato nelle mani dei carnefici. La telefonata dura pochi secondi e la persona chiamata contatta il quartier generale della National security. Solo una coincidenza? Per quindici volte i due si sentono al telefono, in alcuni casi è l'uomo a cercare Noura e lei subito dopo a telefonare a Giulio. E il contatto della ragazza, scrive l'Espresso "ha un filo diretto con i servizi segreti egiziani ed è persino in contatto con uno degli ufficiali che ha seguito il giovane ricercatore a gennaio. A svelarlo sono le comparazioni incrociate dal Ros dei Carabinieri. La procura di Roma ha da tempo presentato una rogatoria a Cambridge per sentire Noura, ma non ha avuto risposte".

Da Noura solo poche contradditorie dichiarazioni: le chiamate? Pura casualità. Il 18 febbraio la ricercatrice parla con le autorità egiziane e sono presenti anche gli investigatori italiani che però non possono fare domande, solo ascoltare. Parla della sim egiziana utilizzata dal ricercatore italiano e intestata a lei. Ergo poteva vedere l'elenco delle chiamate e dei messaggi. Non solo. È lei ad aiutarlo a trovare l’appartamento da condividere con l'avvocato Mohamed El Sayed, che permetterà poi a un ufficiale dei servizi di entrare nella stanza di Giulio. Anche lui desta sospetti. Anche lui in più occasioni ha telefonato a una persona che subito dopo s’è messa in contatto con Nasr City. L'hanno scoperto i nostri carabinieri. La procura di Roma vuole "la verità", spiega il generale Giuseppe Governale, capo dei Ros. "La dobbiamo alla famiglia e a Giulio, un giovane italiano da cui tanti ragazzi dovrebbero prendere esempio per la straordinaria attitudine all’approfondimento e per la correttezza adamantina".

???
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » sab dic 23, 2017 8:48 am

Chi combatte Al Sisi e perché
17 aprile 2016

http://www.linformale.eu/2781-2

“In Medio Oriente nel corso degli ultimi dieci anni, due grandi correnti hanno tentato di dare una sorta di leadership politica alle lotte dei popoli della regione. In primo luogo, la crisi in Palestina rappresenta il lavoro incompiuto dai movimenti di liberazione nazionale degli anni 1950 e 1960. L’intifada rinnovata, e il ruolo chiave svolto da Fatah, il più grande blocco nazionalista dell’OLP, dimostrano la risonanza persistente di idee nazionaliste. In secondo luogo, il movimento islamista ha risposto alla crisi dell’imperialismo con una sorta di internazionalismo islamico, che contrappone gli attivisti islamici direttamente alle forze ‘crociate’ dell’imperialismo.
Di tutti i conflitti in Medio Oriente, nessuno simboleggia la lotta impari contro l’imperialismo meglio che l’intifada palestinese. L’immaginario della intifada – bambini contro carri armati, gli scontri nelle strade di Gaza e della Cisgiordania, i funerali e le manifestazioni di massa – è stato bruciato nei ricordi di una generazione in tutto il Medio Oriente. Per un gran numero di gente comune, l’impotenza dei regimi arabi di fronte l’aumento dei livelli di brutalità da parte delle forze israeliane di occupazione è solo uno specchio della propria umiliazione.
Capire come l’intifada si collega alla lotta più ampia in Medio Oriente è una parte vitale per cogliere il vero potenziale di resistenza all’imperialismo occidentale e la repressione in casa propria. La debolezza della borghesia palestinese, e la superiorità militare ed economica completamente schiacciante di Israele hanno fatto sì che il movimento di liberazione nazionale palestinese non sia ancora riuscito a creare uno stato a sé stante. In molti modi l’esperienza della lotta palestinese è una testimonianza della capacità di recupero dei movimenti di liberazione nazionale, in quanto è il coraggio e la creatività del popolo palestinese comune. Eppure il corso dell’intifada dell’ultimo anno dimostra anche l’impotenza finale della lotta nazionale.”

Chi pronuncia queste parole è Anna Alexander la referente accademica di Cambridge di Giulio Regeni. Troviamo nell’eloquio militante e fervoroso della docente inglese le parole d’ordine di conio sovietico che animano da cinquanta anni a questa parte il lessico terzomondista e anti-occidentalista dei propalestinesi accaniti in servizio permanente.

“Imperialismo”, “liberazione nazionale”, “occupazione” sono i feticci verbali preferiti, corredati in questo caso da “crociata”, termine questo mutuato dal lessico musulmano. La tesi è quella arcinota e propalata senza sosta dai megafoni rossi avvolti dalla bandiera con la mezzaluna. Israele è una potenza imperialista la quale opprime un popolo autoctono che resiste con la lotta.

Questa tesi è quella che unisce in una alleanza tenace, solida e fanatizzata, la sinistra occidentale (non solo l’estrema sinistra) e l’Islam. Sì, c’è anche l’estrema destra che in nome del suo storico anticapitalismo e antiamericanismo è necessariamente antisionista, ma questa è un’altra storia, residuale, e che non preoccupa più di tanto visto l’irrilevanza politica mondiale delle formazioni di estrema destra. Ma veniamo alla Alexander per poi giungere a Al Sisi e a Regeni. Perché una cosa fondamentale è necessario capirla. L’attacco concentrico contro Al Sisi e l’Egitto come luogo di una brutale dittatura è stato cucinato con cura dai sodali dei Fratelli Musulmani, di cui la Alexander, come altri a sinistra, è estimatrice. Bisogna raccontare un attimo questo mondo capovolto per capire cosa bolle in pentola e chi sta con chi, e qual è la posta in gioco, perché se non si capisce questo non si capisce niente.

Tutto comincia con l’appoggio dato dall’amministrazione Obama ai Fratelli Musulmani. La scommessa spericolata riguardo all’Egitto fatta da questa amministrazione ormai agli sgoccioli, è stata di puntare su una formazione estremista le cui origini sono radicate nell’integralismo islamico fin dagli anni Trenta. Alle spalle di questa scelta c’è lo sdoganamento dell’Islam come “religione della pace” fatto da Obama al Cairo nel 2009. Non che la qualifica sia di Obama. Va detto. La eredita da Bush Jr, solo che la carica di una valenza ideologica e protettiva sconosciuta al suo predecessore.

Per Obama e i suoi consiglieri ultra-progressisti, l’Egitto sarà meglio stabilizzato se al potere andrà una formazione ultrareligiosa. La stessa che nella storia dell’Egitto contemporaneo è stata sempre ostracizzata da Nasser in poi, e quando, infatti, Morsi viene eletto dopo il vuoto lasciato da Mubarak, alla Casa Bianca si innalzano i peana.

L’appeasement con gli estremisti è una delle cifre fondanti della politica estera di Obama. Nessuno più di lui misconosce la massima di Churchill, “Un conciliatore è colui che nutre un coccodrillo sperando di essere l’ultimo a farsi divorare”. I Fratelli Musulmani sono infatti la cerniera con Hamas, costola palestinese del movimento egiziano che aveva in Yasser Arafat una delle sue punte di diamante. Dalla loro fondazione nel 1928 non hanno mai nascosto il loro virulento antisemitismo. Fu il movimento egiziano a trovare una sponda ideologica con il nazismo e a diffondere nel mondo arabo il “Mein Kampf” e i “Protocolli dei Savi di Sion”.

La preferenza accordata da Obama ai nemici giurati di Israele, tra cui anche l’Iran, si fonda sulla convinzione che solo la negoziazione con gli estremisti potrà condurre al loro ravvedimento. Il coccodrillo cesserà di alimentarsi di carne umana, e modificherà la sua natura. In questo scenario che fa strame della realtà per mettere al suo posto il più disastroso wishful thinking si inserisce anche il dispositivo ideologico di una netta pregiudiziale anti-israeliana a cui è consequenziale un afflato per la causa palestinese.

La dottrina Obama rispecchia fedelmente le pregiudiziali più incistate nella sinistra statunitense che vede in Israele un paese colonialista e oppressivo e negli arabi un popolo vittima che cerca di opporsi con la lotta armata. Se Israele è più forte militarmente e più tecnologicamente avanzato è una colpa che deve espiare nei confronti degli arabi i quali, in fondo, si facevano solo esplodere sugli autobus e nei locali pubblici e oggi sono “ridotti” a usare i coltelli per aggredire i civili e i militari israeliani.

Al Sisi è agli antipodi di tutto ciò. Ha fatto strame dei Fratelli Musulmani, ha condannato a morte Morsi, ha interrotto i rapporti con Hamas, e cosa ancora più radicale, ha osato l’impensabile, ha affermato che il terrorismo di matrice islamica ha le sue radici nella religione, che il problema è interno e non esterno. In questo è l’anti-Obama, il suo contrario speculare.

In poco tempo, Al Sisi ha scardinato la narrativa obamiana e messo in mora quella liberal che vede nei Fratelli Musulmani una risorsa e nel terrorismo palestinese un movimento di liberazione nazionale. Da quel momento il presidente egiziano è diventato un nemico, un feroce e sanguinario dittatore, peggio di Assad. E’ lui il problema ora, dopo che l’Iran è stato sbiancato. E’ Al Sisi che viola i diritti umani. Al Sisi e, naturalmente, Israele. Contro di lui si è scagliata la stampa embedded obamiana, New York Times in testa.

In questo scenario capovolto, si inserisce la morte del ricercatore italiano Giulio Regeni trasformato in un simbolo della violenza del dittatore e una vittima della libertà e della verità, così Al Sisi è diventato il Pinochet egiziano. Raramente una vittima è stata strumentalizzata più cinicamente e selvaggiamente di Giulio Regeni.

Dietro l’esaltazione del povero Regeni come simbolo della lotta per la verità e la libertà c’è gente come Anne Alexander, ci sono i duri e puri antioccidentalisti e fiancheggiatori dei terroristi palestinesi, c’è un’idea di mondo che vede nell’Islam, la più grande potenza colonizzatrice e imperialista degli ultimi 1400 anni, quella che più persistentemente ha coltivato e coltiva le proprie pretese suprematiste e totalizzanti, una vittima da salvaguardare.

Al Sisi è un militare e un uomo abituato alla brutalità e alla violenza in una regione e soprattutto in un paese in cui esse impregnano l’aria che si respira, ma è essenziale per arginare la deriva estremista e musulmana che già si era manifestata dopo la caduta di Mubarak. Quella stessa deriva contro cui Israele, dopo la caduta di Mubarak, aveva messo in guardia. E’ un alleato essenziale per Israele e necessario all’occidente. Per questo è inviso ed è rappresentato come la principale canaglia da rimuovere.



Islam, palestinesi, ebraismo, ebrei, Israełe
viewtopic.php?f=188&t=1924

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... eliani.jpg


Criminałi e iresponsabiłi defensori de l'Ixlam come fede o dotrina e ideołoja połedego rełijoxa
viewtopic.php?f=188&t=2263
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » sab gen 13, 2018 5:45 am

Omicidio Regeni: gli inquirenti battono la pista inglese
L'Opinione delle Libertà
2018/01/12

http://www.opinione.it/editoriali/2018/ ... del-rahman

È un gran peccato che il circuito mediatico italiano sia preso totalmente dai “sussurri e grida” di bergmaniana memoria dell’incipiente campagna elettorale, al punto da confinare ai margini della comunicazione notizie altrettanto se non più importanti. Non dovrebbe funzionare così. Ma ciò che sfugge, in modo più o meno colpevole, agli altri non è detto che sfugga a noi.

Dunque, la notizia del giorno non è l’ultima uscita polemica di Matteo Renzi sul milione di posti di lavoro che avrebbe creato ma dei quali sono stati in pochi ad accorgersene ma quella dell’interrogatorio a Cambridge della professoressa Maha Abdel-Rahman, sentita dagli inquirenti italiani come persona informata sui fatti nell’ambito dell’indagine sull’assassinio, in Egitto, del ricercatore italiano Giulio Regeni.

La cattedratica della prestigiosa università britannica è stata la tutor del povero Regeni. Secondo le regole, avrebbe dovuto seguirlo e consigliarlo nella realizzazione del lavoro di ricerca sul campo. Soprattutto, Maha Abdel-Rahman è colei che avrebbe dovuto tenere al riparo il giovane italiano dai rischi che quella specifica attività di studio comportava. Lei, studiosa di origini egiziane con manifeste simpatie per l’organizzazione politica dei “Fratelli musulmani” nemica giurata dell’attuale presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, avrebbe dovuto monitorare costantemente le mosse del suo allievo impedendogli di andare allo sbaraglio in un contesto politico-istituzionale maledettamente scivoloso. Evidentemente tutto ciò non è accaduto visti gli esiti tragici della missione.

Giulio Regeni è stato barbaramente ucciso, dopo essere stato torturato presumibilmente da agenti dell’apparato di sicurezza dello Stato egiziano, il 25 gennaio 2016. E solo adesso, trascorsi due anni dai drammatici eventi, il pubblico ministero italiano ha potuto sentire la versione di una protagonista, finora reticente, di quello scenario nel quale è maturata e portata a compimento l’uccisione di Regeni. Due anni ci sono voluti perché cadesse il muro di accademica omertà che, nella patria della giustizia e dell’habeas corpus, ha coperto la docente Maha Abdel-Rahman. Che sia stata soltanto solidarietà corporativa o c’è qualcos’altro d’inconfessabile? Alla fine del tira-e-molla con le autorità inglesi, a porre le domande alla docente si è recato il pm Sergio Colaiocco, accompagnato da funzionari del Ros e dello Sco. Si è trattato di un momento importante, anche se tardivo, per il corso delle indagini, non tanto per ciò che la docente ha dichiarato rovesciando interamente sul povero Giulio la responsabilità della scelta di recarsi in Egitto a fare, sua sponte, la delicatissima ricerca sui sindacati degli ambulanti, quanto per quello che gli inquirenti hanno potuto acquisire durante la perquisizione effettuata nell’abitazione e nello studio della professoressa. L’auspicio è che pc, hard disk, cellulare e pendrive sequestrati forniscano elementi cognitivi sostanziali per il prosieguo dell’inchiesta, anche se non c’è d’attendersi miracoli visto che nei due anni trascorsi la docente avrebbe avuto tutto il tempo per “ripulire” gli archivi distruggendo documenti o corrispondenza che potessero coinvolgerla direttamente nella vicenda. Ma, come si dice dalle nostre parti, piuttosto che niente meglio piuttosto. Tocca agli inquirenti italiani di spremere come un limone gli strumenti di lavoro acquisiti per cavarne quante più informazioni è possibile.

Per quanto ci riguarda, non smettiamo di pensare che l’autorevole professoressa sappia più di quanto ammetta. L’esistenza dalla pista inglese nell’affaire Regeni è stata una battaglia del nostro giornale che vi ha dedicato particolare attenzione. A cominciare dall’autorevole intervento del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa (Intelligence Culture and Strategic Analysis) il quale, nei suoi articoli, ha insistito perché le autorità italiane s’impegnassero maggiormente nell’incalzare gli interlocutori d’Oltremanica. Oggi che, dopo un lungo silenzio, la signora Maha Abdel-Rahman è stata costretta a dire qualcosa, alziamo il tiro delle richieste perché siamo convinti che non ci si debba fermare a Cambridge, ma l’indagine debba approdare sulle rive del Tamigi. Chi erano i veri utilizzatori finali delle informazioni raccolte sul campo a scopo di studio da Giulio Regeni? Si è trattato soltanto, da parte britannica, di stimolare l’anelito del giovane alla conoscenza o c’è sotto dell’altro di cui lo stesso Regeni non aveva contezza? Qualcuno all’epoca del ritrovamento del cadavere ipotizzò un ruolo dei Servizi segreti inglesi. Erano forse loro i destinatari ultimi del lavoro? Qui non servono illazioni o ricostruzioni di fantasia. Tuttavia, se alcuni elementi indiziari conducono al MI6 (Military Intelligence, Sezione 6), è bene che si faccia chiarezza fino in fondo. La storia italiana del secondo Novecento è stata intorbidita da troppi misteri irrisolti. Non facciamo che anche la tragica sorte di Giulio Regeni diventi uno di quelli.
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » dom mar 25, 2018 8:26 am

Egitto, ambasciata al Cairo cerca esperto in diritti umani: dimenticato Regeni, le relazioni sono più forti di di Laura Cappon
23 marzo 2018

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/0 ... ma/4247164

Se dell’investigatore italiano che avrebbe dovuto accompagnare l’ambasciatore Giampaolo Cantini in Egitto per continuare le indagini sulla morte di Giulio Regeni non c’è traccia, nella nostra sede di rappresentanza al Cairo arriverà a breve un nuovo esperto di diritti umani. L’offerta di lavoro è apparsa alcuni giorni fa sul sito dell’Aics, l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo, e lascia pochi dubbi sul fatto che le relazioni tra i due Paesi siano più forti di prima.

Il programma “Supporto al coordinamento programmi della Sede Aics del Cairo”, AID 10837 – recita il documento – “vuole contribuire alle esigenze di sviluppo dell’Egitto garantendo il buon funzionamento degli interventi finanziati dall’Italia e la loro coerenza con le politiche e strategie di sviluppo nazionali e settoriali. Il suo obiettivo specifico è quello di assicurare alla Sede del Cairo dell’Aics l’effettiva capacità per svolgere in modo adeguato, efficace ed efficiente il coordinamento generale delle attività di cooperazione allo sviluppo e la programmazione, formulazione, gestione e monitoraggio delle iniziative finanziate dall’Aics in Egitto”.

Nessun riferimento dunque alla morte del giovane ricercatore di Fiumicello, il cui corpo senza vita era stato ritrovato alla periferia del Cairo il 3 febbraio 2016, né alla crisi diplomatica dovuta alla scarsa collaborazione delle autorità locali nelle indagini. Fattore che nell’aprile del 2016 aveva provocato il ritiro, da parte del nostro esecutivo, dell’allora ambasciatore italiano Maurizio Massari.

Il documento apparso sul sito dell’Aics non fa neppure menzione dei 60.000 detenuti politici dal 2013 a oggi e delle numerose sparizione forzate, circa tre al giorno. Nella descrizione del Paese si limita infatti a dire che “l’Egitto ha conosciuto significativi cambiamenti politici ed economici dal 2011 ad oggi” e aggiunge che “a seguito di questa fase storica di transizione, che ha comportato periodi di instabilità politica, le principali fonti di reddito dell’economia sono state negativamente influenzate, in particolare nel settore del turismo, così come i ricavi del canale di Suez, idrocarburi e rimesse degli egiziani che lavorano all’estero, dall’andamento dell’economia globale”.

Secondo fonti vicine alla cooperazione, la definizione di esperto di diritti umani suona abbastanza anomala, dopo che a seguito di una repressione che ha colpito anche le organizzazioni non governative le attività di sviluppo legate a quel settore non vengono praticamente più autorizzate dalle autorità egiziane.

Nel frattempo anche le indagini sulla morte di Regeni segnano il passo: la collaborazione tra le procure di Roma e Il Cairo sembra essersi fermata alla lettura del faldone di 1000 pagine consegnato a metà dicembre dagli inquirenti della capitale egiziana agli omologhi di piazzale Clodio e agli avvocati dei familiari. Da allora, anche i legali dell’Ecrf (Egyptian Commission for Rights and Freedom), ossia gli avvocati che rappresentano la famiglia Regeni al Cairo, hanno rispettato le indicazioni delle autorità egiziane che avevano permesso loro di accedere ai documenti a patto di non rivelarne pubblicamente il contenuto.

Sembrano ormai perse anche le speranze di recuperare le immagini (che le autorità egiziane sostengono siano sovrascritte) delle telecamere di sorveglianza presenti sull’ultimo tragitto che Giulio ha percorso il 25 gennaio 2016, giorno della sua sparizione. Il ministro degli affari esteri Sameh Shoukry aveva promesso a dicembre che le immagini sarebbero state consegnate ai nostri investigatori una volta recuperate. Ma, al momento, nessuna società specializzata è ancora entrata in possesso dei materiali da analizzare.
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » dom mar 25, 2018 8:27 am

Caso Regeni tra striscioni e dichiarazioni
Alcide Mosso

https://www.estense.com/?p=682286

Ho seguito con attenzione il “caso Regeni” e mi auguro che presto vengano fugate le numerose zone d’ombra che tuttora lo accompagnano.

Fra tutte il comportamento dell’Università di Cambridge e della tutor di Regeni, Maha Abdel Rahman, ritenuta vicina alla Fratellanza musulmana, che solo nel gennaio del corrente anno e dopo parecchie insistenze, ha accettato di rispondere alle domande degli inquirenti italiani. Si sentiva forse colpevole (ipotesi minimale)? A che pro mandare allo sbaraglio, in una situazione difficile e complicata, un giovane ricercatore che poi ci ha rimesso la vita.

Penso che i genitori di Regeni meritano comprensione e compassione (nel senso etimologico del termine), anche se a volte hanno rilasciato dichiarazioni inopportune o discutibili nei confronti dell’Italia. Ora però mi sembra che abbiano varcato il segno, manifestando – secondo quanto riportato dalla stampa – “stima e gratitudine” nei confronti del sostituto procuratore generale di Genova Enrico Zucca, che ha pronunciato “parole oltraggiose” e “accuse infamanti” – come ha detto il Capo della Polizia – contro le forze dell’ordine: penso che abbiano perso una buona occasione per tacere. Aggiungo poi una mia nota personale riguardo allo striscione esposto sullo scalone municipale.

Dovrà essere esposto in eterno? E se proprio si vuole continuare ad esporlo non sarebbe meglio spostarlo in un luogo che non deturpi l’estetica di un edificio che ha notevole rilevanza dal punto di vista artistico?


Regeni, il pm Zucca: "I torturatori del G8 ai vertici della nostra polizia. Come possiamo chiedere quelli dell'Egitto?"
20 marzo 2018

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/0 ... to/4240274

"Lo sforzo che chiediamo a un paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper far per vicende meno drammatiche", ha detto il sostituto procuratore generale ligure, già giudice del processo sui fatti della Diaz, intervenendo allo stesso dibattito sulla difesa dei diritti internazionali al quale hanno partecipato anche i genitori del ricercatore torturato e ucciso. "Siamo stati abbandonati", ha detto la madre di Giulio

I torturatori del G8 di Genova sono ai vertici della nostra polizia. Come possiamo dunque chiedere all’Egitto di consegnarci i torturatori di Giulio Regeni? È questo il senso dell’intervento di Enrico Zucca, sostituto procuratore generale di Genova, durante un dibattito dedicato alla vicenda del ricercatore italiano torturato e assassinato in Egitto il 3 febbraio del 2016. “I nostri torturatori sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?”, ha detto il magistrato che conosce bene gli orrori del G8 del 2001 essendo stato tra i magistrati del processo per i fatti della scuola Diaz. “L’11 settembre 2001 e il G8 – ha continuato Zucca- hanno segnato una rottura nella tutela dei diritti internazionali. Lo sforzo che chiediamo a un paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper far per vicende meno drammatiche“.

I genitori: “Abbandonati dallo Stato”- Un intervento duro quello del sostituto procuratore generale ligure, finito all’attenzione del ministero della giustizia. Via Arenula, infatti, acquisirà gli atti relativi alle dichiarazioni di Zucca al dibattito sulla difesa dei diritti internazionali organizzato dall’ordine degli avvocati a Genova. Evento al quale hanno partecipato anche i genitori di Regeni. “Ho fiducia nella legge, negli avvocati bravi e nella stampa buona e abbiamo tanta solidarietà dai social. Ci aspettavamo di più da chi ci governa: dal 14 agosto quando il premier Gentiloni ci ha annunciato che l’ambasciatore tornava in Egitto, siamo stati abbandonati“, ha detto Paola Regeni, madre di Giulio. “Siamo decisi ad andare avanti anche a piccoli passi. Combattiamo per Giulio ma anche per tutti quelli che possono trovarsi in situazioni simili a quelle che lui ha vissuto”, ha aggiunto il padre Claudio. Alessandra Ballerini, avvocato della famiglia, ha invece ricostruito i depistaggi e la vicenda: “il corpo di Giulio parla da solo e si difende da solo. Siamo arrivati a nove nomi delle forze di polizia implicati”.

Il ritorno dell’ambasciatore al Cairo e le indagini – Era il 9 novembre 2017, quando il ministro degli Esteri Angelino Alfano annuncia il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo. “Siamo convinti che il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi sia un interlocutore appassionato nella ricerca della verità“. La decisione di riaprire le relazioni diplomatiche con l’Egitto, ricordava nel dicembre scorso la famiglia di Regeni, “seguiva di pochi minuti il comunicato congiunto delle procure italiana ed egiziana nel quale si riferiva che: ‘come preannunciato sempre nel maggio scorso, è stata poi effettivamente affidata ad una società l’attività di recupero dei video della metropolitana e le attività stesse sono in corso. La Procura egiziana ha ribadito l’impegno a condividere i risultati raggiunti non appena la società incaricata depositerà l’esito del proprio lavoro’; e si dava atto di aver ‘concordato un nuovo incontro tra i due uffici da organizzarsi a breve per fare assieme il punto della situazione’. In realtà – ricordava ancora i Regeni – i video della metropolitana non sono mai stati consegnati e, ad oggi, non si sa neppure se qualche e quale ditta sia stata incaricata del loro recupero. L’incontro tra le due procure poi, diversamente da quanto annunciato, non si è tenuto a breve, ma solo a fine dicembre su insistenza dei nostri procuratori che hanno consegnato ai colleghi egiziani ‘una articolata e attenta ricostruzione dei fatti, effettuata dalla Polizia Giudiziaria italiana’. La Procura generale egiziana si era impegnata, come si legge nel comunicato del 21 dicembre scorso a ‘proseguire le indagini, sulla base anche delle ipotesi investigative formulate dai magistrati italiani’“. Da allora – continuava la famiglia di Giulio – “non è stata registrata in realtà nessuna ‘reazione’ da parte della magistratura egiziana sulla informativa italiana che ricostruisce le precise responsabilità di nove funzionari di pubblica sicurezza egiziani perfettamente individuati. Sono passati, da quel 14 agosto, altri sei mesi.

L’intervento del giudice del G8 – Ma d’altra parte, come dice il pm Zucca, se i torturatori del G8 di Genova come si fa a chiedere all’Egitto di consegnarci i loro di torturatori? Già in passato, e più volte, il pm Zucca aveva duramente criticato l’operato della polizia con riferimento ai fatti di Genova: in particolare, in un dibattito pubblico aveva parlato di una “totale rimozione” delle vicende del G8 e del rifiuto per anni da parte della polizia italiana, diversamente da quella straniere, di “leggere se stessa” per “evitare il ripetersi” di errori. Immediata era stata la reazione dell’allora capo della polizia, Alessandro Pansa che, d’intesa col ministro dell’Interno dell’epoca – che era sempre Alfano – aveva lamentato la lesione dell’onorabilità della polizia, chiedendo al guardasigilli Andrea Orlando l’avvio di un’azione disciplinare nei confronti di Zucca Magistratura Democratica e la giunta dell’Anm si erano schierate in difesa del pm (‘a tutelà del quale era stata anche chiesta l’apertura di una pratica al Csm), sottolineando come il suo ragionamento non aveva inteso mettere in discussione l’onorabilità della polizia.

Poliziotti condannati e promossi – I riferimenti del magistrato sono da ricercare nei recenti articoli di cronaca. Come quello del 24 dicembre scorso, quando Gilberto Caldarozzi era stato nominato vicedirettore della Direzione Investigativa Antimafia. Per i fatti della Diaz venne condannato a tre anni e otto mesi in via definitiva. L’accusa era quella di falso: mise la firma nei verbali che attestavano l’esistenza di prove fasulle usate per accusare ingiustamente le persone picchiate all’interno della scuola diGenova, durante il G8 del 2001. Assolto in primo grado nel novembre 2008 dopo 172 udienze, Caldarozzi viene condannato in appello nel maggio 2010 dopo altre 18 udienze: poi su quella condanna arriva il bollo della Cassazione il 5 luglio 2012. Ai tempi del G8 era il più alto in grado, subito dopo Francesco Gratteri, anche lui condannato e promosso prefetto prima di andare in pensione. Considerato un investigatore esperto (ha fatto parte dei gruppi che hanno arrestato boss di Cosa nostra come Bernardo Provenzano e Nitto Santapaola) prima dei fatti della Diaz Caldarozzi dirigeva lo Sco, il servizio centrale operativo della polizia all’epoca guidata da Gianni De Gennaro. Dopo la condanna venne interdetto per cinque anni. Un lustro trascorso lavorando per una banca ma anche come consulente per la sicurezza da Finmeccanica, chiamato sempre dal suo ex capo De Gennaro. Nel 2014 Cassazione scrisse nelle motivazioni sul rigetto del suo affidamento ai servizi sociali: “Si è prestato a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici“. Ora scaduta l’interdizione torna a vestire la divisa. E occupando un ruolo prestigioso. A fare l’elenco degli altri poliziotti coinvolti nei fatti della Diaz e poi promossi è stato sul Fatto Quotidiano Ferruccio Sansa. Quando nel luglio 2012 la Cassazione conferma le pesanti condanne di appello per falso (quell salvate dalla prescrizione a differenza delle lesioni gravi) Gratteri eri capo della Direzione centrale anticrimine, Giovanni Luperi era capo-analista dell’Aisi (il servizio segreto interno). Filippo Ferri, figlio di Enrico (l’ex ministro socialdemocratico) e fratello di Cosimo (sottosegretario alla Giustizia), guidava la squadra mobile di Firenze. Ancora: Fabio Ciccimarra, capo della squadra mobile de L’Aquila, o Spartaco Mortola capo della polfer di Torino. Nel frattempo l’Italia ha persino approvato una nuova legge contro la tortura, criticata dagli stessi magistrati dei processi di Genova. “Con questa legge la Diaz e Bolzaneto non sarebbero punite”, era il commento del magistrato Roberto Settembre.
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » lun dic 03, 2018 7:57 am

G8, l'ex capo dei Gis: "La Diaz? Non c'ero, non so se si esagerò". Ma condannati in 25 e fu un agente a parlare di 'macelleria'
23 maggio 2018

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/0 ... ia/4376732

Carlo Giuliani è diventato “un eroe” mentre Mario Placanica, il carabiniere che sparò al giovane genovese durante il G8 del 2001, “ha dovuto lasciare l’Arma” e “da quel processo, anche mediatico che ha avuto, sta ancora sotto cura, ma nessuno ne parla”. Il ragazzo genovese, ucciso in piazza Alimonda, “è morto perché ha usato violenza, se stava a casa o protestava democraticamente nessuno gli avrebbe fatto del male”. L’ex capo del Gis dei carabinieri, il ‘comandante Alfa’, ritorna sui fatti durante il vertice dei primi ministri a Genova descrivendoli come “tre giorni di guerriglia urbana” e sospendendo il suo giudizio sull’irruzione nella scuola Diaz, nonostante le condanne definitive di 25 poliziotti e le testimonianze in aula.

A Campobasso davanti a una platea di giornalisti, durante un incontro valido come corso di formazione organizzato dall’Ordine molisano, il comandante Alfa ha aggiunto: “Io alla Diaz non c’ero quindi non posso dire se la Polizia abbia ecceduto o meno”. Eppure quanto accaduto all’interno della scuola nell’ultima notte del G8 è stato ricostruito in un processo arrivato a sentenza definitiva con la condanna di 25 poliziotti. Nelle motivazioni, i giudici della Suprema Corte parlarono di “un massacro ingiustificabile” e “una pura esplosione di violenza” che gettarono “discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”.

Così di fronte alla sospensione del giudizio dell’ex comandante del Gruppo d’intervento speciale, un giornalista presente in aula ha risposto: “Abbiamo parlato di macelleria sociale in quei giorni”. Parole sposate anche dalla Corte europea dei diritti umani che nel 2015 qualificò l’intervento degli agenti come “tortura”, condannando l’Italia. “Lei ce l’ha con le Forze di polizia?”, la controreplica dell’ex capo del Gis. Fu proprio un poliziotto però a parlare di “macelleria” riferendosi all’irruzione nella Diaz il 21 luglio. Rispondendo in aula alle domande dei pm Enrico Zucca, nel giugno 2007, Michelangelo Fournier, vicequestore e comandante del 7° nucleo Antisommossa del primo reparto mobile di Roma, definì “un’operazione di macelleria messicana” l’ingresso nella scuola. “Non ho giustificato la Diaz, ho solo detto che non ero presente, sicuramente c’è stata troppa violenza – ha specificato dopo – ma non vanno dimenticati anche quanti tra poliziotti, carabinieri e altri esponenti delle forze dell’ordine sono rimasti feriti. A volte si è costretti a combattere la violenza con la stessa violenza”.

Come ricostruito dal sito genovese Primocanale, davanti alle rimostranze del giornalista, che ha citato proprio la sentenza della Corte europea, il comandante Alfa ha reagito: “Stia zitto, non sa cosa dice, hanno distrutto una città”. Per poi aggiungere, invitandolo a uscire dall’aula: “Non ho aggettivi per definirla. Si vergogni, siamo stati assaltati e malmenati, non per causa nostra ma per causa loro, hanno distrutto una città. Non state a sentire quello che ha detto quel signore perché non è vero, ve lo posso assicurare perché ero presente”. Poi l’ex capo dei Gis è tornato sulla vicenda di Giuliani: “È morto perché è andato a Genova (era del capoluogo ligure, ndr) per usare violenza, se stava a casa o protestava democraticamente nessuno gli avrebbe fatto del male“.

Il comandante Alfa è intervenuto anche sul processo Trattativa Stato-Mafia, che il 20 aprile scorso ha visto condannati in primo grado il vertici del Ros, Mario Mori e Antonio Subranni, oltre all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno. “Come mai sono stati condannati solo i carabinieri e nessun politico? – ha detto il militare – Non credo che il generale Mario Mori di sua iniziativa, se è successa questa cosa, abbia agito da sé. Caso strano i politici sono usciti tutti puliti e questo mi sembra strano”. In realtà, il “livello politico” è entrato nel processo con i 12 anni inflitti al fondatore di Forza Italia ed ex senatore Marcello Dell’Utri.
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » lun dic 03, 2018 7:59 am

Regeni un sinistro nazi comunista agente dei nazi maomettani fratelli mussulmani, infiltrato contro Al-sisi?
Questi del Fatto scrivono il contrario



Regeni, procura di Giza: "Fu ucciso da agenti segreti dei Fratelli Musulmani"
18 febbraio 2016

https://www.ilfattoquotidiano.it/2016/0 ... ni/2477452

Giulio Regeni “sarebbe stato ucciso da agenti segreti sotto copertura, molto probabilmente appartenenti alla confraternita terrorista dei Fratelli musulmani, per imbarazzare il governo egiziano”. Lo scrive il quotidiano filo-governativo egiziano Al Youm 7 online, citando fonti vicine alla procura egiziana che indaga sul caso. Le stesse fonti aggiungono che “il procuratore egiziano e la sua controparte italiana stanno raccogliendo tutti gli elementi possibili per individuare l’autore del crimine”.

“La procura di Giza sud, guidata dal presidente Ahmed Naji, sta portando avanti gli sforzi per svelare i misteri e le circostanze” della morte del 28enne ricercatore italiano, riferisce il sito egiziano, che parla di “importanti indizi raccolti dopo aver ricevuto il rapporto medico e un resoconto dalle chiamate in entrata e uscita” (dal telefono, ndr) di Regeni. “Il team d’indagine italiano, composto da sette membri, è in stretto contatto con l’ufficio del procuratore generale” egiziano, afferma Al Youm 7, con l’obiettivo di “aggiornarsi sugli ultimi sviluppi dell’indagine” da parte egiziana e per “metterli a confronto” con i risultati ottenuti da loro.

In giornata il Copasir era tornato a occuparsi del caso. “Ci aspettiamo di capire che tipo di collaborazione possa arrivare dall’Egitto sulla vicenda Regeni”, in particolare “stiamo facendo pressioni per far sì che ci sia dialogo tra polizia locale, la loro autorità giudiziaria e i nostri uomini che sono lì, i Ros e la polizia”, ha detto il presidente Giacomo Stucchi, parlando con la stampa dopo l’audizione a San Macuto del direttore dell’Aise, Alberto Manenti. Stucchi ha sostenuto, poi, che in Egitto la situazione “è ingarbugliata e che sono stati fatti errori incredibili“, riferendosi alla “mancanza di dialogo tra le loro forze in campo”, che sono “coordinate in modo diverso da come avviene da noi”.

Nel corso dell’audizione il capo degli 007 “ha confermato come Regeni non avesse alcuna collaborazione con le nostre agenzie di intelligence”, ha aggiunto il senatore leghista. Non è esclusa, invece, la possibilità che le ricerche che il giovane italiano stava conducendo al Cairo siano state utilizzato da altri: “Ma si tratta di illazioni – ha sottolineato Stucchi – del resto tutti quelli che scrivono report su Paesi in cui ci sono situazioni tanto delicate possono attirare l’attenzione di tanti soggetti, anche di servizi. Ma si tratta in ogni caso di fonti aperte, non classificate, reperibili facilmente su internet”.

Stucchi ha ricordato come “Manenti ha ricostruito, giorno per giorno, anzi ora per ora, la cronologia degli avvenimenti”, ripercorrendo “quanto accaduto dal momento della scomparsa di Regeni a quello del ritrovamento del corpo, nonché i contatti e le informazioni avute dall’ambasciata italiana e dai servizi”. Mentre sul fatto che lo stesso direttore dell’Aise fosse in Egitto proprio in quelle ore, è stato lo stesso Stucchi a confermare come quel viaggio era in agenda da prima che scoppiasse il caso Regeni.



Caso Regeni, Leader Fratelli musulmani: "Incastrato da una faida tra i servizi"
22 aprile 2016

http://www.rainews.it/dl/rainews/artico ... 230dc.html

Sul caso Regeni, il giovane ricercatore italiano torturato e assassinato in Egitto, interviene Amr Darrag, un ex ministro ed membro del direttivo dei Fratelli musulmani, oggi in esilio dopo che il movimento islamico è stato sciolto e represso dal regime del presidente Adel Fattah al Sisi. Secondo Darrag il giovane è stato "stritolato" in una faida interna tra i servizi segreti egiziani,"uno scontro tra le tre forze di sicurezza": la General Intelligence, cioè l'intelligence civile, contraria ad al Sisi, l'Intelligence militare - che è stata guidata dallo stesso generale oggi presidente - e la National Security, che ha compiti simili all'Fbi statunitense.

Darrag ritiene che la General Intelligence stia oggi "speculando" sull'uccisione di Regeni contro al Sisi, a leggere i giornali vicini a questo servizio, mentre gli altri giornali di fatto ignorano la questione del ricercatore di Cambridge. Ma perché Giulio Regeni è stato ucciso? Darrag non ha molti dubbi in merito: "(...) Giulio Regeni non è stato ucciso nonostante fosse uno straniero: è stato ucciso perché era uno straniero. Perché era uno straniero e studiava i sindacati". In Egitto - spiega ancora il membro dei Fratelli musulmani - "le teorie complottiste sono realmente diffuse. So che per voi è difficile da immaginare, ma qui tutto è ricondotto a una cospirazione straniera. Inclusa la rivoluzione che è iniziata la "dai lavoratori del Delta del Nilo", cioè dai sindacati, che sono "l'unica forza davvero temuta dal regime" per la loro capacità di mobilitazione.Quindi, secondo Darrag, hanno "davvero fermato Regeni per capire chi fosse e con chi era in contatto" e, come è già capitato in passato, Regeni è morto. "Non credo che la morte di Regeni sia stata voluta. Nel senso: l'obiettivo era strappargli informazioni, non assassinarlo".

Ieri fonti anonime dell'intelligence egiziana, secondo quanto riportato dall'emittente televisiva locale "Ghad al Arabi" avevano affermato che Giulio Regeni sarebbe stato detenuto dalla polizia e trasferito presso una struttura della Sicurezza nazionale lo stesso giorno in cui è scomparso il 25 gennaio, nell'anniversario della rivoluzione di Piazza Tahrir.

Le fonti hanno riferito che il ricercatore italiano sarebbe stato fermato insieme ad un cittadino egiziano da agenti della polizia in borghese nei pressi della stazione della metropolitana Gamal Abdel Nasser. Tuttavia, in seguito fonti del ministero dell'Interno hanno smentito che la polizia abbia arrestato lo studente.

Circa la ricostruizione dell'intelligence, non è chiaro se la persona fermata con l'italiano fosse un suo conoscente, così come non è stato reso noto il motivo per cui i due sarebbero stati fermati: quel giorno la sicurezza nella capitale era stata rafforzata nel timore di proteste contro il governo. Secondo le fonti, inoltre, i due sarebbero stati portati presso la stazione di polizia di Izbakiya, nei pressi del centro del Cairo, a bordo di un minibus bianco con targa delle forze di sicurezza. Dopo circa 30 minuti, Regeni sarebbe stato trasferito a Lazoughili, un complesso della Sicurezza nazionale egiziana.



Regeni, l'Egitto attacca Fico: "Una posizione ingiustificata"
Giuseppe Aloisi - Ven, 30/11/2018

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 09811.html

Il Parlamento egiziano è intervenuto sulla posizione del presidente Fico. Quanto dichiarato dal grillino sul caso Regeni sarebbe ingiustificato. Il ministro Moavero, intanto, convoca l'ambasciatore in Farnesina

Quanto detto ieri dal presidente della Camera Roberto Fico sul caso di Giulio Regeni ha prodotto degli effetti: il Parlamento egiziano, nel corso della giornata di oggi, ha parlato di quella di Fico come di una "pozione ingiustificata".

Durante la giornata di ieri, il pentastellato aveva reso noto di voler porre un freno alle relazioni intecorrenti tra l'istituzione che presiede e l'assise parlamentare egiziana: "Con grande rammarico - aveva dichiarato - annuncio ufficialmente che la Camera dei deputati sospenderá ogni tipo di relazione diplomatica con il Parlamento egiziano fino a quando non ci sará una svolta vera nelle indagini e un processo che sia risolutivo".

A fare da sfondo a questa vicenda c'è sopratutto l'indagine aperta dalla Procura di Roma, che coinvolge sette persone facenti parte dei servizi segreti della nazione nordafricana. Ma da quella che tempo fa si chiamava Assemblea del Popolo è arrivata una replica dura: l'organismo parlamentare egiziano ha messo in evidenza la presunta natura ingiustificata di quanto dichiarato da Fico.

Si parla, come riportato pure su Repubblica, di una vera e propria disapprovazione. Gli egiziani, in sintesi, contestano al presidente della Camera di aver fatto questa mossa prima ancora della chiusura dell'inchiesta: "Lo Stato egiziano - viene specificato all'interno del comunicato - ha interesse nel rivelare i dettagli di quanto accaduto a Regeni considerando che la morte è avvenuta sul proprio territorio, come confermato a tutti i livelli e anche dal presidente del Parlamento, Ali Abdel Aal, a Fico durante i loro incontri al Cairo e a Roma".

Enzo Moavero Milanesi, che è il ministro degli Affari Esteri, ha tuttavia eccepito l'esistenza di "notizie molto deludenti rispetto alle rassicurazioni ricevute nei mesi scorsi". Il membro dell'esecutivo gialloverde ha invitato l'ambiasciatore egiziano a presentarsi presso la sede del dicastero che presiede.

Il fine della convocazione sembra quello di accelerare i tempi per giungere finalmente alla verità. Hisham Badr, che è il diplomatico in questione, ha dal suo canto ribadito che: "L'impegno del suo governo per fare luce sul caso non può essere messo in discussione, che la collaborazione giudiziaria deve assolutamente continure e che è intenzione delle autorità egiziane proseguire le indagini nonostante le difficoltà riscontrate".



L'invettiva del comboniano: "Ora basta, Regeni se l'è cercata"
Lucio Di Marzo - Mar, 12/09/2017

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/lin ... 40708.html

Le parole sconfessate dal parroco. "E allora quanti sono morti in misione?"

Dice che "Giulio Regeni se l'è cercata", ribadisce che i media non dovrebbero parlare di lui "uno solo, che è andato a fare il furbo e sapeva benissimo dove si stava andando a infilare, mentre ogni giorno muoiono migliaia di poveri".

Ha scatenato il caos la testimonianza missionaria del comboniano padre Piero Ferrari, invitato dalla Diocesi a parlare durante la messa delle 18.30 a San Bartolomeo al Mare, sulla Riviera Ligure.

Parole, quelle contro il ricercatore italiano, torturato e ucciso dopo essere stato fatto sparire in Egitto, che hanno indignato prima i fedeli e poi la parrocchia, che ha sottolineato di non avere scelto di invitare il comboniano.

"Ci sono guerre dimenticate e invece si parla tanto di Regeni", dice il padre comboniano dal parallelismo, sostenendo di non essere l'unico missionario con il dente avvelenato. E non ci sta il parroco don Renato Elena, che all'indomani dell'invettiva di padre Ferrari, secondo cui "certo, gli egiziani avranno esagerato, ma ce le tiriamo addosso le bastonate", replica dicendo se lo stesso si dovrebbe pensare di quanto sono rimasti uccisi in missione.

Intanto in Egitto l'attenzione si concentra sulla sorte di Ibrahim Metwaly, uno dei legali che con la Commission for Rights and Freedom assiste la famiglia di Regeni nella ricerca della verità. Atteso a Ginevra per parlare di diritti umani, è sparito dopo essere stato visto l'ultima volta in aeroporto.


Giulio tradito dalla sete di rivoluzione. E lo strano silenzio dei "suoi" giornali
Luigi Guelpa
Dom, 07/02/2016

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 21229.html

Il ricercatore giramondo voleva raccontare storie di ribellione contro il regime Dal "Manifesto" ai media egiziani si alza un muro di gomma: "Mai conosciuto"

Tutti sembrano volersi smarcare da Giulio Regeni: dal Manifesto, all'agenzia di stampa Nena, portale indipendente che tratta cronaca e tematiche del Maghreb e del Medioriente.

Per il Manifesto Regeni aveva scritto almeno tre articoli, dove raccontava dell'opposizione ad Al-Sisi, della disoccupazione e degli effetti della crisi economica sulla società egiziana. Il taglio dei servizi partiva dalla prospettiva dei movimenti operai e del sindacalismo indipendente. Per la pubblicazione dei suoi articoli il ricercatore originario di Fiumicello aveva chiesto di non essere citato o di poter usare uno pseudonimo, «Antonio Drius», utilizzato di fatto soltanto in un'occasione. Difficile quindi risalire all'autore quando i servizi venivano pubblicati online e sul cartaceo con il generico «redazione». Come del resto è accaduto in alcune circostanze con l'agenzia Nena. La stessa che proprio ieri ha divulgato un comunicato nel quale precisa «di aver avuto un solo contatto diretto con il giovane, tramite mail. Giulio ha proposto un articolo sul sindacalismo egiziano. Abbiamo accettato la sua proposta e pubblicato il suo articolo il 14 gennaio 2016. Né prima né dopo abbiamo avuto altri contatti con Giulio». Eppure il servizio del 27 dicembre, firmato «della redazione», e dal titolo «Dissidenti e stampa nel mirino in attesa del 25 gennaio», è riconducibile a Regeni. Non solo per lo stile e il tema trattato, ma anche per il materiale messo a disposizione di Nena e recuperato dall'associazione di diritti civili Egyptian Coordination for rights and freedoms (Ecrf). Non è un mistero che Regeni fosse stato a più riprese nella sede di El Hamed Shaaban Street, al Cairo, per conversare con il direttore Mohamed Lofty e raccogliere materiale per i suoi servizi. Come quello che stava preparando su Ismail Iskandarani, reporter e ricercatore presso il Centro egiziano per i diritti economici e sociali, arrestato il 9 dicembre scorso per affiliazione ai Fratelli Musulmani. Iskandarani scriveva per Noon Post, blog di informazione piuttosto critico con Al-Sisi e il suo governo. Regeni voleva perfezionare l'arabo anche per poter scrivere su giornali come quello, non avendo molto spazio sulla stampa italiana, poco recettiva sulle tematiche proposte. Per il Noon Post scriveva anche Falaq Al Dossari, la giornalista egiziana che dice di aver visto uno «straniero» arrestato alla fermata della metropolitana di Giza, al Cairo, il 25 gennaio. Alla fine sembra essere sempre una questione di mail. Nessuno ammette di aver conosciuto Giulio in carne ed ossa. I rapporti con Nena e il Manifesto erano epistolari. Si evince un desiderio di protezione, ieri come oggi, dopo il suo barbaro assassinio. Una morte che è la conseguenza di una passione, quasi febbrile, nel raccontare storie inclini alla rivoluzione e alla ribellione verso un qualsiasi sistema. Passione che risale ai tempi del liceo e al suo soggiorno a Santa Fé, nel New Mexico. Una località strategicamente importante, a due passi da quel Messico patria di uno dei suoi idoli, il subcomandante Marcos, rivoluzionario messicano, ex portavoce dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Avrebbe voluto intervistarlo, per ricalcare le orme dello scrittore Manuel Vazquez Montalban che incontrò Marcos nel febbraio del 1999. Il rischio in prima fila, senza però avere gli strumenti per affrontarlo con le dovute misure di sicurezza. Per scrivere una verità artigianale a distanza di sicurezza dai possenti macchinari dell'informazione, gli stessi che oggi sostengono di non aver pubblicato un solo pezzo di Giulio Regeni e di conoscerlo solo attraverso lo schermo di un computer.


"Giulio Regeni torturato perché pensavano che fosse una spia"
L'autopsia conferma la pista dell'omicidio politico. Lo scontro tra apparati della sicurezza egiziana e i tentativi di depistaggio
di CARLO BONINI e GIULIANO FOSCHINI
08 febbraio 2016

https://www.repubblica.it/esteri/2016/0 ... -132942342

ROMA - Se è vero che un corpo senza vita "parla" né più e né meno come un testimone, oggi si può dire che, nel suo martirio, Giulio Regeni abbia consegnato la chiave che porta ai suoi carnefici. E dunque che l'inchiesta della Procura di Roma sul suo omicidio possa partire da due solide circostanze di fatto. Perché sostenute entrambe delle prime conclusioni dell'autopsia eseguita nella notte tra sabato e domenica dal professor Vittorio Fineschi. La prima: le lesioni sul corpo di Giulio (compresa quella letale al midollo spinale con la frattura di una vertebra cervicale) provano che l'omicidio ha una mano e un movente politici. La seconda: nella loro raggelante crudeltà, le sevizie inflitte al ragazzo hanno un inequivocabile format dell'orrore. Proprio degli interrogatori che le polizie segrete riservano a coloro che vengono ritenuti "spie", come nel caso di Giulio. "Colpevole", agli occhi dello "squadrone della morte" che lo aveva sequestrato la sera del 25 gennaio, di giocare troppe parti in commedia. Ricercatore universitario, giornalista con pseudonimo per un "quotidiano comunista" ("il Manifesto"), militante politico per la causa delle opposizioni al regime.

LO SQUADRONE DELLA MORTE
A Giulio Regeni sono state strappate le unghie delle dita e dei piedi. Sono state fratturate sistematicamente le falangi, lasciando tuttavia intatti gli arti inferiori e superiori. E' stato mutilato un orecchio. Chi lo ha sistematicamente seviziato era convinto di poter ottenere informazioni che il povero Giulio non poteva consegnare semplicemente perché non le aveva. Perché non era la "spia" che i suoi aguzzini ritenevano lui fosse. I boia hanno infierito su un inerme. Lo hanno appunto lavorato alle mani, ai piedi e quindi al tronco. Colpendolo ripetutamente al torace, alle costole, alla schiena, dove l'autopsia ha refertato numerose fratture.

Anche il colpo di grazia ha le stimmate degli interrogatori da "squadroni della morte". Chi era di fronte a Giulio, in quel frangente probabilmente seduto o legato su una sedia, gli ha afferrato la testa facendola ruotare repentinamente di lato oltre il punto di resistenza. Mettendo così fine a un'agonia i cui tempi, oggi, restano ancora incerti.

"Il ragazzo è stato ucciso dieci ore prima di essere ritrovato" scrivono i medici legali egiziani nel referto ma per dare una risposta certa i professori italiani hanno bisogno di attendere le analisi.

I TABULATI E LA RETATA
I primi esiti dell'autopsia si incrociano con un paio di cricostanze che, allo stato, il nostro team investigativo al Cairo ha potuto accertare. La prima. Come è stato possibile ricostruire dai tabulati del suo cellulare, Giulio è stato sequestrato il 25 gennaio poco dopo essere uscito di casa: forse era diretto a una festa, forse prima ha incontrato degli attivisti politici. In ogni caso il suo cellulare, mezz'ora dopo essere uscito di casa si sarebbe spento per non riaccendersi mai più.

La seconda. Nello stesso frangente di tempo e di luogo, quel 25 gennaio, è stata condotta una retata proprio nella zona nella quale Giulio doveva transitare. Il che lascerebbe pensare a una "cattura" csuale. Non mirata.

L'INTERVENTO DI AL SISI
C'è infine una terza circostanza, rilevante quanto le prime due. L'American University del Cairo, dove Giulio era ricercatore, è da tempo oggetto dell'attenzione del Mukhabarat, il Servizio segreto egiziano che fa campo al Ministero dell'Interno. Un apparato chiave del regime di Al Sisi. Ma in feroce concorrenza con i servizi segreti militari (dai cui ranghi proviene il generale e oggi presidente Al Sisi) e i Servizi di Informazione della Polizia. "L'intervento di Al Sisi ha sbloccato la macchina amministrativa" ha detto ieri l'ambasciatore Maurizio Massari. Dopo l'incontro del presidente egiziano con il ministro Guidi, Regeni è stato ritrovato in quel fosso, mezzo nudo, con i media che parlavano di un incidente stradale. Tutti pezzi farlocchi di uno stesso puzzle. Giulio, lo scienziato scambiato per una spia, potrebbe essere stato giustiziato per una guerra che non era la sua.



Regeni, Maha Abdelrahman e la "ricerca partecipata" sotto la lente dei pm: come si è arrivati all'interrogatorio della prof di Laura Cappon
10 gennaio 2018

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/0 ... JWW-JUG3JI

A quasi due anni di distanza dalla morte di Giulio Regeni, il ricercatore di Fiumicello ritrovato senza vita il 3 febbraio 2016 alla periferia del Cairo, la Procura di Roma ha interrogato Maha Abdelrahman, la professoressa di Cambridge che supervisionava la tesi di dottorato del giovane friulano. L’interrogatorio arriva dopo la richiesta del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e del sostituto, Sergio Colaiocco, di un ordine di rogatoria alle autorità britanniche lo scorso ottobre. Nel documento i magistrati chiedevano l’interrogatorio formale della professoressa e l’acquisizione dei suoi tabulati telefonici tra gennaio 2015 e febbraio 2016.

L’audizione della docente egiziana potrebbe porre fine a quasi due anni di polemiche in cui le autorità italiane hanno spesso puntato il dito contro l’Università di Cambridge e la docente, responsabile, secondo la Procura, di aver inviato Regeni a lavorare su un tema politicamente sensibile e con metodi troppo rischiosi.

Il tutto ha inizio alcuni giorni dopo il ritrovamento del corpo di Giulio, il 12 febbraio. A Fiumicello si celebrano i funerali del ricercatore e gli inquirenti italiani prelevano la professoressa Abdelrahman per un interrogatorio, lei si rifiuta di rispondere e di consegnare loro pc e telefoni. Alcune settimane dopo, il 26 febbraio, il quotidiano La Repubblica sostiene che la Procura di Roma sia sempre più convinta che la causa della morte di Regeni siano i suoi studi sui sindacati indipendenti. Alcuni mesi dopo la Abdelrahman sceglie di rispondere via mail alla polizia del Cambridgeshire.

Da allora, le polemiche sulla responsabilità di Cambridge e della supervisor di Giulio si sono riaccese seguendo spesso il flusso a intermittenza delle informazioni e degli elementi forniti sull’omicidio dalle autorità del Cairo alla procura di Roma.

Nell’estate del 2016 alcuni quotidiani italiani attaccano Cambridge definendo l’atteggiamento dell’ateneo “un muro di gomma”. Il punto in questione, stavolta, è la trasferta del pubblico ministero Sergio Colaiocco a Londra. Allora, i docenti che supervisionavano il lavoro di Giulio si erano avvalsi della facoltà di non rispondere. A seguito di una nota di Cambridge che sottolineava che l’ateneo non si era mai rifiutato di collaborare, piazzale Clodio chiarisce che non c’era nessuna rogatoria indirizzata all’università ma solo nei confronti dei singoli professori.

Ad agosto del 2016 la polemica viene rilanciata anche dall’allora presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi. “Ho chiesto al Primo Ministro inglese Theresa May di spendere la sua autorevolezza nel chiedere ai docenti di Cambridge di collaborare con le autorità giudiziarie italiane”, diceva il premier a La Repubblica. “Non capisco per quale motivo i professori di una così prestigiosa università globale pensino che l’Italia possa accettare il loro silenzio, che mi sembra inspiegabile. È morto un ragazzo italiano, torturato. Dobbiamo alla sua famiglia la verità. E chiunque ne possieda anche solo un pezzetto ci deve aiutare, subito”.

Le parole di Renzi scatenano un nuovo polverone riaprendo il dibattito sia a livello politico che accademico. Numerosi docenti da allora continuano, infatti, a spendersi per difendere la reputazione della docente egiziana e puntano il dito sugli interessi economici italiani in Egitto che non si sono mai fermati nemmeno nei 14 mesi di assenza dell’ambasciatore italiano al Cairo. Al centro c’è sempre la scelta del metodo della “ricerca partecipata” (consiste nel lavoro sul campo fatto di interviste ed esperienza sul campo) che è stata ripetutamente difesa da numerosi accademici come “una normale fase di ricerca nel percorso che porta alla scrittura di una tesi di dottorato”.

Lo scorso novembre la notizia della rogatoria da parte della Procura di Roma ha portato a un nuovo attacco alla docente di Cambridge di ritorno da un anno di aspettativa per motivi di salute. Le domande che i giudici italiani rivolgono alla supervisor di Regeni sono 5 e vertono sulla scelta della ricerca, delle domande fatte ai sindacalisti e su un presunto report che Giulio avrebbe consegnato alla docente alcune settimane prima di svanire nel nulla. L’articolo de La Repubblica in cui si avanzano i sospetti sulla professoressa suscita un’ondata di indignazione tra gli accademici: 250 professori di numerosi atenei internazionali firmano una lettera in difesa di Maha Abdelrahman mentre sul IlFattoQuotidiano.it Gilbert Achrar, professore della Soas di Londra e firmatario del documento, conferma che il ricercatore di Fiumicello era fermamente convinto della sua scelta sull’argomento.

Intanto, continuano le analisi del faldone di mille pagine consegnato a fine dicembre dagli inquirenti egiziani alle autorità italiane. Solo dopo una faticosa traduzione si potrà capire se quei fascicoli, contenenti anche gli interrogatori di alcuni ufficiali egiziani, potranno finalmente portare alla ricostruzione dei 9 giorni trascorsi tra la sparizione di Regeni e il ritrovamento del suo corpo senza vita.


Giulio Regeni, 250 accademici firmano una lettera di supporto alla sua tutor: "L'articolo di Repubblica è fuorviante"
Laura Cappon
28 novembre 2017

https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/1 ... te/4005965

“Giulio voleva fare ricerca sui sindacati indipendenti da anni, cioè da prima del colpo di Stato del 2013, e questo argomento non era assolutamente pericoloso”. Gilbert Achcar è professore alla Soas, la School of Oriental and African Studies, di Londra e ha conosciuto Giulio Regeni diversi anni fa, quando il giovane italiano si recò nel suo ufficio per proporgli la sua tesi di dottorato sulle organizzazioni sindacali egiziane che si erano formate dopo la rivoluzione di Piazza Tahrir.

Il professor Achcar ha deciso di parlare a Ilfattoquotidiano.it perché è il firmatario, assieme più di 250 esponenti del mondo accademico internazionale, di una lettera a supporto di Maha Abdelrahman, la professoressa di Cambridge che supervisionava il lavoro di Giulio Regeni, il ricercatore friulano trovato senza vita il 3 febbraio 2016 alla periferia del Cairo.

“Ho deciso di firmare quella lettera dopo l’articolo apparso su La Repubblica lo scorso 2 novembre”, continua il professore. Che ricorda le conversazioni avute con Regeni e conferma come il ricercatore di Fiumicello fosse fermamente convinto della sua scelta sulla ricerca: “Quell’articolo è oltraggioso e denigratorio per una docente che noi stimiamo. Dovevamo reagire perché non è stata certo lei a mandare Giulio a morire – spiega – La scelta è caduta poi su di Cambridge e non sulla mia università per una semplice questione di fondi. Inoltre, nessun ricercatore era mai stato in pericolo sino a quel momento: se qualcuno aveva dei problemi con i servizi di sicurezza veniva allontanato dal Paese e non di certo torturato e ucciso”.

Nel pezzo contestato dagli accademici si annunciava l’invio da parte della Procura di Roma di un ordine europeo di investigazione alla “United Kingdom Central Autorithy” (Ukca), l’organo britannico giudiziario di collegamento con le magistrature dei paesi Ue, a carico di Maha Adelrahman. Nell’ordine era contenuta la richiesta di interrogatorio formale dell’accademica e l’acquisizione dei suoi tabulati telefonici, mobili e fissi, utilizzati tra il gennaio 2015 e il 28 febbraio 2016, per ricostruirne la rete di relazioni.

Gli inquirenti italiani lamentano il silenzio dell’ateneo britannico nonostante la professoressa Abdelrahman abbia in realtà comunicato per due volte con i magistrati italiani. La prima occasione è stata il giorno dei funerali di Giulio a Fiumicello (in questo contesto i magistrati italiani contestano che, a differenza degli altri conoscenti di Giulio, la docente non ha consegnato loro pc e telefoni), mentre alcuni mesi dopo ha scelto di rispondere con una mail alla polizia del Cambridgeshire.

“Per quanto sia comprensibile che alcune di queste domande (formulate dalla Procura di Roma, ndr) possano essere rilevanti per l’indagine italiana, troviamo il resoconto de La Repubblica tendenzioso, nonché volutamente fuorviante l’analisi di tali questioni”, ribatte il documento. “Nonostante una serie di indizi inconfutabili indichino chiaramente le responsabilità della polizia egiziana, La Repubblica tenta di attribuire parte della responsabilità per l’omicidio di Giulio alla professoressa Abdelrahman. Il quotidiano, inoltre, sosteneva che la tutor di Giulio lo avesse “incaricato” di lavorare su un argomento che lei sapeva essere pericoloso, e che Giulio stesso era riluttante a perseguire. In sostanza si affermava che fosse stata lei a scegliere il tema di ricerca, i metodi, gli oggetti e persino le domande di Giulio”.

Anche sulla questione del metodo di ricerca partecipativa impiegato da Giulio, gli accademici specificano che “qualunque scienziato sociale potrebbe verificare che questa è, di fatto, la metodologia di ricerca ideale per studiare questioni contemporanee”. A firmare la lettera ci sono diversi nomi prestigiosi dell’accademia internazionale tra cui Khaled Fahmy, professore di storia di Cambridge, lo stesso ateneo della professoressa Abdelrahman, e diversi accademici italiani. “Abbiamo messo insieme le forze perché ognuno di noi in queste settimane ha riflettuto e ha pensato di dover rispondere a questo articolo”, spiega Andrea Teti, professore associato dell’Università di Aberdeen che ha curato la traduzione in italiano della lettera. “Dobbiamo difendere la reputazione della professoressa Abdelrahman e di quella del mondo accademico”.

Il testo integrale della lettera

Noi sottoscritti respingiamo categoricamente le accuse malevole e totalmente infondate rivolte alla Professoressa Maha Abdelrahman nel quotidiano italiano La Repubblica il 2 novembre 2017. La Professoressa Abdelrahman, una studiosa di fama internazionale all’Università di Cambridge, è stata supervisor di Giulio Regeni, un dottorando italiano che stava svolgendo ricerche sui sindacati indipendenti egiziani, quando fu rapito, torturato e assassinato all’inizio del 2016. Esistono prove schiaccianti circa il coinvolgimento delle forze di sicurezza egiziane nell’omicidio di Giulio, tanto che Declan Walsh, corrispondente dal Cairo per il New York Times, scrisse nell’agosto 2017 un articolo d’inchiesta molto dettagliato, secondo il quale il governo degli Stati Uniti sarebbe in possesso di “prove incontrovertibili sulla responsabilità ufficiale egiziana”, anche se non è in grado di rendere pubbliche le prove senza comprometterne la fonte.

Nonostante una serie d’indizi inconfutabili indichino chiaramente responsabilità della polizia egiziana, La Repubblica tenta di attribuire parte della responsabilità per l’omicidio di Giulio alla Professoressa Abdelrahman. L’articolo elenca le seguenti domande, che il pubblico ministero italiano vorrebbe porre alla Professoressa Abdelrahman: 1. Chi scelse il tema specifico della ricerca di Giulio? 2. Chi scelse il supervisor che avrebbe seguito il lavoro sul campo di Giulio al Cairo? 3. Chi scelse il metodo di ricerca partecipata che Giulio applicò alla sua ricerca? 4. Chi formulò le domande che furono poste agli ambulanti che Giulio stava intervistando? 5. Giulio condivise i risultati delle sue ricerche con la Professoressa Abdelrahman?

Per quanto sia comprensibile che alcune di queste domande potrebbero essere rilevanti per l’indagine italiana, troviamo il resoconto de La Repubblica tendenzioso, nonché volutamente fuorviante l’analisi di tali questioni. Ad esempio, La Repubblica insinua che la Professoressa Abdelrahman abbia “incaricato” Giulio di lavorare su un argomento che lei sapeva essere pericoloso, e che Giulio stesso era riluttante a perseguire. Inoltre, La Repubblica insinua che sia stata lei a scegliere il tema di ricerca, i metodi, gli oggetti e le domande di ricerca di Giulio.

Troviamo assurde queste insinuazioni. Esse dimostrano una fondamentale ignoranza delle procedure riconosciute a livello internazionale nello stilare un progetto di dottorato, nonché nello svolgimento dello stesso. I supervisors accademici non scelgono i loro studenti di dottorato; piuttosto, sono gli studenti che scelgono i supervisors. I supervisors di un dottorato non impongono i loro programmi di ricerca a studenti ignari; gli studenti, di solito, lavorano in una determinata area di ricerca per un po’ di tempo prima di intraprendere un dottorato, e poi cercano un supervisor [specializzato] in quell’argomento. Nel caso di Giulio, lui aveva maturato per anni un interesse per i sindacati indipendenti, e aveva lavorato in Egitto ben prima ancora di rivolgersi alla Professoressa Abdelrahman come suo supervisor. Sulla questione del metodo di ricerca partecipativa impiegato da Giulio, qualunque scienziato sociale potrebbe verificare che questa è, di fatto, la metodologia di ricerca ideale per studiare questioni contemporanee.

Queste e altre insinuazioni contenute nell’articolo denotano un’ignoranza intenzionale, una volontà di travisare e distorcere i fatti, nonché la volontà di inventare menzogne elementari.

Di fatto, non sarebbe stato possibile né per la Professoressa Abdelrahman né per chiunque altro prevedere ciò che sarebbe successo a Giulio. Il pericolo peggiore che alcuni ricercatori stranieri in Egitto avrebbero potuto temere al momento della scomparsa di Giulio era l’espulsione dal paese. Col senno di poi, La Repubblica insinua che la tragedia occorsa a Giulio avrebbe potuto essere prevista. Questo è inoppugnabilmente falso.

Un ultimo punto importante su cui La Repubblica sbaglia: la Professoressa Abdelrahman NON ha rifiutato di parlare con le autorità italiane. Ai funerali di Giulio a Febbraio 2016, fu interrogata per un’ora e mezza dal procuratore italiano. Il 15 giugno 2016, rispose per iscritto a molte domande supplementari poste dal pubblico ministero italiano e dichiarò di essere disponibile a rispondere a qualsiasi ulteriore domanda. Fino al momento in cui è stata presentata la rogatoria alla quale si riferisce l’articolo de La Repubblica, non vi erano state ulteriori comunicazioni da parte delle autorità italiane. Non solo ma, rispondendo alla rogatoria, la Professoressa Abdelrahman ha accettato di buon grado di essere nuovamente interrogata.

Giulio non fu l’autore della sua tragedia. Né la Professoressa Abdelrahman fu in alcun modo responsabile della morte di Giulio. La responsabilità per il rapimento, per la tortura e per la morte di questo brillante studente di Cambridge ricade direttamente sul regime egiziano. Ed è necessario che i giornalisti d’inchiesta seri facciano luce sulle zone d’ombra.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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