Lettera trumpiana ai giornaloniCari colleghi vi scrivo, perché ormai su Trump siamo in presenza di una patologia conclamata, di un morbo dello spirito, il copia&incolla di categoria e la menzogna ripetuta a oltranza perché diventi verità, come da lezione di Goebbels...
di Giovanni Sallusti
http://www.lintraprendente.it/2017/02/l ... s.facebookCari colleghi vi scrivo, così mi distraggo un po’. Anche se è difficile, davvero, divagare o anche solo sospendere per qualche attimo il clima di apocalisse permanente che state montando da quando Lui si è insediato alla Casa Bianca. Lui è l’Orco, l’Inaccettabile, il magnate col toupè, quello che non avrebbe mai vinto le primarie del Gop (ché Jeb Bush si porta bene ed è di buona famiglia), quello che non avrebbe mai vinto le presidenziali (ché Hillary Clinton si porta bene ed è di ottima famiglia), The Donald, oggi Potus con loro, con vostro, inguaribile scorno.
Essì, cari colleghi, perché ormai siamo in presenza di una patologia conclamata, qualcosa come un morbo dello spirito, la coazione a ripetere del titolo farlocco, da bravi radical seguaci di Goebbels, “ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Trump fascista, rigurgito degli anni Trenta su suolo americano, cazzata sesquipedale. Trump è un multimiliardario nella Manhattan del nuovo millennio, che sente la scossa tellurica dell’America, della terra che gli ha dato opportunità e ricchezza e successo, che gli ha fatto sviluppare il suo diritto al “perseguimento della felicità” fin dove forse neanche lui pensava di arrivare, e la porta in superficie, gli dà voce, ci ricava persino una piattaforma politica che ha molto a che fare con la storia del Partito Repubblicano e del Paese, e niente con i sintagmi ignoranti della classe colta di questo Continente invecchiato e ancora una volta sull’orlo della germanizzazione, l’Europa. Il “populismo“. Sì, no, forse, orecchiato così nei talk è un nonsense mondano, tutto e niente, si appiccica su Putin e sui nazionalisti austriaci, sulla Le Pen e sui liberali intransigenti olandesi, sui conservatori thatcheriani pro-Brexit e sui laburisti estremisti pro-Remain, tutta gente che non ha nulla a che a vedere tra loro, né tantomeno con Donald Trump. Che è fenomeno tutto nativista, certo, squisitamente e sfacciatamente americano, e Dio sa se ne avevamo bisogno, dopo la bestemmia di una presidenza che ha fatto di tutto per ridurre la splendida anomalia del Nuovo Mondo alla regola del Vecchio, per fare degli Stati Uniti un prolungamento dell’Unione Europea, e Dio benedica il popolo statunitense che si è ribellato.
Ecco, cari colleghi, se per una volta contemplaste l’hegeliana “fatica del concetto”, che poi vuol dire un minimo di ricerca se non di studio di storia americana prima di sparare sentenze sull’America dal proprio desk in Trastevere, allora ci direste che se “populismo” deve essere, lo è nella versione e nel tono antropologico tipicamente americano, irrimediabilmente altro e inafferrabile da qualunque equivoco totalitario europeo (pensate che a fermare un executive order sull’immigrazione è bastato un oscuro giudice di Seattle, e vergognatevi nell’anima dei vostri paragoni con Hitler),
è il “populismo” individualista, anti-statalista, libertario di Andrew Jackson, il presidente ottocentesco del Secondo Emendamento e della corsa a perdifiato all’Ovest, dritti verso il destino manifesto americano, America First perché l’Europa aveva già deluso, e doveva ancora accadere il terribile Novecento.
O il populismo interventista di Theodore Roosevelt, l’economia di mercato è sacra ma lo Stato può laicamente affacciarsi a predisporre infrastrutture e generare lavoro (questa è pura Trumpnomics), parla piano nel mondo ma porta sempre con te un grosso bastone, ed è esattamente ciò che il neopresidente vuole fare con Vladimir Putin, negoziare con sorriso amicale e in sottovoce, ma mentre si manda in giro per il globo il segretario alla Difesa, generale Mattis, a dire che “qualunque attacco agli Stati Uniti e ai loro alleati innescherebbe una riposta efficace e schiacciante” e addirittura si potenzia l’esercito di gran lunga più potente al mondo, dite quello che volete, ma è un’idea, certo meglio del nullismo obamiano che ha concesso la scena planetaria allo Zar.
O, per stare a tempi più recenti, può essere certo populismo nixoniano che rivendicava retoricamente la rappresentanza della “maggioranza silenziosa”, il che del resto era evidenza politica fattuale, o persino certo populismo eccezionalista reaganiano, la “città sulla collina” dell’America che si staglia e riscatta le miserie del mondo. Questi, detti con semplicismo giornalistico, possono essere i riferimenti “populisti” di Donald Trump, cari colleghi che vedete il fascismo ovunque tranne là dove sta oggi, nell’intolleranza politically correct, ed avercene.
Anche nella cronaca, soprattutto nella cronaca, cari colleghi e care colleghe (come non pensare alla giaculatoria quotidiana di Giovanna Botteri dalla sua terrazza di Manhattan, magari per astuzia della ragione e ironia della storia costruita proprio da Trump). Recuperate il livello di sobrietà minima, nella cronaca, un rapporto sufficientemente sereno con la verità, lavorate pur sempre in giornaloni seri, mica in fogliacci online d’opinione.
Il muslim ban, che non è un muslim ban visto che il criterio è geografico e non confessionale, riguarda i Paesi e non le religioni, è figlio di una selezione rigorosa praticata dall’amministrazione Obama. Si chiama Terrorist Travel Prevention Act, gli esordi sono datati 2015, l’obiettivo era ed è prevenire attacchi terroristici su suolo americano, come dice oggi Trump, un caso di perfetta continuità tra amministrazioni diversissime.
Ovvietà istituzionale americana, che voi trasformate in flagrante caso di fascismo e razzismo, così, con un copia&incolla di categoria, senza nessuna verifica né tantomeno domanda con voi stessi. Come il Muro, bisillabo che ormai terrorizza le nostre vite, maledetto l’Orco che innalza Muri contro l’Altro portatore di Cultura, nel caso di specie tendenzialmente un narcos messicano.
E va bene. Ma allora, almeno retroattivamente, dovete dire maledetto Bill Clinton, che il Muro col Messico l’ha voluto e inaugurato. Dovete dire maledetto Barack Obama, che del Muro ha aggiunto chilometri. Sì, perché il Muro per più di un terzo di frontiera esiste già, tranne che nei vostri titoli, nei vostri occhielli, nei vostri pezzi, tutti intrinsecamente razzisti, perché figli della doppia misura e del pre-giudizio, l’outsider che vuole riportare l’America alle sue origini e alla sua diversità Wasp non può permettersi quel che è stato concesso all’élite progressista e normalizzatrice che, tra l’altro, ha avuto la brillante idea di spalancare le porte dell’economia globale alla Cina.
Perché ci sarebbe anche questo, poi, la vera priorità dell’amministrazione Trump, l’issue su cui si giocherà successo o fallimento del mandato: il contenimento della Cina, il disvelamento del suo bluff, la fine di un gioco truccato. Quello per cui col Drago si è globalizzata la libertà di commercio, ma non le libertà individuali che in Occidente hanno generato e sostanziato la prima, per cui si accetta agevolmente che il tuo concorrente pratichi lo schiavismo e che le tue imprese chiudano per questo. E davvero, cari colleghi, non si capisce perché le sofferenze quotidiane del bambino cinese che si scortica le mani quattordici ore al giorno contino meno del fatto che un siriano o uno yemenita dal dubbio passporto non possano per tre mesi visitare New York. Sono le vostre priorità sghembe, tenetevele, io con tutte le incertezze che gli si annidano dietro sto con quel toupè. Il quale, e non è un dettaglio, il suo primo giorno ha fatto riportare allo Studio Ovale il busto di Winston Churchill, che Barack Hussein Obama aveva fatto inopinatamente spostare. Se siete a caccia di simboli per il vostro prossimo titolo, nessuno vale più di questo.
Si chiama libertà, e disponibilità a difenderla armi in pugno.
Se la semplicità di Trump lascia al palo l’arroganza liberalAlessandro Catto
http://blog.ilgiornale.it/catto/2017/02 ... -liberal-2“Putin? Lei crede che il nostro paese sia così innocente?” Una ammissione onesta, sincera, pure aspettata e francamente apprezzabile quella che Donald Trump, in una intervista a Fox News, ha rivelato agli ascoltatori.
Una frase che fa da contorno ad una elezione presidenziale capace di rompere con gli antichi schemi, con quell’idea di mondo imbellettato e in continuo progresso, impostato sui canoni liberal di qualche democratico newyorkese, di qualche ONG o fondazione, sui sorrisi tirati di Hillary Clinton, su quel puzzo di progressismo radical respirabile ad ogni convention elettorale di partito, con la pretesa di incarnare sempre la parte giusta di un paese, le energie migliori e gli spiriti migliori.
In verità tra il nugolo di contestatori antitrumpiani troviamo la versione millennial e strillante della deriva ideologica sopra menzionata, persone pronte a schierarsi contro il muslimban bollandolo come razzista, fascista o chissà quale altro termine preso in prestito dal vocabolario del pensiero unico, ma incapaci di fare autocritica e vedere quanti di loro hanno alzato la voce contro le operazioni belliche di casa democratica, contro le compromissioni e le amicizie della cara Hillary, incapaci in ultima istanza di analizzare le cause che hanno portato ad una decisione così drastica, così come le cause che hanno spinto milioni di siriani ed iracheni lontano dalle loro case.
A fare da contraltare abbiamo invece una ammissione di colpa, quella di The Donald a FoxNews, che seppur implicita rappresenta già un immenso passo avanti rispetto alla tracotanza con la quale un John Kerry o un Barack Obama silenziavano qualsiasi responsabilità negli scenari bellici in cui gli USA sono impegnati, o riguardo le continue destabilizzazioni politiche dell’areale mediterraneo e mediorientale. Una politica aggressiva scientemente nascosta dietro la patina dei diritti umani, dell’esportazione di democrazia, di civiltà e di progresso. Una politica criminale nei fatti e nei modi, dietro alla quale si sono schierati quasi tutti i progressisti di casa nostra, nonché un’Europa priva di una guida politica capace di rispecchiarne gli interessi.
Trump per primo toglie il velo da questa spensierata idea di innocenza aleggiante sulla nazione guida della globalizzazione sociale ed economica, riscoprendosi ancora una volta l’unico bastione possibile contro la prepotenza di una classe politica incapace di autocritica, tremendamente violenta, incapace d’ascolto e mediazione, fondamentalmente antidemocratica nel suo continuo non accettare esiti elettorali diversi da quelli auspicati.
Una frase come quella di Trump, se pronunciata da un Obama qualsiasi, sarebbe stata degna di aperture di telegiornali, di encomianti editoriali, forse di un secondo Nobel per la pace. Detta da Trump diventa subito l’ennesima uscita a vuoto, la sparata, in un coro mediatico prezzolato e mai seriamente interessato alla cooperazione internazionale e alla distensione, che fa ogni volta vergognare del suo infimo livello e del suo considerarsi libero, democratico o indipendente.
Contro tutto ciò, un presidente capace di attirarsi l’odio di progressisti di varia risma, democratici, antifascisti, anticomunisti, di mezza fazione storica del proprio partito (anche lui corresponsabile dei disastri geopolitici degli ultimi vent’anni), inviso alle lobby finanziarie, ai globalisti di piccolo, medio e grande cabotaggio merita di venir supportato con tutte le nostre forze. Se non per i suoi meriti, almeno per la capacità di attirarsi contro il peggio del peggio del mondo contemporaneo.