Ogni riferimento all’italianità è estraneo alla cultura Alpinahttp://www.lindipendenza.com/ogni-rifer ... ura-alpinadi ALESSANDRO ZERBINATO
Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò addosso le sue settantadue bombarde. Incipit de “Il Sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern.
E’ innegabile che, nelle regioni del nord e nel Veneto, uno dei collanti dell’italianità sia costituito dagli alpini che con l’ANA danno vita a manifestazioni che negli ultimi anni si sono moltiplicate interessando moltissimi Comuni riempiendoli di tricolori.
Riguardo a tale sfoggio tricolorito, a questo gran pavese itinerante di un’italianità sempre meno sentita, un indipendentista veneto prova sentimenti contrastanti poiché se è vero che questo spirito patriottico provoca una certa nausea per l’evidente falso storico su cui è costruito è anche vero che proviamo grande rispetto per gli alpini.
http://www.dirittodivoto.org/dblog/arti ... newsletterLe truppe alpine furono usate senza criterio nella guerra fascista prima contro la Grecia e poi in Russia.
La folle guerra condotta da Mussolini a fianco dei tedeschi ma anche in competizione con loro vide l’Italia aggredire la Grecia senza aver concordato o avvertito il più potente alleato che si stava preparando all’operazione Barbarossa in Russia.
Il Comando italiano invece di sfruttare la superiorità navale ed aerea nel mediterraneo attaccando dal mare la debolissima Grecia pensò bene di aggredirla attraverso l’Albania dai passi montani al confine con la Macedonia ed impegnando le truppe alpine in combattimenti sanguinosi ove poche mitragliatrici nemiche, ben piazzate sui passi, inchiodarono le truppe italiane numericamente superiori ed inflissero loro pesantissime perdite.
Le truppe alpine che per intima costituzione non erano adatte a guerre di conquista, bensì a difendere le alpi dall’invasione, combatterono di malavoglia sui passi greci ben consapevoli dell’insensatezza di quell’aggressione o almeno avvertendone le contraddizioni.
L’affondamento del piroscafo Galilea a causa di un siluro inglese nel braccio di mare tra Albania ed Italia in cui morirono mille alpini della Julia, quasi tutti del battaglione Gemona, rese ancor più evidente la totale impreparazione del Comando italiano alla guerra.
Evidentemente non ancora sazio di sangue inutilmente sparso il Comando italiano accondiscese all’invio in Russia di un Corpo d’Armata Alpino in quel grande raggruppamento di truppe italiane che viene ricordato dalla storia come ARMIR.
Gli alpini con armamento leggero a malapena adatto alla difesa dei passi alpini vennero schierati in Russia sulla pianura attraversata dal fiume Don sulle cui sponde ghiacciate fecero da raccordo tra le truppe rumene a sud e quelle tedesche a nord.
Si acquartierarono con grande laboriosità costruendo rifugi sotterranei per l’inverno e, completamente sguarniti di carri da battaglia, si approntarono a resistere all’attacco russo con i fucili del 1896 usati anche nella prima guerra mondiale, il Carcano mod. 91, con le Breda pesanti a bassa cadenza di tiro, con le O.T.O. bombe a mano che nemmeno esplodevano, con cannoni da montagna di calibro 75 di nessuna efficacia contro i carri sovietici e con ai piedi scarponi non adatti alle temperature glaciali della steppa russa mentre le Valenke che tante vite avrebbero potuto salvare erano stipate intonse nei magazzini italiani.
In pieno inverno, a 40° sotto zero, la linea del fronte venne travolta dai russi nell’intersezione a sud con quella rumena, interi corpi d’armata corazzati russi penetrarono all’interno delle retrovie creando una sacca in cui costrinsero l’ARMIR e da cui gli alpini si sottrassero con disumane marce forzate riuscendo alla fine ad uscirne dopo eroici combattimenti lasciando sul campo i nove decimi dei propri componenti e solo in poco più di diecimila sui centomila iniziali fecero ritorno a casa.
Gli alpini in Russia si fecero onore proprio quando furono attaccati da forze preponderanti e dovettero difendere le posizioni dimostrando, cosa più unica che rara tra le forze armate italiane, grande coesione con gli ufficiali in comando che condividevano con la truppa gli stessi disagi e fornirono quasi sempre esempi di eroico attaccamento al dovere.
Ai tempi della guerra le truppe alpine comprendevano oltre agli abitanti di paesi e città ai piedi di alpi e prealpi anche i coriacei abruzzesi mentre nel dopoguerra via via la leva si allargò anche ad abitanti della pianura padana fino ai tempi nostri in cui, dopo che è stata tolta la leva obbligatoria, anche le truppe alpine sono composte prevalentemente da meridionali.
Per la maggior parte quindi dei componenti l’ANA in Veneto parliamo di pensionati che prestarono servizio di leva obbligatoria e che vivono di miti della giovinezza assai suggestivi ma in buona sostanza anacronistici e che attualmente si fanno forse inconsapevole stampella di uno Stato unitario che depreda i propri sudditi di denaro ed identità attraverso una tassazione sovietica ed un centralismo esasperato.
Tuttavia, andando a grattare un poco più a fondo a questa foia italianista di tanti onesti alpini, assieme ad un impegno per un civismo molto tipico delle regioni del nord Italia e ad una fiducia in uno Stato paternalista molto mal riposta, troviamo la passione per tutti quei valori traditi da tutto ciò che il tricolore nella realtà rappresenta.
Gli alpini sono stati nella storia gente seria e posata rispetto ad uno Stato poco serio, per niente credibile all’estero e conculcante le libertà all’interno, gli alpini furono espressione della tenacia e dell’attaccamento al dovere delle popolazioni montanare mentre l’ente statuale italiano ha dilapidato ogni risorsa come la cicala di Esopo, gli alpini aborrono ogni guerra di conquista mentre hanno dovuto servire uno Stato guerrafondaio e dissennato.
Insomma, paradossalmente, ogni virtù a cui fanno riferimento gli alpini è una virtù estranea all’italianità tanto come ogni riferimento all’italianità che rappresenta il tricolore è estraneo alla cultura alpina.
Me despiaxe asè ma mi co vedo łi alpini col tricołor tałian a provo n’oror e na desperasion sensa fine.http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... logo-a.jpgComenti===============================================================================================================================
Heinrich22 Aprile 2014 at 2:44 pm #
Gli Alpini sono stati fondati per opera del capitano di Stato Maggiore Giuseppe Domenico Perucchetti (Regio Decreto n. 1056 del 15 ottobre 1872) come truppe di montagna per la difesa dei confini montani del regno sabaudo ma, anche se il Corpo nasce più tardi, le truppe da montagna sabaude già fecero la loro prima comparsa nella Guerra di Crimea (1853-56), a memoria della quale i reparti Alpini valdostani usano ancora oggi quale slogan il motto evidenziato in grassetto di una canzone nata durante quella guerra in Crimea.
La creazione di queste truppe alpine fu sin da subito chiara espressione del nazionalismo imperialista italiano, nato nel XIX secolo, che poneva un’attenzione sempre maggiore sul preteso confine naturale del paese lungo l’arco alpino.
Già nel 1888 gli alpini, nati per difendere questo confine, furono invece inviati in Africa a conquistare delle colonie per l’Italia.
Alla guerra contro l’Impero Ottomano (1911-12), iniziata dall’Italia per annettersi le province turche della Tripolitania e della Cirenaica (Libia), nonché le isole egee del Dodecaneso, parteciparono dieci battaglioni di Alpini.
Reparti di Alpini furono anche coinvolti nella dura repressione del movimento per la liberazione della Libia, durata fino al 1933.
La popolazione libica fu decimata nei campi di concentramento, con marce di morte nel deserto e con le armi chimiche usate anche contro i civili.
Questa guerra crudele viene ricordata dal monumento all’Alpino di Meran e, al cimitero di Brixen, dalla scritta sotto il busto del brissinese Heinrich Sader, morto in circostanze misteriose in Libia.
“Caduto in terra d’Africa per la più grande Italia” recita questa scritta,, cioè per le guerre imperialiste italiane.
Secondo la propaganda, ripetuta ancora oggi, l’Italia avrebbe portato cultura e civiltà; in realtà ha portato solo morte e distruzione. “I veri barbari siamo noi”, scrisse a suo tempo il giornale socialista italiano “Avanti”.
Nella guerra d’aggressione contro l’Austria, a partire dal 1915, gli Alpini sostennero gran parte dei combattimenti, soprattutto sul fronte del Tirolo, e dopo la guerra la propaganda fascista creò il mito dell’Alpino come soldato montanaro che avrebbe conquistato per l’Italia quella parte delle Alpi che sarebbe stata destinata all’Italia dalla Natura o addirittura da Dio stesso.
Almeno fino all’applicazione del trattato di pace del febbraio 1921, non avrebbero potuto cambiare una virgola nei territori occupati del Tirolo e del Litorale, in ossequio a quanto stabilito nella Convenzione dell’Aia del 1907; avrebbero dovuto tenere in vigore le leggi austriache, non avrebbero potuto internare i civili, epurare, licenziare, perseguitare, arrestare, espellere gli “austriacanti” o i reduci dell’esercito austro-ungarico, cambiare i cognomi “non italiani” alla popolazione, cambiare i nomi delle strade, dei paesi e delle provincie, chiudere scuole, distruggere monumenti o innalzarne di nuovi; non avrebbero potuto espropriare, nazionalizzare, imporre loro plenipotenziari quali amministratori di società commerciali, navali ed industriali private. Avrebbero dovuto solo comportarsi come dei diligenti “custodi”.
Inoltre, la “Brigata Sassari” sedò a cannonate una rivolta cittadina nel quartiere operaio di San Giacomo, a Trieste nel settembre del 1920, che occupavano dal 1918 ed era stata scelta per merito dell’incomunicabilità tra i soldati sardi e la popolazione triestina a causa della mutua incomprensibilità linguistica.
Un ruolo molto importante, gli Alpini lo hanno svolto nella guerra d’annientamento contro l’impero etiopico (1935-1936).
Proprio per questa guerra fu costituita il 31 dicembre del 1935 la divisione alpina “Pusteria”, che infanga ancora oggi il buon nome della valle.
In questa guerra l’Italia fece uso delle armi chimiche in quantità mai viste anche contro i civili, le truppe italiane non fecero quasi mai prigionieri ed anche gli Alpini parteciparono alle uccisioni di massa della nobiltà etiope e dei religiosi cristiani copti: soltanto nella città sacra di Debre Libanos furono uccisi circa 2000 tra preti e monaci.
La Divisione Pusteria partecipò poi alle battaglie cruente di Tigrai, Amba Aradan, Amba Alagi e Tembien ed ai massacri di Mai Ceu e al lago Ashangi, che continuarono anche dopo la fine ufficiale della guerra.
Nell’aprile del 1937, la Divisione Pusteria ritornò in Italia e sfilò per le vie di Roma.
Nel 1938 Mussolini ordinò di persona la costruzione di un monumento a Bruneck per glorificare le “gesta eroiche” della Divisione Pusteria.
Davanti a questo monumento degli orrori gli Alpini depongono ancora oggi le loro corone.
La Divisione Pusteria intervenne anche quando l’Italia, il 10 giugno del 1940, dichiarò guerra alla Francia, e successivamente partecipò all’aggressione contro la Grecia, aggiungendosi alla “Julia”, presente in quella campagna sin dall’inizio.
L’occupazione italiana della Grecia costò la vita a circa 100.000 tra civili e soldati greci.
La Divisione Pusteria fu trasferita nell’estate del 1941 in Montenegro ed in Croazia, per la lotta contro i partigiani.
Il comportamento degli Alpini in questi paesi balcanici non fu meno crudele che in Etiopia; interi paesi furono bruciati, persone sospette torturate ed uccise. Alcuni episodi sono noti, come ad esempio quello degli alpini dei battaglioni Ivrea e Aosta, «che rastrellarono undici villaggi in Montenegro e fucilarono venti contadini».
Ma né più né meno di altri reparti italiani, a meno che non emerga una statistica comparativa.
Un capitolo a parte merita la partecipazione degli Alpini alla guerra contro l’Unione Sovietica.
L’Italia dichiarò la guerra all’Unione Sovietica il 23 giugno del 1941, un giorno dopo la Germania nazista; Mussolini inviò tre divisioni di fanteria, il cosiddetto Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), che nel 1942 aumentò a dieci, che formarono la nuova VIII Armata, detta “Armata Italiana in Russia” (ARMIR).
Di queste dieci divisioni, tre erano divisioni alpine: Cuneense, Julia e Tridentina.
I comportamenti dei soldati italiani nei confronti della popolazione dei territori occupati non si differenziarono da quelli dei soldati nazisti: secondo le direttive degli alti comandi, ogni resistenza attiva o passiva della popolazione civile era da reprimere con metodi durissimi. Le cosiddette spie erano da giustiziare sul posto.
Il generale Gabriele Nasci, comandante del corpo alpino, aveva dato l’ordine di rispondere con “rappresaglie di severità esemplare“ ad ogni atto ostile; le truppe dovevano prendere ostaggi ed ucciderli, nel caso fosse necessario, mentre i commissari politici sovietici, i “ribelli” e gli “elementi indesiderati”, come ebrei e zingari, venivano consegnati il più presto possibile ai tedeschi, conoscendo ed approvando quello che era loro destinato.
Diversi documenti provano come questo sia veramente successo; così come ampiamente documentata è la completa distruzione dei paesi di Snamenka e di Gorjanowski, in Ucraina, dove l’intera popolazione di questi villaggi fu trucidata dalle truppe italiane.
L’Unione Sovietica ha condannato per crimini di guerra diversi ufficiali italiani catturati, ed ha chiesto l’estradizione di diversi altri criminali di guerra all’Italia, che fu negata.
Perfino i comandi militari tedeschi (sic!) criticavano a volte il comportamento troppo crudele degli italiani, mentre il comandante dell’ARMIR, Generale Giovanni Messe, scriveva viceversa subito dopo la guerra che il corpo di spedizione italiano si sarebbe distinto da tutti gli altri eserciti “per la sua cultura superiore, il suo senso di giustizia e la sua comprensione umana”.
Nelle lettere dei soldati italiani, raccolte nel centro di censura a Mantova, si legge invece di soprusi e di assassinii di civili.
Si può quindi affermare che gli alpini non hanno mai combattuto una guerra difensiva nella loro storia, ma hanno effettuato solo invasioni di terre altrui, come tutte le altre forze armate italiane.
Dei 57.000 Alpini che parteciparono all’aggressione contro l’Unione Sovietica, soltanto 11.000 ritornarono, e dopo la guerra è uscita in Italia una ricca letteratura giustificativa, che ha creato il nuovo mito dell’Alpino come vittima e non come colpevole in questa campagna di Russia; in realtà gli alpini sarebbero state vittime di un governo irresponsabile.
Il loro sacrificio fu di certo strumentalizzato dal fascismo, e questo viene fatto ancora oggi per giustificare comportamenti non giustificabili e creare nuovi miti.
Uno di questi nuovi miti è quello di Nikolajewka: secondo questa leggenda, la Divisione Tridentina avrebbe sfondato, il 26 gennaio 1943, dopo aspri ed eroici combattimenti, l’accerchiamento sovietico, aprendo la strada verso ovest a tanti soldati sia italiani che tedeschi.
In realtà l’accerchiamento fu rotto dal 24° corpo corazzato tedesco.
Più di questo falso storico-militare preoccupa però il fatto che gli alpini ricordano ancora oggi una presunta vittoria in una guerra criminale, identificandosi in questo modo ancora oggi con questa guerra.
Dopo la guerra, il governo Degasperi, in seguito all’amnistia decretata dal Ministro alla Giustizia Togliatti, ha fatto di tutto per impedire procedimenti contro militari italiani per crimini commessi in Libia, Etiopia, nei paesi balcanici o nell’Unione Sovietica.
Si cercava di creare l’impressione che le forze armate italiane, pur essendo stata l’Italia alleata della Germania nazista, si sarebbero sempre comportate in modo impeccabile.
Nella logica della guerra fredda, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, per tenere l’Italia nel blocco occidentale, non ebbero alcun interesse nel perseguire crimini di guerra italiani commessi in paesi ormai comunisti, per cui questi rimasero impuniti.
Questo perdono generale per i crimini del regime fascista è stato fondamentale nel minare la fiducia dei paesi dell’Est nella memoria collettiva europea.
Oggi tutto questo non si vuole ricordare; si cerca invece di costruire nuove leggende; così oggi tutti i media italiani si attengono strettamente alla retorica fascista secondo la quale l’Alpino sarebbe un montanaro semplice, tenace, buono, coraggioso e patriottico, ed è proprio allo scopo di diffondere questo falso spirito che fu fondata nel 1919 l’Associazione Nazionale Alpini, subito allineatasi al regime fascista e dal quale non si è mai distanziata in modo inequivocabile.
Gli stessi reduci sono convinti di rappresentare degli alti valori e di essere “buoni”, mentre sono in realtà a loro volta vittime inconsapevoli del nazionalismo italiano.
Nonostante tutto ciò che commisero con quella divisa, gli Alpini hanno sempre dato grande importanza alla continuità della loro tradizione e non hanno mai preso le distanze dal loro passato; ad esempio la continua deposizione di fiori e corone ai monumenti di Meran e Bruneck dimostra che gli Alpini non si vergognano per niente dei crimini commessi in Libia ed in Etiopia, così come in Sudtirolo gli Alpini si continuarono a comportare da forze occupatrici: nel 1958 riuscirono a far sospendere per sei mesi il sindaco di Brixen, Valerius Dejaco, perché si era rifiutato di partecipare il 4 novembre alla festa degli Alpini per la “vittoria” contro la popolazione che il sindaco stesso rappresentava.
Non solo gli alpini, ma tutte le forze armate italiane, non hanno mai preso le distanze dal loro passato colonialista e criminale; la differenza tra gli alpini e gli altri corpi è che i primi hanno “penetrato” la società civile con le loro associazioni di reduci, veicolo del nazionalismo italiano e del suo militarismo, mentre gli altri corpi militari italiani non sfilano in centomila nelle città occupate delle “terre redente” e non ottengono le dirette televisive.
Gli Alpini sono comunque uno strumento di propaganda di “italianità” quasi quanto le “Frecce Tricolori” ma, purtroppo, non più di quanto lo siano le scuole pubbliche ed i media.