Gli alpini in Etiopiahttps://it.wikipedia.org/wiki/Battaglio ... rk_Amba%22 Il Battaglione alpini "Uork Amba" fu un reparto del Regio Esercito, l'unico di alpini presente in Africa Orientale Italiana durante la seconda guerra mondiale.
La 5ª Divisione alpina "Pusteria" venne costituita il 31 dicembre 1935 in previsione della Guerra d'Etiopia, con in organico due reggimenti alpini, uno di artiglieria e due battaglioni complementi strutturati su tre compagnie. Quando la divisione venne impiegata nella seconda battaglia del Tembien, il VII Battaglione complementi del tenente colonnello Ferdinando Casa si distinse particolarmente, il 27 febbraio 1936, nella conquista del massiccio dell'Uork Amba ("Montagna d'oro"), tanto il 15 marzo 1936 il nuovo comandante, maggiore Tommaso Risi, lo intitolò ufficialmente Battaglione alpini "Uork Amba". Dopo la fine delle ostilità, mentre la divisione veniva in impegnata in operazioni di polizia coloniale, a Feltre il 22 ottobre 1936 veniva costituito un altro VII Battaglione complementi al comando del maggiore Romano Biasutti che, sbarcato il 15 gennaio 1937 a Massaua, giunse ad Addis Abeba il 21 gennaio successivo. Qui assorbì inquadrò gli alpini del "Uork Amba" che volontariamente avevano optato per prolungare la ferma, assumendo esso stesso la denominazione di Battaglione alpini "Uork Amba".
Con il rimpatrio della "Pusteria", il battaglione rimase l'unica unità alpina in Africa Orientale. Il reparto aveva in organico 27 ufficiali, 79 sottufficiali, 1 031 alpini su tre compagnie. Come reparto non indivisionato, da maggio a settembre venne impiegato indipendentemente in operazioni di ricognizione e scorta e nella realizzazione di infrastrutture difensive sul Monte Entoto e sul Monte Amara, che sarebbero servite come base per le operazioni sul Nilo Azzurro. Nell'estate del 1938 il battaglione rientrò ad Addis Abeba e da ottobre fino al 1939 venne impegnato in scontri con le bande sciftà.
Sterminate quei monaci. Firmato: il viceré Grazianidomenico agasso jr.
http://www.lastampa.it/2016/05/18/vatic ... agina.htmlÈ stata la più grande strage di religiosi cristiani mai avvenuta in Africa. Più grande ancora di quella compiuta in questo stesso luogo dagli Ottomani nel luglio del 1531. È costata la vita a circa duemila persone, la metà delle quali erano preti, monaci e diaconi, e a compierla non sono state milizie islamiste ma i soldati al comando del viceré italiano d’Etiopia Rodolfo Graziani. Quella avvenuta nel maggio 1937 nel monastero etiope di Debre Libanos è una voragine nella nostra memoria e una ferita ancora aperta nei rapporti tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa d’Etiopia.
A sollevare il velo di silenzio che ancora avvolge quei fatti è un docufilm di oltre un’ora che sarà trasmesso da Tv2000 sabato 21 maggio alle ore 21 e replicato domenica alle 18,30. Antonello Carvigiani, giornalista e autore del reportage, ha riportato alla luce documenti e testimonianze inedite scovando anche l’ultimo testimone ancora vivente. E grazie al contributo del più importante studioso della strage, lo storico inglese Ian Campbell che sta per pubblicare un libro sulla vicenda, ricostruisce nel dettaglio l’accaduto.
Il monastero di Debre Libanos, fondato nel XIII secolo dal santo Teclè Haimanòt, si trova nella regione degli Amara, a Nord-Ovest di Addis Abeba, ed è situato tra una rocca e una gola create dall’affluente del fiume Abbay. È ancora oggi il polmone spirituale del cristianesimo ortodosso etiope.
«Tutti sistemati»
L’antefatto della strage si verifica il 19 febbraio 1937, quando Rodolfo Graziani subisce un attentato durante una cerimonia pubblica nella capitale etiope. Alcuni esponenti del movimento dei patrioti ribelli, mescolati tra la gente, lanciano degli ordigni: muoiono sette persone e il viceré italiano rimane gravemente ferito. Sulla base delle prime informazioni che parlavano di un coinvolgimento dei monaci, senza prove e senza attendere l’esito delle indagini ufficiali, Graziani dà l’ordine al generale Pietro Maletti di massacrare tutto il clero di Debre Libanos.
Il documentario di Tv2000 ricorda che le truppe italiane circondano l’area il 18 maggio, lasciando transitare i fedeli diretti al monastero per la festa di san Michele che si sarebbe celebrata nei giorni successivi, ma impedendo allo stesso tempo di uscire a quanti volevano farlo. I pellegrini rimangono dunque intrappolati, vittime della stessa sorte che toccherà ai monaci. Poi viene sferrato l’attacco.
Secondo le ultime ricerche storiche, il numero dei morti sarebbe compreso tra 1.800 e 2.200: Ian Campbell ritiene che duemila sia la cifra che più si avvicina alla realtà, nonostante il rapporto ufficiale stilato dal viceré per Mussolini si limiti a citare 449 morti. «I numeri delle vittime riferiti da Graziani furono molto bassi - spiega Campbell -, sappiamo che il numero dei membri del clero, inclusi i monaci, non era inferiore al migliaio». In un telegramma del generale Maletti, spedito il giorno successivo alla strage, si legge: «Confermo che tutti indistintamente i personaggi segnalati sono stati definitivamente sistemati».
L’ultimo testimone
L’autore del docufilm ha potuto incontrare e intervistare l’ultimo testimone della strage, l’ultranovantenne Ato Zewede Geberu, all’epoca bambino. «Nel giorno della festa di san Michele non sono andato a Debre Libanos. Moltissimi fedeli dei villaggi qui intorno sono andati al monastero. Ma la mia famiglia quella volta decise di non andare. Una decisione che ci ha salvato la vita. Non ho visto il massacro. Ma l’ho sentito. Ho sentito i colpi della mitragliatrice. Abbiamo avuto paura, siamo rimasti nascosti nel nostro villaggio. Due-tre giorni dopo sono andato a vedere. C’erano ancora i cadaveri, centinaia di morti, forse 600, 700… E gli animali cominciavano a mangiarli. C’erano soldati italiani che si aggiravano ancora da quelle parti».
L’eccidio avviene in un luogo isolato. Lontano da testimoni. Molti corpi sono lanciati in una gola profonda circa 500 metri. La memoria della strage doveva essere dolorosa anche per chi l’aveva commessa eseguendo gli ordini ricevuti. Racconta il monaco Abba Hbte Gyorgis: «Alcuni anziani mi hanno raccontato che i militari italiani usavano ombrelli bianchi per proteggersi dal sole. Dopo la strage, alcuni soldati hanno portato al monastero il loro ombrello bianco per chiedere scusa. In segno di riconciliazione. Nel museo del monastero sono conservati tre di questi ombrelli».
Il docufilm di Tv2000, che si avvale della regia e della fotografia di Andrea Tramontano, si conclude con l’intervista ad abuna Matthias I, Patriarca della Chiesa ortodossa di Etiopia: «Non si è trattato di una cosa buona. Abbiamo perso tantissime persone, inclusi i monaci, il vescovo Abuna Petros. Adesso quasi tutto giustamente è stato dimenticato e perdonato. Posso dire che è bene così. Cosa si può fare adesso?». Forse è meglio ricordare.
Questo articolo è stato pubblicato nell’edizione odierna del quotidiano La Stampa
Etiopia 1937: il massacro dimenticatodi MICHELE STRAZZA
La furibonda rappresaglia attuata dalle truppe italiane dopo l'attentato al Vicerè Rodolfo Graziani costò la vita a migliaia di persone, passate per le armi su ordine diretto di Mussolini. Nei successivi cinque mesi la repressione toccò indistintamente semplici indigeni ed esponenti del clero copto, in un bagno di sangue che assunse la ferocia del pogrom.
http://win.storiain.net/arret/num146/artic5.aspTra i tanti massacri perpetrati dagli Italiani in Etiopia durante il fascismo, di particolare efferatezza sono quelli eseguiti nel 1937 dopo il fallito attentato al Vicerè Rodolfo Graziani ad Addis Abeba.
Il 19 febbraio, in occasione della nascita di Vittorio Emanuele, primogenito di Umberto II di Savoia, il Vicerè dà ordine di preparare una cerimonia pubblica nel giorno della festa della Purificazione della Vergine secondo il calendario copto.
Graziani, volendo imitare un'usanza etiope, decide di distribuire a ciascuno dei poveri di Addis Abeba due talleri d'argento, uno in più rispetto a quanto ha sempre distribuito Hailè Selassiè. Insieme agli invitati una folla di derelitti confluisce, così, nel cortile del palazzo imperiale ("ghebbì"). Improvvisamente due intellettuali eritrei (Abraham Debotch e Mogus Asghedom) lanciano contro il palco 7 o 8 bombe a mano uccidendo quattro italiani, tre indigeni e ferendo una cinquantina di presenti, tra cui lo stesso Graziani, colpito da 350 schegge.
Dopo i primi momenti di panico e indecisione vengono chiuse le uscite del vasto cortile per evitare la fuga degli attentatori. Subito si scatena il fuoco di fucileria dei militari italiani e degli ascari libici sulla folla che cerca di fuggire. Si spara per tre ore. Molte persone vengono uccise anche a colpi di scudiscio nei saloni del palazzo.
Fuori partono fulminee le rappresaglie, che proseguiranno per parecchi giorni.
Anche le chiese non vengono risparmiate. Così racconta quei momenti il giornalista Ciro Poggiali, ferito leggermente ad una gamba: «Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba, in mancanza di una organizzazione militare o poliziesca, hanno assunto il compito della vendetta condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. Vengon fatti arresti in massa; mandrie di negri sono spinti a tremendi colpi di curbascio come un gregge. In breve le strade intorno al tucul sono seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta.
Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara ed innocente. (...) 20 febbraio 1937, sabato. (...) Sono stato a visitare l'interno della chiesa di San Giorgio, devastata dal fuoco appiccato fuori tempo con fusti di benzina, per ordine e alla presenza del federale Cortese. (...) Alla sera cerco invano di ottenere dal colonnello Mazzi di telegrafare al giornale. Gli ordini di Roma sono tassativi: in Italia si deve ignorare. (...) Il colonnello Mazzi mi smentisce che nel santuario di San Giorgio siano state trovate mitragliatrici; è segno che l'incendio non era giustificato.
Per tutta la notte, con un accanimento anche più feroce che nella notte precedente, si continua l'opera di distruzione dei tucul. Spettacoli da tragedia delle immense fiammate notturne. La popolazione indigena è tutta sulla strada. Impressionante indifferenza dei capannelli di donne e di bambini intorno alla masserizie fumanti. Non un grido, non una lacrima, non una recriminazione. Gli uomini si tengono nascosti, perché rischiano di essere finiti a randellate dalle orde punitive. Episodi orripilanti di violenze inutili. Mi narrano che un suddito americano, per avere soccorso un ferito abissino, è stato bastonato dalle squadre dei randellatori».
Così descrive il massacro il prof. Harold J. Marcus: «Poco dopo l'incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un'ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote. Nel pomeriggio il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina. Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo. Gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire. Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte. Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte».
Il fallito attentato diventa, dunque, l'occasione per quello che Mussolini definisce, in un telegramma a Graziani del 20 febbraio, «inizio di quel radicale repulisti assolutamente (...) necessario nello Scioà». E il giorno dopo, sempre il Duce, telegrafa: «Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si faranno deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi».
Le violenze, come già detto, continuano per molti giorni, andando ben al di là dei tre giorni successivi nei quali si scatena la rappresaglia immediata. Circa 700 indigeni, rifugiatisi nell'ambasciata inglese, vengono fucilati appena usciti da questa.
Non si conosce il numero esatto delle vittime nei primi giorni successivi all'attentato. Fonti etiopi parlano di 30.000 vittime, fra 3.000 e 6.000 secondo la stampa straniera del tempo.
Gli attentatori, intanto, nonostante la taglia di 10.000 talleri messa sulle loro teste non si trovano. Su ordine di Graziani alla fine di febbraio vengono fucilate decine di notabili e ufficiali etiopi. Tutti muoiono con grande dignità e maledendo l'Italia.
Tra marzo e novembre ben 400 abissini, tra cui importanti personaggi pubblici, vengono imprigionati e deportati in Italia con cinque piroscafi. Intere famiglie con donne e bambini sono confinate nel campo di concentramento di Danane, sulla costa somala, dopo aver sostenuto un lungo viaggio di 15 giorni con morti per stenti e malattie (vaiolo e dissenteria).
Il primo convoglio per Danane parte da Addis Abeba il 22 marzo, arrivando a destinazione solo il 7 aprile. Comprende 545 uomini, 273 donne e 155 bambini, ma moltissimi muoiono sulle strade battute continuamente dalla pioggia. Seguiranno altri cinque convogli per un totale, secondo fonti italiane, di 1.800 unità. Per gli etiopi tale cifra va moltiplicata per quattro. Secondo la testimonianza di Micael Tesemma (riportata da Angelo Del Boca), il quale trascorre nel campo tre anni e mezzo, su 6.500 internati ben 3.175 perdono la vita per scarsa alimentazione, acqua inquinata e malattie. Lo stesso direttore sanitario del campo - riferisce il testimone - avrebbe accelerato la fine di alcuni internati con iniezioni di arsenico e stricnina.
Il 28 febbraio Graziani arriva addirittura a proporre di «radere al suolo» la parte vecchia della città di Addis Abeba «e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento» ma Mussolini si oppone per paura di più decisive reazioni internazionali, pur confermando l'ordine di passare per le armi tutti i sospetti, ordine poi esteso a tutti i governatori dell'Impero.
Le esecuzioni proseguono anche a marzo e Graziani ordina anche la fucilazione di tutti i cantastorie, gli indovini e gli stregoni di Addis Abeba e dintorni, in quanto responsabili di annunciare nei vari mercati la fine prossima del dominio italiano. L'iniziativa è approvata da Mussolini.
Dalle carte di Graziani risulta una costante corrispondenza con Lessona nonché l'elenco dettagliato delle fucilazioni eseguite ad Addis Abeba e nella regione circostante dal 27 marzo al 25 luglio 1937 per un totale di 1.877 esecuzioni. Il 7 aprile il Vicerè telegrafa al generale Maletti che il territorio deve «essere assolutamente domato e messo a ferro e fuoco», precisando: «Più Vostra Signoria distruggerà nello Scioà e più acquisterà benemerenze».
Da una statistica dell'attività dell'Arma dei carabinieri, firmata dal colonnello Hazon e datata 2 giugno, si ricava che i soli carabinieri hanno passato per le armi 2.509 indigeni.
Sempre Ciro Poggiali racconta l'episodio di un capitano italiano che, dopo aver fatto razzia di bestiame a danno di una famiglia indigena, di fronte alle proteste del capofamiglia «uccide tutta la famiglia compresi i bambini». E ancora, sui metodi dei carabinieri: «Sul piazzale del tribunale assisto al trasporto, dopo la condanna per furto, di un giovinetto moribondo per denutrizione. Un altro non si regge in piedi per le botte. I carabinieri che hanno in custodia i prevenuti da presentare alla così detta giustizia, hanno importato dall'Italia, moltiplicandoli per mille, i sistemi polizieschi più nefandi».
Anche ai reparti militari che operano sul territorio etiope viene dato ordine di passare per le armi gli Amhara trovati, quali presunti responsabili dell'attentato. Così il capitano degli alpini Sartori è incaricato di eliminare 200 Amhara catturati nei dintorni di Soddu. L'ufficiale li ammassa in una grande fossa scoperta tra i dirupi e ordina ai suoi ascari di sparare. Il ricordo della carneficina turberà il resto della vita del capitano che morirà smemorato, qualche anno dopo, in una prigione del Kenya.
Da maggio in poi avviene la distruzione della chiesa copta sulla base anche di un rapporto dell'avvocato militare Oliveri. La tesi è quella di un complotto cui non è estraneo l'aiuto degli inglesi e della comunità ecclesiale copta. Il battaglione eritreo, composto in gran parte da copti, viene sostituito con uno somalo mussulmano, più adatto alla repressione dei cristiani.
Le truppe (un battaglione di ascari mussulmani e la banda galla "Mohamed Sultan"), dunque, comandate dal generale Pietro Maletti, partono per la cieca rappresaglia. Lungo i 150 km che da Addis Abeba portano alla città-convento di Debrà Libanòs vengono incendiati 115.422 tucul, tre chiese e un convento, mentre ben 2.523 sono i "ribelli" giustiziati.
Dopo la distruzione del convento di Gulteniè Ghedem Micael, il 13 maggio, e la fucilazione dei monaci, il 18 maggio Debrà Libanòs viene accerchiata per punire i religiosi accusati di aver dato rifugio ai due attentatori di Graziani. Il 19 arriva un telegramma di Graziani che conferma la complicità dei monaci nell'attentato e ordina di passare «per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vicepriore». Il 20 mattina tutti i religiosi catturati vengono caricati sui camion. All'una le esecuzioni sono terminate per riprendere poi, il 26 maggio, quando 129 giovani diaconi, risparmiati sei giorni prima, vengono anch'essi trucidati.
Fino al 27 maggio vengono passati per le armi 449 tra monaci e diaconi. Secondo ricerche portate avanti da studiosi dell'Università di Nairobi e di Addis Abeba e comunicate ad Angelo Del Boca il numero delle vittime del massacro si aggirerebbe, invece, addirittura tra 1.423 e 2.033 uomini.
Le vittime, trasportate sul luogo dell'eccidio da una quarantina di camion, vengono incappucciate e fatte accucciare sul bordo di un crepaccio, uno a fianco all'altro. Le mitragliatrici sparano in continuazione per cinque ore. Interrotte solo per buttare i cadaveri nel crepaccio.
Coperto dall'approvazione di Mussolini, Graziani rivendicò «la completa responsabilità» di quella che definì con orgoglio la «tremenda lezione data al clero intero dell'Etiopia», soddisfatto di «aver avuto la forza d'animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall'abuna all'ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti».
Nel dopoguerra, nonostante le richieste etiopiche, nessun italiano venne mai punito per questi e per altri massacri, favorendo la rimozione dalla memoria collettiva dei crimini compiuti dagli italiani durante le guerre fasciste.
BIBLIOGRAFIA
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Lo sfascio dell'Impero. Gli italiani in Etiopia (1936-1941), di Matteo Dominioni - Editori Laterza, Bari-Roma 2008.
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Diario AOI. 15 giugno1936-4 ottobre 1937, di Ciro Poggiali - Longanesi, Milano 1971.
L'attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia nel 1936-37, di Giorgio Rochat - "Italia contemporanea", n. 118 (1975).
Le guerre italiane 1935-1943. Dall'impero d'Etiopia alla disfatta, di Giorgio Rochat - Giulio Einaudi Editore, Torino 2008.