Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » dom feb 23, 2020 4:22 am

I palestinesi: storia di un popolo completamente inventato
L'Informale
Niram Ferretti
31 Dicembre 2015

http://www.linformale.eu/i-palestinesi- ... RklKgZRdMk

Come Atena nacque dalla testa di Zeus, la fantastoria nacque dall’ideologia. Il nome “Palestina” deriva dai filistei, una popolazione originaria del Mediterraneo Orientale (forse dalla Grecia o da Creta) la quale invase la regione nell’undicesimo e dodicesimo secolo A.C. Parlavano una lingua simile al greco miceno. La zona nella quale si insediarono prese il nome di “Philistia”. Mille anni dopo, i Romani chiamarono la zona “Palestina”. Seicento anni dopo gli Arabi la ribattezzarono “Falastin”.

Per tutta la storia successiva non ci fu mai una nazione chiamata “Palestina” né ci fu mai un popolo chiamato “palestinese”. La regione passò dagli Omayyadi agli Abassidi, dagli Ayyumidi ai Fatimidi, dagli Ottomani agli Inglesi. Durante questo millennio il termine “Falastin” continuò a riferirsi a una regione dai contorni indeterminati e MAI a un popolo originario.

Nel 1695, l’orientalista danese Hadrian Reland scoprì che nessuno degli insediamenti conosciuti aveva un nome arabo. La maggioranza dei nomi degli insediamenti erano infatti ebraici, greci o latini. Il territorio era praticamente disabitato e le poche città, (Gerusalemme, Safad, Jaffa, Tieberiade e Gaza) erano abitate in maggioranza da ebrei e cristiani. Esisteva una minoranza musulmana, prevalentemente di origine beduina, che abitava nell’interno.

Reland pubblicò a Utrecht nel 1714 un libro dal titolo “Palaestina ex monumentis veteribus illustrata”, nel quale non c’è alcuna prova dell’esistenza di un popolo palestinese, né di un’eredità palestinese né di una nazione palestinese. In altre parole, nessuna traccia di una storia palestinese.

Stiamo parlando di un testo uscito nel 1714, non duemila anni fa. Un testo moderno dal quale si evince che all’epoca non esisteva alcun “popolo palestinese”.

Quando nasce dunque questa realtà di cui si parla da decenni?

Dobbiamo avvicinarci ai nostri tempi, più precisamente al periodo in cui gli inglesi crearono, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e dell’impero ottomano (durante il quale nessuno aveva ancora sentito parlare di questa fantomatica entità), la Palestina mandataria.

Gli arabi protestarono in modo acceso nei confronti della nuova realtà chiamata “Palestina”. Infatti, per loro, la Palestina era inestricabilmente collegata alla Siria. Gli arabi chiamavano la regione “Balad esh sham (la provincia di Damasco) o “Surya-al-Janubiya” (Siria del sud). Per i nazionalisti arabi la Palestina non era altro che la Siria del sud. Punto. I siriani, ovviamente, non potevano che annuire.

Il Congresso Generale Siriano del 1919 sottolineò con forza l’identità esclusivamente siriana degli arabi della “Siria del sud”, quella che gli inglesi chiamavano “Palestina”.

Nel suo libro, “Il Risveglio Arabo” del 1938, George Antonious, il padre della storiografia moderna araba, documenta il tumulto sorto tra gli arabi della “Grande Siria” e dell’Iraq quando inondarono le strade delle città siriane, Gerusalemme inclusa, per protestare contro la divisione geografica che gli inglesi, per ragioni geopolitiche, avevano imposto alla Siria. Antonious, come Reland prima di lui, non fa alcuna menzione di un “popolo palestinese”. Motivo? Di nuovo, non esisteva.

Facciamo un passo indietro. Nel 1920, la Francia conquista la Siria. E’ in questo periodo, durante il controllo francese della Siria, che inizia a prendere forma l’idea di una “Palestina” come stato arabo-musulmano indipendente, e fu il famigerato Mufti di Gerusalemme, Amin-al-Husseini, la personalità di maggior spicco tra i leaders arabi dell’epoca, a creare un movimento nazionalista in opposizione all’immigrazione ebraica determinata dal movimento sionista. In altre parole, fu il sionismo a fare da levatrice al palestinismo nazionalista. Anche allora, tuttavia, nessuno parlava di un “popolo palestinese”. Siamo nel 1920.

Ancora nel 1946, Philip Hitti, uno dei più eloquenti portavoce della causa araba dichiarava al Comitato di Inchiesta Anglo-Americano che un’entità nazionale chiamata Palestina…non esisteva.

Nel 1947, quando le Nazioni Unite stavano valutando la spartizione della Palestina mandataria in due stati separati, uno ebraico, l’altro arabo, numerosi politici e intellettuali arabi protestarono in modo acceso poiché sostenevano che la regione in questione fosse parte integrante della Siria del sud. Non c’era una popolazione “palestinese” in senso proprio, ed era dunque un’ingiustizia smembrare la Siria per creare un’altra entità che di fatto le apparteneva di diritto.

Nel 1957, Akhmed Shukairi, l’ambasciatore saudita alle Nazioni Unite dichiarò che, “È conoscenza comune che la Palestina non è altro che la Siria del sud“. Concetto ribadito da Hafez-al-Assad nel 1974, “La Palestina non solo è parte della nostra nazione araba ma è una parte fondamentale del sud della Siria”.

Dal 1948 al 1967, i diciannove anni intercorsi tra la Guerra di Indipendenza e la Guerra dei Sei Giorni, tutto quello che restava del territorio riservato agli arabi della Palestina mandataria britannica, era la West Bank (nome dato dai giordani alla Giudea e alla Samaria), che si trovava in quegli anni sotto il dominio illegale giordano, e Gaza, sotto il dominio illegale egiziano.

Durante questo periodo nessuno dei leader arabi prese neanche lontanamente in esame il diritto all’autodeterminazione degli arabi “palestinesi” che si trovavano sotto il loro dominio. Perché? Ancora, perché un “popolo palestinese” per i giordani e gli egiziani…semplicemente non esisteva.

Persino Yasser Arafat fino al 1967 usò il termine “Palestinesi”, unicamente come riferimento per gli arabi che vivevano sotto la sovranità israeliana o avevano deciso di non essere sottoposti ad essa. Nel 1964, per Arafat la “Palestina”, non comprendeva né la Giudea e la Samaria né Gaza, le quali, infatti, dopo il 1948 appartenevano reciprocamente alla Giordania e all’Egitto.

Lo troviamo scritto nella Carta fondante dell’OLP all’articolo 24, “L’OLP non esercita alcun diritto di sovranità sulla West Bank nel regno hashemita di Giordania, nella Striscia di Gaza e nell’area di Himmah”.

L’articolo 24 venne cambiato nel 1968 dopo la Guerra dei Sei Giorni, dietro ispirazione sovietica. Ora la sovranità “palestinese” si estendeva anche alla West Bank e a Gaza. Libero da possibili attriti con la Giordania e l’Egitto, Arafat, protetto dai russi, poteva allargare il campo della propria azione. La “Palestina”, adesso, inglobava anche Giudea, Samaria e Gaza.

La Guerra dei Sei Giorni è stata lo spartiacque per la creazione del “popolo palestinese”. Dopo la Guerra dei Sei Giorni tutto cambia. Da Davide, Israele diventa Golia e i “palestinesi” entrano ad occupare il proscenio della storia come popolo autoctono espropriato della propria terra dai “sionisti imperialisti”.

Questa è la narrazione ormai consolidata e che, come un parassita, si è incistata nella mente di una moltitudine. Potere della menzogna. Potere della propaganda.

“Nella grande menzogna c’è una certa forza di credibilità poiché le grandi masse di una nazione sono molto più facilimente corruttibili nello stato più profondo della loro materia emozionale di quanto lo siano consciamente o volontariamente, e quindi, nella primitiva semplicità delle loro menti diventeranno più facilmente vittime di una grande menzogna piuttosto che di una piccola, poiché essi stessi spesso dicono piccole bugie per piccole cose, ma si vergognerebbero di utilizzare menzogne su larga scala. Non gli verrebbe mai in mente di fabbricare falistà colossali e non crederebbero che altri avrebbero l’impudenza di distorcere la verità in modo così infame”. (Adolf Hiltler, “Mein Kampf”)

Per creare questa nuova realtà del “popolo palestinese”, priva di qualsiasi aggancio con il passato era necessario che il passato venisse interamente fabbricato, o meglio, come in “Tlon, Uqbar, Orbis Tertius” di Borges, bisognava fare in modo che il reale venisse risucchiato dalla finzione.

Dunque ecco apparire i “palestinesi”, i quali fin da un tempo immemorabile hanno sempre vissuto nella regione e addirittura si possono fare risalire ai gebusei o, a piacimento, ai cananei. Questo popolo mitico sarebbe stato poi cacciato dagli invasori sionisti.

Il 31 marzo del 1977, come fosse un colpo di scena in un romanzo giallo, Zahir Mushe’in, membro del Comitato Esecutivo dell’OLP dirà, durante un’intervista
“Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo stato di Israele in nome dell’unità araba. In realtà oggi non c’è alcuna differenza tra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Solo per ragioni tattiche e politiche parliamo dell’esistenza di un popolo palestinese, poiché gli interessi nazionali arabi richiedono la messa in campo dell’esistenza di un popolo palestinese per opporci al sionismo”.

Il “popolo palestinese” è una pura invenzione, la quale, con grande abilità propagandistica, è stata trasformata in un fatto che ormai appartiene a tutti gli effetti alla realtà.




Per la Corte Penale Internazionale la Palestina non è uno Stato
Sarah G. Frankl
22 Febbraio, 2020

https://www.rightsreporter.org/per-la-c ... F6s0m1Wu7E

Lo scorso 20 dicembre 2019 il Procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, annunciava raggiante di avere gli elementi per aprire una indagine contro Israele per presunti crimini di guerra commessi in Giudea e Samaria e nella Striscia di Gaza.

L’indagine era stata sollecitata dalla Autorità Nazionale Palestinese credendo che bastasse l’adesione della Palestina allo Statuto di Roma quando in realtà la prima e inderogabile qualità necessaria per rivolgersi alla Corte Penale Internazionale non è l’adesione allo Statuto di Roma quanto piuttosto l’essere riconosciuto come uno Stato.

Sin da subito sia Israele che gli Stati Uniti avevano sollevato dubbi sulla effettiva possibilità da parte palestinese di avanzare richieste alla Corte Penale Internazionale in quanto non essendo la Palestina uno Stato riconosciuto veniva meno proprio quella qualità necessaria per rivolgersi alla CPI.

Ma il Procuratore Capo dell’Aia non volle sentire ragioni e affermando che «non vi erano ragioni sostanziali per ritenere che un’indagine non servirebbe gli interessi della giustizia» andò avanti con la prassi per dare il via ad una indagine nonostante Israele non abbia mai aderito allo Statuto di Roma e quindi non rientrasse nel raggio d’azione della Corte e, soprattutto, nonostante i palestinesi non avessero gli attributi necessari a chiedere una indagine.

Questa settimana è stata la stessa Corte Penale Internazionale a porre un macigno difficilmente removibile sulla richiesta palestinese.

Procedendo con l’iter avviato dal Procuratore Capo, molti Stati aderenti allo Statuto di Roma, tra i quali anche alcuni che hanno formalmente riconosciuto la Palestina, e moltissimi esperti di Diritto Internazionale hanno espresso parere negativo al proseguimento dell’indagine in quanto non essendo la Palestina uno Stato riconosciuto non può trasferire la giurisdizione criminale riguardante il suo territorio all’Aia.

Tra questi i più incisivi sono stati la Germania, l’Australia, l’Austria, il Brasile, la Repubblica Ceca, l’Ungheria e l’Uganda i quali hanno chiesto il cosiddetto “amicus curiae” ovvero “amico della Corte” che fornisce loro la possibilità di esprimere una opinione sugli atti della Corte.

Questo gruppo di Paesi, sostenuti poi anche da altri, hanno quindi espresso la loro posizione negativa rispetto al fatto che la Palestina potesse rivolgersi alla CPI in quanto non essendo uno Stato riconosciuto e quindi in base a quanto stabilito dallo Statuto di Roma non gli è permesso presentare alcunché alla Corte.

Il fatto curioso e a modo suo eclatante, è che nemmeno quegli Stati che hanno riconosciuto unilateralmente la Palestina hanno fatto opposizione alla giusta indicazione portata all’attenzione della Corte da questi sette Paesi.

Morale della favola, la Palestina non è uno Stato e non basta aderire a trattati internazionali per avere voce in capitolo.

Ora spetta a una cosiddetta camera pre-processuale decidere in merito. I tre giudici di questa camera – l’ungherese Péter Kovács d’Ungheria, il francese Marc Perrin de Brichambaut e Reine Adélaïde Sophie Alapini-Gansou del Benin – hanno invitato «la Palestina, Israele e le presunte vittime nella situazione in Palestina, a presentare osservazioni scritte» sulla questione entro il 16 marzo.

Ma appare evidente che l’Aia non ha giurisdizione sulle questioni riguardanti la cosiddetta “Palestina” e che quindi il tutto si concluderà con un nulla di fatto.

Di «grande vittoria per Israele» parla l’avvocato Daniel Reisner. «È significativo che anche stati come il Brasile e l’Ungheria, che hanno riconosciuto la Palestina nominalmente, sollevino seri dubbi sulla giurisdizione della corte» ha detto Reisner.

Proteste dalla Lega Araba e dalla Organizzazione per la Cooperazione Islamica

Immediate le proteste dalla Lega Araba e dalla Organizzazione per la Cooperazione Islamica che sembrerebbero voler chiedere lo status di “amicus curiae” in modo da contrastare quanto evidenziato questa settimana. Ammesso che lo possano fare, hanno tempo fino a venerdì prossimo per presentare le loro osservazioni.

In ogni caso Israele non presenterà nessun documento alla camera pre-processuale per non legittimare un procedimento chiaramente fuori dal contesto del Diritto Internazionale.


Onu, cosa ha detto un leader della sinistra israeliana a Ramallah
Anniversario delibera spartizione Onu, le parole di un leader della sinistra israeliana a Ramallah
Ugo Volli
4 Dicembre 2019

https://www.progettodreyfus.com/onu-isr ... CskS7rqgOk


Giovedì scorso, nel palazzo della Mukata a Ramallah, si è svolto un evento rievocativo della votazione dell’Assemblea Generale dell’Onu che ne 1947 stabilì la partizione del mandato britannico (già suddiviso nel ‘21 dalla Gran Bretagna la dare agli arabi “il loro stato”).

Come è noto Israele accettò la divisione, anche se era era tracciata in maniera da rendere difficilissima la sopravvivenza della parte ebraica, gli arabi la rifiutarono, il giorno stesso con la complicità britannica iniziarono attacchi terroristici agli insediamenti ebraici e ad aprile del ‘48, quando Israele proclamò finalmente il suo stato alla vigilia della partenza degli inglesi, le armate di tutti gli stati arabi circostanti tentarono di invadere e distruggere il neonato stato di Israele; ma con grandi sacrifici furono sconfitte dall’esercito israeliano nel ‘49 dovettero ritirarsi dietro una linea armistiziale ben più arretrata, la cosiddetta linea verde.

Da questa storia l’evento della Mukata, amministrato dal noto filoterrorista Jibril Rajoub, non ha tratto motivi di riflessione sulla necessità di un accordo, ma al contrario ha voluto rilanciare la narrativa palestinista sull’”occupazione israeliana”. L’aspetto più curioso di questa riunione è la presenza di circa 300 ebrei israeliani. Erano i soliti ultraortodossi antisionisti di Naturei Karta, che hanno usato l’occasione per dichiarare che l’”entità sionista” non rappresenterebbe il popolo ebraico, sarebbe odiata da “Allah” (questo è il nome con cui il loro leader Meir Hirsh ha scelto per l’occasione di chiamare la Divinità) e costituirebbe la violazione di tutte le leggi internazionali: un piccolo gruppo di estremisti che frequenta con piacere tutti gli antisemiti da Corbyn a Achamadinedjad, e la cui presenza non poteva meravigliare.

Dall’altro lato, però, c’era una folte rappresentanza di militanti di sinistra: alcuni cani sciolti, ma soprattutto Mosi Ratz l’ex leader e ancora influente dirigente del partito israeliano di sinistra Meretz, l’unico che abbia ufficialmente abiurato il sionismo, alla guida di una delegazione di alto livello.

Raz ha parlato avendo alle spalle una foto di Yasser Arafat e ha detto: “Siamo venuti qui per esprimere la nostra solidarietà con il popolo palestinese nei territori occupati, in esilio nella speranza che i ministri palestinesi entrino presto nel prossimo governo. Sostengo uno stato palestinese entro i confini del 67 con uno scambio di territori concordato a fianco dello Stato di Israele, la cui capitale dev’essere Gerusalemme est. Questo marzo andremo alle elezioni in cui Netanyahu sarà sconfitto e Gantz sarà eletto.”

È una dichiarazione molto significativa, non solo per il luogo e l’occasione, ma anche per il contenuto. Meretz, pur avendo pochi seggi, è un pezzo centrale della coalizione di Gantz che certamente non può farne a meno. Si è molto parlato del pericolo di un accordo fra il partito bianco-azzurro e gli arabi filoterroristi, ma non abbastanza dell’influenza delle estrema sinistra ebraica.

La dichiarazione di Raz spiega molto sulle ragioni reali del braccio di ferro che è in corso nella politica israeliana da un anno. Non è detto che Ganz sia d’accordo, ma è chiaro che il progetto di alcune forze che lo appoggiano e di cui egli avrà certamente bisogno consiste nel cancellare o minimizzare la natura ebraica dello stato di Israele, rovesciando le scelte di settant’anni fa.



Informazione corretta: Palestina, ecco l'origine del nome di uno Stato arabo che non è mai esistito
Vivi Israele
Fabrizio Tenerelli
21 febbraio 2018

http://viviisraele.it/2018/02/21/inform ... -esistito/


Cari lettori, io cerco di parlare poco della questione arabo-israeliana, perchè la mia mission è soprattutto approfondire i temi legati a Israele e all’ebraismo. Tuttavia, talvolta è doveroso far chiarezza su alcuni aspetti che riguardano la cosiddetta “corretta informazione”. La disinformazione dilagante in materia (il suo esatto opposto), purtroppo contribuisce a dare una cattiva immagine di uno Stato che da vittima, passa come carnefice.

Ciò senza nulla togliere all’aspirazione ultima che è quella della pace in Medio Oriente e della convivenza di due popoli. Utopia? Una pace che, a mio modestissimo avviso, potrà giungere soltanto, quando il mondo arabo riconoscerà il diritto ad Israele di esistere.

Detto ciò, dopo un mio primo approfondimento in tema di informazione corretta (LEGGI QUI) vi propongo questa sorta di “upgrade”, che riguarda i concetti di “Palestina” e “palestinese”. Molto spesso chi non studia abbastanza, attacca con estrema arroganza il popolo ebraico, sulla base di falsi presupposti e di clamorosi equivoci.

In attesa di preparare un digest, tratto da “Arabi ed Ebrei”, del buon Bernard Lewis, ho pensato di scrivere queste poche righe, invitandovi a divulgarle, condividerle e via dicendo, affinchè si faccia chiarezza su una questione importante.

La prima cosa che va detta è che non c’è mai stata una nazione araba di nome “Palestina”. Questo, in realtà, è il nome che gli antichi romani diedero a Eretz Yisrael, con l’espresso proposito di umiliare gli ebrei, dopo la conquista. Gli inglesi chiamarono così la terra sulla quale avevano avuto il mandato, dopo lo scioglimento dell’Impero Ottomano.

Gli arabi, in disputa con gli ebrei, decisero allora di raccontare che quello era l’antico nome della loro terra, “malgrado non fossero capaci a pronunciarlo in modo corretto, ma trasformandolo in Falastin”, come disse nel 1995, Golda Meir, in una intervista a Sarah Honig del Jerusalem Post. Ma soprattutto va detto che non esiste una lingua palestinese, non una cultura e neppure una terra governata da palestinesi.

Quest’ultimi non sono altro che arabi non distinguibili dai giordani o dai siriani, dai libanesi o dagli iracheni. A ciò aggiungiamo che il mondo arabo controllo il 99,9 per cento del Medio Oriente. Israele, pensate, che rappresenta soltanto un decimo dell’uno per cento del totale. Ma ciò è troppo per gli arabi, che vogliono anche quella minuscola parte. Non importa, dunque, quanti territori un domani potrebbero concedere gli israeliani: in ogni modo non saranno mai abbastanza. Ma allora, da dove deriva questo termine? Palestina ha da sempre designato un’area geografica, che deriva da “Peleshet”, un nome che appare di frequente nella Torah, successivamente chiamata “Philistine”.

Il nome inizia ad essere usato nel tredicesimo secolo a.e.v. da una serie di migranti del mare, provenienti dal mar Egeo e dalle isole greche, i quali si insediarono nella costa sud della terra di Canaan. Laggiù istituirono cinque città-stato indipendenti, inclusa Gaza, in una stretta striscia di terra chiamata “Philistia”, i greci e i romani la chiamarono “Palastina”.

I palestinesi, dunque, non erano arabi e neppure semiti; non avevano alcun legame etnico o linguistico e neppure storico con l’Arabia e il termine Falastin non è altro che la pronuncia araba del termine “Palastina”. Dunque, chi si può considerare palestinese? Durante il mandato britannico era la popolazione ebraica ad essere considerata palestinese, inclusi coloro che hanno servito l’esercito britannico nella Seconda Guerra Mondiale. L’indirizzo britannico fu quello di limitare l’immigrazione di ebrei. Nel 1939, il Churchill White Paper (3 giugno 1922) mette fine all’ammissione di ebrei in Palestina. Uno “stop” che avviene nel periodo in cui c’era più disperatamente bisogno di emigrare in Palestina, quello dopo l’avvento del nazismo in Europa.

Nello stesso tempo in cui sbattevano la porta in faccia agli ebrei, gli inglesi permettevano (o facevano finta di niente) il massiccio ingresso clandestino nella Palestina occidentale di arabi provenienti da Siria, Egitto, Nordafrica e via dicendo. In questo modo, sembra che dal 1900 al 1947, gli arabi sulla sponda ovest del fiume Giordano si siano quasi triplicati. Il legame degli ebrei con la Palestina risale ai tempi biblici. Quello tra gli ebrei ed Hebron, ad esempio, corre indietro ai tempi di Abramo, ma nel 1929, gruppi di arabi in rivolta cacciano la comunità, uccidendo numerosi ebrei.

A supporto della tesi che non esiste uno stato arabo chiamato Palestina, c’è una letteratura fiume. Noi ricordiamo alcune dichiarazioni, tra le più significative, come quella del professore di storia araba, Philip Hitti (uno dei più illustri), secondo cui: “There is no such thing as Palestine in history, absolutely not”, dichiarò al Anglo-American Committee of Inquiry (1946). E poi. “It is common knowledge that Palestine in nothing but southern Syria”, affermò nel 1956: Ahmed Shukairy (United Nations Security Council).




L'inesistente storia della Palestina arabo maomettano palestinese
https://www.facebook.com/HalleluHeb/vid ... 0838079851


La Mappa della Palestina: Un Falso Creato dell'AIC
Victor Scanderbeg RomanoAnalista Storico-Politico
http://www.progettodreyfus.com/la-mappa ... a-un-falso

La Mappa della Palestina è un clamoroso falso creato ad hoc negli anni’60 da un ufficio di propaganda arabo. Spesso definita come “mappa dell’occupazione israeliana in palestina” e in tanti altri modi, questa mappa ha una storia molto lunga e completamente diversa da quella che viene raccontata su molti libri, dossier, siti e social media. Dedicando due minuti alla lettura di questo articolo, avrete a disposizione tutti gli elementi per mettere a tacere il prossimo amico o lontano conoscente che condividerà questo assurdo falso storico.


Palestina: le ragioni di Israele
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 197&t=2271


Gli ebrei d'Israele non hanno rubato e occupato alcuna terra altrui e non opprimono nessuno
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 205&t=2825
Gli ebrei d'Israele non hanno rubato e non hanno occupato nessuna terra altrui, nessuna terra palestinese poiché tutta Israele è la loro terra da 3mila anni e la Palestina è Israele e i veri palestinesi sono gli ebrei più che quel miscuglio di etnie legate dalla matrice nazi maomettana abusivamente definito "palestinesi" e tenute insieme dall'odio per gli ebrei e dai finanziamenti internazionali antisemiti.


Calunnie e falsità nazi-palestinesi contro Israele e gli ebrei
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 196&t=2824

Storia di Israele di Luciano Tas: 21 domande e risposte
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 197&t=2765

Demografia storica ed etnica in Giudea, Palestina, Israele lungo i millenni
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 197&t=2774

Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 141&t=2558



Denunciare la menzogna dell'apartheid israeliano
di Richard Kemp
19 gennaio 2022
Traduzioni di Angelita La Spada

https://it.gatestoneinstitute.org/18154 ... s.facebook

La rottura delle relazioni diplomatiche tra Israele e l'Unione Sovietica fu in seguito aggravata dalle vittorie difensive di Israele contro gli arabi nel 1967 e poi nel 1973. Nel corso di questo periodo, ogni speranza che Israele diventasse un cliente sovietico era progressivamente svanita. Gli eserciti arabi sponsorizzati, addestrati ed equipaggiati dall'URSS erano stati umiliati, così come Mosca. Pertanto, i sovietici cambiarono la loro politica e decisero di delegittimare Israele. Il loro obiettivo principale era quello di usare il Paese come arma nella Guerra Fredda contro gli Stati Uniti e l'Occidente.

"Dovevamo infondere in tutto il mondo islamico un odio verso gli ebrei simile a quello nutrito dai nazisti e trasformare quest'arma delle emozioni in un bagno di sangue terroristico contro Israele e il suo principale sostenitore, gli Stati Uniti". – Yuri Andropov, presidente del KGB sovietico, poi segretario generale del Partito Comunista sovietico, come riportato dal generale Ion Pacepa, ex capo dei servizi di intelligence rumeni.

Oltre a mobilitare gli arabi a favore della causa sovietica, Andropov e i suoi colleghi del KGB avevano bisogno di appellarsi al mondo democratico. Per fare ciò, il Cremlino decise di trasformare il conflitto finalizzato meramente a distruggere Israele in una lotta per i diritti umani e per la liberazione nazionale da un illegittimo occupante imperialista sponsorizzato dagli americani. Mosca iniziò a trasformare la narrazione del conflitto da jihad religioso, in cui la dottrina islamica esige che qualsiasi terra che sia mai stata sotto il controllo musulmano debba essere riconquistata per l'Islam, in nazionalismo laico e nel diritto all'autodeterminazione politica, qualcosa di molto più appetibile per le democrazie occidentali. Ciò avrebbe fornito una copertura per una feroce guerra terroristica, ottenendo persino un ampio sostegno a favore di essa.

Per raggiungere il loro obiettivo, i sovietici dovettero creare un'identità nazionale palestinese che fino a quel momento non esisteva e una narrazione secondo cui gli ebrei non avevano diritti sulla terra ed erano nudi aggressori. Secondo Pacepa, il KGB creò l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) all'inizio degli anni Sessanta, così come aveva anche orchestrato i cosiddetti eserciti di liberazione nazionale in diverse altre parti del mondo. Pacepa afferma che la Carta Nazionale palestinese del 1964 è stata redatta a Mosca. Questo documento è stato fondamentale per l'invenzione e la creazione di una pseudo-nazione palestinese.

I dettagli delle operazioni terroristiche sponsorizzate da Mosca in Medio Oriente e altrove sono riportati in 25 mila pagine di documenti del KGB copiati e poi fatti uscire clandestinamente dalla Russia all'inizio degli anni Novanta dall'archivista del KGB Vasili Mitrokhin e oggi depositati nel Regno Unito, al Churchill College, a Cambridge.

In origine, la Carta per la "Palestina" non rivendicava la Cisgiordania o la Striscia di Gaza. Di fatto, ripudiava esplicitamente ogni diritto su queste terre, riconoscendole a torto rispettivamente come territori sovrani giordani ed egiziani. Invece, la rivendicazione dell'OLP riguardava il resto di Israele. Ciò fu modificato dopo la guerra del 1967, quando Israele espulse gli occupanti illegali giordani ed egiziani e la Cisgiordania e Gaza per la prima volta vennero ribattezzate come territori palestinesi.

Nel 1965, Mosca intraprese per la prima volta alle Nazioni Unite la sua campagna finalizzata a bollare gli ebrei israeliani come gli oppressori del loro inventato "popolo palestinese". I loro tentativi di classificare il sionismo come razzismo allora fallirono, ma ebbero successo quasi un decennio dopo nella famigerata Risoluzione 3379 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Zuheir Mohsen, un alto leader dell'OLP, ammise nel 1977: "Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno Stato palestinese è solo uno strumento nella lotta contro lo Stato di Israele in vista del raggiungimento della nostra unità araba. (...) Solo per motivi politici e per ragioni tattiche parliamo oggi dell'esistenza di un popolo palestinese, dal momento che gli interessi nazionali arabi richiedono di postulare l'esistenza di un 'popolo palestinese' distinto che possa opporsi al sionismo Sì, l'esistenza di un'identità palestinese distinta esiste solo per ragioni tattiche".

Il dossier Mitrokhin mostra che sia Yasser Arafat sia il suo successore alla guida dell'OLP Mahmoud Abbas, ora presidente dell'Autorità Palestinese, erano agenti del KGB. Entrambi hanno avuto un ruolo determinante nelle operazioni di disinformazione del KGB e nelle sue campagne terroristiche.

Per quanto riguarda i suoi rapporti con Washington, Ceaușescu disse ad Arafat nel 1978: "Devi semplicemente continuare a fingere che romperai con il terrorismo e che riconoscerai Israele, ancora, e ancora, e ancora".

I consigli di Ceaușescu vennero rafforzati da quelli del generale comunista nordvietnamita Vo Nguyen Giap. In occasione di uno dei numerosi incontri avuti con Arafat, Giap dichiarò: "Smettila di dire che vuoi annientare Israele e trasforma invece la tua guerra terroristica in una lotta per i diritti umani. Allora il popolo americano crederà ad ogni tua parola".

Come per il suo predecessore Arafat, il coerente rifiuto di Abbas di ogni offerta di pace con Israele, parlando di pace pur appoggiando il terrorismo, mostra la continua influenza dei suoi padroni sovietici.

Lo storico americano David Meir-Levi afferma che il movimento palestinese creato da Mosca è "l'unico movimento nazionale per l'autodeterminazione politica nel mondo intero, e in tutta la storia dell'umanità, ad avere come sua unica ragion d'essere la distruzione di uno Stato sovrano e il genocidio di un popolo".

La campagna di Mosca è stata significativamente minata nel 2020 dal riavvicinamento tra Israele e gli Stati arabi. La lezione qui consiste nell'importanza della volontà politica americana contro la propaganda autoritaria, che ha portato ai rivoluzionari Accordi di Abramo.





Palestinesi rifugiati?

Il problema dei rifugiati: L'UNRWA

http://www.linformale.eu/il-problema-de ... wOV-RAo-4M


Nell’articolo dedicato alla questione dei rifugiati e pubblicato il 13 novembre si è affrontato il tema dei rifugiati provocatiti dagli avvenimenti bellici a seguito dell’invasione araba del 1948. In questo articolo si entrerà nel dettaglio dell’agenzia ONU costituita per fronteggiare il problema dei rifugiati della Palestina.

UNRWA

Con la Risoluzione 302 dell’Assemblea Generale, l’8 dicembre 1949, si stabiliva la creazione di una specifica agenzia per i profughi della Palestina: l’UNRWA, (Agenzia delle Nazioni Unite di Soccorso e di Interventi per i rifugiati della Palestina in Medio Oriente).

L’UNRWA doveva durare un tempo limitato ma, nel corso dei decenni, è stata continuamente rifinanziata nonostante a partire dal dicembre 1950 venne creata una specifica agenzia ONU per i rifugiati: l’UNHCR, cioè l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che da allora si è occupata di tutti i rifugiati del mondo ad esclusione di quelli palestinesi. Dal 1950 l’ONU ha dunque due agenzie per i rifugiati: l’UNHCR per tutti i rifugiati del mondo e l’UNRWA: l’agenzia per i soli rifugiati palestinesi. La peculiarità di questa situazione è la diversa definizione di rifugiato per le due agenzie.

Per l’UNHCR il rifugiato è colui che a causa di eventi naturali, guerre o per persecuzioni religiose, razziali o politiche è costretto a lasciare la propria casa o il proprio paese per trovare rifugio in un altro luogo (la definizione ONU completa la si trova nella Risoluzione 429 del 14 dicembre 1950 dell’Assemblea Generale). Per l’UNRWA la definizione si estende dal rifugiato vero e proprio a tutte le persone in successione maschile, cioè i discendenti, per matrimonio, per adozione e per chi volontariamente ha lasciato la propria abitazione nel 1948 alla nascita di Israele. Questo seconda definizione assai elastica ha creato il caso dei “rifugiati” nati e cresciuti in Canada o negli USA e che non sono mai stati in Medio Oriente.

Nella Risoluzione 302 che costituì l’UNRWA, non vi è alcuna menzione relativamente a questa applicazione pratica dello statuto di rifugiato. Si tratta di una prassi che è andata a consolidarsi nel tempo. Più che una agenzia preposta alla sistemazione dei rifugiati l’UNRWA è diventata una vera e propria fabbrica per la loro moltiplicazione.

La tabella 1 esemplifica molto bene come i criteri dell’UNRWA appena descritti hanno modificato radicalmente la situazione attuale del numero dei rifugiati palestinesi:




In sintesi con i criteri dell’UNRWA, al giorno d’oggi i rifugiati palestinesi sono oltre 5.500.000, con i criteri utilizzati dall’UNHCR – che valgono per tutti gli altri rifugiati del mondo – sarebbero solo 30.000. Cifra, questa, del tutto accettabile in ogni trattativa in merito alla soluzione del loro problema. Ma non ci sono dubbi che questa situazione creata ad arte sia un potente strumento politico messo in atto allo scopo di non giungere a nessun compromesso. Infatti, il “problema” dei rifugiati è da tempo l’ostacolo più grosso nelle trattative di pace tra Israele e i palestinesi.

E’ bene ricordare ancora una volta che Israele non è responsabile della situazione dei rifugiati palestinesi, essendo la causa principale la guerra scatenata dai paesi arabi nel 1948. Ciò nonostante, dovrebbe essere Israele, secondo i paesi arabi e la UE che dovrebbere riassorbirli per giungere alla “pace”. Il che significherebbe, inevitabilmente che Israele, uno Stato di facendo ciò di 9.0000.000 di abitanti, se assorbisse 5.0000.000 cosiddetti rifugiati palestinesi, ceserebbe di esistere come Stato ebraico. E questo è infatti l’obiettivo palese.

Entrando più nel dettaglio di questa agenzia, si scoprono altre cose davvero “uniche”.

Per prima cosa salta subito all’occhio il budget e il personale dell’UNRWA rispetto a quello dell’UNHCR. Per fare un esempio, nel 2016, dai dati forniti dall’ONU si evince che l’UNRWA ha speso 246$ per ognuno dei 5.3 milioni di rifugiati e discendenti palestinesi, mentre l’UNHCR lo stesso anno ha speso 58$ per ognuno dei circa 68 milioni di rifugiati nel mondo. Dal 1950 ad oggi l’ONU, tramite la sola UNRWA, ha speso oltre 25 miliardi di dollari per i rifugiati palestinesi, cioè il doppio dei soldi del piano Marshall con cui è stata ricostruita l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Cosa altrettanto sorprendente è il personale delle due agenzie. L’UNRWA impiega poco più di 30.000 persone per prendersi cura dei 5.3 milioni di rifugiati e discendenti, cioè la ragguardevole cifra di un dipendente ogni 176 rifugiati. Mentre l’UNHCR ha a disposizione circa 11.000 persone per gestire l’emergenza di 68 milioni di persone, cioè una ogni circa 6.100 rifugiati.

È da sottolineare che di questo cospicuo personale, la stragrande maggioranza sono palestinesi stessi. Tra i loro compiti c’è la gestione delle scuole e la pubblicazione dei testi scolastici. Questo è un aspetto rilevante della gestione dell’UNRWA. Va subito precisato che i testi scolastici utilizzati sono diventati, da numerosi anni, un strumento di propaganda e di vero e proprio odio antiebraico. Cosa che non ha precedenti. Soprattutto in considerazione del fatto che sono realizzati, pubblicati e diffusi con i soldi dell’ONU, della UE e degli USA. La cosa è diventata talmente grave che perfino l’ONU stessa, dopo ripetute segnalazioni, si è dichiarata “preoccupata” in un rapporto, del 29 agosto 2019, redatto dalla commissione contro le discriminazioni razziali.

La vignetta sopra riportata è presa da un testo scolastico palestinese di studi sociali del 2017. L’intento è quello di demonizzare gli scavi archeologici di Gerusalemme visti solamente come tentativo di distruggere le moschee e il patrimonio culturale islamico.

La UE, dopo anni di inutili segnalazioni, nell’aprile 2018 ha formalizzato una commissione d’inchiesta, sui testi scolastici palestinesi, che ha portato il parlamento europeo a votare per il congelamento di 17 milioni di euro di fondi, ad ottobre del 2018, a causa “dell’incitamento all’odio” presente nei testi scolastici. Qui si riporta, in parte, quanto emerso dall’indagine presentata al parlamento europeo sui testi scolastici:

“The curriculum for 2018-2019 “deliberately omits any discussion of peace education or reference to any Jewish presence in Palestine before 1948,”. […]

“Most troubling, there is a systematic insertion of violence, martyrdom and jihad across all grades and subjects in a more extensive and sophisticated manner, embracing a full spectrum of extreme nationalist ideas and Islamist ideologies that extend even into the teaching of science and mathematics”.

Traduzione: “Il curriculum per il 2018-2019″ omette deliberatamente qualsiasi discussione sull’educazione alla pace o riferimenti a qualsiasi presenza ebraica in Palestina prima del 1948″. […] “cosa ancora più preoccupante, c’è un inserimento sistematico di violenza, martirio e jihad in tutti i gradi e materie in un modo ampio e sofisticato, abbracciando una gamma completa di idee nazionaliste estremiste e ideologie islamiste che si estendono anche all’insegnamento della scienza e della matematica”.

L’immagine 1 è presa da un altro testo scolastico palestinese di studi sociali.

Il testo in arabo recita:

Titolo: La mappa della Palestina.

“Attività 1-A: osservate la seguente mappa, traete le conclusioni e quindi rispondete:”

“Distingueremo tra le città palestinesi occupate dai sionisti nel 1948 e quelle che occuparono nel 1967”.

La dettagliata analisi di moltissimi testi scolastici palestinesi è del Dr. Arnon Groiss del Centro Meir Amit (www.terrorism-info.org.il).

Questa è solo la punta dell’iceberg. Già nel 2014 si era palesato a Gaza, in occasione dell’operazione militare israeliana “Margine protettivo”, iniziata dopo l’uccisione di tre adolescenti ebrei e il lancio di numerosi razzi, come le sedi dell’UNRWA e soprattutto le sue scuole venivano utilizzare regolarmente dai terroristi di Hamas come depositi per razzi, armi e munizioni. Va sottolineato che varie indagini hanno dimostrato che molti dipendenti stessi dell’UNRWA erano, e sono, membri di Hamas. Nessun provvedimento, da parte di un qualsiasi organismo internazionale, è mai stato preso per porre fine a questa situazione che si protrae da innumerevoli anni.

Oltre a tutto ciò dall’estate scorsa, tutta la dirigenza generale dell’UNRWA è finita sotto inchiesta dell’ONU per malversazione, nepotismo e gestione “poco trasparente” dei fondi, ad iniziare dal suo direttore generale, lo svizzero Pierre Krähenbühl. Krähenbühl è stato costretto a dimettersi dall’incarico in attesa della conclusione delle indagini. Al suo posto è stato nominato il 6 novembre, ad interim, l’inglese Christian Saunders. Vari paesi hanno deciso di bloccare i fondi che annualmente versano all’agenzia, tra gli altri la Svizzera, il Belgio, l’Olanda e la Nuova Zelanda. L’Italia, invece, ha deciso di aumentare il suo contributo annuo.

Gli USA dell’amministrazione Trump si sono dimostrati i più critici all’operato dell’UNRWA. Così nel corso degli ultimi due anni hanno progressivamente diminuito, fino a congelare, il loro cospicuo contributo annuo che si aggirava sui 350 milioni di dollari (pari a circa il 25% del budget totale).

Un’ultima annotazione la si può fare in merito al numero ufficiale dei rifugiati soccorsi dall’UNRWA. L’agenzia ONU riporta come dato “ufficiale”, nel 2019, il numero di 5.5 milioni di rifugiati. Ma è interessante osservare che, leggendo tutti i documenti ONU in merito, si evince che un censimento ufficiale non esiste perché non è mai stato fatto. Questo è in parte dovuto al fatto che i criteri che definiscono i rifugiati palestinesi, come abbiamo visto, rendono molto difficile il loro conteggio, oltre al fatto che politicamente è “sconveniente” accertarlo. Si può però segnalare il fatto che, nel 2017, in Libano dalle autorità locali è stato fatto un primo – e per ora unico – tentativo di censimento. Quello che è emerso è sorprendente: quasi 300.000 persone registrate presso l’UNRWA semplicemente non risultavano… cioè il numero reale dei rifugiati era del 62% inferiore rispetto alle stime ufficiali (quelli esistenti risultavano essere 174.422 rispetto ai 459.292 registrati). E la stessa cosa stava emergendo per i rifugiati della Cisgiordania. Poi la cosa è stata velocemente insabbiata. In pratica il dato di 5.5 milioni di rifugiati è gonfiato ad arte per ottenere più soldi da spendere in modo “poco trasparente” come l’indagine ONU stà evidenziando in questi mesi.

Dopo tutti questi dati non è blasfemo dichiarare che l’UNWRA è parte sostanziale dell’impossibilità di trovare un accordo di pace tra Israele e i palestinesi.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » lun giu 22, 2020 9:09 pm

La dhimmitudine degli ebrei iraniani

RAV GERAMI E IL SUO PATRONO
Niram Ferretti
22 giugno 2020

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

La piccola comunità ebraica iraniana (oggi 9.826 anime, prima della rivoluzone khomeinista, circa 100.000), è sostanzialmente una comunità di dhimmi, per necessità principalmente e forse anche per scelta.

Yehuda Gerami, rabbino capo della comunità, ha fatto, recentemente, un distinguo rilevante. Quello tra "ebraismo" e "sionismo". In questo modo ha voluto tendere la mano a Khamenei, il quale, più volte, ha dichiarato che lui con gli ebrei non ha alcun problema, ci mancherebbe, lui ce l'ha con i "sionisti", una specie diversa.

Quando venne ucciso Soleimani, Garami si affrettò a condannarne la morte. Si può forse biasimarlo?

Gli ebrei iraniani sono, di fatto, ostaggi virtuali del regime. Sanno benissimo che se la situazione tra Israele e l'Iran degenerasse sarebbero i primi a pagarne le conseguenze, così Yehuda Garami deve, di tanto in tanto, prendere le distanze da Israele affermando che al governo israeliano dell'ebraismo non importa nulla.

Così, ha dovuto ricordare che l'ebraismo è una "Religione vecchia di 3.300 anni, mentre il sionismo è un movimento nazionale e politico che ha solo 100 anni. Come paese, lo Stato di Israele non ha nulla a che fare con la religione in generale e con l'ebraismo in particolare".

Certo è singolare considerare che un movimento che nacque sulla spinta del ritorno a Sion, proprio là, nelle terre in cui l'ebraismo come religione ebbe inizio, non abbia nulla a che fare con essa (nonostante il fatto che i padri fondatori del sionismo non fossero ebrei osservanti). È la stessa vulgata che fu dell'OLP ed è dell'Autorità Palestinese.

Peccato che, come dichiarava Gershom Sholem, "Non si è riusciti a cassare Gerusalemme e Sion dalle preghiere ebraiche di 2000 anni”.

Gerusalemme, non Nuoro.

Ma Yehuda Garami tiene famiglia e deve salvaguardare se stesso e gli altri. Per farlo si è spinto anche ad ossequiare la figura fulgida di Qassem Soleimani.

Ha anche spiegato che la libertà religiosa di cui godono gli ebrei iraniani non ha paragoni con quella di cui godono gli ebrei diasporici in Europa. Infatti, in Iran non ci sono militari o guardie fuori dalle sinagoghe...

È vero. Non c'è bisogno che ci siano e per un semplice motivo, in Europa non c'è più un regime islamico dall'epoca della Reconquista mentre in Iran gli ebrei sono protetti dal regime da cui sono essenzialmente considerati come dhimmi, soggetti alle loro regole. È sempre stato così in tutti i paesi islamici dove gli ebrei erano minoranza tutelata. Dovevano comportarsi in rigida osservanza alle prescrizioni imposte se no erano dolori.

Naturalmente c'è stata anche la tirata contro Netanyahu e la sua aggressività. Sarebbe a capo di un movimento (il regime sionista) in contrasto con i valori dell'ebraismo e della Torah.

Impari Netanyahu e imparino gli israeliani tutti dall'Iran, dove l'ebraismo prospera al suo meglio grazie a Khamenei. Chissà perchè, nonostante questo esempio, dai 100.000 ebrei di quarantuno anni fa si è passati ai circa 10.000 attuali.



Iran, ebrei in Iran, persecuzione, guerra a Israel
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 197&t=2237

Islam scita, Iran e ebrei
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 188&t=2221
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » dom ago 08, 2021 7:47 pm

Vi racconto che cosa è Israele'
Fiamma Nirenstein intervistata da Luciano Pallini
08.08.2021
Informazione Corretta

https://www.informazionecorretta.com/ma ... 0&id=82583

Buongiorno Fiamma, cominciamo la intervista?
Prima delle domande, vorrei solo dire che l’articolo molto pensoso che avete pubblicato (“Una nuova strada per Israele”) contiene delle ipotesi con cui non concordo affatto (ma questo però è del tutto legittimo da parte vostra – o di chi scrive): questa storia dello stato binazionale è un’assurdità completa che nega proprio l’esistenza stessa dello stato di Israele come stato del popolo ebraico, nega il fatto che la nazionalità – intesa in senso buono, non del nazionalismo ma della Nazione ebraica – sia stata una componente fondamentale dei 3000 anni di esistenza e che è alla base del desiderio di ritorno a casa del popolo ebraico, che è un popolo che è nato primigenio in Israele… ma questa è un’altra storia e se vuoi mi fai una domanda su questo e c’entriamo dentro più organicamente.

Ha suscitato grande interesse anche in Italia e non soltanto in Italia la fine – per ora – dell’era Netanyahu con la formazione di un nuovo governo. Il primo punto che ti chiedo è sul piano interno, Netanyahu sicuramente ha ottenuto importanti traguardi sul terreno della crescita economica, sul terreno della lotta al Covid, sull’aver portato Israele sulle frontiere più avanzate dell’innovazione tecnologica. Cosa pensi, la conformazione del nuovo governo sarà in grado di mantenere questo percorso virtuoso per Israele? Penso che il merito gigantesco che ha avuto Netanyahu in questi lunghi anni, in cui è stato sempre democraticamente prescelto come Primo Ministro, e molto democraticamente ha governato, mai sfiorandogli la mente né di toccare i diritti basilari stabiliti dalla legge, né di discutere sul diritto della stampa di far polpette di lui – perché questo è stato quello che è accaduto nel corso di questi anni, l’uomo più preso di mira dall’odio dei media che ci sia stato – ecco, il suo grande merito – secondo me- è stato di rendere Israele indispensabile al genere umano.
Tu pensa al contributo portato da Israele sul terreno della conoscenza, della sicurezza anche economica e del contributo alla democrazia che può dare un Paese così piccolo e così assediato. Il contributo scientifico è del tutto evidente, non ci sarebbero i telefonini se non ci fosse Israele, se non in forma molto meno sviluppata di quello che ci sono adesso, i computer avrebbero tutt’altre caratteristiche: diciamo che Israele è secondo solo agli Stati Uniti nel campo della tecnologia, così anche nel campo della medicina, Israele ha inventato dei sistemi per scoprire quando una persona ha il cancro o quando potrebbe avere l’Alzheimer, davvero straordinari, oltre al fatto di aver combattuto il Covid in un modo che ha insegnato a tutti: se oggi l’Europa ha imparato che facendo vaccinazioni massive avrebbe sconfitto il Covid, dite se non è merito di Israele, è Israele ha insegnato che si fa e come si fa.
È stato questo strano “Bibi” che, ossessionato dal COVID, come racconta il CEO della Pfizer, lo chiamava alle 3 di notte per garantirsi che arrivassero i vaccini… ossessionato, perché lui è sempre stato ossessionato – lo dico in senso positivo – dalla sicurezza e dalla sopravvivenza del popolo ebraico che nel corso di tremila anni di storia ha attraversato momenti in cui la sua sicurezza e la sua sopravvivenza non erano affatto garantiti.
Infatti, il terzo successo è quello economico, tutti sanno che Israele è un Paese che versa in floride condizioni economiche nonostante il Covid, perché Bibi ha cambiato tutto il sistema di libero mercato abbandonando anche elementi dell’antico socialismo utopistico israeliano – che ha la sua origine nei kibbuz ma che nel tempo cambia e si modifica e che Bibi poi ha portato a una svolta.
Infine nel campo della sicurezza Netanyahu ha proprio dato una svolta, una svolta fondamentale, ha individuato fin dal primo momento il terrorismo non solo come nemico fondamentale di Israele ma come nemico del mondo. Ha stretto alleanze di tutti i generi ha operato con tutti i mezzi, coi droni, con gli aerei, per dire ha fatto di recente un’esercitazione con l’Italia con gli F15, con risultati assai soddisfacenti. Si sono elaborati modi su come individuare i siti che diffondono le posizioni ideologiche del terrorismo, come neutralizzarli e ha aiutato tantissimo anche gli altri paesi , basta pensa all’attentato iraniano che qualche anno fa in Francia è stato scoperto e che voleva far saltar per aria una enorme manifestazione di massa a Parigi nella quale tra l’altro erano presenti anche degli italiani – fra cui Giulio Terzi di Sant’Agata, sai quante migliaia e migliaia di cose sono state scoperte con l’aiuto israeliano! Quindi è un aiuto teoretico, di nuovo, e un aiuto pratico che soprattutto prende di mira un punto fondamentale, l’Iran come stato che maggiormente finanzia e disloca i suoi gruppi, sia per una conquista integralistica programmata, secondo le teorie del regime degli Ayatollah, sia per compiere una quantità di attentati terroristici, di cui il più famoso è quello dell’AMIA (Argentine Mutual Jewish Association) a Buenos Aires, che fu fatto saltare in aria uccidendo tanti ebrei.

L’opinione pubblica in Italia ma anche in occidente, guarda con molta più attenzione e condivisione il movimento palestinese. C’è una lunga storia di accordi raggiunti e poi non attuati, in particolare da parte palestinese, qual è stata l’azione di Netanyahu verso i palestinesi?
Quale atteggiamento verso l’obiettivo “due popoli due stati”, come si colloca il problema di Gerusalemme come capitale dello stato ebraico? Quali i rapporti su questo, in particolare con gli Stati Uniti, nel cambio delle sue presidenze? Sono tante domande differenti. Sulla questione palestinese, Netanyahu sin dall’inizio con il suo famoso discorso all’università di Bar Ilan disse che era favorevole alla soluzione due stati per due popoli, lo disse e l’ha perseguita attuando il blocco delle costruzioni negli insediamenti e stando ad aspettare per dieci mesi che Abu Mazen si presentasse ai colloqui. Come al solito, i palestinesi sono risultati inaffidabili, come avevano dimostrando precedentemente in tutti i modi possibili e immaginabili, con il rifiuto degli accordi che erano stati offerti con colloqui molto ordinati.Prima con la Conferenza di Madrid del 1991, poi con il vertice di Camp David con Clinton, il premier israeliano Barak insieme a Arafat, vertice finito con il rifiuto dell’intesa da parte di Arafat, che nel 1993 era stato fatto rientrare in Palestina in base agli accordi di Oslo che prevedevano la rinuncia al terrorismo (un errore, perché lui è ritornato e da lì ha ricominciato a saltare tutto per aria, gli autobus, le pizzerie ecc). Così allo stesso modo Abu Mazen rifiutò la proposta del premier Olmert che gli aveva offerto tutto, la città vecchia, praticamente qualsiasi cosa.I Palestinesi nel corso degli anni, di fronte a queste profferte, hanno sempre detto no: basta leggersi un libro di storia qualunque, per quanto possa essere scritto con malevolenza nei confronti di Israele e possa partire da delle idee preconcette, non c’è però testo – DICEVO – che possa sostenere che da parte, prima del mondo arabo in generale e poi dei palestinesi in particolare, sia mai venuto un “sì”, sono venuti soltanto dei “no”. Netanyahu è quello che poi alla fine ha capito – dopo che i suoi predecessori da Shamir a Begin a Barak, Olmert avevano provato a offrire ai Palestinesti delle opzioni molto appetibili, molto larghe, hanno tutti quanti ricevuto dei “no”- che si tratta di “no” che hanno un carattere ideologico e non territoriale, religioso e non territoriale.
L’errore che si seguita a fare, anche quando si giudica l’operato di Netanyahu, è quello di pensare “Beh, se però Israele mollasse sulla questione dei territori, si ritirasse oltre il cosiddetto confine – che confine non è – del ’67, allora i Palestinesi sarebbero più contenti”. Le prove evidenti sono tantissime, la più chiara di tutte è quella di quando Sharon ha ritirato fino all’ultimo ebreo da Gaza e Gaza è diventata la sede dei lanciamissili di Hamas che ci bombardano dalla mattina alla sera e che durante l’ultimo conflitto ci hanno sparato addosso 4500 razzi! Ora la storia è talmente evidente che misconoscerla sarebbe stato, da parte del Primo Ministro un errore fondamentale. Allora diciamo una cosa: la storia di Netanyahu è la storia di una persona che cambia il paradigma perché il paradigma è sbagliato. È semplicemente così. La sua idea è stata quella di cercare di andare verso i Palestinesi con un approccio diverso. Ricordiamoci anche di un altro fatto fondamentale: quell’accordo di Oslo firmato da Rabin e da Arafat, che nella fantasia ignorante di tante persone è una specie di promessa di Israele di impacchettare le proprie valige e fare posto ai Palestinesi, non è affatto così. Oslo è tutta un’altra cosa: ci sono i territori A, B e C. Una parte, la zona A, la maggiore, quella in cui c’è il 98% di tutta la presenza Palestinese, è già stata consegnata ai Palestinesi! Io da giornalista a Betlemme, a Ramallah, a Gerico ho seguito con gli occhi, uno per uno, gli sgomberi degli Israeliani! Gli Israeliani se ne sono andati e hanno consegnato all’autonomia Palestinese quello che gli dovevano dare. la zona A, interamente palestinese, la B, dove l’autorità civile è palestinese, mentre il controllo militare rimane a Israele, e la zona C, israeliana. Poi ci sono i territori B, quelli in cui c’è presenza comune con l’autorità civile palestinese ed il controllo militare israeliano), ancora oggetto di trattativa, e poi ci sono quelli solo Israeliani, i territori C. È vero, ci sono questi territori dove ci sono i cosiddetti “insediamenti” che sono delle vere e proprie cittadine, di cui qualcuna direttamente connessa a Gerusalemme come Ma’ale Adumim, ma una presenza araba c’è anche in Israele. Tutto questo non qualifica come appartenenza, e qui è forse il caso di ricordare –prima che uno se lo sia dimenticato completamente – che uno stato Palestinese non c’è mai stato, non è mai stato occupato, non è mai esistito: prima c’era l’impero Ottomano, c’erano i Turchi, poi c’è stato il dominio inglese per un certo periodo, e poi è venuto lo Stato di Israele, non c’è mai stato lo Stato Palestinese! Nel 1948 durante la guerra, la Giordania occupò quello che oggi viene vissuto nella mente degli amici dei Palestinesi – che hanno diritto di essere amici dei Palestinesi –come lo stato Palestinese, ma non è così. Erano territori occupati dalla Giordania, quando la Giordania nel 1948 ha attaccato insieme a tutti gli altri stati Israele, Israele ha risposto e, siccome ha vinto la guerra, una delle tante guerre vinte inopinatamente da Israele che le doveva sempre perdere e invece le ha vinte: pensa te come ha vinto nel ‘48 con tutti questi disgraziati scampati ai campi di concentramento con un pezzetto di ferro in mano che non sapevano da che parte rigirarlo, qui è proprio la vittoria dell’anima, della mente, del cuore, sono cose meravigliose in un certo senso, se si fosse ancora persone in grado di pensare e sentire. Israele si trovò in questi territori così come si trovò a unificare nel 1967 Gerusalemme che era stata occupata nel ‘48 : nel ‘67 Israele libera questi piccole parti di terra. Li libera, da lì vengono i cosiddetti territori disputati: “disputati” così è anche la denominazione che ne dà l’ONU, non sono territori occupati, secondo i maggiori giuristi sono territori sui quali si deve addivenire ad una intesa. La conclusione di una intesa ha una sua premessa negli accordi di Oslo, gli accordi di Oslo che sono stati accettati da tutti, compreso Netanyahu, il quale tuttavia, essendo un patriota, ha sempre capito che c’era un grande problema di sicurezza. Pensate solo questo: gli hezbollah al nostro confine al nord verso il Libano – e ora anche in Siria perché sono andati lì ad aiutare Assad, che ha ammazzato tre quarti della sua stessa popolazione e lì ci sono anche gli iraniani sciiti come gli hezbollah– e gli hezbollah hanno 200.000 missili puntati su Israele fornitigli dall’Iran. Il giorno che decidessero di farci la guerra – per ordine dell’Iran perché il loro capo Nasrallah dal punto di vista internazionale risponde agli ordini dell’Iran – il giorno che decidono di farci la guerra… altro che Hamas!

L’altro punto riguarda proprio l’Iran che è un punto che vede gli Stati Uniti in una posizione in qualche modo ambivalente, l’Europa ancora una volta al suo interno divisa e con posizioni più o meno ondivaghe. Ecco, qual è la rilevanza della questione iraniana per Israele, ma in genere per l’occidente, e qual è il problema dei rapporti fra Iran, Turchia, Egitto, Arabia Saudita i quattro grandi paesi che si contendono l’egemonia nel mondo arabo Vanno separato questi ultimi che hai nominato, perché Egitto e Arabia Saudita stanno da una parte, che potremmo dire sono quelli più amichevoli verso l’occidente, e quindi anche verso Israele

Anche se verso di loro, permettimi, sollevano problemi per il mancato rispetto dei diritti umani, mentre se lo dimenticano verso l’Iran e verso anche la Turchia dopo Si, se lo dimenticano verso l’Iran che impicca alle gru in piazza gli omosessuali e dimenticano che Raisi, il nuovo presidente eletto – eletto si fa per dire – ha sulle mani, essendo stato procuratore, che per lo Stato sosteneva l’accusa e ne chiedeva la condanna a morte, ha sulle mani il sangue di 20.000 fra dissidenti, omosessuali, oppositori li ha tutti condannati a morte lui, ma di lui non se ne parla nemmeno. In ogni caso la questione dei diritti umani è molto complicata quando si viene in Medio Oriente, salvo quello che riguarda Israele: e qui c’è un discorso a parte da fare perché, per delegittimarlo, si vorrebbe sempre tirare in ballo, in un folle calderone di argomenti, l’accusa dell’apartheid, una pazzia assoluta, basta andare in un mall, un centro acquisti israeliano, oppure in un ospedale israeliano per capire che non c’entra nulla, si parla a caso senza conoscere nulla. Il problema è quello che ha capito Netanyahu: Israele è un Paese moderno, talora persino post-moderno, e tuttavia è un Paese con dei problemi giganteschi di sicurezza, chiunque lo ignori compie una ipocrita operazione politica, lasciando passare qualsiasi ben peggiore violazione ai suoi nemici. Netanyahu invece i problemi di sicurezza li ha sempre avuti presenti… Torniamo alla situazione dei rapporti con l’Iran: è un Paese sciita, che contempla negli scritti di Komeini, il fondatore del regime degli Ayatollah, la distruzione prima di Israele – Israele è un’ottima bandierina di propaganda per lui- e poi dell’Occidente in generale. Gli sciiti attendono il ritorno del Mahdi, il loro Profeta, più che un Profeta il loro, che viene a salvare il mondo e, quando viene, crea una conflagrazione mondiale dove non importa nulla se si viene bruciati insieme, questa è l’idea iraniana basilare, una sorta di Apocalisse. Il precedente presidente Rohani era un grande propagandista e un diplomatico che riusciva a farsi passare per “moderato, non essendolo affatto, ora vedremo cosa dirà quest’altro, il nuovo. L’Iran nel corso di questi anni prima di tutto ha perseguito la bomba atomica, questa è la cosa più importante, e anche dopo gli accordi di Vienna nel 2015 ha seguitato a perseguirla come dimostrano gli archivi che il Mossad è riuscito ad asportare con una azione meravigliosa – e anche di questo va lodato Netanyahu – e ha dimostrato a tutto il mondo che non valgono nulla gli accordi che si fanno con l’Iran: non bisognerebbe mai dimenticare che ci sono delle centrali dove l’Iran continua ad arricchire l’uranio secondo criteri non consentiti e con delle centrifughe che non sono parte degli accordi. Questo il primo punto, il secondo, sotto gli occhi di tutti è una grande crescita dell’espansione imperialistica e degli attacchi terroristici: in Yemen, in Iraq, in Libano, in Siria. L’Iran è diventata un’immensa potenza internazionale, seguita a ruota in questo dalla Turchia. La Turchia spalleggia Hamas che è sunnita come lo sono tutti i palestinesi, ma lo è anche in maniera molto determinata e molto estrema essendo parte della Fratellanza musulmana. Sunnita, come peraltro naturalmente anche Abu Mazen con l’autonomia palestinese, sono parte di un unico blocco che è un blocco di denegazione fondamentale originaria dell’esistenza stessa di uno stato ebraico sulla umma islamica, cioè quel territorio su cui secondo la dottrina islamica quando esso sia stato per una parte, per un periodo – la Spagna per esempio ne farebbe parte come anche la Sicilia – dominato dal mondo islamico mai più apparterrà a nessun altro. La Turchia è ancora più espansionista perché la sua espansione non è solo a carattere militare (ormai Erdogan manda il suo esercito in giro dappertutto) ma è molto più sottile, la Turchia usa l’immigrazione anche come strumento di dominio, non mi soffermo su questo perché già lo sapete tutti cosa fa, una forma di ricatto: intimididsce l’Europa tenendo dietro compenso nei suoi confini centinaia di migliaia di profughi siriani. Poi c’è la Libia, poi c’è il Mediterraneo con la questione dello scontro sull’energia, insomma queste due potenze giocano su rapporti sia con la Russia sia con la Cina, contrapposti a quello dell’Occidente, in particolare contro la politica americana.

Insomma, è tornato l’impero del male, non c’è dubbio che sia proprio questo, purtroppo c’è poco da ridere perché è molto potente, e l’Europa dovrebbe star molto attenta a non soccombere a questa nuova situazione: la prima cosa da fare è evitare che l’Iran possa perseguire il suo disegno nucleare, per evitare che lo possa perseguire bisogna continuare con le sanzioni che tolgono potere al regime degli Ayatollah e evitano che si possa fare legalmente l’arricchimento dell’uranio richiesto per raggiungere la bomba atomica, purtroppo il processo è andato molto avanti, l’incertezza sia di Biden che dell’Europa ha un costo gigantesco rispetto a una prospettiva di pace. In più, occorre bloccare i programmi balistici iraniani, e questo è molto, molto importante perché questi programmi balistici, con missili giganteschi e programmi spaziali rappresentano una minaccia e la loro industria dei droni è avanzatissima. Tutte le loro risorse le impiegano in questo, c’è molto aiuto cinese, molto aiuto anche russo… c’è concorrenza fra Turchia e Iran in questo, ma anche c’è collaborazione.

Ma intanto c’è stato il Patto d’Abramo, con Donald Trump dall’altra parte Israele – viva Netanyahu – ha fatto il Patto di Abramo nel quale quattro paesi musulmani – fra cui anche il Marocco che per l’Italia è importantissimo – e poi paesi che si avvicinano per interesse a tutta questa parte del Mediterraneo orientale dove si sono trovate grandi sorgenti di gas – vicino alla Grecia, vicino a Cipro ecc – che formano un magnifico blocco pacifico. Allora lì se si riesce, nonostante Netanyahu sia andato a casa, nonostante il nuovo presidente americano per ora non si sia espresso, anche se ha detto che vuole fare una riunione con i paesi del Patto di Abramo, la sta organizzando e anche se sembra che per lui tutte le iniziative di Trump debbano essere considerate qualcosa da cancellare – tuttavia sembra non antipatizzante nei confronti di Israele. Il punto cruciale è veramente il Patti di Abramo, e io qui vorrei dire che l’Europa deve finalmente rendersi conto che si trova di fronte a una svolta storica fondamentale! Ma vi rendete conto che cosa significa dire che gli Emirati siano in colloquio quotidiano con Israele, abbiano stabiliti rapporti diplomatici con la creazione dell’ambasciata, il Bahrein, il Sudan che era un paese terrorista, il Marocco da cui furono cacciati tutti gli ebrei a suo tempo, (c’è sempre rimasta una comunità affezionata perché c’è sempre stata una simpatia profonda interna dei marocchini nei confronti degli ebrei, una storia particolare, diversa). Vi rendete conto cosa significa? Significa che Israele può aiutarli su tutto, sull’acqua, sull’agricoltura, sulla medicina… e loro possono aiutare Israele su una quantità di cose: l’energia, il turismo, l’accettazione internazionale… parlare, parlarsi… non avete idea della passione che viene messa da tutti questi signori con la kefiah bianca nei rapporti con gli israeliani. È una scena travolgente, appassionante, lì sì che davvero vedi la pace mondiale, lì si davvero che vedi la libertà religiosa che fa, non le chiacchiere dei preti di tutte le religioni. Io ho un amico che si chiama Ahmed Al Mansoori, consiglio di andare a vedere il suo museo della tolleranza che ha fatto a Dubai, è una cosa veramente meravigliosa che racconta come gli ebrei siano una forza endogena del medio oriente, e sono gli arabi che lo raccontano finalmente, non come i palestinesi, non come disse Arafat a Clinton «Ma via senta ora lo sa benissimo anche lei che gli ebrei a Gerusalemme non ci sono mai stati» e Clinton si alzò in piedi e gli disse «Se lei ripete un’altra volta questa sciocchezza io esco dalla stanza».

Chiudiamo dandoci un altro appuntamento con te per parlare di Israele: la sua società, i cambiamenti che sta attraversando, come tema specifico che merita tanta attenzione Anche il nuovo governo che è senz’altro un esperimento molto pragmatico e anche molto disinvolto di questi otto piccoli partiti che naturalmente ha tutti i nostri auguri e speriamo che possano far bene, l’alternanza democratica è l’anima di ogni paese democratico. Netanyahu c’è stato 12 anni e quindi adesso…

Come gli altri leader democratici… Appunto, io sarei per togliere troppa enfasi, perché poi questa enfasi porta a dire delle sciocchezze su Netanyahu…

Felipe Gonzales, te l’ho scritto, è stato 14 anni il leader della Spagna e nessuno ha gridato alla dittatura, all’autoritarismo socialista. Certo ma si capisce, qui in Israele non c’è stata nessuna traccia di totalitarismo, quest’uomo anzi ha patito moltissimo senza batter ciglio una vera e propria character killing – un assassinio del personaggio come dicono gli americani e gli inglesi – e se l’è lasciato fare perché non c’era niente da fare se non fuori dalle norme che non ha voluto violare, cioè chiamando nelle piazze quella maggioranza che ha sempre seguitato ad avere, ma è storia passata, il nuovo governo lavora contro la pandemia e per la sicurezza, speriamo riesca nei suoi intenti.

Grazie del tempo che ci hai dedicato
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » sab set 25, 2021 8:21 am

Ma che diavolo di problema c’è con il concetto di una maggioranza ebraica in Israele?
Il sionismo consiste nella creazione di uno stato democratico a maggioranza ebraica. Da quando in qua quest’idea è diventata indifendibile per la sinistra sionista (e abbandonata dalla destra sionista)?
Eric H. Yoffie
(Da: Ha’aretz, 18.7.21)
7 Settembre 2021

https://www.israele.net/ma-che-diavolo- ... in-israele

Nel difendere la legge israeliana sulla cittadinanza, il ministro degli esteri Yair Lapid ha affermato che essa “mira a garantire una maggioranza ebraica in Israele”. Per tutta risposta, Carolina Landsmann ha scritto su questo giornale (Ha’aretz) che “un paese che si sforza di negare a una minoranza qualsiasi la possibilità di diventare maggioranza non è una democrazia”.

Questa tesi non ha senso. Perché mai lo stato ebraico non dovrebbe fare tutto ciò che può fare legalmente per mantenere una maggioranza ebraica? E cosa diavolo ne è stato della sinistra sionista? Perché tanti dei suoi campioni trovano difficile sostenere una cosa così chiaramente sensata e giusta?

Qualunque studente di Israele e sionismo sa che la demografia è cruciale; che il sionismo, oggi e in passato, ha sempre avuto come obiettivo la creazione di uno stato democratico a maggioranza ebraica; che lo stato d’Israele può e deve adottare misure appropriate per assicurare il mantenimento di una stabile maggioranza ebraica; che adottare tali misure e affermare onestamente le proprie intenzioni non è in contrasto con i principi democratici e con gli ideali della Dichiarazione d’Indipendenza d’Israele; e che la perdita della maggioranza ebraica significherebbe la fine del sionismo e la scomparsa dello stato di Israele.

Di più. La premessa del sionismo è che vi sono molti ebrei che desiderano ardentemente vivere tra altri ebrei in uno stato a maggioranza ebraica. Questa loro aspirazione è perfettamente comprensibile e non hanno alcuna intenzione di discolparsi per questo fatto. Sono grati che lo stato d’Israele, dopo millenni di esilio ebraico, gli permetta finalmente di realizzarla. Israele, ci ricordano, è stato creato per promuovere la religione, la civiltà e la cultura del popolo ebraico e della sua maggioranza ebraica. Grazie al cielo, dicono, c’è Israele che è l’unico posto al mondo dove sono i non-ebrei che devono adattarsi a vivere come minoranza, naturalmente con i diritti democratici e di eguaglianza civile garantiti dalla legge israeliana, almeno in teoria.

Ebrei immigrati dall’Etiopia accolti in Israele nel gennaio 2021

È vero naturalmente, come afferma Landsmann, che Israele non deve mai “usare la forza” per contenere il numero di cittadini arabi. Giusto per ribadire ciò che è ovvio, trasferire forzatamente dei cittadini arabi fuori dal paese sarebbe una violazione delle norme democratiche e del diritto internazionale, per non parlare della tradizione e dei valori ebraici. Sarebbe il ripudio di tutto ciò che il sionismo rappresenta e dei principi che incarna. Ma assicurare una maggioranza ebraica adottando leggi e politiche coerenti con il sistema democratico è tutt’altra questione. È sia accettabile che auspicabile.

Privo di maggioranza ebraica, forse che Israele continuerebbe a garantire immediato rifugio, senza se e senza ma, a qualunque ebreo che si trovasse in pericolo e in emergenza, in qualunque altro paese del mondo? Quasi certamente no: una maggioranza non ebraica deciderebbe senza dubbio diversamente. Privo di maggioranza ebraica, forse che Israele continuerebbe ad essere l’unico paese in cui gli ebrei possono improntare il calendario alle festività ebraiche, e dove gli ebrei possono apertamente praticare in ogni aspetto della vita i valori ebraici, e sviluppare lingua e cultura ebraiche (pur nel rispetto di festività, lingua e tradizioni delle minoranze) senza dover chiedere il permesso a nessuno? Molto improbabile. Ed proprio per queste ragioni che è nato il sionismo. (…)

Sono ben contento che Lapid abbia sollevato la questione demografica in un momento in cui sia la destra sionista che la sinistra sionista hanno perso la bussola su una questione che sta al centro della stessa ragion d’essere d’Israele. La destra sionista ha risposto alla questione demografica con atti illegali e la negazione del problema, costruendo insediamenti per più di 40 anni e soprattutto fondando avamposti illegali. Mentre il grosso degli insediamenti si può pensare che possa rimanere parte di Israele in una futura soluzione a due stati, i tanti avamposti illegali sparsi nei Territori rendono sempre più difficile una spartizione del paese. E l’esito più probabile diventa un unico stato bi-nazionale, a maggioranza araba. (…) Signor Lapid, finché il governo non sarà pronto a sgomberare gli avamposti illegali in Giudea e Samaria e affrontare la pirateria dei coloni più fanatici, a poco servono le prediche sulla necessità di preservare la maggioranza ebraica d’Israele.

Israele è l’unico paese al mondo che ha l’ebraico come lingua ufficiale

E che dire della sinistra sionista, su cui un tempo si poteva contare che fosse alla testa dell’impegno per la maggioranza ebraica in uno stato d’Israele ebraico e democratico? È una storia lunga e complicata, ma il nocciolo della questione è che, sia in Israele che nella diaspora, la sinistra sionista vacilla paurosamente. Influenzati dai partiti arabi israeliani e della martellante propaganda palestinese, dal pensiero post-sionista, dalla repulsione per qualunque nazionalismo tipo Blut und Boden (“sangue e suolo”) e dal sincero impegno per i valori universalistici, anche i sionisti di sinistra, come i loro omologhi di destra, hanno iniziato a parlare di un unico stato con una minoranza ebraica, spesso occultato nella retorica su una “confederazione arabo-ebraica”. Ma una tale confederazione è soltanto una pia illusione che si realizzerà solo quando si vedranno gli asini che volano.

Fino ad allora l’unica soluzione possibile, per quanto al momento possa sembrare improbabile, deve essere messa insieme a partire dalla realtà sul terreno. Il che significa uno stato a maggioranza ebraica costituito da uno specifico popolo, il popolo ebraico, da una specifica cultura, la cultura ebraica, e un segmento di una specifica terra, la Terra d’Israele/Palestina. E significa anche uno stato a maggioranza araba-palestinese costituito da uno specifico popolo, il popolo arabo-palestinese, da una specifica cultura, la cultura arabo-palestinese, e da un altro segmento di quella stessa terra, la Terra d’Israele/Palestina. Ogni stato avrà ovviamente delle minoranze, ma la maggioranza sarà quella che determinerà il tono politico e culturale della vita pubblica. Questa configurazione non sarà perfetta. E arrivarci non sarà facile. Potrebbero volerci molti anni per arrivare a un accordo a due stati. Ma sinistra e destra prendano nota: nel frattempo, il compito degli ebrei è adoperarsi per una separazione dei popoli che renda possibili due stati, e per una realtà demografica che veda gli ebrei come una maggioranza chiara e non contestata nella loro porzione di Terra d’Israele/Palestina.

Ripeto: noi ebrei vogliamo uno stato nostro dove gli ebrei, in quanto maggioranza solida e sicura di sé, possano autodeterminarsi, governare democraticamente e vivere in pace con i nostri vicini. Questo è il sionismo. E in ultima analisi, i piani e le fantasie su un unico stato bi-nazionale finiranno col cedere il passo alla logica dei principi sionisti, che si impone da sé


Gino Quarelo
Anche sul piano dei principi astratti è più che democratico e giusto e civile, naturale e logico il senso e il valore di una maggioranza etnica di una democrazia a maggioranza etnica od etnico-cultural religiosa, specialmente laddove le minoranze sono ostili e nemiche, razziste e senza alcun rispetto e amore e pronte a sterminarti o a ridurti in dhimmitudine.



E se Peter Beinart si sbagliasse (di nuovo)?
L’idea di sostituire Israele con uno stato bi-nazionale in cui gli ebrei sarebbero minoranza è una scommessa che può permettersi solo chi gioca cinicamente con la vita degli altri
Steven Frank
(Da: Times of Israel, 30.8.21)
2 Settembre 2021


https://www.israele.net/e-se-peter-bein ... e-di-nuovo

Il celebrato e citatissimo editorialista Peter Beinart, ex sionista, ha recentemente deciso che si sbagliava quando sosteneva uno stato ebraico sovrano in Terra d’Israele. In un editoriale sul New York Times intitolato “Non credo più in uno stato ebraico”, Beinart abbandona il sionismo, invoca lo smantellamento dello stato d’Israele e propugna la sua sostituzione con uno stato bi-nazionale in cui ammette che gli ebrei saranno una minoranza. Cionondimeno, sostiene che in un tale stato gli ebrei non solo “sopravviveranno, ma prospereranno”.

Persino Beinart si rende conto che queste sue ultime opinioni “oltrepassano una linea rossa”, e riconosce che mettere in discussione l’esistenza di Israele come stato ebraico “è come sputare in faccia alle persone che amo e tradire le istituzioni che danno significato e gioia alla mia vita. Inoltre, lo stato ebraico è stato a lungo prezioso anche per me, per cui rispettavo alcune linee rosse”.

La soluzione di Beinart al conflitto israelo-palestinese non ha mancato di suscitare aspre critiche. I difensori di Israele generalmente convengono che questa sua ultima proposta non costituisce altro che l’oziosa riflessione di uno sfibrato intellettuale del West Side ossessionato dal bisogno di farsi accettare dai suoi pari benpensanti, e che la sua idea è irrealistica, suicida e tendenzialmente antisemita (nel momento in cui prende di mira l’unico stato ebraico esistente, additandolo come l’unico paese al mondo che dovrebbe essere eliminato). Tuttavia, Beinart continua ad attaccare la legittimità dello stato d’Israele in recenti interviste su NPR, Slate, in un profilo sul New Yorker e nei suoi editoriali sul New York Times e sul suo canale YouTube, che viene visto decine di migliaia di volte. La visione estremista di Beinart non sta svanendo nel tempo. Sta anzi entrando a far parte della “normalità”.

Manifestazione palestinese in Italia. Uno stato bi-nazionale in cui gli ebrei non solo “sopravviveranno, ma prospereranno”?

Ma supponiamo, per pura ipotesi, che la fantasia di Beinart si realizzi. E se si sbagliasse? Se gli ebrei non “sopravvivessero” e “prosperassero” affatto nello stato bi-nazionale come lui lo immagina? Cosa ne seguirebbe?

In fondo, non sarebbe la prima volta che Beinart si sbaglia di grosso. All’inizio della sua carriera come opinionista da poltrona, è stato direttore della rivista neo-con New Republic e ha sostenuto la guerra in Iraq. Poi ha deciso che si era sbagliato e si è opposto alla guerra. Nel 2004, in un editoriale su New Republic ha riconsiderato il suo sostegno alla guerra in Iraq in questi termini: “Proviamo rincrescimento, ma nessuna vergogna … La logica alla base della nostra posizione strategica per la guerra è crollata”. Beinart ha scritto innumerevoli editoriali per scusarsi e cercare di giustificare il suo iniziale sostegno alla guerra. In uno di quegli editoriali ammette che “anch’io ero disposto a scommettere, in parte suppongo perché, nell’epoca degli eserciti di volontari, non scommettevo sulla mia stessa vita”.

Esattamente come nella guerra in Iraq, Beinart non si gioca la pelle nel conflitto israelo-palestinese. Non sta “scommettendo” sulla propria vita né su quella dei suoi figli. E se dunque Beinart, come si sbagliava sull’Iraq, si sbagliasse allo stesso modo con il suo delirante stato bi-nazionale? E se gli ebrei non prosperassero affatto o addirittura non sopravvivessero? Naturalmente, la conseguenza più probabile sarebbe la persecuzione e lo sterminio dei sei milioni di ebrei che attualmente vivono in Israele, una seconda Shoà in meno di un secolo. Sarebbe molto brutto. Ma poi a Washington verrebbe edificato un altro museo dell’Olocausto e uscirebbero tanti documentari e si terrebbero tanti concerti con candeline in omaggio alle vittime. Giacché, come ha intitolato Dara Horn il suo ultimo saggio, “la gente ama gli ebrei morti”.

E che dire del signor Beinart? Cosa gli accadrebbe? Probabilmente scriverebbe corposi editoriali per spiegare il suo errore, come ha fatto con la guerra in Iraq. Insisterebbe sul fatto che “non aveva idea che la sua visione di uno stato democratico bi-nazionale sarebbe precipitata nella pulizia etnica e nel genocidio” (ignorando bellamente un secolo di appelli arabi per “l’annientamento” dello stato ebraico, l’espulsione degli ebrei dai paesi arabi nonché il tracollo del Libano, unico stato bi-nazionale in Medio Oriente). Sosterrebbe che, se solo le parti in causa avessero seguito il suo piano per uno stato democratico bi-nazionale, tutto sarebbe andato per il meglio. E continuerebbe ad essere un apprezzato oratore nei campus universitari, un corrispondente speciale per la CNN e un gradito ospite della pagina degli editoriali del New York Times. Sarebbe di nuovo abbracciato dai suoi pari benpensanti e il suo prossimo libro spiegherebbe come qualmente gli israeliani hanno minato e infine distrutto lo stato bi-nazionale portando alla loro stessa distruzione.

Quindi, se Peter Beinart si sbagliasse – di nuovo – con ogni probabilità risorgerebbe ancora una volta come una fenice dalle ceneri dello stato di Israele. Per Beinart, la vita andrebbe avanti. E pazienza se non sarebbe lo stesso per gli ebrei d’Israele.



Israele-Palestina: così Trump archivia la soluzione dei due stati
Claudia De Martino
30 gennaio 2020

https://www.ispionline.it/it/pubblicazi ... tati-24969

Per gli accordi di Oslo e la soluzione di pace a due stati il tempo è ormai scaduto: questo il principale messaggio dell’amministrazione Trump alla comunità internazionale, e ai palestinesi in particolare. Oslo, ovvero la spartizione della Palestina mandataria in due stati per due popoli che vivessero liberamente fianco a fianco, non è più un’opzione percorribile. Il presidente USA Donald Trump impone a tutti una lezione di realismo politico: Israele ha vinto il conflitto israelo-palestinese e la Palestina non sarà mai uno stato sovrano.

La vittoria innegabile di Israele, che corrisponde alla situazione ormai prevalente da molti anni sul terreno e completamente ignorata dalle cancellerie internazionali e dall’ONU, significa l’incedere di un nuovo paradigma politico sul quale improntare un “accordo di pace” le cui condizioni sono, appunto, dettate da Israele.

Gli elementi principali di questo nuovo possibile impianto sono i seguenti: gli insediamenti israeliani, fino ad oggi considerati dalla comunità internazionale “colonie” al massimo da condonare, non sono più un ostacolo a un accordo. Essi sono legittimi, questo dice il piano, e devono restare parte dello stato di Israele, anche perché ospitano 428.000 coloni che sarebbe impensabile sradicare ed evacuare dalle loro case. Israele può dunque annettere tutti gli insediamenti o annettere direttamente la Valle del Giordano (pari a 30% dell’attuale Cisgiordania) all’interno dell’area C che li comprende, equivalente al suo 61%. Tale annessione territoriale, però, lascerebbe comunque fuori 15 enclave – a lungo definiti avamposti illegali dalla stessa stampa israeliana – alle quali verrebbe comunque estesa la sovranità israeliana e che verrebbero collegate alla “madrepatria” attraverso strade e ponti.

Israele otterrebbe anche tre vittorie simboliche, ma fondamentali dal punto di vista dell’opinione pubblica interna: il diritto di custodire i luoghi sacri, incluso quello di ammettere formalmente gli ebrei a pregare sul “Monte del Tempio”, meglio noto come Spianata delle Moschee, il riconoscimento internazionale dell’indivisibilità di Gerusalemme come capitale di Israele e quello di Israele come stato ebraico. Di fronte a questa vittoria totale, non solo dal punto di vista delle concessioni territoriali ma anche di quelle simboliche operate a netto vantaggio della narrativa israeliana, il costo della pace imposto a Israele sarebbe minimo: Gerusalemme dovrebbe riconoscere la legittimità di uno stato palestinese al suo fianco e congelare la costruzione di nuovi insediamenti per i prossimi quattro anni. Ovvero l’orizzonte che l’amministrazione Trump si è data per negoziare i dettagli del piano con tutte le parti coinvolte, ovvero per smussare le ovvie resistenze palestinesi.

Ai palestinesi viene, al contrario, richiesto di compiere significativi passi per raggiungere la “pace”. La prima rinuncia, forse la più grave dal punto di vista simbolico ma anche identitario per la comunità nazionale palestinese, è quella al pari diritto ad ottenere i sobborghi orientali di Gerusalemme come propria capitale. Il piano del presidente statunitense adotta completamente la prospettiva israeliana, accettando la costruzione della barriera difensiva israeliana come premessa ad una divisione iniqua della città in due sezioni, delle quali la seconda – Gerusalemme est – comprensiva di quartieri palestinesi popolosi ma nuovi e privi di luoghi storici e religiosi di interesse. La nuova capitale del futuro stato di Palestina sarebbe così Abu Dis e sarebbe disconnessa dalla città vecchia e dai luoghi sacri, nonché da altri quartieri a maggioranza araba localizzati all’ovest della barriera.

La seconda rinuncia è quella al diritto al ritorno dei rifugiati: il piano di Trump prevede infatti un riconoscimento simbolico pari al rientro di circa 50.000 rifugiati – ovviamente solo in direzione del futuro stato palestinese –, e il ricollocamento, anche grazie ad un generoso piano di aiuti internazionali, nei rispettivi stati arabi ospitanti (Giordania, Libano e Siria in primis).

La terza rinuncia imposta è quella alla continuità territoriale interna, dal momento che la colonia Ma’aleh Adumim e l’annessione ufficiale di molti insediamenti israeliani incastonati all’interno della Cisgiordania rende già impossibile la continuità territoriale tra le principali città palestinesi oggi comprese nell’area A prevista dagli accordi di Oslo.

La quarta e non meno grave sarebbe quella alla contiguità territoriale con il resto della regione e dei paesi arabi limitrofi, spezzata dall’assegnazione dei confini con la Giordania (la striscia di territorio ad ovest del Giordano, inclusiva dei due ponti di Allenby e di Adam) allo stato di Israele per garantirne la sicurezza strategica.

Poiché Israele annetterebbe parte dell’attuale Cisgiordania, compensazioni territoriali a favore del futuro stato palestinese sono previste nel deserto del Negev, e in particolare su una superficie pari a 14% di Israele contigua alla Striscia di Gaza che oggi, oltre ad essere desertica, è anche spopolata. Qui sarebbe prevista dal piano la costruzione di un futuristico parco industriale corredato da un’aria agricola hi-tech, grazie ai miliardari investimenti che sarebbero indirizzati alla Palestina (50 miliardi di dollari).

Infine, il futuro stato di Palestina, solo nominalmente autonomo e sovrano, soffrirebbe di alcune pesanti limitazioni alla sua sovranità: dovrebbe rimanere uno stato demilitarizzato, non avrebbe confini con altri stati ad esclusione di Israele dal quale sarebbe circondato da tutti i lati, dovrebbe necessariamente disarmare Hamas per poter instaurare una continuità con una Striscia di Gaza riaperta ai traffici commerciali e non più soggetta a embargo e non potrebbe più sostenere finanziariamente “le famiglie dei martiri”, ovvero dovrebbe rinunciare ai trasferimenti che l’Autorità Nazionale Palestinese compie periodicamente a favore dei familiari di coloro che si sono impegnati per la “Resistenza”, imponendo una profonda discontinuità alla sua storia.

Non sorprende che i palestinesi abbiano reagito convocando una riunione di unità nazionale d’urgenza che ha raccolto sia Hamas che al-Fatah, cercando di elaborare una risposta congiunta di rifiuto del piano, nel disperato tentativo di ottenere un sostegno da parte degli sati arabi, dell’Organizzazione della conferenza islamica e dell’ONU. Tuttavia, non c’è da farsi alcuna illusione in merito: una rappresentanza diplomatica araba – Oman, Emirati Arabi Uniti e Bahrein – era presente all’annuncio del piano alla Casa Bianca, accogliendolo senza obiezioni, mentre gli stati europei sono consapevoli di non poter rovesciare – e non avere la volontà politica di farlo – un processo irreversibile che è già in corso da oltre 30 anni sul terreno. Infine, l’unità nazionale palestinese sarebbe davvero una buona notizia, ma è difficile da realizzarsi, dal momento che l’ultima azione del presidente Mahmud Abbas a dicembre 2018 è consistita nel dissolvere una delle ultime istituzioni dell’OLP (il Consiglio Legislativo Palestinese) in cui Hamas aveva più seggi e che, dunque, tutte le istituzioni nazionali palestinesi sarebbero da rifondare.

Trump e Israele hanno ragione: indipendentemente dalla realizzazione immediata del piano e dei dettagli in esso contenuti, il primo risvolto del suo annuncio ufficiale sarà visibile da subito. Il paradigma politico e diplomatico è cambiato e da oggi non si potrà più far finta che le due parti godano di pari diritti nella spartizione della terra di quella che fu, settant’anni fa, una Palestina mandataria unita ormai consegnata alla storia. Ai palestinesi rimangono sempre due scelte radicali quanto strategiche: dissolvere l’ANP e annullare il coordinamento di sicurezza con Israele. Esse avrebbero il merito di inseguire Trump e Israele sul loro nuovo paradigma, ma alzando enormemente i costi della “posta in gioco”, scompaginandone completamente le carte.







La farsa della soluzione «a due Stati»
di Bruno Guigue
(Invictapalestina, 31 dicembre 2017)

https://www.ilvangelo-israele.it/indexdic17-II.html

Riportiamo questo articolo da un sito il cui nome fa capire subito da che parte tende. E dovrebbe anche far capire che il progetto dei “due stati che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza” è un sogno ad occhi aperti. “L'idea che due Stati possano coesistere sul territorio della Palestina storica non ha alcun senso” dice l’articolista, senza preoccuparsi del fatto non ha alcun senso parlare di Palestina storica, come non ha alcun senso ed è semplicemente deviante e calunnioso parlare di “colonialismo”. Ma a chi sostiene tesi di questo tipo le argomentazioni storiche non interessano: l’importante è proporsi di distruggere Israele, gli argomenti a sostegno della tesi si trovano strada facendo. E si troverà sempre chi ne resterà convinto, perché gli argomenti che in un modo o nell’altro danno addosso agli ebrei risultano sempre convincenti. NsI

In vendita nelle vetrine dei negozi occidentali dal 1993, la "soluzione a due Stati" è un prodotto adulterato, un raggiro acclarato. La capitolazione dell'OLP ha offerto all'occupante, su di un vassoio, l'insperata opportunità di accelerare la colonizzazione. Il disarmo unilaterale della resistenza ha gettato la Palestina in pasto agli appetiti sionisti. Catastrofe politica, il processo di Oslo ha corrotto l'élite palestinese e sprofondato questo movimento di liberazione, che era un tempo l'orgoglio del mondo arabo, nella piaga delle divisioni.
Con la complicità dei dirigenti di Fatah, la colonizzazione sionista ha polverizzato Gerusalemme est e la Cisgiordania, uccidendo sul nascere la possibilità concreta di uno Stato palestinese. Come si può costruire uno Stato vitale con frammenti sparsi di un territorio dimezzato ? Piena di colonie, la Palestina è stata cancellata dal rullo compressore dell'occupazione, eliminata dalla carta dalla conquista sionista. La Palestina di Oslo non è neppure un embrione di Stato. E' una menzogna cui si aggrappa una Autorità palestinese moribonda e screditata.
E' colpa degli "opposti estremismi", talvolta si dice. Ma da quando il colonialismo è moderato? E dove si è mai visto un popolo colonizzato rimettersi alla generosità del colonizzatore per ottenere giustizia? E' un comodo artificio quello di equiparare occupante e occupato, come se la responsabilità dovesse ripartirsi tra di loro. Permette alla coscienza occidentale di cavarsela a buon mercato, affermando che è tutta colpa di Hamas e di Netanyahu.
La realtà del conflitto, invece, va molto oltre questi due protagonisti. Il sionismo non è un nazionalismo ordinario, è una impresa di sradicamento. L'idea che due Stati possano coesistere sul territorio della Palestina storica non ha alcun senso. Colonialisti lucidi, i sionisti lo sanno bene. Icona del "processo di pace", il primo ministro Itzhak Rabin dichiarò alla Knesset, nel 1995, che non era proprio in questione la creazione di uno Stato palestinese, nemmeno un embrione di Stato, né oggi né mai.
Ovviamente si può fare come gli struzzi e sognare un sionismo immaginario, ma il sionismo che esiste veramente ha scarsa propensione per una condivisione territoriale insieme a degli autoctoni recalcitranti. Quel che vuole, è tutta la Palestina, "una Palestina ebraica come l'Inghilterra è inglese", secondo l'espressione usata dal presidente dell'Organizzazione sionista mondiale Haìm Weizmann, indirizzandosi alle potenze occidentali nel 1919. La spoliazione territoriale, l'appropriazione coloniale della Palestina non è un accidente del sionismo, è la sua stessa essenza.
Anche i Palestinesi lo sanno, e non hanno atteso il fiasco del sedicente "processo di pace" per rendersene conto. Nel settembre 1993, un "Fronte del rifiuto" nacque dal rigetto immediato degli accordi di Oslo. Riuniti nel campo di Yarmouk, in Siria, dieci movimenti palestinesi costituirono "l'Alleanza delle forze palestinesi". Organizzazioni filo siriane, islamiste o marxiste, denunciando l'imbroglio del "processo di pace" e condannando la politica della corrente maggioritaria dell'OLP. Quel che vogliono, è la fine del sionismo, e uno Stato unico in Palestina.
Questa opposizione a Oslo è stata sistematicamente occultata, soprattutto dalle associazioni occidentali di sostegno alla Palestina, generalmente allineate sulla strategia collaborazionista della corrente maggioritaria di Fatah. Questa coalizione di forze di opposizione era peraltro molto più rappresentativa dell'opinione palestinese, dei futuri dirigenti dell'Autorità nazionale palestinese. E alle elezioni del 25 gennaio 2006 nei Territori, i risultati elettorali di Hamas (42,6%) e del FPLP (4,1%), manifesti oppositori del "processo di pace", superarono ampiamente quelli di Fatah (39,6%).
Se si tenga anche conto dell'opposizione altrettanto categorica delle organizzazioni operanti in Siria e in Libano, i cui simpatizzanti non potevano partecipare allo scrutinio, risulta evidente che i Palestinesi erano maggioritariamente ostili a ciò che percepivano con lucidità come una vera e propria frode. L'avere omesso di consultare i Palestinesi della diaspora, in ogni caso, ha compromesso la legittimità di un processo per cui solo i dirigenti dell'OLP e una borghesia palestinese che abita nei territori avevano buone ragioni per provare qualche interesse.
Al popolo palestinese, per contro, gli accordi di Oslo hanno solo portato frutti marci. Questi trattati ineguali hanno accentuato le divisioni fratricide in seno al movimento di liberazione. Hanno offerto all'occupante un mezzo di pressione permanente sui Palestinesi, oramai prigionieri di istituzioni di paccottiglia. Lungi dal consentire l'emergere della Palestina, Oslo l'ha anestetizzata. Il meglio che possa augurarsi per i Palestinesi, è che pongano fine a questa farsa, che rompano tutte le relazioni con l'occupante e riprendano la lotta per uno Stato unico e democratico in Palestina.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » dom ott 17, 2021 10:51 pm

La voce scomoda di Bassem Eid
L’INTERVISTA
di Niram Ferretti | L'Informale
22 luglio 2017
17/9/2018

https://ebreieisraele.forumfree.it/?t=75992967

Non ti aspetti giri di parole da Bassem Eid. Non chiederà venia quando con chiarezza e precisione infrangerà una dopo l’altra tutte le icone della narrativa pro-palestinese: la vittimizzazione dei palestinesi da parte degli israeliani, la buona volontà della dirigenza palestinese di trovare una soluzione pacifica al conflitto più perdurante e mediatizzato del dopoguerra, l’intrinseca bontà di quelle organizzazioni che proclamano di lottare in difesa dei diritti del popolo palestinese, la natura maligna dell’ ”occupazione” israeliana.

Eid, nato a Gerusalemme Est quando la città era ancora sotto il controllo giordano e vissuto per trentatré anni nel campo rifugiati di Shuafat, ha dedicato buona parte della sua vita a difendere i diritti umani riportando abusi, in particolare quelli perpetrati dall’Autorità Palestinese. Nel 1996 ha fondato il Palestinian Humans Right Monitoring Group, dopo essere uscito dalla ONG israeliana B’Tselem a causa del rifiuto di quest’ultima di dare credito a un rapporto su presunti crimini commessi da parte palestinese.

Conferenziere internazionale, analista politico ed esperto della politica e della società araba-palestinese, è considerato da molti il principale attivista palestinese per i diritti umani in attività oggi.

L'Informale lo ha incontrato a Gerusalemme.

Nel 1919 il Consiglio Generale Siriano sottolineò che gli abitanti dell’allora Palestina Mandataria Britannica vivevano in quello che era chiamato Balad esh sham (la provincia di Damasco) o Surya-al-Janubiya (la Siria del Sud). Nel 1974, Hafaz al Assad dichiarò, “La Palestina non solo è una parte della nostra nazione araba ma una parte fondamentale della Siria del Sud“. Qual è la sua opinione?

Sono una persona che cerca di dimenticarsi il passato e di guardare avanti, perlomeno per il futuro dei nostri ragazzi. I palestinesi esistono su questa terra come gli ebrei, non c’è alcuna differenza. Così come i palestinesi hanno il diritto di esistere, anche Israele ne ha il pieno diritto. Sfortunatamente, dichiarazioni come quelle di Hafez al Assad, o altri, gettano solo benzina sul fuoco. Non vedo come una dichiarazione di questo tipo possa servire per risolvere il conflitto, rende le cose solo molto più difficili. Dal 1948 ad oggi non ho mai visto gli Arabi o i musulmani dare alcun tipo di aiuto ai palestinesi. Ci sono solo stati slogan e slogan e slogan. I leader arabi hanno usato il caso palestinese per continuare a corrompere il loro popolo usando il pretesto di volere liberare i palestinesi dall’occupazione israeliana.

Quali sono gli obbiettivi dei palestinesi e come possono essere raggiunti?

Noi palestinesi dovremmo essere più realisti in merito ai nostri obbiettivi. Siamo realmente interessati a risolvere il conflitto o solo a gestirlo? Dagli Accordi di Oslo del 1993, dopo l’arrivo dell’OLP nella West Bank e a Gaza, non c’è stata nessuna dimostrazione seria che l’OLP o l’Autorità Palestinese, da Arafat a Mahmoud Abbas, abbia avuto la volontà di risolvere il conflitto arabo-israeliano. Il conflitto si è trasformato nella maggiore fonte di lucro per i leader palestinesi, e essendo diventato tale non credo che questi leader si impegneranno mai seriamente per trovare una soluzione. Prendi Gaza come esempio. Da dopo il disimpegno israeliano del 2005, Gaza vive dentro un enorme disastro. La situazione a Gaza prima del disimpegno israeliano era al 100% migliore di quanto lo sia oggi. Hamas tiene due milioni di palestinesi sotto il proprio giogo e nessuno può pronunciare una sola parola contro di esso. Abbiamo fallito su tutti i piani politici, allora cerchiamo perlomeno di sopravvivere e di migliorare la nostra situazione economica. Attualmente non credo nella soluzione di uno stato o di due stati, e sai perché? Perché ritengo che non siamo sufficientemente maturi per avere uno stato, dunque se non siamo sufficientemente maturi, perlomeno cerchiamo di sopravvivere e di avere un’economia che funzioni. Quindi è questo, al momento, l’obbiettivo più importante da raggiungere.

Qual è la tua opinione relativamente a organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, l’UNRWA e l’UNESCO, le quali, su diversi livelli, operano partigianamente contro Israele?

Il maggio dell’anno scorso venni invitato alle Nazioni Unite per una grande conferenza intitolata “Ambasciatori contro il BDS”. Era la prima volta che mettevo piede nel quartiere generale dell’ONU a New York. Quando arrivai sul podio per parlare, la prima cosa che dissi fu “Mi piacerebbe potere avere le chiavi di questo palazzo, perché, se le avessi, lo sigillerei per sempre”. Oggi l’UNRWA, le Nazioni Unite, l’UNESCO e tutte queste organizzazioni internazionali hanno come loro scopo principale, in rapporto al conflitto arabo-israeliano, non di risolverlo ma di gestirlo, e la ragione è semplice. Come ho già detto, il conflitto è diventato una grande fonte di guadagno. È sufficientemente chiaro che mentre l’ONU promuove risoluzioni avverse a Israele e l’UNESCO fa la stessa cosa, essi ricevono fondi da paesi che hanno una precisa agenda anti-israeliana. Quando l’UNESCO, attraverso le sue delibere, sradica dalla Palestina le radici ebraiche, questo è l’equivalente di affermare che Israele non ha alcun diritto di esistere. Ciò porta un enorme quantitativo di denaro, ed è quello che l’UNESCO attende. La negazione da parte dell’UNESCO dei diritti di Israele a Gerusalemme, del diritto dell’eredità ebraica a Hebron, non mi aiutano in quanto palestinese, non mi daranno mai uno stato. Quello che noi palestinesi otteniamo da queste decisioni è esattamente l’effetto contrario. Rendono solo le cose molto più difficili per dei colloqui di pace. Non è questo il modo di promuoverla. Tutte queste organizzazioni internazionali, di cui l’UNRWA insieme all’UNESCO sono parte, dovrebbero cominciare seriamente a valutare le loro politiche nei confronti del conflitto arabo-israeliano perché facendo come fanno generano solo ostacoli sulla strada di qualsiasi opportunità di pace tra palestinesi e israeliani.

Fino a che punto, secondo te, l’elemento religioso è presente nel conflitto arabo-israeliano?

Sfortunatamente i musulmani, palestinesi inclusi, stanno cercando di politicizzare la religione perché la politicizzazione della religione è una cosa che attira molto i musulmani in giro per il mondo, ed è esattamente quello che Mahmoud Abbas sta facendo, quello che Hamas sta facendo, quello che Hezbollah sta facendo e quello che tutti i terroristi in giro per il mondo, i quali usano l’Islam contro gli ebrei, stanno facendo. Il problema più grande è che attualmente non abbiamo uno sceicco o un imam carismatico che possa prendere il proscenio e dire “Con quello che state facendo state portando tragedia su tragedia sopra il nostro popolo”, e ciò mi porta alla situazione attuale a Gerusalemme e Al Aqsa, dove gli israeliani hanno deciso di installare dei metal detector dopo l’attacco terroristico di venerdì scorso. Ascoltami, se vai al Kotel, passi attraverso dei cancelli elettronici di sicurezza, qual è il problema? Il rifiuto attuale dei musulmani di entrare ad Al Aqsa passando attraverso i metal detector significa che stiamo incitando il mondo islamico contro Israele e sfortunatamente la cosa sembra che stia filando liscia. Sono certo che, oltre a Mecca e Medina, ci sono moschee in giro per il mondo dove si accede passando attraverso una qualche forma di controllo, perché qui no? Non voglio essere ucciso dentro Al Aqsa o fuori di essa. Non voglio essere uno shahid, non voglio che mio figlio sia uno shahid. Se uccidi, uccidi, non importa quale sia il modo in cui ti definisci. Questa è, nella mia opinione, la tragedia, e penso che oggi il grande problema che dobbiamo affrontare sia con i musulmani e non con l’Islam, perché a mio vedere l’attitudine musulmana odierna è completamente contro le regole dell’Islam. Quindi vorrei che un giorno i musulmani si svegliassero e cominciassero a rendersi conto cosa stanno causando a se stessi.

Quale è la tua opinione dell’Autorità Palestinese e in generale della leadership palestinese?

Non mi fiderei mai dell’Autorità Palestinese né nella West Bank né a Gaza. L’obbiettivo principale della leadership palestinese è quello di continuare a tenere i palestinesi in ostaggio a vantaggio del conflitto. Questo è il suo scopo principale. Siamo ostaggi della nostra leadership, non di Israele, non dell’occupazione. Si tratta esattamente del contrario. Se ci si guarda intorno qui in Medioriente a quanto ci circonda, si scoprirà che paragonato ad altre realtà circostanti, quello che accade qui, il conflitto israelo-palestinese, lo rende il posto più sicuro della regione. Non vorrei trovarmi in Siria, non vorrei trovarmi in Iraq, non vorrei trovarmi in Yemen. Il problema più grande è la cecità della comunità internazionale relativamente alla leadership palestinese. E’ come se la comunità internazionale cercasse una specie di rivincita contro il popolo ebraico attraverso l’uso dei palestinesi e della leadership palestinese. E’ come se l’Europa stesse retrocedendo nella propria storia, perché l’antisemitismo nasce in Europa non nei paesi islamici. E’ come se l’Europa oggi stesse dando sempre più potere alla leadership palestinese perché continui a rifiutare qualsiasi tipo di accordo con Israele e sembra che i palestinesi, attualmente, non abbiano nessuna altra scelta che attendere che Abbas se ne vada. Coltivo una tenue speranza che dopo Abbas forse la nostra situazione migliorerà. Spero che emerga un leader serio e carismatico che dia speranza non solo ai palestinesi ma anche agli israeliani.

Mahmoud Abbas, Marawan Baraghouti, Khaled Mashal, Yahya Sinwar. Questi sono i nomi di alcuni dei leader dell’opposizione palestinese a Israele. Questo è quello che il mercato politico offre in termini di opzioni ed eventuali interlocutori. Alla fine dei conti, non è Abu Mazen l’opzione più accettabile?

Credo che nessuno dei nomi che hai menzionato possa rappresentare un futuro reale per i palestinesi. Per me l’opzione principale oggi per una leadership alternativa per i palestinesi è rappresentata da Mohammed Dhalan, il quale recentemente ha fatto un accordo molto interessante con l’Egitto in rapporto a Gaza. Un accordo accettato dall’Egitto e da Hamas. Ciò significa che sarà Dahlan e non Hamas a controllare il passaggio di Rafah tra l’Egitto e Gaza e, se ciò avverrà, il passaggio di Rafah resterà probabilmente aperto ventiquattro ore al giorno. Ciò indebolirà Mahmoud Abbas nella West Bank, perché, da quello che appare oggi, il rapporto tra Abbas e Al Sisi non è buono al 100%. Abbas è molto alterato dal fatto che Al Sisi sta permettendo a Dahlan l’ingresso al Cairo e anche la possibilità di farvi una conferenza stampa. Quindi la mia speranza è che questo accordo verrà finalizzato dato che il governo egiziano vuole prendere due piccioni in una volta sola. Il primo piccione è quello di mantenere calma la situazione tra Hamas e Israele, mentre il secondo è di permettere ad Al Sisi di combattere contro il terrorismo senza l’intrusione di Hamas nel Sinai. Se questo accordo andrà in porto, e credo che ci andrà, la situazione a Gaza migliorerà.

Sei un critico esplicito del movimento BDS, il quale è piuttosto popolare in Europa ed è riuscito a fare una campagna efficace nei campus americani. Molti pensano che il BDS stia combattendo per i diritti dei palestinesi. E’ l’opposto di quello che pensi tu. Vorresti specificare?

Questa gente cerca di procurare benefici a se stessa invece che ai palestinesi, si sono trovati un posto di lavoro perenne. Il boicottaggio non porterà mai la pace. Il BDS non cerca nessuna pace tra i palestinesi e gli israeliani, quello che cercano di raggiungere è una missione importante: dichiarare che Israele non ha alcun diritto all’esistenza. E’ ciò a cui lavorano. Come conseguenza della chiusura di alcune fabbriche nella West Bank, migliaia di lavoratori palestinesi sono stati cacciati. Non ho visto alcun caso in cui il BDS abbia aiutato i lavoratori palestinesi che hanno perso il loro lavoro a causa del boicottaggio, a causa del dislocamento delle fabbriche da un luogo all’altro. Non ho visto il BDS cercare di provvedere per l’assicurazione medica di quei lavoratori che hanno perso il loro posto di lavoro. Sfortunatamente alcune ONG palestinesi supportano il BDS, perché l’Europa lo ha posto come condizione, “Se volete che vi finanziamo dovete obbedire alle nostre politiche e firmare in favore del BDS”. E’ esattamente quello che sta facendo Omar Barghouti oggi in Europa, il collettore di soldi per la sua organizzazione. La buona notizia è che la politica del BDS non ha alcun effetto su Israele. Se riesci a fare chiudere qualche piccola fabbrica, che avvenga, ma non sono queste realtà a costituire la principale fonte di guadagno per Israele. L’economia israeliana non si basa sulla Coca Cola o sul Soda Stream, Israele ha la tecnologia, l’equipaggiamento militare, le startup. Tre mesi fa è stato siglato un accordo tra Israele e la Giordania secondo il quale Israele esporterà il gas naturale in Giordania per 15 miliardi di dollari. Dov’è il BDS? Mostrami il BDS in Giordania. L’Egitto è in procinto di firmare un altro accordo commerciale con Israele. Dov’è il BDS in Egitto? Il BDS è molto fortunato, e per una ragione molto semplice, opera in Europa e non nei paesi arabi. Se operasse in un paese arabo i suoi membri verrebbero incarcerati a vita. Sanno esattamente quali sono i luoghi più confortevoli per loro, l’Europa e i campus negli Stati Uniti. Ho incontrato molta di questa gente negli Stati Uniti, hanno manifestato contro di me, hanno stampato dei volantini contro di me, hanno creato disturbo ogni tanto durante le mie conferenze. Questa gente non crede nella libertà di parola, odia la libertà di parola. Credono di essere gli unici ad avere il diritto di parlare ma che io, come palestinese che non condivide il loro punto di vista, non abbia diritto di parola. La mia domanda fondamentale al BDS è: chi vi autorizza a parlare per conto mio?
http://www.linformale.eu/wp-content/upl ... 8525_o.jpg
Durante la Prima Intifada eri un ricercatore veterano sul campo per conto di B’Tselem, la ONG indipendente con sede a Gerusalemme il cui scopo, come quello di un’altra ONG, Breaking the Silence, è di documentare le presunte violazioni commesse da Israele nei territori israeliani occupati. Quale è oggi la tua opinione su queste organizzazioni?

Oggi queste organizzazioni lavorano con una precisa agenda politica. Vogliono soddisfare i loro finanziatori piuttosto che i palestinesi e migliorare i loro diritti. Non vedo alcun fatto concreto che mi mostri che organizzazioni come B’Tselem e Breaking the Silence abbiano fatto qualcosa di positivo per cambiare la situazione corrente. B’Tselem ha iniziato ad operare nel 1989 e quale è stato il suo grande risultato? Zero, uno zero completo. La loro agenda principale è di natura politica con la copertura della salvaguardia dei diritti umani. Per lo più si tratta di politica europea. Prova a immaginare che da domani l’Europa smetta di finanziare queste organizzazioni come B’Tselem e Breaking the Silence o il BDS, cosa accadrebbe della gente che ci lavora? Resterebbero senza lavoro. La Germania è una delle maggiori finanziatrici di B’Tselem con mezzo milione di euro ogni anno, e mi riferisco solo a uno dei paesi finanziatori, per non menzionare quello che arriva dalla Francia, dalla Spagna, dal Regno Unito. Oggi B’Tselem assomiglia molto a una specie di Nazioni Unite israeliana. E’ finanziata dai governi non dalle fondazioni. Questa è la questione. Una delle fonti del conflitto arabo-israeliano sono i soldi europei. Se il flusso di denaro dall’Europa e dagli Stati Uniti cesserà sono molto ottimista sul fatto che la situazione qui cambierebbe in meglio.

Quali opzioni sostieni per una soluzione del conflitto, quella di uno stato, di due stati, gli emirati, l’incorporazione di una parte della West Bank nella Giordania e di Gaza in Egitto?

Ritornare allo status del ’67, il che significa che la West Bank o una sua parte verrebbe annessa alla Giordania e Gaza verrebbe annessa all’Egitto, è irrealistico. Nessuno di questi due paesi lo accetterebbe. Anche la confederazione tra lo stato palestinese e la Giordania è stata rigettata. L’Autorità Palestinese oggi è molto più interessata a una soluzione a tre stati per due popoli. Hamas sta lottando per il suo emirato islamico a Gaza, Abbas lotta per il suo impero nella West Bank e poi c’è lo stato di Israele. Questo è il modo in cui abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni da quando Hamas ha preso possesso della Striscia di Gaza nel 2007. La situazione è molto difficile e lo stato delle cose rende qualsiasi soluzione molto difficile. Noi palestinesi abbiamo bisogno di almeno vent’anni e forse allora un leader palestinese carismatico apparirà per la prossima generazione e assumerà nuove iniziative, ma con la leadership attuale non ci sarà nessuna iniziativa di pace.

Quando parliamo della società palestinese di che cosa stiamo parlando esattamente?

Ci riferiamo essenzialmente a delle tribù. Nel 1977 quando Sadat visitò Israele diede una intervista a Yedioth Ahronot, uno dei principali giornali israeliani. Una delle domande che gli venne fatta dall’intervistatore fu quanti stati arabi esistevano al mondo. Sadat rispose ‘Uno, la repubblica dell’Egitto’, allora il giornalista domandò, ‘E gli altri?’ e Sadat disse, ‘Gli altri sono tribù con delle bandiere’. Ogni movimento palestinese ha la propria bandiera, l’OLP, Fatah, Hamas, qualunque altro. Sì, Sadat aveva ragione, siamo tribù con delle bandiere.

Secondo te quali sono i principali problemi che affliggono la società palestinese?

I problemi principali sorgono dalla cultura e dall’educazione. Nella nostra cultura non abbiamo una educazione che insegni la pace e l’accettazione dell’altro, non abbiamo una società civile. Questi sono concetti che provengono dall’Europa, dagli Stati Uniti, in altre parole, dall’Occidente, ma non ci appartengono. Così, come ho detto, la cultura è il problema principale, e un altro problema, il quale è profondamente connesso alla cultura, è che la società palestinese si basa sul Corano invece che sulle realtà della vita quotidiana.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » dom ott 17, 2021 10:53 pm

Dossier Rai2: La pace sospesa
Commento di Deborah Fait

http://www.tg2.rai.it/dl/tg2/rubriche/P ... 618d8.html
A cura di Giovan Battista Brunori Caporedattore del TG2.
In onda il 10/10 alle ore 13.00
Durata 1 ora


https://www.informazionecorretta.com/ma ... 0&id=83259

Ecco il commento di Informazione Corretta:

Ottimo documentario del TG2 sulla situazione degli ultimi mesi e quella attuale in Israele. È la prima volta che si parla degli arabi israeliani e degli ebrei israeliani in modo equilibrato, ascoltando le voci di entrambi i gruppi. Di solito siamo abituati a vedere orrendi servizi sui "poveri palestinesi" sotto le bombe di Israele senza mai dire che le bombe cadono dopo che sono già caduti i razzi sulle nostre teste, oppure dobbiamo sentire geremiadi che parlano di apartheid perché Israele cerca di difendersi dal terrorismo. È stato fatto quindi un bel passo avanti rispetto al passato con i miei complimenti alla redazione del TG2 e speriamo continui così nel futuro. Le opinioni espresse sia dagli arabi che dagli ebrei intervistati dimostrano che non c'è odio tra i due gruppi ma le violenze accadute dopo l'annuncio degli sfratti di Sheik Jarra, https://www.informazionecorretta.com/ma ... 0&id=81663 dimostrano che nelle città miste, cioè dove la popolazione araba è intorno al 20, 30%, non tutto è rose e fiori e al primo problema politico serio alcuni gruppi di arabi israeliani non si fanno remora dall'attaccare i loro vicini ebrei.
In maggio, dopo la crisi di Sheik Jarra e i 4000 missili che da Gaza sono stati sparati su Israele è scoppiata la rivolta araba nelle maggiori città miste, gli ebrei non si sono fatti sopraffare, si sono difesi attaccando a loro volta. Se non lo avessero fatto era già pronto un altro pogrom come quelli che avevano distrutto le comunità ebraiche di molte città (Hebron, Yavne, Safed) nei tristemente famosi pogrom del 1929. Anche all'epoca ebrei e arabi erano amici, convivevano, condividevano, erano vicini di casa ma questo non ha impedito agli arabi di sgozzare quanti più ebrei incontravano, fino all'esilio forzato dei sopravvissuti da quelle città dove vivevano da centinaia d'anni. La convivenza, la comprensione, la collaborazione tra cittadini di uno stesso paese sono importanti e necessarie per l'evoluzione del paese stesso e per il bene di tutti. Ma è mia opinione che le minoranze, con tutti i diritti che devono assolutamente avere, come in effetti è in Israele, devono rimanere tali. La Legge dello Stato che definisce Israele "stato ebraico" è la nostra difesa, stato ebraico significa che l'anima di Israele è ebraica e tale deve restare anche per difendere la democrazia del paese. Se gli arabi israeliani diventassero la maggioranza della popolazione allora Israele non potrebbe più esistere. Basta guardare quanti ebrei vivono nei paesi arabi per darsi una risposta. Finirebbe la democrazia, finirebbero i diritti e Israele diventerebbe un altro Libano. E gli ebrei? Su Marte, forse.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » lun nov 08, 2021 2:22 pm

Come la propaganda sostituisce i fatti
8 novembre 2021

http://www.linformale.eu/come-la-propag ... e-i-fatti/

L’articolo “Uno Stato per due popoli in Israele/Palestina” apparso il 5 novembre su Huffingtonpost è un esempio da manuale di come la propaganda possa indegnamente sostituire i fatti storici.

In poche righe infarcite di inesattezze, mezze verità e vere e proprie menzogne, l’articolo accompagna il lettore verso una realtà dei fatti completamente alterata. Una più approfondita lettura dello scritto fa emergere un chiaro problema di analfabetismo funzionale relativo alla storia dello Stato di Israele e del conflitto voluto e portato avanti caparbiamente dagli arabi. Oltre a questo, c’è il classico repertorio dei termini di diritto internazionale utilizzati a caso e senza la ben che minima cognizione del loro significato, giusto per confezionare uno scritto propagandistico nella cornice del pseudo diritto per aumentarne un valore che non possiede.

Qui vedremo di analizzarne solo gli aspetti più macroscopici e palesemente falsi.

“… Nel giro di poche settimane potrebbero essere approvate nuove imponenti edificazioni ebraiche a Gerusalemme Est – che è un territorio occupato da Israele e abitato da centinaia di migliaia di palestinesi. Queste ultime, insieme a quelle varate pochi giorni fa, costituirebbero una delle più imponenti ondate di colonizzazione ebraica della città degli ultimi 30 anni...”

Qui è sufficiente sottolineare i termini di “imponenti edificazioni ebraiche a Gerusalemme Est” o “imponenti ondate di colonizzazione ebraica della città”.

Definire “imponenti edificazioni” il progetto di costruzione di un migliaio di appartamenti in una città di quasi un milione di abitanti è del tutto risibile ma rientra nel normale sviluppo urbanistico di una qualsiasi città con una grande crescita demografica (è la città più popolosa di Israele). Ma la cosa che colpisce di più è la terminologia usata: “edificazioni ebraiche” e “ondate di colonizzazione ebraica” che sembrano rientrare nella falsariga delle infamanti accuse passate di “giudaizzazione di Gerusalemme”. Infatti, basta scorrere le cifre della crescita demografica della capitale di Israele per scoprire che nel 1967 – quando la città fu liberata dall’illegale occupazione giordana – vi vivevano circa 55.000 arabi (il 20% della popolazione totale di 263.000 abitanti); oggi dopo le ondate di “imponenti edificazioni ebraiche” gli arabi residenti sono circa 320.000 su una popolazione complessiva di circa 900.000 abitanti, cioè rappresenta più del 35% della popolazione complessiva della città. Va detto per inciso che questa è la percentuale più alta, di presenza musulmana in città, da quando esistono statiche ufficiali: a partire dagli anni ’40 del 1800 in pieno dominio ottomano. Ma questo elemento di bieca propaganda non è che il primo di una lunga serie di altri che sono altrettanto facilmente smontabili.

Vediamo un altro esemplare estratto.

“…Il termine “colonizzazione”, ripetuto più volte in queste prime righe, potrebbe suonare desueto. In verità è l’unico termine appropriato per descrivere precisamente l’azione israeliana nei territori palestinesi. In sintonia con i processi coloniali dei secoli passati, a partire dal 1967 lo stato di Israele ha ininterrottamente espanso la propria presenza fisica e il proprio dominio su territori che, secondo il diritto internazionale, non gli appartengono…”

Questo periodo è un classico esempio di analfabetismo funzionale: cioè l’utilizzo dei termini senza conoscerne il reale significato. Dire che la “colonizzazione israeliana” è uguale a “quella europea dei secoli passati” è semplicemente una menzogna. Per prima cosa bisogna conoscere il significato di “colonizzazione”. Questo è il significato che ne fornisce il dizionario Treccani: “colonizzazione: Attività con cui un popolo si espande in territori che non gli appartengono, colonizza una regione o vi fonda una colonia…”. Già da questa definizione si può facilmente arguire che la costruzione di paesi, città e altri insediamenti umani più piccoli, operati da cittadini israeliani in tutto il territorio che è compreso all’interno dei confini del Mandato di Palestina del 1922 propriamente detto (cioè del territorio che va dal Giordano al Mediterraneo) non è ascrivibile ad una attività di colonizzazione ma è perfettamente legale in base alle disposizioni del trattato internazionale noto come Mandato di Palestina. Su questo punto torneremo più avanti Entrando più in merito sul concetto di “colonizzazione europea dei secoli passati” si può subito mettere in evidenza che quando i coloni europei si impossessavano di un territorio oltre mare lo facevano senza nessun rispetto delle leggi locali e dei diritti di proprietà acquisiti nel tempo dalle popolazioni locali. In pratica si faceva tabula rasa dei diritti antecedenti la conquista. Il caso del Mandato di Palestina/Israele è del tutto imparagonabile ad una operazione di colonizzazione. Per prima cosa perché ha avuto l’imprimatur internazionale e soprattutto perché tutti i diritti acquisti dagli abitanti prima della creazione del Mandato furono mantenuti – anzi tanti casi di possesso di edifici e terreni da parte di arabi che non ne avevano il titolo legale furono sanati dalle autorità mandatarie – la stessa cosa si può dire dei terreni e delle case occupate da palestinesi dopo la pulizia etnica della popolazione ebraica operata dai giordani: il caso di cronaca più recente è quello delle case del quartiere di Sheikh Jarrah dove famiglie di palestinesi occupano abusivamente delle abitazioni, e dopo quasi 50 anni di ricorsi ai tribunali, i legittimi proprietari non riescono neanche a fargli pagare l’affitto. Israele, infatti, ha deciso, in molte situazioni che vedono protagonisti abitanti arabi di Gerusalemme o di altre parti di Giudea e Samaria, di applicare leggi giordane o addirittura ottomane proprio per tutelare i diritti acquisiti dagli abitanti arabi a prescindere dalla piena legalità dei titoli di possesso di case o terreni.

In merito all’affermazione che “a partire dal 1967 lo stato di Israele ha ininterrottamente espanso la propria presenza fisica e il proprio dominio su territori” è bene precisare che la “presenza fisica” al di là degli inesistenti confini del ’67, è circoscritta a circa il 5% del territorio complessivo quindi non proprio una grande “espansione”. E’ opportuno altresì sottolineare che oltre il 90% dei cosiddetti “insediamenti” sono stati edificati su terreni demaniali e non come si vuole far credere su terreni espropriati a legittimi possessori arabi. Un restante 5% è sorto su terreni regolarmente acquistati da cittadini israeliani da privati arabi. I pochi casi di esproprio di terreni sono stati fatti per esigenze militari (cosa del resto prevista dal diritto internazionale se si vuole considerare tale presenza come “occupazione” in base agli articoli 53 e 55 della IV Convenzione dall’Aia del 1907).

Come accennato in precedenza, la legittimità della presenza israeliana nei territori di Giudea, Samaria e Gerusalemme è sancita dal diritto internazionale: il Mandato per la Palestina del 1922, che è stato riconosciuto valido dall’ONU (Articolo 80 dello Statuto), del quale Israele è il legittimo successore. Il fatto che alcune parti di territorio fossero state occupate illegalmente dalla Giordania con una guerra di aggressione non ne ha mai messo in discussione la rivendicazione di sovranità. Infatti, l’annessione giordana del 1950 è stata considerata illegale per un principio di diritto internazionale ben preciso quello dell’ ex iniura non oritur ius. E questo ci porta direttamente alla seconda menzogna riportata poco dopo:

“La Città Santa è passata dall’essere nel 1967 una città divisa – per metà controllata e abitata da israeliani (Gerusalemme Ovest) e per metà controllata e abitata da palestinesi (Gerusalemme Est)”

O quando si legge:

“il confine che separava Israele dai territori palestinesi prima della guerra del 1967 e della successiva occupazione israeliana della Cisgiordania”

Queste affermazioni palesemente destituite di fondamento vogliono far credere al lettore che prima del 1967 e della guerra dei Sei giorni, esistesse uno Stato palestinese (“La Città Santa per metà controllata e abitata da palestinesi” e “il confine che separava Israele dai territori palestinesi…”. La cosa è ovviamente falsa, visto che come, già sottolineato, questi territori furono annessi dalla Giordania nel 1950, per cui uno Stato palestinese non è mai esistito e questo per volontà degli arabi e non di Israele che aveva accettato la proposta dell’Assemblea Generale dell’ONU di dividere il territorio già assegnato al popolo ebraico nel 1922 con il Mandato per la Palestina. E per questa ragione mai e poi mai si può parlare di “territori palestinesi occupati”.

Il termine “occupazione” nel diritto internazionale è ben disciplinato e non lo si può usare a casaccio come fa l’autore dell’articolo. Esso è disciplinato in base ai termini della terza sezione della IV convenzione dell’Aia del 1907 e segue dei principi chiaramente definiti in base al diritto internazionale e non per poterne darne una interpretazione politica a piacimento. Nel caso dell’articolo in questione il termine “occupazione” ha la stesso valore di verità che ha il volere far credere che esistesse uno Stato palestinese conquistato da Israele, nessuna.

Il nadir dell’artico è però il seguente:

“Ma lo stato israeliano che oggi governa Israele/Palestina non è uno stato realmente democratico. Si tratta – per usare le parole di un noto studioso israeliano, Oren Yiftachel – di una etnocrazia, ossia di uno stato che garantisce e promuove la supremazia e il dominio di un gruppo (gli ebrei-israeliani) su un altro (gli arabo-palestinesi). Ciò avviene tanto all’interno dei confini legittimi di Israele (in cui gli arabo-israeliani sono cittadini di seconda classe da molti punti di vista), quando all’interno dei territori palestinesi occupati” .

Qui troviamo uno dei capisaldi della vulgata neomarxista figliata dai dipartimenti di studi sul colonialismo, ovvero che uno Stato il quale abbia una coesione nazionale forte, e così è avvenuto dal ‘600 in poi, dopo la pace di Westfalia, sia un concentrato di nequizia. Per cui, il fatto che Israele nasca esattamente come Stato degli ebrei, il che, evidentemente non implica che le minoranze che si trovano al suo interno siano oppresse o non godano di diritti analoghi a quelli della maggioranza, è da considerarsu di per sè un misfatto. Peccato che non si faccia alcuna menzione di come sarebbe messa in pratica la garantita e promossa “supremazia” degli ebrei-israeliani sugli arabo-israeliani. Lo scopriremo probabilmente nella prossima puntata della fiction promossa dall’ Huffingtonpost.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » sab dic 25, 2021 11:21 pm

AH, RABIN, LUI SI'
Yitzhak Rabin, si sa, è un santino della sinistra che ne ha fatto l'icona del progressista illuminato ucciso dal torvo estremista di destra ebreo Yigal Amir.

Niram Ferretti
25 dicembre 2021

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

In questa favoletta buona per i gonzi, Rabin è uomo di pace e virtù, impareggiabile statista lucido e coraggioso. Tuttavia, malgrado il disastro degli Accordi di Oslo, da lui appoggiati, si dimentica opportunamente,ciò che disse nel suo ultimo discorso pronunciato alla Knesset il 5 ottobre del 1995, un mese prima di essere ucciso e che può essere considerato il suo testamento:
"Nel quadro della soluzione permanente, ciò che aspiriamo a raggiungere è, in primo luogo, lo Stato di Israele come stato ebraico, di cui almeno l'80% dei cittadini saranno ebrei...Abbiamo optato per uno Stato ebraico perchè siamo convinti che uno stato binazionale con milioni di arabi palestinesi non sarebbe in grado di adempiere al ruolo ebraico dello Stato di Israele, che è lo stato degli ebrei".
Insomma, per Rabin in uno Stato ebraico, la maggioranza dei cittadini doveva essere ebrea. Un idea originalissima e sconcertante, che la Legge Base varata nell'estate del 2018 dalla Knesset, ha ratificato suscitando reazioni indignate per il suo presunto etnonazionalismo, il suo razzismo, ecc. Naturalmente, il problema vero è che questa legge venne varata dal governo di Benjamin Netanyahu.
Ma torniamo a Rabin e al suo ultimo discorso in parlamento prima di essere assassinato.
"I confini dello Stato di Israele, nel contesto della soluzione permanente, saranno oltre le linee che esistevano prima della Guerra dei Sei Giorni. Non torneremo alle linee del 4 giugno 1967...Ciò che prospettiamo e vogliamo nel contesto della soluzione permanente è, in primo luogo, una Gerusalemme unita, che includerà sia Ma'ale Adumim che Givat Ze'ev - come capitale di Israele, sotto la sovranità israeliana, pur preservando i diritti dei membri delle altre fedi, cristianesimo e islam, alla libertà di accesso e alla libertà di culto nei loro luoghi santi, secondo le usanze delle loro fedi".
Un attimo. Gerusalemme unita, sotto la sovranità israeliana? Ma, Donald Trump ha forse voluto rendere omaggio alla volontà di Rabin, dichiarando il 6 dicembre del 2017, Gerusalemme capitale dello Stato ebraico? Con una riserva, Rabin andò oltre Trump, parlò infatti di Gerusalemme unita, dunque nessuna concessione a una divisione della città con i palestinesi, mentre Trump, nella sua dichiarazione non fece cenno a ciò. Ma erano Trump e Netanyahu gli oltranzisti.
Proseguiamo.
"Il confine di sicurezza dello Stato di Israele sarà situato nella Valle del Giordano, nel senso più ampio del termine". Non contento, la colomba, il Ghandi ebreo, dichiarò che nella cornice della soluzione permanente dovessero essere costruiti "Blocchi di insediamenti in Giudea e Samaria, come quello di Gush Katif" (Gush Katif, che si trovava a Gaza, venne smobilitato nel 2005).
Però Rabin, ah Rabin! lui sì che era un uomo di pace, mica Netanyahu il quale grazie a Trump (va sempre ricordato) ha ottenuto ciò che premeva a Rabin, in attesa di sistemare la questione relativa alla Valle del Giordano.


A seguito di un mio commento sul profilo di Emanuele Fiano, ho avuto il raro “onore” di una risposta, che però non ho potuto apprezzare, sia per il tono, sia per l’accusa di scrivere falsità.
Emanuel Segre Amar
25 dicembre 2021

https://www.facebook.com/emanuel.segrea ... 5236175561

Ecco quindi anche per voi la mia spiegazione di quelle che, per Fiano, sarebbero delle falsità:

Emanuele Fiano
Rispondo al suo commento ma, prima di entrare nel merito della figura di Rabin, le faccio osservare che, anziché giudicare l’altrui “morale ebraica”, dovrebbe riflettere sulla sua: le sembra infatti accettabile che nel suo profilo si insulti chi esprime le proprie opinioni, seppur diverse dalla sua (e, chiarisco, non sono io ad essere stato insultato dai suoi sostenitori)?
Quanto all’accusarmi di dire falsità, vorrei ricordarle alcune verità che forse avrà cercato di dimenticare dopo la tragica fine di Rabin:
- durante la prima intifada il colonnello Yehuda Meir accusò in tribunale il proprio superiore Rabin di aver ordinato nel 1988 di spezzare le ossa ai rivoltosi, cosa che Rabin negò, dicendo di aver soltanto detto di colpirli.
- Rabin, se lei ricorda, stava al governo col “fascista” Shamir, e non credo che questo facesse molto piacere a lei, signor Fiano, e nemmeno ai suoi compagni dell’Hashomer Hatzair.
- Rabin venne tuttavia idolatrato dopo la firma di Oslo (che, come non può non ricordare, causò in breve tempo oltre 2000 morti in Israele).
- ma nel suo ultimo discorso alla Knesset pronunciato il 5 ottobre 1995 Rabin chiarì che Israele avrebbe dovuto avere almeno l’80% dei suoi cittadini di fede ebraica, perché Israele è lo Stato degli ebrei, che non si sarebbe ritornati alle linee di cessate il fuoco esistenti prima del 1967, che Gerusalemme sarebbe rimasta per sempre unita, comprese le “colonie” di Ma’ale Adumim e di Givat Ze’ev, che la valle del Giordano doveva restare israeliana, e che si dovessero costruire blocchi di insediamenti in Giudea e Samaria.
A queste verità, che non sono “falsità”, come lei mi accusa di scrivere, alludevo, signor Fiano, e, come vede, sono verità non propriamente in linea con quanto lei ed i suoi compagni dell’Hashomer Hatzair e del PD sostenete, ma, forse, essendo oramai un ebreo morto, oggi preferite esaltare la sua figura e criticare chi, oggi, propugna alla Knesset le stesse idee (tranne che colpire i rivoltosi, cosa assolutamente vietata dalla Corte Suprema israeliana).


Ebrei di sinistra, sinistre mostruosità umane assai razziste
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 197&t=2802
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » lun gen 10, 2022 10:34 pm

Passione e resistenza: Intervista a Ugo Volli
10 gennaio 2022

http://www.linformale.eu/passione-e-res ... ugo-volli/

Da lunghi anni Ugo Volli presta la sua voce appassionata e lucida alla lotta contro l’antisemitismo e alla difesa di Israele, due facce inseparabili della medesima medaglia. In occasione della prossima uscita, il 13 gennaio, di Mai più! Usi e abusi del giorno della memoria, Edizioni Sonda, il suo ultimo libro, un testo breve e necessario come tutti quelli che nascono dall’urgenza di dire cose vere e scomode, L’Informale lo ha intervistato.

Mai Più! Usi e abusi del Giorno della Memoria, a breve in libreria, si offre come uno strumento per aiutare a comprendere cosa significa a settantasette anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, ricordare la Shoah. Mi vorrei soffermare sul termine problematico del titolo, “abuso”, per chiederti quale è, secondo te, il rischio maggiore oggi dell’abuso nel celebrare questa ricorrenza.

Un osservatore sensibile non può non cogliere un’insoddisfazione abbastanza generale per il modo in cui in generale è celebrato oggi il Giorno della memoria; spesso si tratta di omaggi retorici e solo formali per le vittime di una violenza contro gli ebrei che non è mai del tutto cessata ed è ancora fra noi, in molti ambienti accettata come normale. Ma l’omaggio formale non è un abuso bensì piuttosto un’insufficienza di comprensione e partecipazione. Gli abusi veri e propri sono di coloro che mistificano il senso del ricordo, che per esempio cercano di staccare la Shoà dall’odio millenario verso gli ebrei coltivato dalla Chiesa, ma poi anche dagli intellettuali laici e illuministi. È un abuso anche cercare di mettere assieme tutte le stragi e i genocidi e perfino i disastri naturali, perché in questa maniera si confondono le cause specifiche e si nascondono le responsabilità storiche L’abuso peggiore è però di quelli che cercano di usare la Shoà contro gli ebrei e la loro autodeterminazione nazionale, per esempio parlando, senza alcuna base fattuale, di Israele “che si comporta come i nazisti” o di Gaza “come Auschwitz”.

In cosa consiste, al di là della formula ormai sclerotizzata del “non dimenticare”, l’importanza essenziale di ricordare questo evento, oltre alla necessità di fare memoria e dunque di inserirlo all’interno di una continuità storico culturale che è, principalmente legata alla storia del popolo ebraico, ma è anche parte inevitabile della storia dell’umanità?

La Shoà è stata un’immane catastrofe, un evento unico per il carattere programmatico e per così dire industriale dello sterminio di un popolo, avvenuto nel continente che si riteneva più evoluto, ai danni di cittadini spesso indistinguibili da tutti gli altri, caratterizzati solo dalla fede religiosa dalla particolarità culturale o dalla discendenza. Esso per questa ragione è davvero unico. Ma da un altro punto di vista è la continuazione di un odio che con vari pretesti dura da oltre due millenni e che ha investito tutta l’Europa e il mondo islamico. Il punto centrale è che esso non è affatto terminato con la Shoà, ma continua nei confronti del popolo ebraico, dei singoli ebrei e oggi si concentra soprattutto contro il loro stato, Israele. L’importanza del ricordo della Shoà non è solo far capire quali siano state le conseguenze di quest’odio in passato, ma prevenirlo o combatterlo oggi e per il futuro.

Il tuo impegno nella difesa di Israele è ben noto. Quanto è urgente per te nel momento in cui si fa ricordo del passato, unire militanza a favore di Israele e necessità di ricordare le vittime della Shoah?

Non ha senso, non è onesto ricordare gli ebrei uccisi perché ebrei ed essere solidali o indifferenti rispetto a chi cerca oggi di nuovo di uccidere altri ebrei perché ebrei. Un nuovo genocidio degli ebrei è il progetto più o meno esplicito dei palestinisti, dell’Iran, di quello che si usa chiamare “fronte del rifiuto”. Rispetto ad essi l’Unione Europea e in genere l’opinione politica e intellettuale che si vuole “progressista”, mostra comprensione e spesso vera e propria complicità. Ricordare correttamente la lezione della Shoà oggi richiede la difesa di Israele.

Come evidenzi nel testo, tra le varie giornate istituite nel mondo per fare ricordo della Shoah, quella israeliana si chiama Yom Hazikaron laShoahve–la Geuvurah, cioè «giorno del ricordo del genocidio ebraico e dell’eroismo”. Si abbina la resistenza ebraica del ghetto di Varsavia alle vittime della furia nazista. È un modo per respingere il paradigma invalso dell’ebreo soccombente e agnello da macello e sottolineare che gli ebrei sono anche combattenti e resistenti. Il loro Stato, dal 1948 ad oggi è lì a testimoniarlo. Non sarebbe ora, anche in Europa di fare questo parallelo? E perché non viene fatto?

Non c’è stato solo il ghetto di Varsavia, le rivolte contro le forze immensamente predominanti dei tedeschi vi sono state anche in molti altri ghetti e campi di quel tempo. Gli ebrei si sono uniti, dovunque hanno potuto, ai partigiani. Per fare un solo nome, anche Primo Levi è stato catturato in montagna con un gruppo di partigiani. C’è stata in tutt’Europa una partecipazione ebraica alla Resistenza molto superiore alla proporzione numerica. Nella mia famiglia mio nonno, di cui porto il nome, è stato attivo nella Resistenza a Roma. Tutto ciò è stato occultato soprattutto per due ragioni: perché il movimento comunista ha sottolineato la propria egemonia sulla Resistenza, cancellando nei limiti del possibile le altre forze politiche e le altre ragioni per combattere il nazifascismo, fra cui la dimensione nazionale e religiosa non solo degli ebrei. E perché la Chiesa, quando si è decisa a farlo, ha trovato il modo di comprendere la Shoà sotto la categoria cristologica della vittima innocente, dell’”agnus Dei”, dell’Olocausto come sacrificio, imitata in questo dall’opinione pubblica progressista. Questa impostazione presenta anche per loro il vantaggio di tagliare il legame che invece è essenziale fra Shoà, antisemitismo e antigiudaismo.

Nell’introduzione del libro scrivi, “La resistenza ebraica è l’obiettivo del progetto eliminazionista, il motivo percepito della militanza che anima il progetto genocida, sia esso fisico che solo culturale”. Questo a me pare il plesso della questione, ovvero il nucleo incandescente su cui si innesta l’antisemitismo, ovvero la perseveranza ebraica nel volere restare ebrei nonostante tutti i tentativi posti nel corso della storia nel volere dissolvere questa identità. Vuoi elaborare il punto?

In seguito a sconfitte militari o a disastri economici gli ebrei hanno vissuto in prevalenza dispersi fra altri popoli negli ultimi due millenni, ma anche prima durante gli esili in Egitto e in Babilonia. Ma non si sono assimilati, hanno conservato la loro identità religiosa e culturale, rifiutando di fondersi e confondersi con civiltà che si ritenevano più avanzate e moderne. Si tratta di un fenomeno unico nella storia per vastità e durata. Questa ostinazione a restare se stessi è ciò che io chiamo resistenza ebraica. Non tutti hanno resistito, naturalmente, ma sempre sono rimasti dei “resti” abbastanza numerosi da perpetuare l’ebraismo. Questo rifiuto di diventare “come si deve”, di accettare la propria sconfitta culturale assumendo le vesti del vincitore, di convertirsi dunque all’ellenismo, al cristianesimo, all’islam, al marxismo, alla globalizzazione postmoderna, provoca in chi ritiene di aver diritto ad assimilare tutti insicurezza e quindi rabbia e odio. Basta leggere le pagine sugli ebrei di grandi intellettuali liberi, alfieri della tolleranza come Voltaire e Kant, senza neppure arrivare ai nazionalisti intolleranti come Wagner o Fichte o ai fanatici religiosi come Lutero, per vedere all’opera questo meccanismo micidiale.

Porre in essere la questione dell’identità, di una ben precisa continuità storico-culturale, di una fedeltà ininterrotta a tradizioni, valori e storie, oggi è considerato un peccato grave, perché ritenuto divisivo, discriminatorio. È uno dei motivi per cui Israele è percepito anche da molti ebrei come uno Stato troppo legato alla sua specificità identitaria. Non siamo qui, ancora dentro quella potente corrente del “progetto eliminazionista”, in senso culturale, e cosa si può fare a tuo avviso se si può qualcosa per modificare questo stato di cose?

Il progetto di uniformare l’umanità è ricorrente e caratterizza tutte le visioni imperiali: in Cina come a Roma, nel cristianesimo come nell’islam, nell’illuminismo europeo come nel marxismo vi è l’idea che costumi, cultura, sistemi politici ed economici, soprattutto quel complesso che noi oggi chiamiamo ideologia, debba essere unificato. Ci sono due ragioni per questo, entrambe nobili ma sbagliate. La prima è la confusione fra uniformazione ed uguaglianza nel senso di giustizia: tutti debbono essere uguali perché nessuno può essere lasciato sotto o sopra gli altri. L’immagine recente più iconica di questa ragione è quella della rivoluzione culturale cinese, in cui tutti dovevano portare la stessa uniforme, da Mao all’ultimo contadino. La seconda idea è che chi non si comporta anche nei dettagli secondo la giusta ideologia, chi non usa le parole giuste, non prega non si accoppia e non mangia come “si deve” ignora il progresso e, peggio, lo nega; dunque divide e disarma il popolo nella sua battaglia per un futuro migliore. È dunque un traditore degli ideali, un nemico dell’umanità, va combattuto e cancellato. Anche oggi siamo in un periodo in cui questa illusione post-politica regna in Occidente, in forma più o meno acute, dal consenso progressista degli intellettuali e dei media alla militanza woke e alla cancel culture. Si tratta di fenomeni in buona parte illusori e regressivi, che fanno parte di un suicidio culturale e non di un imperialismo trionfante. Sono però anche più pericolosi per questo aspetto nichilista e vanno combattuti, riaffermando il valore delle differenze, la legittimità di essere parti e particolari, all’interno di un quadro di diritti valido per tutti ma non uniformista, che è il sistema democratico. L’ebraismo in questo può avere un ruolo importante, proprio per la sua tradizionale capacità di resistere alle uniformazioni.
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Re: Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine

Messaggioda Berto » gio gen 20, 2022 9:00 pm


L’invasione araba della Palestina nel VII secolo, di Michele Piccirillo


http://www.gliscritti.it/blog/entry/4490


Riprendiamo su nostro sito un brano da M. Piccirillo, La Palestina Cristiana. I-VII secolo, Bologna, EDB, 2008, pp. 195-201. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Alto Medioevo e Islam.

Il Centro culturale Gli scritti (22/4/2018)

LA FINE DELLA PROVINCIA DI PALESTINA

[…]

Nella lunga storia dell'impero romano su tutto il fronte orientale c'erano state scorrerie dei nomadi arabi provenienti dal deserto e dalla steppa alla ricerca di qualcosa da razziare spinti spesso dalla fame all'interno della terra abitata. Gli imperatori avevano cercato di arginare questo pericolo incombente sulle popolazioni sedentarie stringendo alleanze con le confederazioni tribali più vicine e creando una rete continua di forti lungo le strade dell'impero.

Malgrado ciò il pericolo non era scongiurato. Con la nascita e lo sviluppo del movimento monastico, gli eremiti del deserto furono spesso le prime vittime di queste incursioni nomadiche che qualche volta prendevano l'aspetto di vere e proprie invasioni di beduini ancora pagani che ricevevano i titoli più o meno ingiuriosi di saraceni, agareni, ismaeliti, amaleciti, ladroni madianiti.

Nel VI secolo l'imperatore Giustiniano aveva deciso di affidare la difesa del confine agli arabi cristiani della confederazione dei Bani Ghassan guidati dai loro capi, i filarchi, con il titolo di re. Prima al-Harith ibn Jabala (Areta in greco), poi il figlio al-Munthir ibn al-Harith (Alamundaros in greco) avevano efficacemente svolto il loro compito nelle province di Siria e di Arabia. In Palestina la pace era stata assicurata dal fratello di Areta, ed Abu Karib ibn Jabala. I santi monaci come Simeone in Siria ed Eutimio in Palestina avevano partecipato al mantenimento della pace e della sicurezza delle popolazioni sedentarie dell'interno operando in favore della conversione dei nomadi. I cronisti bizantini tenevano a ricordare insieme con i grandi fatti della vita dell'impero anche queste incursioni, fortunatamente sempre passeggere, che lasciavano sul loro cammino uccisioni e distruzioni oltre al senso di insicurezza.

Ma negli anni trenta del VII secolo avvenne qualcosa di nuovo che ebbe ripercussioni durevoli sulla vita delle popolazioni cristiane delle province di Siria, di Arabia, di Palestina e d'Egitto, perché l'impero, uscito vittorioso ma stremato dal lungo confronto con la Persia, non riuscì più a ricacciare dai suoi confini l'invasione che veniva direttamente dal cuore dell'Arabia da parte delle tribù galvanizzate dalla predicazione del profeta Maometto.

«Mentre la Chiesa in quel tempo era turbata in tal modo da imperatori e preti empi (riferendosi al dibattito teologico che si riaccese al tempo di Eraclio) - scrive Teofane sunteggiando tutto questo periodo -, Amalec si sollevò nel deserto, colpendo noi il popolo di Cristo. E lì successe la prima terribile caduta dell'esercito romano, mi riferisco al massacro di Gabithas (al-Jabiyah sul Golan), di Hiermouchas (il fiume Yarmuk), e Dathesmos (Dathin vicino a Gaza). Dopo ciò, ci fu la caduta della Palestina, di Cesarea e di Gerusalemme, poi il disastro egiziano, seguito dalla cattura delle isole tra i continenti e di tutto il territorio romano, con la perdita completa dell'esercito romano e della flotta a Phoinix, e la devastazione di tutte le popolazioni e terre cristiane, che non cessò finché il persecutore della Chiesa non fu miserabilmente sgozzato in Sicilia».

La prima spedizione che si mosse nel 629 (anno ottavo dell'Egira), vivente Maometto, contro il territorio orientale della Palaestina Tertia, composta di 3000 uomini al comando di Zayd ibn Haritha, fu fermata a Mota nei pressi della città di Kerak nella Moabitide dalla guarnigione romana con l'aiuto di contingenti di arabi federati.

L'anno seguente, anno nono dell'Egira chiamato l'«anno delle ambasciate» (sanat al-wufud), da Medina Maometto, alla testa di un nuovo esercito, riuscì a raggiungere l'oasi di Tabuk sul confine del territorio del wadi al-Qura controllato dagli arabi federati. Sul mar Rosso, Maometto riuscì a siglare un trattato di pace con i cristiani di Aila porto della Palestina. In cambio della jiziah (un denaro d'oro per ogni maschio), Maometto garantiva alla popolazione sicurezza e libertà di movimento. Condizioni che furono imposte anche alle altre città della regione, man mano che vennero conquistate e che confluiranno in quel corpus legislativo consuetudinario che dai giuristi musulmani posteriori è conosciuto come il Patto di Omar.

Nell'autunno del 633, un anno dopo la morte del profeta avvenuta l'8 giugno 632, il califfo Abu Bakr, scelto come successore (califfo) del profeta, comandò una nuova campagna contro il territorio dell'impero bizantino (Bilad al-Sham, Paesi del Nord per gli storici arabi musulmani). L'esercito era composto da tre distaccamenti ciascuno di 3000 uomini guidati uno da 'Amr ibn al-'As che prese la strada costiera verso Aila e Gaza; l'altro da Yazid ibn abi Sufyan che si diresse verso nord prendendo la Tabukiyah, cioè la strada che, passando per l'oasi di Tabuk, raggiungeva Ma'an e il territorio della Palestina Tertia, della provincia di Arabia e di Siria; e il terzo da Shurahbil ibn Hasanah che si diresse nella steppa per raggiungere Bostra e Damasco da oriente.

Il primo scontro con le truppe bizantine avvenne nel wadi Arabah, dove Yazid sconfìsse il patrizio Sergio dux di Palestina che, da Cesarea, con soli 5000 uomini, si era mosso per sbarrargli la strada. Davanti alla superiorità numerica, questi allora decise di ripiegare su Gaza. Lo scontro ci fu nei pressi del villaggio di Dathin. Alla battaglia, nella quale cadde anche il dux Sergio, seguì un massacro di 4000 contadini cristiani, Giudei e Samaritani intenzionati a difendere le loro terre dall'incursione dei nomadi venuti dal deserto che si spinsero fino a Cesarea, metropoli della provincia.

Venuto a conoscenza della gravità della situazione, l'imperatore Eraclio da Edessa (al-Ruha) inviò un esercito al comando di suo fratello Teodoro per respingere l'invasione. Come contromisura, il califfo Abu Bakr chiamò tutte le sue forze a raccolta. Khalid ibn al-Walid, che si trovava in Iraq, risalì con le sue truppe il wadi Sirhan e dal nord scese verso Damasco giungendo alle spalle dell'esercito bizantino. Dopo uno scontro combattuto il 24 aprile del 634 a Marj Rahit a circa 15 chilometri a est di Damasco, si riunì agli altri contingenti nei pressi della città di Adra'at (Der'ah). Probabilmente, le forze congiunte musulmane attaccarono Bostra, la capitale della provincia Arabia.

I bizantini decisero di contrattaccare nel territorio della Palestina muovendovi il grosso dell'esercito che pose il campo nella località di Jilliq. Anche l'esercito musulmano fu obbligato a spostarsi a ovest del fiume Giordano. La battaglia fu combattuta a 'Ajnadayn il 13 luglio del 634, probabilmente una località tra Beit Gibrin e Lidda, dove l'esercito imperiale subì la prima sconfitta.

Teodoro dal campo di battaglia salì a Gerusalemme prima di ripiegare con le truppe superstiti su Beisan, nella valle del Giordano, e riattraversare il fìume per riprendere posizione sul Golan, lasciando il territorio palestinese in mano ai musulmani. Nella valle del Giordano, Shurahbil con il suo contingente diede battaglia ai bizantini nei pressi della città di Fihl (Pella) che si arrese il 23 gennaio del 635.

Per l'insicurezza che regnava nella regione, il nuovo patriarca di Gerusalemme Sofronio, che era succeduto a Martirio dopo sei anni di sede vacante, non poté recarsi a Betlemme per celebrarvi la festa della Natività. In una omelia tenuta nella basilica della Nea Theotokos a Gerusalemme, fa riferimento alla situazione precaria che si viveva in quei giorni: «Che i magi e i divini pastori vadano a Betlemme, ricettacolo di Dio, che essi abbiano la stella per compagna e guida della strada [...]. Per noi, noi siamo impediti di dirigere i nostri passi verso questo luogo e di esservi presenti, perché malgrado noi e tuttavia per nostra colpa, noi siamo obbligati a restare qui non perché ritenuti da legami corporali, ma incatenati e inchiodati dal terrore dei Saraceni [...] (come l'angelo sull'ingresso del paradiso, Betlemme è guardata) da una spada feroce, barbara e piena di sangue».

Sul Golan si concentrarono anche tutte le forze musulmane affidate al comando supremo di Abu Obayda. Dopo un primo scontro a Jabiyah, la battaglia decisiva fu combattuta il 20 agosto 636 in una giornata infuocata sulla sponda del fiume Yarmuk. Fu una sconfitta totale per l'esercito bizantino. Anche Teodoro cadde combattendo. I superstiti si ritirarono verso il nord. Racconta Teofane: «In questo anno i Saraceni – un’enorme moltitudine di essi - (usciti dall’) Arabia fecero una spedizione nella regione di Damasco. Quando Baanes lo venne a sapere, inviò un messaggio al sakellarios imperiale, chiedendogli di venirgli in aiuto con il suo esercito, vedendo che gli Arabi erano molto numerosi. Perciò il sakellarios si unì a Baanes e, muovendosi da Emesa, essi si incontrarono con gli Arabi. Fu data battaglia e, nel primo giorno, che era un martedì, il 23 del mese di Loos (luglio), gli uomini del sakellarios furono sconfitti [...]. Poiché un vento del sud soffiava nella direzione dei Romani, essi non poterono fronteggiare il nemico a causa della polvere e furono sconfitti. Buttandosi nelle forre del fiume Yarmuk, tutti perirono, l'esercito di entrambi i generali di circa 40.000 uomini. Avendo ottenuto questa brillante vittoria, i Saraceni vennero a Damasco e la presero, come pure la regione della Fenicia, e si accamparono lì e fecero una spedizione in Egitto».

Dopo la battaglia dello Yarmuk, Shourahbil sottomise le città di Tiberiade, Acca, Tiro e Seforis. Nel 637 ci fu la capitolazione di Gaza, dove 60 soldati vennero fatti prigionieri. Nel luglio dello stesso anno ritornò in Palestina 'Amr ben el-'As che occupò Sebastia, Neapolis, Yabneh, Amwas, Lod e Beit Jibrin. Resisteva Gerusalemme sulla montagna di Giudea. Dopo la battaglia, e alla vigilia della presa di Gerusalemme, gli storici arabi ricordano la venuta del califfo Omar, che era succeduto ad Abu Bakr, al campo di Jabyah, dove incontrò Abu Ubaydah e furono fissati i principi amministrativi dei nuovi territori conquistati. Il territorio fu diviso in quattro jund (plurale ajnad, governatorati militari) che territorialmente sì estendevano dal deserto orientale al mare: Dimashq, Homs, Al-Urdunn e Filastin nel sud.

Il patriarca Sofronio nell'omelia della festa dell'Epifania aveva commentato: «Da dove viene che le incursioni dei barbari si moltiplicano e che le falangi saracene si sono levate contro di noi? Perché le chiese distrutte e la croce oltraggiata? [...]. Abominazione della desolazione a noi predetta dal profeta, i saraceni percorrono le contrade che sono loro interdette, saccheggiano le città, devastano i campi, danno alle fiamme i villaggi, mettono a soqquadro i santi monasteri, tengono testa alle armate romane, riportano dei trofei in guerra, aggiungono vittoria a vittoria, si uniscono in massa contro di noi [...] e si vantano di conquistare il mondo intero». E in una lettera al patriarca Sergio di Costantinopoli aveva scritto preoccupato: «Che Dio calmato dalle vostre preghiere, accordi a Eraclio e a suo figlio lunghi giorni, ch’egli li circondi di una corona di discendenti e li munisca della pace divina. Possa egli far cadere nelle loro mani gli scettri potenti di tutti i barbari e soprattutto quelli dei Saraceni dalla fronte audace che si sono ora sollevati all'improvviso contro di noi a causa dei nostri peccati, e che tutto devastano, seguendo un progetto crudele e feroce con una audacia empia e atea. Così noi supplichiamo più insistentemente la Sua Beatitudine di offrire al Cristo preghiere molto assidue perché accettandole con la benevolenza da parte vostra, egli reprima al più presto il loro orgoglio insensato e che essi facciano di questi vili nemici, come per il passato, lo sgabello dei vostri sovrani inviati da Dio».

L'esercito musulmano salì a Gerusalemme prendendo posizione intorno alle mura. Il patriarca Sofronio decise la resa della città: «Poi (dopo la divisione amministrativa del Yaum al-Jabyah) partirono tutti alla volta di Gerusalemme e la cinsero di assedio - scrive Eutichio. Sofronio patriarca di Gerusalemme si recò allora da Umar ibn al-Khattab. Umar ibn al-Khattab gli accordo la sua protezione e scrisse loro una lettera che così recitava: "Nel nome di Dio clemente e misericordioso. Da Umar ibn al-Khattab agli abitanti della città di Aelia. È concessa loro sicurtà sulle loro persone sui loro figli sui loro beni e sulle loro chiese perché queste ultime non vengano distrutte né siano ridotte a luoghi di abitazione" e lo giurò nel nome di Allah.

Poi Umar gli disse: "Mi sei debitore per la vita e per i beni che ti ho accordato. Orsù, dammi un luogo dove possa edificare una moschea". Il patriarca disse: "Do al principe dei credenti un luogo in cui egli possa innalzare un tempio che i re dei Rum non sono stati capaci di costruire. Questo luogo è la Roccia, sulla quale Dio parlò a Giacobbe e che Giacobbe chiamò ‘porta del cielo’; i figli di Israele la chiamarono Sancta Sanctorum ed è al centro della terra. Essa fu già tempio per i figli di Israele, i quali l’han sempre magnificata ed ogni volta che pregavano rivolgevano verso di essa i loro volti ovunque si trovassero. Questo luogo io ti darò, a condizione che tu mi scriva un sigillo con cui disponga che non sia costruita a Gerusalemme nessun’altra moschea all’infuori di questa" [...]. Il patriarca Sofronio prese per la mano Umar ibn al-Khattab e lo portò su quel luogo [...]. In seguito Umar si recò in visita a Betlemme».

Finiva un'era e ne iniziava un'altra. Il patriarca Eutichio, con questo racconto un po' fantastico per ribadire i diritti dei cristiani contro i soprusi commessi al suo tempo (IX-X secolo) dalla comunità musulmana nel Santo Sepolcro e nella basilica di Betlemme poste sotto protezione del califfo, sottolinea la nuova realtà nata dalla resa del 638. Gerusalemme restava cristiana, ma diventava uno dei centri dell'islam, presto identificata con il santuario più lontano (al-Aqsa) dove era giunto il profeta nel suo viaggio notturno (mi'raj), perciò luogo di pellegrinaggio dopo la Qa'aba della Mecca e la città di Medina, dove il profeta era sepolto. Il califfo Abd al-Malik, con la costruzione monumentale della Qubbat al-Sakhrah (Cupola della Roccia) e della moschea al-Aqsa, rendeva il Haram al-Sharif di al-Quds (il Recinto Nobile della Santa Città) il degno antagonista della basilica del Santo Sepolcro restaurata dall'igumeno Modesto dopo l'incendio del 614.

I MARTIRI DI GAZA.

In questo quadro quasi idillico di passaggio tra il periodo bizantino-cristiano e quello arabo islamico si inserisce il racconto della passione dei 60 soldati arabi cristiani di Gaza conservatoci in una cattiva traduzione latina da un originale in greco.

La città di Gaza al confine con l'Egitto fu assediata dall'esercito musulmano il ventisettesimo anno di Eraclio e costretta alla resa (637). Dalle condizioni di resa vennero esclusi i soldati della guarnigione bizantina che furono fatti prigionieri. Invitati a farsi musulmani per avere salva la vita, rifiutarono l'offerta di Ambrus/Amr, comandante dei vincitori, e vennero rinchiusi in prigione.

Dopo trenta giorni, incatenati, furono condotti alla città di Eleutheropolis/Bet Gibrin dove restarono due mesi e dove fecero ritorno dopo un altro viaggio in una località sconosciuta al seguito dell'esercito musulmano.

Dopo tre mesi vennero condotti a Gerusalemme dove il patriarca Sofronio fece loro visita incoraggiandoli a resistere imitando la fede dei quaranta martiri cappadoci. Dopo dieci mesi vennero invitati di nuovo ad abbracciare l'islam dal capo musulmano della città, Ammiras/Amir, su ordine di Ambrus. Al loro rifiuto ci fu una prima esecuzione: l'ufficiale Callinico con nove soldati vennero decapitati l'11 novembre alla presenza degli altri. I martiri furono sepolti con onore dal patriarca Sofronio «in un solo luogo dove fece costruire un oratorio dedicato a santo Stefano Protomartire».

I sopravvissuti, un mese dopo, vennero riportati a Eleutheropoli davanti ad Ambrus/Amr che ordinò di portare in tribunale le loro mogli e i loro figli, quando fece un nuovo tentativo di farli apostatare. Al loro rifiuto ordinò di eseguire la sentenza di morte affidandola ai musulmani presenti. I martiri furono decapitati il 17 dicembre, di giovedì, all'ora sesta, l'anno ventottesimo di Eraclio (638 d.C.).

«I corpi furono riscattati con tremila solidi (d'oro) dai cristiani del luogo che con grande onore seppellirono i martiri di Cristo in un sol luogo in Eleutheropoli. Sul luogo poi costruirono una chiesa nella quale si adora la santa vivificante e consustanziale Trinità».

Al racconto delle due esecuzioni fa seguito la lista dei nomi dei martiri di Cristo uccisi «imperante Eraclio anno vicesimo octavo, regnante Domino nostro Jesu Christo, qui cum Patre et Spiritu Sancto vivit et regnat in saecula saeculorum. Amen».



Il legame storico del popolo ebraico con Israele
David Elber
il 8 Gennaio 2022

http://www.linformale.eu/il-legame-stor ... n-israele/

Il concetto sotteso dall’espressione “storico legame” presente nel Mandato per la Palestina del 1922 è ancora oggi completamente sottostimato (se non del tutto sconosciuto) nella sua importanza, non solo dal grande pubblico, ma anche da parte di opinionisti ed “esperti” che vogliono parlare di Israele e della sua storia. Questo vale anche per molti studiosi delle varie comunità ebraiche.

È ancora radicata la credenza che Israele sia nato per una “decisione” dell’ONU, e precisamente in virtù della Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale del 1947, la quale, in realtà proponeva semplicemente la spartizione di un territorio che era già stato assegnato dal diritto internazionale al popolo ebraico tramite il Mandato per la Palestina. Questa proposta, è bene ribadirlo, fu rifiutata solo dalla parte araba della popolazione e di conseguenza rimase lettera morta.

Appare del tutto evidente che opinionisti ed esperti (ma anche studiosi) che conferiscono alla Risoluzione 181 il potere di “aver fatto nascere” Israele non abbiano mai letto né la Risoluzione in oggetto né tanto meno il testo del Mandato per la Palestina.

Sulla nascita di Israele e della Giordania come Stati nazionali successori del Mandato per la Palestina, L’Informale se ne è occupato in numerosi articoli, qui si possono citare ad esempio (http://www.linformale.eu/la-terra-di-is ... nazionale/ ) e (http://www.linformale.eu/cosi-nacque-la-transgiordania/ ).

Quale è il fondamento su cui poggia il Mandato per la Palestina, e di conseguenza lo Stato di Israele che ne è il diretto successore nella parte ad occidente del Giordano?

Sulla storica connessione tra il popolo ebraico e la Palestina (da sempre chiamata da esso “terra di Israele”). Di fatto, questa connessione storica rappresenta l’architrave su cui poggia tutta intera la struttura del Mandato, in quanto il diritto internazionale riconosce in modo esclusivo il legame storico del popolo ebraico con la Palestina e ravvisa in esso i motivi per ricostituire la sua patria nazionale proprio in quel paese e non altrove. Il preambolo del Mandato è inequivocabile:

Whereas recognition has thereby been given to the historical connection of the Jewish people with Palestine and to the grounds for reconstituting their national home in that country (Considerando che è stato così riconosciuto il legame storico del popolo ebraico con la Palestina e i motivi per ricostituire il suo domicilio nazionale in questo paese);

Sul concetto di storica connessione si possono fare moltissime considerazioni, qui di seguito ne formuleremo alcune essenziali per fare comprendere come lo Stato di Israele poggi le sue basi storico-giuridiche su questo legame e non su Risoluzioni che di legale non hanno assolutamente nulla.

La prima considerazione che si può fare è in merito alla scelta che il legislatore ha fatto optando per l’espressione storica connessione e non storico diritto. Quest’ultima espressione è molto più vincolante per il diritto internazionale ma poteva altresì essere interpretata in modo che i diritti della popolazione non ebraica già residente in Palestina potesse essere relegata in secondo piano; cosa che non avvenne durante gli anni del Mandato, nel pieno rispetto della relativa disposizione presente nel preambolo che recita:

being clearly understood that nothing should be done which might prejudice the civil and religious rights of existing non Jewish communities in Palestine (essendo chiaramente inteso che nulla deve essere fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina).

La stessa cosa si può affermare a proposito dello Stato di Israele che ha, fin dalla sua nascita, assicurato il rispetto di tutti i diritti civili, politici e religiosi alle comunità non ebraiche. La disposizione presente nella dichiarazione di indipendenza del 14 maggio 1948 (che ha volare di legge in quanto non esiste una Costituzione), recita:

WE APPEAL — in the very midst of the onslaught launched against us now for months — to the Arab inhabitants of the State of Israel to preserve peace and participate in the upbuilding of the State on the basis of full and equal citizenship and due representation in all its provisional and permanent institutions (CHIEDIAMO - nel bel mezzo dell'assalto lanciato contro di noi ormai da mesi - agli abitanti arabi dello Stato d'Israele di preservare la pace e di partecipare alla costruzione dello Stato sulla base di una cittadinanza piena e uguale e di una rappresentanza adeguata in tutte le sue istituzioni provvisorie e permanenti).

Va anche sottolineato che questo avvenne nonostante la guerra civile scatenata dalla locale popolazione araba contro quella ebraica e l’invasione di cinque eserciti arabi lanciata contro il nascente Stato ebraico.

In merito al concetto del legame con la terra di Israele e non con altri paesi, è necessario mettere in evidenza come durante i millenni della diaspora la cultura e le tradizioni ebraiche non abbiano mai dimenticato l’anelito verso il paese dell’origine nè rinunciato al sogno di ricostituire un giorno una patria ebraica nella terra degli avi. Nessun altro luogo poteva sostituire quella terra perché l’ebraismo trae origine nel legame con Eretz Israel e non altrove. Questo principio fu ribadito dal movimento politico sionista di Theodor Herzl quando gli fu offerto dal governo inglese la possibilità di costituire uno Stato nazionale prima in Uganda (in realtà si trattava di un’area dell’odierno Kenya) e successivamente nel Sinai.

In tale ottica va visto anche il tentativo sovietico di creare una “patria per i lavoratori ebrei”, in una regione remota della Siberia, per volere di Stalin. Questo progetto fu istituzionalizzato con la creazione della “Provincia autonoma degli ebrei” (in russo Evrejskaja avtonomnaja oblast). Questa provincia autonoma esiste tutt’oggi ma è praticamente priva di ebrei – oggi vi risiedono poco più di 2.000 ebrei su 200.000 abitanti complessivi – in quanto non esiste nessun loro legame con quella terra. Tutti questi progetti “alternativi” furono rigettati in quanto non avevano nulla a che fare con il popolo ebraico e la sua cultura fondante.

È importante rimarcare che la devozione verso la terra di Israele non ha mai implicato – e non implica tutt’oggi – la volontà di conquistare altri territori o assoggettare altri popoli come sostiene la propaganda anti-israeliana. Non vi è nessun disegno colonialista o imperialista nel risiedere e nell’amministrare un territorio che era stato assegnato al popolo ebraico già nel 1922 e che il popolo ebraico era disposto a spartire nel 1947 pur di evitare la guerra e potere accogliere centinaia di migliaia di profughi dai campi di sterminio detenuti in campi di prigionia principalmente inglesi.

Stabilita in modo inequivocabile la connessione tra la terra di Israele e il popolo ebraico, ne derivano due importanti principi che si trovano formalizzati negli Articoli 6 e 7 del Mandato: lo “stretto insediamento” sulla terra assegnata e il diritto alla cittadinanza palestinese per tutti gli ebrei che vivevano al di fuori del Mandato e che desideravano risiedervi. Si riportano qui i due articoli del Mandato:

ARTICLE 6. The Administration of Palestine, while ensuring that the rights and position of other sections of the population are not prejudiced, shall facilitate Jewish immigration under suitable conditions and shall encourage, in cooperation with the Jewish agency referred to in Article 4, close settlement by Jews on the land, including State lands and waste lands not required for public purposes.

ARTICLE 7. The Administration of Palestine shall be responsible for enacting a nationality law. There shall be included in this law provisions framed so as to facilitate the acquisition of Palestinian citizenship by Jews who take up their permanent residence in Palestine (ARTICOLO 7. L'amministrazione della Palestina è incaricata di emanare una legge sulla cittadinanza. Saranno incluse in questa legge disposizioni formulate in modo da facilitare l'acquisizione della cittadinanza palestinese da parte degli ebrei che prendono la loro residenza permanente in Palestina).

Queste disposizioni mandatarie sono riservate esclusivamente al popolo ebraico proprio in ragione della sua storica connessione con la terra di Israele da una lato e dall’altro sul fatto che venne riconosciuto che gran parte del popolo ebraico (inteso come nazionalità) risiedeva al di fuori del proprio territorio.

Da tutte queste disposizioni mandatarie discendono e acquisiscono piena legalità le leggi fondamentali dello Stato di Israele come la legge sulla terra del 1950; la legge su Gerusalemme capitale del 1980 e la legge sullo Stato nazionale del popolo ebraico del 2018. Altre importanti leggi, che discendono dalle disposizioni mandatarie, sono la legge del ritorno del 1950, la legge sulla protezione dei Luoghi Santi del 1967 e la legge sulla cittadinanza del 2003.

Nessuna di queste leggi discrimina la popolazione non ebraica – proprio come le disposizioni mandatarie prima di esse – sono pienamente rispettose del diritto internazionale stabilito con il Mandato per la Palestina.

In conclusione la nascita dello Stato di Israele va visto nell’ottica alla cui base si colloca come suo fondamento la storica connessione tra il popolo ebraico e la terra di Israele. Allo stesso modo va intesa la Risoluzione 181 per quel che era: semplicemente una proposta di spartizione della terra già assegnata dal diritto internazionale agli ebrei, di cui furono disposti a rinunciare a una porzione pur di trovare un accordo e permettere il rimpatrio dei profughi dai campi. Accordo che non ebbe luogo per indisponibilità araba. La medesima indisponibilità a trovare una intesa che perdura dal 1937 ad oggi.



Informazione corretta: Palestina, ecco l'origine del nome di uno Stato arabo che non è mai esistito
Vivi Israele
Fabrizio Tenerelli
21 febbraio 2018

http://viviisraele.it/2018/02/21/inform ... i-esistito /


Cari lettori, io cerco di parlare poco della questione arabo-israeliana, perchè la mia mission è soprattutto approfondire i temi legati a Israele e all’ebraismo. Tuttavia, talvolta è doveroso far chiarezza su alcuni aspetti che riguardano la cosiddetta “corretta informazione”. La disinformazione dilagante in materia (il suo esatto opposto), purtroppo contribuisce a dare una cattiva immagine di uno Stato che da vittima, passa come carnefice.

Ciò senza nulla togliere all’aspirazione ultima che è quella della pace in Medio Oriente e della convivenza di due popoli. Utopia? Una pace che, a mio modestissimo avviso, potrà giungere soltanto, quando il mondo arabo riconoscerà il diritto ad Israele di esistere.

Detto ciò, dopo un mio primo approfondimento in tema di informazione corretta (LEGGI QUI) vi propongo questa sorta di “upgrade”, che riguarda i concetti di “Palestina” e “palestinese”. Molto spesso chi non studia abbastanza, attacca con estrema arroganza il popolo ebraico, sulla base di falsi presupposti e di clamorosi equivoci.

In attesa di preparare un digest, tratto da “Arabi ed Ebrei”, del buon Bernard Lewis, ho pensato di scrivere queste poche righe, invitandovi a divulgarle, condividerle e via dicendo, affinchè si faccia chiarezza su una questione importante.

La prima cosa che va detta è che non c’è mai stata una nazione araba di nome “Palestina”. Questo, in realtà, è il nome che gli antichi romani diedero a Eretz Yisrael, con l’espresso proposito di umiliare gli ebrei, dopo la conquista. Gli inglesi chiamarono così la terra sulla quale avevano avuto il mandato, dopo lo scioglimento dell’Impero Ottomano.

Gli arabi, in disputa con gli ebrei, decisero allora di raccontare che quello era l’antico nome della loro terra, “malgrado non fossero capaci a pronunciarlo in modo corretto, ma trasformandolo in Falastin”, come disse nel 1995, Golda Meir, in una intervista a Sarah Honig del Jerusalem Post. Ma soprattutto va detto che non esiste una lingua palestinese, non una cultura e neppure una terra governata da palestinesi.

Quest’ultimi non sono altro che arabi non distinguibili dai giordani o dai siriani, dai libanesi o dagli iracheni. A ciò aggiungiamo che il mondo arabo controllo il 99,9 per cento del Medio Oriente. Israele, pensate, che rappresenta soltanto un decimo dell’uno per cento del totale. Ma ciò è troppo per gli arabi, che vogliono anche quella minuscola parte. Non importa, dunque, quanti territori un domani potrebbero concedere gli israeliani: in ogni modo non saranno mai abbastanza. Ma allora, da dove deriva questo termine? Palestina ha da sempre designato un’area geografica, che deriva da “Peleshet”, un nome che appare di frequente nella Torah, successivamente chiamata “Philistine”.

Il nome inizia ad essere usato nel tredicesimo secolo a.e.v. da una serie di migranti del mare, provenienti dal mar Egeo e dalle isole greche, i quali si insediarono nella costa sud della terra di Canaan. Laggiù istituirono cinque città-stato indipendenti, inclusa Gaza, in una stretta striscia di terra chiamata “Philistia”, i greci e i romani la chiamarono “Palastina”.

I palestinesi, dunque, non erano arabi e neppure semiti; non avevano alcun legame etnico o linguistico e neppure storico con l’Arabia e il termine Falastin non è altro che la pronuncia araba del termine “Palastina”. Dunque, chi si può considerare palestinese? Durante il mandato britannico era la popolazione ebraica ad essere considerata palestinese, inclusi coloro che hanno servito l’esercito britannico nella Seconda Guerra Mondiale. L’indirizzo britannico fu quello di limitare l’immigrazione di ebrei. Nel 1939, il Churchill White Paper (3 giugno 1922) mette fine all’ammissione di ebrei in Palestina. Uno “stop” che avviene nel periodo in cui c’era più disperatamente bisogno di emigrare in Palestina, quello dopo l’avvento del nazismo in Europa.

Nello stesso tempo in cui sbattevano la porta in faccia agli ebrei, gli inglesi permettevano (o facevano finta di niente) il massiccio ingresso clandestino nella Palestina occidentale di arabi provenienti da Siria, Egitto, Nordafrica e via dicendo. In questo modo, sembra che dal 1900 al 1947, gli arabi sulla sponda ovest del fiume Giordano si siano quasi triplicati. Il legame degli ebrei con la Palestina risale ai tempi biblici. Quello tra gli ebrei ed Hebron, ad esempio, corre indietro ai tempi di Abramo, ma nel 1929, gruppi di arabi in rivolta cacciano la comunità, uccidendo numerosi ebrei.

A supporto della tesi che non esiste uno stato arabo chiamato Palestina, c’è una letteratura fiume. Noi ricordiamo alcune dichiarazioni, tra le più significative, come quella del professore di storia araba, Philip Hitti (uno dei più illustri), secondo cui: “There is no such thing as Palestine in history, absolutely not”, dichiarò al Anglo-American Committee of Inquiry (1946). E poi. “It is common knowledge that Palestine in nothing but southern Syria”, affermò nel 1956: Ahmed Shukairy (United Nations Security Council).







L'inesistente storia della Palestina arabo maomettano palestinese
https://www.facebook.com/HalleluHeb/vid ... 0838079851



La Mappa della Palestina: Un Falso Creato dell'AIC
Victor Scanderbeg RomanoAnalista Storico-Politico
http://www.progettodreyfus.com/la-mappa ... a-un-falso

La Mappa della Palestina è un clamoroso falso creato ad hoc negli anni’60 da un ufficio di propaganda arabo. Spesso definita come “mappa dell’occupazione israeliana in palestina” e in tanti altri modi, questa mappa ha una storia molto lunga e completamente diversa da quella che viene raccontata su molti libri, dossier, siti e social media. Dedicando due minuti alla lettura di questo articolo, avrete a disposizione tutti gli elementi per mettere a tacere il prossimo amico o lontano conoscente che condividerà questo assurdo falso storico.



Per la Corte Penale Internazionale la Palestina non è uno Stato
Sarah G. Frankl
22 Febbraio, 2020

https://www.rightsreporter.org/per-la-c ... F6s0m1Wu7E

Lo scorso 20 dicembre 2019 il Procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, annunciava raggiante di avere gli elementi per aprire una indagine contro Israele per presunti crimini di guerra commessi in Giudea e Samaria e nella Striscia di Gaza.

L’indagine era stata sollecitata dalla Autorità Nazionale Palestinese credendo che bastasse l’adesione della Palestina allo Statuto di Roma quando in realtà la prima e inderogabile qualità necessaria per rivolgersi alla Corte Penale Internazionale non è l’adesione allo Statuto di Roma quanto piuttosto l’essere riconosciuto come uno Stato.

Sin da subito sia Israele che gli Stati Uniti avevano sollevato dubbi sulla effettiva possibilità da parte palestinese di avanzare richieste alla Corte Penale Internazionale in quanto non essendo la Palestina uno Stato riconosciuto veniva meno proprio quella qualità necessaria per rivolgersi alla CPI.

Ma il Procuratore Capo dell’Aia non volle sentire ragioni e affermando che «non vi erano ragioni sostanziali per ritenere che un’indagine non servirebbe gli interessi della giustizia» andò avanti con la prassi per dare il via ad una indagine nonostante Israele non abbia mai aderito allo Statuto di Roma e quindi non rientrasse nel raggio d’azione della Corte e, soprattutto, nonostante i palestinesi non avessero gli attributi necessari a chiedere una indagine.

Questa settimana è stata la stessa Corte Penale Internazionale a porre un macigno difficilmente removibile sulla richiesta palestinese.

Procedendo con l’iter avviato dal Procuratore Capo, molti Stati aderenti allo Statuto di Roma, tra i quali anche alcuni che hanno formalmente riconosciuto la Palestina, e moltissimi esperti di Diritto Internazionale hanno espresso parere negativo al proseguimento dell’indagine in quanto non essendo la Palestina uno Stato riconosciuto non può trasferire la giurisdizione criminale riguardante il suo territorio all’Aia.

Tra questi i più incisivi sono stati la Germania, l’Australia, l’Austria, il Brasile, la Repubblica Ceca, l’Ungheria e l’Uganda i quali hanno chiesto il cosiddetto “amicus curiae” ovvero “amico della Corte” che fornisce loro la possibilità di esprimere una opinione sugli atti della Corte.

Questo gruppo di Paesi, sostenuti poi anche da altri, hanno quindi espresso la loro posizione negativa rispetto al fatto che la Palestina potesse rivolgersi alla CPI in quanto non essendo uno Stato riconosciuto e quindi in base a quanto stabilito dallo Statuto di Roma non gli è permesso presentare alcunché alla Corte.

Il fatto curioso e a modo suo eclatante, è che nemmeno quegli Stati che hanno riconosciuto unilateralmente la Palestina hanno fatto opposizione alla giusta indicazione portata all’attenzione della Corte da questi sette Paesi.

Morale della favola, la Palestina non è uno Stato e non basta aderire a trattati internazionali per avere voce in capitolo.

Ora spetta a una cosiddetta camera pre-processuale decidere in merito. I tre giudici di questa camera – l’ungherese Péter Kovács d’Ungheria, il francese Marc Perrin de Brichambaut e Reine Adélaïde Sophie Alapini-Gansou del Benin – hanno invitato «la Palestina, Israele e le presunte vittime nella situazione in Palestina, a presentare osservazioni scritte» sulla questione entro il 16 marzo.

Ma appare evidente che l’Aia non ha giurisdizione sulle questioni riguardanti la cosiddetta “Palestina” e che quindi il tutto si concluderà con un nulla di fatto.

Di «grande vittoria per Israele» parla l’avvocato Daniel Reisner. «È significativo che anche stati come il Brasile e l’Ungheria, che hanno riconosciuto la Palestina nominalmente, sollevino seri dubbi sulla giurisdizione della corte» ha detto Reisner.

Proteste dalla Lega Araba e dalla Organizzazione per la Cooperazione Islamica

Immediate le proteste dalla Lega Araba e dalla Organizzazione per la Cooperazione Islamica che sembrerebbero voler chiedere lo status di “amicus curiae” in modo da contrastare quanto evidenziato questa settimana. Ammesso che lo possano fare, hanno tempo fino a venerdì prossimo per presentare le loro osservazioni.

In ogni caso Israele non presenterà nessun documento alla camera pre-processuale per non legittimare un procedimento chiaramente fuori dal contesto del Diritto Internazionale.





Onu, cosa ha detto un leader della sinistra israeliana a Ramallah
Anniversario delibera spartizione Onu, le parole di un leader della sinistra israeliana a Ramallah
Ugo Volli
4 Dicembre 2019

https://www.progettodreyfus.com/onu-isr ... CskS7rqgOk


Giovedì scorso, nel palazzo della Mukata a Ramallah, si è svolto un evento rievocativo della votazione dell’Assemblea Generale dell’Onu che ne 1947 stabilì la partizione del mandato britannico (già suddiviso nel ‘21 dalla Gran Bretagna la dare agli arabi “il loro stato”).

Come è noto Israele accettò la divisione, anche se era era tracciata in maniera da rendere difficilissima la sopravvivenza della parte ebraica, gli arabi la rifiutarono, il giorno stesso con la complicità britannica iniziarono attacchi terroristici agli insediamenti ebraici e ad aprile del ‘48, quando Israele proclamò finalmente il suo stato alla vigilia della partenza degli inglesi, le armate di tutti gli stati arabi circostanti tentarono di invadere e distruggere il neonato stato di Israele; ma con grandi sacrifici furono sconfitte dall’esercito israeliano nel ‘49 dovettero ritirarsi dietro una linea armistiziale ben più arretrata, la cosiddetta linea verde.

Da questa storia l’evento della Mukata, amministrato dal noto filoterrorista Jibril Rajoub, non ha tratto motivi di riflessione sulla necessità di un accordo, ma al contrario ha voluto rilanciare la narrativa palestinista sull’”occupazione israeliana”. L’aspetto più curioso di questa riunione è la presenza di circa 300 ebrei israeliani. Erano i soliti ultraortodossi antisionisti di Naturei Karta, che hanno usato l’occasione per dichiarare che l’”entità sionista” non rappresenterebbe il popolo ebraico, sarebbe odiata da “Allah” (questo è il nome con cui il loro leader Meir Hirsh ha scelto per l’occasione di chiamare la Divinità) e costituirebbe la violazione di tutte le leggi internazionali: un piccolo gruppo di estremisti che frequenta con piacere tutti gli antisemiti da Corbyn a Achamadinedjad, e la cui presenza non poteva meravigliare.

Dall’altro lato, però, c’era una folte rappresentanza di militanti di sinistra: alcuni cani sciolti, ma soprattutto Mosi Ratz l’ex leader e ancora influente dirigente del partito israeliano di sinistra Meretz, l’unico che abbia ufficialmente abiurato il sionismo, alla guida di una delegazione di alto livello.

Raz ha parlato avendo alle spalle una foto di Yasser Arafat e ha detto: “Siamo venuti qui per esprimere la nostra solidarietà con il popolo palestinese nei territori occupati, in esilio nella speranza che i ministri palestinesi entrino presto nel prossimo governo. Sostengo uno stato palestinese entro i confini del 67 con uno scambio di territori concordato a fianco dello Stato di Israele, la cui capitale dev’essere Gerusalemme est. Questo marzo andremo alle elezioni in cui Netanyahu sarà sconfitto e Gantz sarà eletto.”

È una dichiarazione molto significativa, non solo per il luogo e l’occasione, ma anche per il contenuto. Meretz, pur avendo pochi seggi, è un pezzo centrale della coalizione di Gantz che certamente non può farne a meno. Si è molto parlato del pericolo di un accordo fra il partito bianco-azzurro e gli arabi filoterroristi, ma non abbastanza dell’influenza delle estrema sinistra ebraica.

La dichiarazione di Raz spiega molto sulle ragioni reali del braccio di ferro che è in corso nella politica israeliana da un anno. Non è detto che Ganz sia d’accordo, ma è chiaro che il progetto di alcune forze che lo appoggiano e di cui egli avrà certamente bisogno consiste nel cancellare o minimizzare la natura ebraica dello stato di Israele, rovesciando le scelte di settant’anni fa.
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