Giulio Regeni: la verità è rivoluzionaria
25 Gennaio 2018
https://www.pclavoratori.it/files/index ... nmwBI-GWGw
Decine di manifestazioni hanno ricordato oggi Giulio Regeni a due anni dal suo barbaro assassinio. “Verità per Regeni”, chiedono giustamente da due anni innumerevoli manifestazioni, iniziative, pronunciamenti, appelli. Ma la sacrosanta richiesta di individuare e punire gli assassini di Giulio non deve rimuovere l'evidenza: la verità sul caso Regeni è sin dall'inizio sotto gli occhi di tutti.
La prima verità riguarda le responsabilità del regime egiziano di al-Sisi. Sono responsabilità talmente evidenti da essere state dichiarate dai fatti. Cosa rappresentano i mille depistaggi egiziani sul caso se non una confessione in piena regola? Prima la messinscena allusiva a un delitto sessuale. Poi l'accusa rivolta contro una banda di criminali comuni, immediatamente sterminata per assicurarsi il silenzio, con il “ritrovamento” in casa loro - guarda caso - dei documenti personali di Giulio. Infine le accuse reciproche tra servizi segreti e apparati militari egiziani, con tanto di veline taroccate, segnali in codice, imbarazzate smentite. Tutto ciò ha un solo significato possibile: Giulio Regeni è stato ammazzato, in ogni caso, dagli sgherri di al-Sisi. È stato ammazzato su delazione di un informatore (Mohamed Abdallah), a seguito delle sue ricerche e attività solidali con i sindacati operai indipendenti, il vero spauracchio del regime. Il fatto che le carte inviate alla magistratura italiana siano state “ripulite” dell'interrogatorio-confessione di Abdallah è un'ulteriore firma di regime sull'omicidio.
Ma c'è una seconda verità che emerge dal caso. Forse meno evidente, ma indubbiamente più scomoda. Quella che attiene all'infinita ipocrisia della diplomazia borghese, e in primo luogo del governo italiano.
Il governo italiano, come tutti, conosce perfettamente le responsabilità del regime, ma ha scelto di coprirlo su tutta la linea. Le promesse solenni sul fatto che “saranno individuati i responsabili della morte di Giulio Regeni”, che “l'Egitto deve dirci come stanno le cose”, stanno semplicemente a zero. L'Italia borghese non solo non può e non vuole rompere col regime di al-Sisi, ma ha bisogno di stringere un rapporto più stretto con l'Egitto. Lo richiedono gli interessi dell'ENI che proprio in Egitto ha scoperto nuovi preziosi giacimenti petroliferi. Lo richiede l'interesse italiano a contendere alla Francia l'egemonia in Libia e Nord Africa. Lo richiede l'esigenza di una collaborazione poliziesca dell'Egitto nel blocco delle partenze dei migranti, e nella loro segregazione criminale. Per questo è stata riaperta l'ambasciata italiana al Cairo, con tanto di onorificenze e di fanfare. Per questo Matteo Renzi ha a lungo ostentato pubbliche lodi ad al-Sisi, presentato testualmente come amico dell'Italia. Del resto, cosa può valere il corpo torturato di un giovane ricercatore di fronte al volume dei profitti ENI, prima azienda dell'Africa?
E c'è di più. Sotto campagna elettorale stiamo assistendo al tentativo di un nuovo squallido depistaggio, questa volta di marca (anche) italiana: quello che allude alle non meglio precisate responsabilità di un'insegnante universitaria inglese con cui Regeni collaborava. Idiozie, ovviamente. E anche laddove fossero accertati coinvolgimenti, ciò non cancellerebbe la responsabilità del regime egiziano, né tanto meno le responsabilità dell'interessato 'basso profilo' italiano. Ma cosa c'è di più utile per archiviare le vere responsabilità criminali degli apparati egiziani e coprire la continuità della propria collaborazione con un regime assassino?
Il caso Regeni ci parla dunque della politica borghese. Della sua miseria morale, del suo cinismo sconfinato. La dittatura del profitto produce crimini e copre i criminali. Non solo nei regimi militari, ma anche nelle cosiddette democrazie imperialiste, che peraltro coi regimi militari fanno affari lucrosi a tutte le latitudini del mondo. Le anime belle delle sinistre riformiste di casa nostra che rivendicano una nuova politica estera dell'Italia (capitalista) vendono fumo e chiacchiere vuote. La politica estera dell'imperialismo italiano è un riflesso inevitabile della sua natura. Solo un governo dei lavoratori può segnare una svolta. Il caso Regeni dimostra una volta di più che la verità è rivoluzionaria, o non è.
"Gli agenti di Al Sisi temevano che Giulio Regeni stesse preparando una rivolta". La tesi di un ricercatore sul Washington Post
2016/03/08
https://www.huffingtonpost.it/2016/03/0 ... 06936.html
L'attività di ricerca di Giulio Regeni, il giovane studioso italiano torturato e ucciso in Egitto, è stata interpretata dalle forze di sicurezza egiziane come un "lavoro sul campo per preparare una nuova rivolta" contro il regime.
Ad avanzare l'ipotesi è un ricercatore dell'università di Toronto, esperto di politica egiziana e sindacati, che sul Washington Post prova a ragionare sulla misteriosa uccisione di Regeni. Scrive Jean Lachapelle, preoccupato per il futuro degli accademici egiziani e stranieri sconvolti per quanto accaduto al ragazzo:
Non è immediatamente chiara la ragione per la quale le autorità abbiano considerato Regeni una minaccia. Faceva ricerca sui sindacati indipendenti, un tema apparentemente innocuo in un paese dove la sinistra non soltanto è debole ma anche ostile ai Fratelli Musulmani, i maggiori oppositori del regime.
Inoltre, il giovane ricercatore non era l'unico ricercatori sul campo ad occuparsi di tematiche delicate. Svariati studiosi hanno intervistato attivisti dell'opposizione sotto l'attuale regime, includendo membri dei Fratelli Musulmani, mentre altri ricercatori hanno pubblicato critiche al governo egiziano. Eppure è stato questo giovane dottorando a fare quella fine brutale. Perché?
Jean Lachapelle, che in passato ha condotto una ricerca simile a quella di Giulio Regeni, prova a comprendere il motivo per il quale Regeni sia finito nelle mani dei torturatori:
E' possibile che le sue attività di ricerca siano state interpretate nella maniera sbagliata, e cioè come un lavoro preparatorio per una nuova rivolta. Aveva allacciato contatti con gli attivisti del luogo, andava di persona alle riunione dei sindacalisti e parlava perfettamente l'arabo - qualità essenziale per un ricercatore, ma un aspetto che sfortunatamente tende a sollevare sospetti.
Ciò che potrebbe aver condotto le autorità egiziane sulle orme di Regeni è, spiega ancora il ricercatore sul Washington Post, la propaganda secondo la quale a mobilitare le rivolte egiziane non è lo scontento della popolazione bensì la manipolazione di forze straniere.
A tradirlo, conclude Lachapelle, non è stata la pubblicazione di un articolo critico contro il regime di Al Sisi, avvenuta su Nena News a metà gennaio (poi ripubblicato da Il Manifesto nel giorno del ritrovamento del cadavere), bensì la sua attività di ricerca:
Sembra che fosse particolarmente coinvolto a livello personale nelle questioni sindacali, e ha scritto per un quotidiano italiano articoli critici nei confronti del presidente Abdel Fatah Al Sisi. Uno di questi, pubblicato postumo, offre una analisi approfondita dello stato dei sindacati indipendenti in Egitto. Contrariamente a quanto suggerito altrove, la sua posizione critica è risultata meno importante dei suoi contatti e delle sue accurate cronache sul campo.
Giulio Regeni e le lotte sindacali in Egitto
Gianni Alioti
29 agosto 2016
http://www.fim-cisl.it/2016/08/29/giuli ... -in-egitto
Sono passati 7 mesi da quel 25 gennaio 2016 in cui Giulio Regeni scompare in Egitto. Il giovane italiano sta svolgendo una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani presso l’Università Americana del Cairo. Giulio è candidato a un dottorato di ricerca al Girton College dell’Università di Cambridge (UK). Il 3 febbraio è trovato morto. «Barbaramente torturato e poi ucciso» (1).
Il giorno nel quale Giulio Regeni viene rapito è il quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir. L’inizio delle rivolte anti- Mubarak. Una decina di giorni prima del suo rapimento la Near East News Agency (Nena News) pubblica, con lo pseudonimo Antonio Drius, un articolo di Giulio: «L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale» (2) . L’articolo racconta di una assemblea di coordinamento tra sindacati indipendenti convocata al Cairo venerdì 11 dicembre 2015 dal CTUWS (3). È dal mese di ottobre, che l’Egitto è nuovamente attraversato da un’ondata di scioperi e proteste dei lavoratori. Molti settori della popolazione sono stanchi dello status quo. A causa dell’aumento dei prezzi e la crisi economica. Operai e dipendenti pubblici, studenti e venditori ambulanti, ma anche medici e imprenditori, non sopportano più questa situazione. Il malcontento diffuso stenta però a tradursi in movimento organizzato. Non solo per la frammentazione sociale e sindacale, ma per la militarizzazione crescente dello spazio pubblico. Facile associare le forme di dissenso e di azione diretta sindacale al “terrorismo”. E giustificare così la violazione di diritti fondamentali.
Per queste ragioni ha dello straordinario – per Giulio Regeni – il numero di attiviste e attivisti sindacali dei più svariati settori economici (dai trasporti alla scuola, dall’agricoltura all’ampio settore informale) giunti da tutto l’Egitto (Sinai, Alto Egitto, Delta, Alessandria e Cairo) per questa assemblea. L’occasione è data da una nuova circolare del consiglio dei ministri che raccomanda una stretta collaborazione tra il Governo e l’ETUF (4), la confederazione sindacale controllata dallo Stato. Il fine esplicito è contrastare il ruolo dei sindacati indipendenti e marginalizzarli tra i lavoratori. La circolare rappresenta un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle libertà sindacali (dal diritto di sciopero alla contrattazione collettiva).
«[…] Dopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto ha vissuto una sorprendente espansione dello spazio di agibilità politica. Si è assistito alla nascita di centinaia di nuovi sindacati, un vero e proprio movimento (5), di cui il CTUWS è stato tra i protagonisti, attraverso le sue attività di supporto e formazione. Tuttavia, negli ultimi due anni, repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamente indebolito queste iniziative, al punto che le due maggiori federazioni (la EDLC e la EFITU) (6) non riuniscono la loro assemblea generale dal 2013. Di fatto ogni sindacato agisce ormai per conto proprio a livello locale o di settore. L’esigenza di unirsi e coordinare gli sforzi però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazione all’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito contro la frammentazione del movimento, e invocato la necessità di lavorare insieme, al di là delle correnti di appartenenza». (7)
«[…] A dicembre in diverse regioni dell’Egitto, da Assiut a Suez, al Delta, lavoratori di società nei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni, sono entrati in sciopero a oltranza: le loro rivendicazioni riguardano l’estensione di diritti salariali e indennità riservate alle società pubbliche. Si tratta di benefici di cui questi lavoratori hanno smesso di godere in seguito alla massiccia ondata di privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Mubarak. Molte di queste privatizzazioni dopo la rivoluzione del 2011 sono state portate davanti ai giudici, i quali ne hanno spesso decretato la nullità, rilevando diversi casi di irregolarità e corruzione. Tali scioperi sono per lo più scollegati tra di loro e in gran parte slegati dal mondo del sindacalismo indipendente che si è riunito a metà dicembre al Cairo. Ma rappresentano comunque una realtà molto significativa, per almeno due motivi. Da un lato, pur se in maniera non del tutto esplicita, contestano il cuore della trasformazione neoliberista del paese, che ha subito una profonda accelerazione dal 2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel gennaio 2011 con lo slogan “Pane, Libertà, Giustizia Sociale” non sono riuscite sostanzialmente a intaccare. L’altro aspetto è che in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generale al-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento. Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla “guerra al terrorismo”, significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile».
Giulio Regeni, quando scrive queste parole, non immagina certo, che sarebbe stato lui stesso vittima di questa brutale repressione. Probabile che fosse cosciente di essere seguito e controllato mentre svolgeva le sue ricerche. Un’attenzione identica riservata in Egitto agli attivisti sindacali e dei diritti umani, ai dissidenti politici, ai giornalisti. Si saprà dopo che, in sua assenza, la sua casa al Cairo è perquisita. E mentre partecipa alle riunioni dei sindacati indipendenti è, sicuramente, fotografato e monitorato. A un certo punto scompare. Un nome tra centinaia di altri desaparecidos. Per poi essere ritrovato, come molti di loro, senza vita e con i segni inconfutabili di torture prolungate. Una firma che gli egiziani conoscono bene, quella dei servizi di sicurezza.
La sua morte, per le reazioni in Italia e sul piano internazionale, accende i riflettori sul regime militare al potere in Egitto. E il metodo delle sparizioni forzate, praticato in maniera sistematica, non può essere più nascosto. Il quadro documentato da Amnesty International – attraverso fatti e testimonianze – risulta inquietante (9). In media tre-quattro persone al giorno sono vittime di sparizioni forzate nel paese. Una strategia mirata e spietata dell’Agenzia per la sicurezza nazionale guidata dal ministro degli interni egiziano Magdy Abd el-Ghaffar.
Se ad innescare la rivoluzione del 2011 sono i giovani bloggers, a mobilitare di peso le masse sono prima le organizzazioni autonome dei lavoratori (embrione dei sindacati indipendenti) e poi i Fratelli Musulmani. L’esercito e i servizi di sicurezza, gli stessi di sempre dai tempi di Hosni Mubarak, hanno imparato la lezione. Dopo la deposizione dell’ex-presidente Morsi nel 2013 la repressione si abbatte durissima su entrambi. I sindacalisti fanno paura al regime militare egiziano di al-Sisi perché sono considerati i soli, insieme agli islamisti, capaci di riempire le piazze.
La profonda insofferenza nei confronti delle mobilitazioni dei lavoratori e dei sindacati liberi è, in realtà, il filo rosso che unisce finora tutti i Governi. Cacciato Mubarak sono continuati gli attacchi al diritto di sciopero e alle libertà sindacali. Sia con il governo Morsi, sia con quello di al-Sisi. Un vero e proprio indicatore della loro natura autoritaria e antidemocratica. Malgrado i sogni libertari che riempivano piazza Tahrir durante la rivoluzione egiziana del 2011.
…E nonostante la politica del pugno di ferro del regime di al-Sisi si sia abbattuta contro i sindacati indipendenti dalla primavera dello scorso anno, il 2015 fa registrare ben 1.117 casi tra sit-in, scioperi e manifestazioni. E nei primi quattro mesi del 2016 (ultimi dati disponibili) scioperi e proteste sono cresciute in Egitto di un ulteriore 25 per cento rispetto all’anno precedente. E’ questo movimento di lotta – in condizioni proibitive – che suscita la curiosità e la passione di Giulio Regeni. La galassia di sigle sindacali autonome (oltre settanta) fiorite all’indomani della cacciata di Mubarak e sopravvissute al pugno di ferro del regime, è – infatti – il principale oggetto di studio del dottorato di ricerca che Giulio sta compiendo. Per questo contatta e intervista decine di operai e sindacalisti. E’, pertanto, difficile negare che la morte di Giulio Regeni, così come gli ultimi anni della sua vita, s’intreccino con le dinamiche del movimento sindacale egiziano.
«Vedere gli operai esprimersi è a dir poco disturbante per un regime che si era abituato all’assenza di voci sindacali autonome: ogni volta che gli operai si esprimono si scatena un conflitto, chi governa sa bene che gli scioperi hanno giocato un ruolo importantissimo nella preparazione della rivoluzione del 2011, sono state manifestazioni come quella “dei secchi” in un piccolo villaggio contadino senza acqua ad incoraggiare i poveri a scendere in strada contro la dittatura» (10).
A parlare è Kamal Abbas. Co-fondatore e coordinatore generale del CTUWS, operaio in una grande acciaieria dal 1975. Tra i maggiori organizzatori sindacali egiziani, arrestato più volte durante il regime di Mubarak, tra i protagonisti della rivoluzione in piazza Tahrir.
Se è vero che il giro di vite sulle libertà sindacali e il diritto di sciopero non fermano il movimento dei lavoratori, chi protesta deve fare i conti con le misure repressive del regime militare al potere.
Gli ultimi a farne le spese sono ventisei operai dei Cantieri Navali di Alessandria, arrestati con l’accusa di “incitamento allo sciopero”. I fatti risalgono al 22 e 23 maggio quando partecipano ad un sit-in pacifico sul posto di lavoro, insieme alla maggior parte dei loro 2.500 colleghi. Le principali richieste dei lavoratori sono l’innalzamento dei salari al livello del salario minimo nazionale di 1.200 lire egiziane al mese (circa 120 euro al cambio attuale), il versamento dei dividendi arretrati sui profitti dell’azienda, dei bonus annuali per il mese di Ramadan e l’assicurazione sanitaria, oltre alla richiesta di far ripartire la produzione su alcune delle linee dell’impianto.
I ventisei operai dei cantieri navali, detenuti in condizioni orribili nelle carceri egiziane, sono sotto processo dal 18 giugno presso una corte militare, in aperta violazione delle convenzioni della Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), di cui l’Egitto è firmatario. Le convenzioni internazionali affermano il diritto dei lavoratori a scioperare e protestare pacificamente, il diritto a organizzarsi sindacalmente e difendere collettivamente le proprie condizioni di lavoro.
La Alexandria Shipyard Company è dal 2007 di proprietà Ministero della Difesa. I militari hanno interessi diretti non solo nell’economia bellica, ma anche in molti settori della produzione industriale civile, delle infrastrutture, dell’edilizia ecc. In Egitto non solo il potere politico, ma anche quello economico si concentra nelle mani di Esercito e Servizi.
…Pertanto, come afferma l’attivista dei diritti umani Tamer Wageeh: «[…] quando i centri capitalisti combaciano con i centri della sicurezza danno vita ad uno Stato oligarchico, il cui principale interesse è rubare e corrompere» (11). Facendo felice (aggiungo io), nel caso egiziano, la nomenclatura politica e quella corporativa dei paesi “democratici” europei, principali soci in affari del regime al potere.
Sebbene anche i sindacati indipendenti fossero in qualche modo allineati con le forze armate nel movimento del 30 giugno 2013 contro il presidente Mohamed Morsi dei “Fratelli Mussulmani”, la Corte Suprema del Cairo deciderà nei prossimi mesi se è giunto il momento di metterli fuori legge. Sarebbe non solo una palese violazione delle Convenzioni 87 e 98 dell’ILO ratificate dall’Egitto. Ma violerebbe esplicitamente la nuova Costituzione egiziana del 2014. L’articolo 76 stabilisce, infatti, il diritto di istituire organizzazioni sindacali su basi democratiche e di esercitare liberamente l’attività di tutela dei diritti dei lavoratori. A sollevare il caso sulla “illegalità” dei sindacati indipendenti, che rappresenterebbero una “minaccia alla sicurezza nazionale”, è l’ETUF la confederazione sindacale egiziana controllata dallo Stato. Ne è prova la nomina diretta dei suoi suoi dirigenti da parte del ministro del Lavoro e del presidente Abdel Fattah al-Sisi.
Un leader dei lavoratori Kamal al-Fayoumi, licenziato nel 2015 dal suo lavoro presso l’azienda tessile Misr Spinning and Weaving Company a Mahalla, ha dichiarato: «Abbiamo preso parte alle proteste del 30 giugno, con la speranza di realizzare la giustizia sociale. […] Dopo che ci siamo liberati dai trafficanti di religione [Fratelli Musulmani], siamo tornati ai precedenti trafficanti che esistevano sotto Mubarak. Noi speravamo, come abbiamo fatto durante il 25 gennaio 2011, nelle richieste rivoluzionarie di pane, libertà e giustizia sociale – ma nessuna di queste richieste è stata realizzata. […] Invece quello di cui ci siamo accorti è che decine di sindacalisti indipendenti, attivisti operai e organizzatori erano licenziati dai loro posti di lavoro, semplicemente perché hanno parlato pubblicamente per i loro diritti o si sono alzati in piedi contro la corruzione nei loro luoghi di lavoro. […] Come posso avere speranza per il futuro, quando vedo lavoratori civili sotto processo davanti a un tribunale militare, perché hanno pacificamente chiesto i loro diritti?» (12).
Chi, invece, non ha perso del tutto la speranza è Tamer Wageeh che conclude la sua intervista a Chiara Cruciati su Nena News, con queste parole: «Lo Stato assedia il movimento e il movimento è in declino. Ma le iniziative dei sindacati – medici, giornalisti, ingegneri – sono catalizzatori della lotta. Anche se sembra che stiano fallendo, sono esplosioni continue che spingeranno al cambiamento» (13).
Dello stesso avviso sembra essere il blogger e giornalista egiziano Abdelrahman Mansour che dal golpe militare del 2013 vive all’estero e oggi studia all’Università dell’Illinois. In un’interessante intervista rilasciata sempre a Chiara Cruciati e pubblicata su Nena News il 5 luglio 2016, Mansour afferma: «Nel 2010 eravamo tutti Khaled Said, ora siamo tutti Giulio Regeni. Le nuove forme di resistenza operano sottoterra, per questo vengono sottovalutate. Ma faranno cadere il regime. […] Le rivoluzioni arabe in questo senso non sono altro che parte di un fenomeno più ampio, globale, contro regimi diversi dalle Americhe all’Europa al Medio Oriente. Il movimento egiziano è ancora vivo, in fieri, parte integrante delle proteste dei giovani in paesi diversi contro decenni di ingiustizie mascherate con la definizione occidentale del concetto di democrazia. Da noi quel concetto si traduce nel sostegno ad al-Sisi che riceve armi in abbondanza e moderni sistemi di spionaggio» (14).
Anche Alaa al Aswani, lo scrittore arabo più di successo degli ultimi decenni, è tra coloro che non hanno perso la speranza. Intervistato da Michele Giorgio per Nena News ha dichiarato:
«[…] Tante cose non sono andate per il verso giusto. Però la storia ci insegna che una rivoluzione ha bisogno di tempo per affermarsi, per trasformare uno Stato. Una rivoluzione si fonda sul coraggio e il cuore dei rivoluzionari mentre un regime ha tutto dalla sua parte: potere, soldi, forza. E se la rivoluzione non riesce a scardinare completamente tutto questo, il vecchio regime riemerge come una tigre ferita. Dobbiamo tenere presente che i protagonisti del 2011 non sono stati in grado di completare la rivoluzione e di contrastare la controrivoluzione scattata dopo l’uscita di scena di Mubarak. Però non è finita e quanto abbiamo vissuto cinque anni fa a piazza Tahrir può e deve ripetersi fino al traguardo» (15).
Sebbene al-Sisi goda ancora di consenso di una parte della popolazione, sempre di meno ogni giorno che passa, a differenza di Mubarak non ha un partito politico alle spalle. …E come sostiene Abdelrahman Mansour: «[…] La sua legittimità si fonda solo sull’esercito e il suo modo di governare si basa sulla mera ricerca di obbedienza, come se governasse una caserma» (16).
In realtà l’aiuto maggiore al suo regime gli deriva dal sostegno degli Stati della regione del Golfo (in particolare l’Arabia Saudita) e dai paesi occidentali (in particolare quelli europei). Ciò malgrado la situazione dei diritti umani in Egitto stia peggiorando. Riccardo Noury – portavoce di Amnesty Italia – denuncia, in una recente intervista sul caso Regeni, il paradosso europeo. «[…] il paese isolato non è l’Egitto ma l’Italia. Se l’Unione Europea fosse davvero solidale avremmo 27 ambasciatori ritirati e non uno. L’Egitto è stato abile nel mantenere saldo il suo ruolo di partner fondamentale nel dossier Libia, nel dossier immigrazione, nel dossier terrorismo, mettendoli in contrasto con il caso Regeni. La richiesta della verità è considerata quasi un fastidio, un ostacolo» (17).
Per questa ragione secondo Amnesty è necessaria l’internalizzazione del caso Giulio. «[…] Non si tratta di un’alternativa all’inchiesta italiana, ma una forma di pressione complementare. Come l’assunzione delle misure previste dalla Convenzione Onu sulla tortura o commissioni di inchiesta e risoluzioni dell’Onu che abbiano un peso almeno morale. Che dicano, cioè, che i diritti umani in Egitto non interessano solo la famiglia Regeni, Amnesty o milioni di cittadini italiani» (18).
Dello stesso avviso Mansour «[…] La morte di Giulio ha acceso l’attenzione internazionale. Quando penso a lui, penso a Khaled: entrambi morti perché cercavano la verità (Giulio sui sindacati, Khaled aveva un video sul traffico di droga in mano a dei poliziotti) ed entrambi assomigliavano a tantissimi ragazzi che nel mondo lottano contro una qualche forma di ingiustizia. Come nel 2010 eravamo tutti Khaled Said, ora siamo tutti Giulio Regeni» (19).
Per queste ragioni, Amnesty sostiene che debba esserci il coraggio da parte del nostro paese e della comunità internazionale di due azioni forti: «[…] Dichiarare l’Egitto paese non sicuro e pretendere la scarcerazione di tutti gli attivisti per i diritti umani e la fine della persecuzione giudiziaria di gruppi e singoli. In secondo luogo, sospendere il trasferimento di armi e software di sorveglianza all’Egitto» (20).
Al contempo il sindacalismo internazionale (e nello specifico quello italiano) deve essere capace di mobilitarsi in solidarietà e a sostegno dei lavoratori egiziani e del sindacalismo libero e autentico. E’ la forma più coerente con cui ricordare la figura del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni e continuare l’impegno insieme alla sua famiglia affinché, sul suo atroce assassinio di Stato, venga fatta verità e giustizia!
205dc692d94729c4a192c75750fc368e-8650-k ... aStampa.it
(1) Chiara Cruciati, Sette mesi e su Giulio l’Italia va all’indietro, il manifesto, 25 agosto 2016
(2) Antonio Drius, “L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale”, Nena News 14 gennaio 2016
(3) Center for Trade Unions and Workers Service, fondato nel 1990.
(4) Egyptian Trade Union Federation, fondata nel 1957 è l’unica confederazione sindacale legalmente riconosciuta fino alla rivoluzione del 2011. Dichiara 6 milioni di iscritti, ma risulta scarsamente rappresentativa.
(5) Si stima che l’insieme dei sindacati indipendenti in Egitto, nel momento della loro massima espansione, abbiano coinvolto circa 25 milioni di operai e impiegati.
(6) Egyptian Democratic Labor Congress (EDLC) e Egyptian Federation of Independent Trade Unions (EFITU), nate rispettivamente nel 2013 e 2012.
(7) Antonio Drius, L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale, Nena News 14 gennaio 2016
(8) Antonio Drius, L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale, Nena News 14 gennaio 2016
(9) Egitto: «Ufficialmente tu non esisti», rapporto di Amnesty International.
(10) Francesca Paci, I sindacalisti fanno paura al regime egiziano perché riescono a riempire le piazze, La Stampa, 7 febbraio 2016
(11) Chiara Cruciati, Tre anni dopo: dal golpe alla protesta, Nena News, 2 luglio 2016
(12) Jano Charbel, June 30, 3 years on: Independent labor movements suffer more losses than gains, Mada Masr, 3 July 2016
(13) Chiara Cruciati, Tre anni dopo: dal golpe alla protesta, Nena News, 2 luglio 2016
(14) Chiara Cruciati, Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi», Nena News, 5 luglio 2016
(15) Michele Giorgio, Alaa Al Aswani: «Alziamo la voce contro il regime di al Sisi», Nena News, 16 aprile 2016
(16) Chiara Cruciati, Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi», Nena News, 5 luglio 2016
(17) Chiara Cruciati, Sette mesi e su Giulio l’Italia va all’indietro, il manifesto, 25 agosto 2016
(18) Chiara Cruciati, Sette mesi e su Giulio l’Italia va all’indietro, il manifesto, 25 agosto 2016
(19) Chiara Cruciati, “Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi»”, Nena News, 5 luglio 2016
(20) Chiara Cruciati, Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi», Nena News, 5 luglio 2016
Egitto: i sindacati indipendenti
Antonio Moscato
14-19 minuti
EGITTO – SERI problemi per il movimento operaio
Yassin Gaber
[Versione francese: La breche (http://www.alencontre.org/ - Versione spagnola: Viento Sur (http://www.vientosur.info/)
http://antoniomoscato.altervista.org/in ... &Itemid=39
Statistiche del 2010 indicano che 6 egiziani su 10 percepiscono meno di 3.333 dollari all’anno. Questi dati corroborano i risultati di un’indagine effettuata da Egipt’s Information and Decision Support Center (IDSC), che dimostrava che il 43% delle famiglie dispone di un reddito insufficiente a soddisfare i bisogni sociali più elementari. In altri termini – per riprendere un indicatore inadeguato ma “normalizzato” dalla Banca Mondiale – significa che il 43% delle famiglie vive in condizioni di “povertà”, o di “estrema povertà”. Dunque, in base a questa classificazione, si tratta di un reddito inferiore ai 2 dollari al giorno. Dal 1996 al 2005 – ultimi dati disponibili – 2 egiziani su 10 vivevano al di sotto della soglia di sopravvivenza. Povertà ed emarginazione sociale forniscono il brodo di coltura a vantaggio di varie forze islamiste che forniscono strutture e iniziative di tipo assistenziale.
Al tempo stesso, in seno a settori operai e non solo, si erano andate manifestando mobilitazioni, significativi scioperi e un nuovo tipo di organizzazione sindacale, prima del 25 gennaio 2011, data simbolica che segna l’avvio del “processo rivoluzionario” in Egitto. Queste lotte investivano settori quali la siderurgia, i trasporti, gli ospedali, il tessile, i lavoratori della zona del Canale di Suez, l’insegnamento, l’amministrazione, ecc. Al centro c’era la rivendicazione dell’aumento di salario, ma al tempo stesso si ponevano in rilievo anche rivendicazioni democratiche.
La creazione della Federazione Egiziana di Sindacati Indipendenti (EFITU) ha segnato una rottura di fondo con le strutture sindacali istituite dal regime nel 1957, e cioè la centrale unica della Federazione Sindacale Egiziana (ETUF). L’appello allo sciopero generale lanciato dall’EFITU il 30 gennaio 2011 – uno sciopero con grande seguito – ha svolto un ruolo determinante nella caduta di Mubarak. Nella conferenza ufficiale di fondazione, svoltasi nei locali del sindacato dei giornalisti, l’EFITU ha chiesto di sciogliere l’ETUF e di congelarne i beni. (Redazione di Viento Sur)
Nell’attuale contesto politico-sociale, il controllo di alcune associazioni di categoria – tra gli altri, settori come quello dei medici o dei farmacisti – è la posta in gioco degli scontri politici in cui i Fratelli Musulmani sfruttano la forza organizzativa di cui già disponevano, tra l’altro anche in questi ambienti, sotto il regime di Mubarak. Quando si organizzano forze di opposizione – ad esempio, “Medici senza diritti” – il controllo di quei “sindacati” ad opera dei Fratelli Musulmani viene sventato, come dimostrano le elezioni del “sindacato” dei medici di Alessandria. Tuttavia, per quanto concerne i sindacati più direttamente legati a settori di lavoratori impegnati in lotte di un certa portata, la controffensiva organizzativa può anche venire da cerchie provenienti dal vecchio regime, che hanno legami con l’istituzione che accentra ancora il potere in Egitto: il Consiglio supremo dell’Esercito. È ciò che descrive Yassin Gaber, l’8 dicembre 2011, in Ahram-online. Un punto di vista che vale la pena di far conoscere ai nostri lettori, perché possano rendersi conto di un aspetto poco noto di uno scontro sociale e politico in atto, dalle molteplici dimensioni, che non può essere completamente scisso dai risultati elettorali. (Redazione di A l’Encontre)
Un’ondata di scioperi e di iniziative intraprese dai lavoratori ha consentito la sollevazione di 18 giorni in Egitto. Il nascente movimento operaio, acquistando sicurezza a poco a poco, ha dichiarato unilateralmente la creazione di una Federazione sindacale indipendente (EFITU), in contrapposizione alla sua omologa diretta dallo Stato. Si è poi impegnata in iniziative volte a smantellare il potere e la struttura del sindacato di Stato (ETUF). Tuttavia, di recente, i lavoratori egiziani e i sindacalisti si sono ritrovati a doversi battere per preservare quanto hanno conquistato poco fa.
Nel marzo 2011, il ministro egiziano della Manodopera e delle Migrazioni, Ahmed Hassan El-Borai, aveva proclamato il diritto dei lavoratori egiziani a istituire propri sindacati e rispettive federazioni, un atto apprezzato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro OIT). Sta per essere introdotta, però, dai dirigenti militari egiziani (il Consiglio superiore delle Forze armate – CSFA) una nuova legislazione sindacale. Nell’agosto 2011, in forza dell’applicazione di una sentenza del 2006, veniva sciolta la direzione dell’ETUF, la Federazione sindacale diretta dallo Stato.
Questi passi in avanti, tuttavia, venivano frenati dalla fiducia che il governo continua a concedere a membri della vecchia guardia per quanto riguarda la creazione di nuove strutture. Ne deriva allora, secondo le dichiarazioni di Hisham Fuad, uno dei membri fondatori del Partito democratico dei Lavoratori, una prospettiva governativa che è «controrivoluzionaria e in contrasto con le conquiste dei lavoratori». A questo va aggiunto il rifiuto di consultare direttamente i sindacalisti indipendenti, cosa che a suo avviso costituisce la prova di un’intolleranza più profonda e dimostra la volontà del CSFA al potere di soffocare il movimento sindacale indipendente.
La decisione dell’ex Primo ministro Essam Charaf [ex ministro dei Trasporti nel 2004-2005, poi Primo ministro dal 3 marzo al 7 dicembre 2011] di sciogliere la direzione dell’ETUF e di congelare i beni di questo sindacato statale ha rappresentato un momento molto importante per i sindacalisti indipendenti. Tuttavia, subito dopo si è verificata una situazione che fa riflettere. Si è incaricato un “Comitato di pilotaggio” [difficile rendere altrimenti i termini pilotage e pilotaje, se non forse con “guida”, NdT] – composto da sindacalisti indipendenti, sindacalisti legati allo Stato ed esponenti dei Fratelli Musulmani – di indagare sulla situazione finanziaria del sindacato ETUF. Questa direzione di fatto ha cominciato a ficcare il naso nei rapporti dell’Organizzazione centrale d’inchiesta, che attestano centinaia di infrazioni e di irregolarità finanziarie sia dell’ETUF sia di altre organizzazioni ruotanti intorno alla centrale sindacale ufficiale.
Si pensava che alcuni sindacalisti implicati in operazioni finanziarie illecite venissero deferiti al procuratore generale, ma a bloccare questo iter si sono levati interessi ben precisi… Il Comitato di pilotaggio è stato così paralizzato, a causa della composizione che includeva svariate fazioni.
Una coalizione di quattro Federazioni – il sindacato dei lavoratori del petrolio, quello dei lavoratori dell’industria molitoria, del trasporto marittimo, dei trasporti – ha scioperato a metà novembre 2011, chiedendo che si sciogliesse il Comitato di pilotaggio designato dal governo. Membri di questa direzione autoproclamata hanno cercato, senza successo, di decapitarla, destituendo Ahmed Abdel Zahir, che è un transfuga della disciolta direzione dell’ETUF, nonché socio di colui che ne era precedentemente alla testa, Hussein Mégaouir. Pochi mesi fa, questo famoso uomo d’affari era stato accusato di avere avuto un ruolo nella “Battaglia del Cammello”, come viene chiamato l’attacco alla gente che era in Piazza Tahrir il 2 febbraio 2011. [L’ex tesoriere dell’ETUF, Samir Sayad, era diventato intanto il proprietario di una delle maggiori imprese di verniciatura in Egitto, godendo degli appoggi del clan Mubarak].
Quando il ministro El-Borai si è reso conto che non sarebbe riuscito a fermare lo sciopero, ha decretato lo scioglimento del Comitato, sostituendolo con un altro composto da personaggi della vecchia direzione, soci di Mégaouir. «Siamo tornati indietro. Ora la situazione è esattamente la stessa di quando c’era Hussein Mégaouir», sostiene Wael Habib, membro del Comitato di Pilotaggio.
Hisham Fuad ritiene che per il CSFA il cambiamento costituisca la risposta all’ondata di scioperi che ha scosso l’Egitto nel settembre 2011. «Il CSFA ha sentito di avere un certo controllo e di poter reprimere il movimento operaio che stava crescendo», dice Fuad.
Dopo l’imposizione di un nuovo comitato di direzione dell’ETUF, El-Borai ha annunciato, il 28 novembre 2011, che la nuova Federazione egiziana dei sindacati indipendenti (EFITU) era d’accordo ad entrare nell’ETUF, diretta dallo Stato. La dichiarazione ha suscitato molto rumore e mandato segnali del fatto che il governo non voleva più saperne di pluralismo e di libertà sindacali. Nonostante confusione e speculazione non siano mancate, risulta che la convergenza tra i sindacati indipendenti e i loro omologhi affiliati allo Stato non è mai esistita. «Non ci impegneremo mai al loro fianco su niente. Rifiutiamo la concezione stessa di un sindacato diretto dallo Stato», ha dichiarato Fatma Ramadan, membro della direzione dell’EFITU e militante sindacale.
Fatma Ramadan è stata costretta a ritirare la propria candidatura alle elezioni dell’Assemblea del Popolo (la Camera bassa del parlamento), dopo che i tribunali amministrativi dei governatorati di Gizeh e di Menufiya si sono rifiutati di accettare candidati che avessero avuto il riconoscimento in quanto lavoratori da parte del sindacato indipendente [accanto a liste di partiti esistono liste che consentono di eleggere – per quote – un rappresentante delle “professioni” e uno del “blocco operaio-contadino”]. Secondo Fatma, l’EFITU ha autorizzato la candidatura di 300-400 “operai” per le elezioni in tre fasi [dal dicembre 2011 al gennaio 2012] all’Assemblea del Popolo egiziana. Fra questi 300-400, a una decina circa di sindacalisti, tra cui Fatma Ramadan, non è stato riconosciuto il diritto di partecipare alle elezioni come rappresentante del “blocco operaio-contadino”.
Grazie a un decreto del 29 luglio 2011, il CSFA al potere ha mantenuto in vigore un sistema di quote di 47 anni fa, che riguarda i rappresentanti degli operai e dei contadini alle due Camere del parlamento egiziano. I sindacalisti sono divisi sul fatto se il sistema delle quote vada considerato un retaggio del vecchio regime, o se lo si debba invece rivedere, correggere. «La quota del 50% per gli operai e i contadini è fatta per proteggere i settori dominanti: va bene dare voce a chi è più sfavorito, ma se la quota si usa per riempire il parlamento di uomini d’affari e di tecnici… Chi pensate che difenderanno costoro: se stessi o i lavoratori?», chiede Fatma Ramadan.
Saul Omar, un membro del sindacato dei lavoratori dell’Autorità del Canale di Suez e candidato dei lavoratori a Suez, pensa che la quota del 50% vada mantenuta. Tuttavia, per evitarne una cattiva utilizzazione occorrerebbe istituire una nuova legge per garantire che i rappresentanti eletti provenienti dalle file operaie difendano davvero i lavoratori. «Il parlamento non si pronuncia veramente in favore del popolo. I milioni di persone che scendono per le strade ne sono la dimostrazione, negando il presunto ruolo del parlamento; ma dobbiamo ancora lavorare su questi schemi politici», sostiene.
Se le prime elezioni post-Mubarak metteranno in piedi quel parlamento di cui molti dicono che sarà il primo legittimo dagli anni Trenta, la sua composizione determinerà in una certa misura il corso del movimento operaio.
I risultati della prima fase rivelano forti affermazioni elettorali del braccio armato dei Fratelli Musulmani, il Partito della Giustizia e della Libertà (FJP) e del partito dei salafiti: Al-Nur. Anche se restano ancora da svolgere due tornate elettorali [l’articolo è stato scritto prima che iniziasse la seconda, il 14 dicembre 2011], molti osservatori ritengono che sia ormai inevitabile la presa del potere elettorale da parte dell’islamismo.
Se gli islamisti arrivano al potere, il movimento dei lavoratori si può aspettare di trovarsi di fronte ad alcuni ostacoli. Il FJP ha accettato l’opposizione del CSFA agli scioperi, compiendo un ulteriore passo quando ha cercato di costringere lo sciopero degli insegnanti a cessare in alcuni governatorati, lo scorso settembre. Il partito Al-Nur ha chiaramente adottato la linea antisciopero, definendo “indesiderabili” azioni del genere, per il momento. L’unica lista favorevole, “liberale”, che abbia ottenuto risultati sostanziosi al primo turno è stata quella del Blocco egiziano [coalizione che comprende il Partito degli egiziani liberi, il Partito socialdemocratico egiziano e il Partito al-Tagammu, uscito dal Partito comunista]. Gli “Egiziani liberi” – la forza dirigente del Blocco – hanno anch’essi una posizione ostile ai lavoratori. Lo hanno chiaramente dimostrato quando hanno subito dichiarato il loro appoggio alla legge antisciopero adottata nel luglio 2011 dal CSFA.
Comunque sia, alcuni militanti sindacali sono decisi: «Non siamo scoraggiati dalle elezioni parlamentari: quella per il parlamento è solo una parte della battaglia. È in piazza che si colloca la nostra battaglia principale; noi esigiamo: il diritto alla libertà di organizzazione sindacale, la soppressione della legge che criminalizza gli scioperi, l’introduzione di una salario minimo e di un tetto massimo, la riapertura delle fabbriche chiuse e il reintegro degli operai, l’aumento delle pensioni e un’adeguata copertura sanitaria», dichiara Fatma Ramadan.
Secondo l’avvocato del lavoro nonché membro dei Socialisti-Rivoluzionari, Haitham Mohamedein, «la posta in gioco vera è la legge». In particolare, la n. 35 (1976) che costituisce la base delle norme che riguardano struttura e sistemi delle elezioni dell’ETUF, diretta dallo Stato, fra altre organizzazioni centrali. La decisione della giunta militare al potere di sospendere il progetto di legge – approvato dal ministro della Manodopera e delle Migrazioni (Al-Borai) e poi dal governo di Charaf – rappresenta il nocciolo della questione, secondo Mohamedein. Tale legislazione consentirebbe, per la prima volta dagli anni Cinquanta, il pluralismo sindacale e consentirebbe a operai e professionisti di creare proprie associazioni e propri sindacati. Associazioni e sindacati forti rappresenterebbero una sfida per un sistema che alimenta la corruzione, l’oligarchia e la disuguaglianza sociale.
I Fratelli Musulmani si sono sempre battuti per il controllo dei sindacati e delle associazioni professionali, dichiara l’avvocato del lavoro. E affronteranno il problema dell’ETUF allo stesso modo. «Il FJP vuole che la centrale sindacale sia al loro comando e controlleranno le federazioni tramite elezioni: elezioni nel quadro della legge n. 53. Non è nel loro interesse cambiarla radicalmente. Il movimento dei lavoratori costituisce una fonte di preoccupazione per gli uomini d’affari, come per i Fratelli musulmani. Potrebbero magari cercare di emendare la legge, ma non permetterebbero mai le stesse libertà della legge che è stata sospesa».
(Traduzione di Titti Pierini 5/1/12)
Questo articolo è collegato a quello di Charles André Udry sulla nuova fase di repressione: Egitto, elezioni e repressione
Giulio Regeni: la pista dei Fratelli musulmani, ma gli inquirenti non collaborano
https://www.panorama.it/news/esteri/mor ... -le-accuse
- Giulio Regeni, ricercatore italiano, è scomparso al Cairo il 25 gennaio ed è stato trovato morto il 3 febbraio, con evidenti segni di tortura. Le ipotesi sulla sua fine atroce sono molte, ma nessuna è stata confermata. L'ultima è che sarebbe stato rapito da agenti segreti sotto copertura, appartenenti ai Fratelli musulmani.
- Tra gli inquirenti prende subito corpo l'ipotesi di un coinvolgimento dei servizi egiziani. Il governo smentisce, ma le autorià del Paese non condividono con gli inquirenti italiani i risultati delle loro indagini, e non mettono a disposizione i video delle telecamere nella zona in cui Regeni sarebbe stato rapito.
- Secondo un'inchiesta del New York Times, Regeni sarebbe stato fermato da tre funzionari della polizia egiziana il 25 gennaio, anniversario delle rivolte di piazza Tahir.
L’ipotesi della pista islamista per la morte di Giulio
Francesca Paci
2016/02/11
https://www.lastampa.it/2016/02/11/blog ... agina.html
I Fratelli Musulmani se l’aspettano, prima o poi la caccia alla responsabilità per l’assassinio di Giulio Regeni li travolgerà: è solo questione di tempo perché qualcuno diffonda il sospetto che dietro la morte del giovane ricercatore italiano ci sia la mano di chi sotto sotto ha più motivo di tutti di vendicarsi di un regime che li ha rimossi, repressi e messi al bando. In realtà, nella Cairo percorsa da dubbi, paure, depistaggi, veleni (ieri un sedicente pilota appartenente a una famiglia di poliziotti e inneggiante ai servizi segreti egiziani ha scritto sul suo profilo Facebook in arabo che “l’italiano era una spia” e che essendosi impicciato delle questioni interne di un altro paese “meritava di essere ammazzato in quel modo”) l’ipotesi della pista islamista circola già a vari livelli nei giornali governativi e nel passaparola dei lealistissimi: nessuna prova, nessun indiziato, ma, forte, il traino della domanda “a chi conviene?”, quella forsennata ricerca di una logica di qualsiasi genere che alimenta spesso dietrologie e teorie cospirative.
«Tra le piste accreditate in queste ore c’è anche quella di qualche gruppo islamista interessato a indebolire il sistema, il tentativo dei Fratelli Musulmani di distruggere il turismo per esempio non è nuovo e poi c’è da considerare il luogo in cui è stato fatto ritrovare il corpo di Giulio Regeni, vicino alla prigione della sicurezza nazionale, sembra fatto apposta» ragiona Saad Eddin Ibrahim, oppositore della vecchia generazione, esiliato negli Stati Uniti e tornato trionfante in Egitto all’indomani della rivoluzione del 2011 fino ad accompagnarne la deriva e appoggiare la cacciata dell’ex presidente Morsi, reo per la piazza (e per lui) di voler imporre al paese una impronta islamista. Il suo centro studi per i diritti umani si trova sulla collina cairota del Muqattam, di fronte alla Cittadella, a poca distanza dal quartiere generale dei Fratelli Musulmani dato alle fiamme all’inizio della rovente estate 2013.
«Quello di Giulio Regeni è un caso critico, un po’ come l’aereo russo abbattuto a Sharm el Sheik. Lo Stato cercherà fino all’ultimo di non condannare la sicurezza magari accusando i gruppi islamisti, forse arresteranno un paio di persone e li picchieranno fino a farli confessare l’omicidio. È un terreno pericoloso, perciò non credo che i Fratelli si esporranno su questa storia, finora non hanno emesso nessun comunicato stampa perché sanno che facendolo catalizzerebbero i sospetti e in questo periodo, divisi come sono, non ne hanno davvero bisogno». A parlare è Mohamed Abdel-Koddos, membro del direttivo del sindacato dei giornalisti e considerato dal regime assai vicino alla Fratellanza. Accennando alle divisioni interne allude al dibattito feroce in corso dentro al movimento dove le nuove generazioni patiscono fortemente la ricacciata nell’ombra post 2013, chiedono il ritorno alla politica, accusano i padri di attendismo, scalpitano, qualcuno ha scelto la lotta armata con i gruppi fondamentalisti.
Braccati, in clandestinità o fuggiti all’estero, i Fratelli seguono il braccio di ferro tra Roma e il Cairo preparandosi al peggio (se dovesse arrivare): dopo aver conquistato il potere attraverso elezioni democratiche nel 2011 (voto parlamentare) e nel 2012 (voto presidenziali) ed essere stati cacciati dall’esercito (prima che gli egiziani li andassero a cercare casa per casa) non escludono alcuno scenario. Neppure quello che li vede messi all’indice. Anzi. Ragionare con loro dell’assassinio di Giulio Regeni e di cosa possa significare per il regime, della ricerca di un colpevole o di un capro espiatorio, del vicolo cieco in cui si è infilato il paese, significa però triangolare tra chi vive nell’ombra al Cairo, chi sta in Qatar, chi in Turchia, tutti disposti a parlare solo a condizione dell’anonimato.
«Ovviamente cercheranno di fare in modo di alzare un polverone addossando la colpa all’opposizione, anche se stavolta il coinvolgimento di un paese straniero renderà le cose meno facili del solito. La propaganda tenta di attribuire qualsiasi cosa alla Fratellanza, lo fa dall’inizio del colpo di stato» dice uno sui trent’anni. E un altro, sempre della nuova leva: «E’ evidente che non ci può essere la Fratellanza dietro al delitto e neppure un’altra forza tra quelle in campo contro il regime, i gruppi anti regime sono anzi considerati “amici” di Giulio. D’altra parte bisogna ricordare invece che il regime militare è già ricorso alla violenza nei confronti degli stranieri, come l’insegnante francese violentata dalla polizia, e vi ricorre sistematicamente quando si tratta di egiziani, come l’attivista Shaima».
La tesi di membri attivi della fratellanza ma anche dei simpatizzanti è che si tratti di un delitto di Stato: «Siamo di fronte a un sistema criminale che ha ucciso Giulio e cerca ora di depistare suggerendo assurdità come l’incidente stradale. È un sistema che spesso uccide e tortura senza pensare alle conseguenze politiche, i militari sono fatti così». Paura, dunque? «Certamente abbiamo paura, molti di noi sono fuori dal paese perchè se fossero rimasti avrebbero fatto la fine di Giulio. Il ricercatore italiano non è il primo, dopo il colpo di stato del luglio 2013 ci sono 245 studentesse universitarie uccise dai soldati egiziani dentro gli atenei, ci sono 3.500 studenti detenuti senza possibilità di eseguire gli esami dal carcere, ci sono oltre 300 studenti sotto processo in un tribunale militare, 1000 studenti sono stati respinti dalle rispettive facoltà per le loro posizioni politiche. Giulio è uno delle migliaia di studenti oppressi da Sisi e anche dalla comunità internazionale, silenziosamente complice dei suoi crimini. Ma è arrivato il momento di sollevare il coperchio e vedere cosa bolle in pentola».
Cosa bolle in pentola? E’ la domanda che sta dietro alla morte di Giulio Regeni ma anche, a livello più ampio, quella che indaga il futuro dell’Egitto, l’ipotesi di una nuova più violenta rivoluzione di gente affamata, il ruolo dei sindacati indipendenti su cui pure lavorava il ricercatore italiano. Un Fratello della prima generazione sottolinea come davvero Giulio sia “uno di noi” nel senso di essere finito nello stesso gorgo repressivo: «Giulio è stato arrestato per le sue posizioni vicine ai sindacati indipendenti espresse negli articoli e negli scritti e sottoposto a torture non perché fosse coinvolto in azioni politiche dirette ma perché lavorava per descrivere il sistema. In realtà oggi in Egitto nessuno è lontano dalla politica. La resistenza al colpo di stato non è esclusiva dei partiti islamici e degli islamisti ma coinvolge tutti rappresentanti della rivoluzione, anche i sindacati. Siamo di fronte a un’autorità militare che considera ogni straniero e qualsiasi istituto straniero un pericolo, potenziali spie, forse Giulio è stato preso per una spia».
La nuova xenofobia del regime egiziano, alimentata proprio dall’associazione tra i Fratelli Musulmani e il Qatar, è un dato evidenziato anche dallo storico Khaled Fahmy: «L’Egitto è un regime di intelligence più che un regime di polizia come invece era la Siria di Assad o l’Iraq di Saddam. Vuol dire che il sistema di controllo egiziano si basa sul sospetto e sulla delazione e dopo il 2013 il sospetto verso gli stranieri è diventato paranoia, ong straniere espulse, studenti internazionali tenuti d’occhio, accademici e giornalisti internazionali sorvegliati».
Saad Eddin Ibrahim pensa però che il caso di Giulio Regeni possa rappresentare un punto di svolta: «Sisi è di fatto il più danneggiato in questo momento, è stato umiliato, ne emerge che non è nel pieno controllo del paese, per questo ha chiesto con forza un rapporto sull’accaduto. Chiunque sia il responsabile di questo assassinio barbaro, la domanda che è emerge oggi è: chi controlla lo Stato egiziano? Il “deep state”, l’apparato inossidabile? I servizi? Italia ed Egitto dovrebbero contenere la tentazione alla escalation diplomatica e lavorare insieme per tirare fuori la verità».