Ła barbarie tałiana de ła prima goera mondial

Ła barbarie tałiana de ła prima goera mondial

Messaggioda Berto » mar feb 04, 2014 9:53 am

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Ła barbarie de ła prima goera mondial

Messaggioda Berto » mar feb 04, 2014 12:07 pm

Il processo delle terre liberate
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... 9RYkE/edit
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Małavita a Trevixo
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... p5Ymc/edit
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Li tałiani dapò ver desfà ła tera veneta e copà çentenara de miłara de veneti łi ciamava el Veneto
Veneto bubbone d’Italia

https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... pTaUE/edit
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Re: Ła barbarie de ła prima goera mondial

Messaggioda Berto » dom feb 16, 2014 8:15 am

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Re: Ła barbarie de ła prima goera mondial

Messaggioda Berto » lun mar 10, 2014 8:31 am

Tasse, lavoro, sanità, pensioni: tra Svizzera e Italia c’è l’abisso

http://www.lindipendenza.com/tasse-lavo ... ce-labisso

di GUGLIELMO PIOMBINI

Se è vero, come sostiene la vulgata prevalente, che la crisi attuale è stata provocata dalla finanza senza regole e dagli eccessi del capitalismo, allora i paesi europei economicamente più liberi dovrebbero trovarsi nelle condizioni peggiori. Possiamo verificare questa tesi confrontando la situazione economica di due paesi confinanti abitati da popolazioni parzialmente simili, l’Italia ela Svizzera. Quest’ultima, grazie alla sua forma confederale, ha sempre avuto un settore pubblico più leggero di quello dell’Italia, ma negli ultimi anni le differenze tra i due paesi si sono enormemente allargate.

Nella classifica mondiale della libertà economica 2014, curata annualmente dall’Heritage Foundation e dal Wall Street Journal, il sistema economico svizzero risulta il quarto più libero del mondo (dopo Hong Kong, Singapore e l’Australia), mentre quello italiano si trova all’86esimo posto. Ancora meglio fa la Svizzera nell’indice mondiale della competitività, piazzandosi al primo posto su 148 economie mondiali, mentre l’Italia si trova al 49esimo posto.

La Svizzera è particolarmente competitiva proprio in quel settore finanziario demonizzato dagli avversari del libero mercato. Non esiste infatti un paese in cui il settore finanziario rappresenti una quota così importante del PIL come la Svizzera (il 13 % contro il 4 % della Francia o della Germania). Nonostante questa maggiore esposizione ai rischi, la piazza finanziaria elvetica si è dimostrata solida, e durante la crisi ha beneficiato di aiuti statali in misura nettamente minore rispetto a quanto avvenuto in altri Paesi (fonte).

La recessione che ha colpito l’Europa sembra infatti aver risparmiato la Svizzera, che pur trovandosi incastonata nel cuore del vecchio continente, ha continuato a creare business ad un ritmo costante. Secondo uno studio della rete globale di revisione RSM, tra il 2007 e il 2011 il numero di aziende in Svizzera è aumentato da 499.000 a 648.000, uno dei tassi più alti nell’area Ocse: +149.000 unità, pari ad un tasso di crescita medio annuo del 6,8%. Nel 2013 il pil della Svizzera è aumentato del 2%, mentre l’Italia ha chiuso il 2013 con un calo del pil dell’1,9 % e un calo della produzione industriale del 3,8%.

Per quanto riguarda gli altri indicatori, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale in Svizzera nel 2013 il reddito procapite a parità di potere d’acquisto è stato di 46.475 dollari contro i 30.094 dollari dell’Italia; l’inflazione su base annua è stata dello 0,2 % contro l’l,3 % dell’Italia; l’incidenza della spesa pubblica sul pil è circa il 33 % contro il 50 % dell’Italia; il debito pubblico è in Svizzera il 36,4 % del Pil contro il 132,6 % dell’Italia; il tasso di disoccupazione in Svizzera nel 2013 è stato del 3,3 %, mentre in Italia nel gennaio 2014 ha fatto un nuovo balzo al 12,9 %; particolarmente eclatante è il dato sulla disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni, che in Svizzera è solo del 3,6 % contro il 40 % dell’Italia! (Il Mondo, 9/9/2013).

Come ha fattola Svizzera a realizzare queste straordinarie performance economiche? La verità è che la Confederazione Elvetica rappresenta un vero e proprio paradiso liberale, se paragonata all’Italia.


La tassazione

Benvenuti nel Paese con le tasse più basse d’Europa, titolava un recente articolo uscito su Il Sole-24 Ore. La leggerezza del fisco elvetico è favorita dalla concorrenza fiscale che si fanno i 26 cantoni per attrarre imprese e investimenti. Il fisco svizzero agisce infatti su tre livelli: federale, cantonale e comunale. L’imposta federale incide sul 7,83 % degli utili, quella cantonale varia dal 4,4 al 19 %, quella comunale dal 4 al 16 %. In media quindi sulle aziende l’erario esercita una pressione che varia tra il 16 e il 25 %, sulle persone fisiche dal 5 al 20 %.

L’IVA è la più bassa d’Europa, all’8 % (contro il 22 % dell’Italia!), ma sui beni di consumo è al 2,5 %, mentre l’istruzione e le cure mediche sono esenti. Non ci sono imposte sulle successioni per i discendenti diretti. Alcuni Cantoni garantiscono delle esenzioni fiscali per certi periodi o per certe attività, ed è possibile stringere accordi con l’erario sulle tasse da pagare per gli anni successivi.

Una notevole differenza con l’Italia riguarda il famigerato cuneo fiscale. Il datore di lavoro italiano farà un salto sulla sedia quando scoprirà quanto pagano in tasse i colleghi della Svizzera sugli stipendi dei dipendenti. «Per 1000 euro di salario il datore di lavoro in Italia deve spenderne altri 1300, qui appena 200», spiega Gianluca Marano, quarantenne di Milano che nel 2008 ha aperto a Chiasso una società di consulenza per gli imprenditori e i privati che vogliono aprire un’attività oltre il confine. Nel complesso il carico fiscale complessivo delle aziende (total tax rate) in Svizzera raggiunge al massimo il 28,7% del reddito d’impresa, contro l’incredibile 67,7 % dell’Italia, secondo i dati della Banca Mondiale.

Non c’è quindi da meravigliarsi se negli ultimi anni centinaia di imprese italiane si sono trasferite nel Canton Ticino. All’ingresso di Chiasso c’è un cartello che dice “Benvenuta impresa nella città di Chiasso”. Uno dei tanti imprenditori italiani in trasferta ha commentato: «Quando arriva un imprenditore in Svizzera lo accolgono le autorità. In Italia gli mandano la guardia di finanza». Nel complesso sono 558.000 gli italiani che risiedono in Svizzera, su una popolazione di 8 milioni di abitanti, ai quali si devono aggiungere i quasi 60.000 frontalieri che passano quotidianamente il confine per lavoro, aumentati del 75 % dal 2002 a oggi.

Di recente l’Ufficio Federale di Statistica ha svolto un’approfondita indagine sugli stipendi svizzeri. I risultati confermano che in Svizzera si guadagna mediamente il doppio o il triplo rispetto ai paesi confinanti: nel biennio 2007-2008 il salario medio era infatti equivalente a circa 3000 euro mensili al netto delle imposte. È vero che il costo della vita è mediamente più alto che negli altri paesi europei, tuttavia, rileva l’indagine, «in nessun caso è doppio o triplo. Per fare un raffronto affidabile con gli altri paesi basti pensare che i costi tra assicurazioni e imposte varie rappresentano in media circa il 30%-35% del budget totale di una persona, il resto serve per vivere».


Le pensioni

Probabilmente non esiste al mondo un sistema pensionistico più ingiusto, rovinoso e finanziariamente insostenibile di quello italiano. L’Inps si fonda su un meccanismo diabolico che taglieggia i lavoratori privati per concedere spropositati privilegi pensionistici alle categorie statali privilegiate. La moria delle aziende è spesso dovuta all’impossibilità di far fronte a un carico previdenziale completamente slegato dagli utili prodotti, e la maggior parte delle cartelle esattoriali sono costituite da contributi previdenziali non pagati. In Italia l’esosa contribuzione previdenziale obbligatoria a carico degli artigiani e dei commercianti, per non parlare di quella degli iscritti alla gestione separata (prevista al 33% per il 2014), è la principale causa di dissuasione dall’iniziare una nuova attività economica.

Il problema è che i lavoratori privati perdono la proprietà dei risparmi che versano all’Inps, mentre la classe politico-burocratica riesce facilmente a dirottarli verso le proprie tasche per mezzo di leggi, leggine e sentenze amministrative. In sostanza, coloro che pagano i contributi e sostengono l’intero sistema, i lavoratori autonomi e dipendenti del settore privato, ricevono una pensione che rappresenta una frazione minuscola di quanto hanno effettivamente versato; d’altro canto, alcune categorie statali che non hanno mai versato contributi o che li versano solo in maniera figurativa, come i politici, i magistrati, i militari e i dipendenti pubblici in genere, si sono garantiti elevati trattamenti previdenziali, vitalizi, pensioni d’oro, doppie, triple e baby.

Questi sperperi e queste palesi ingiustizie non possono esistere nel sistema pensionistico svizzero, che si fonda su tre pilastri. Il primo è quello della pensione pubblica, che richiede contributi obbligatori piuttosto limitati (il 4,2 % del reddito per il datore di lavoro e per il dipendente) e garantisce solo il minimo fabbisogno vitale al momento della pensione. La pensione pubblica è infatti quasi uguale per tutti: la minima è di 1105 franchi al mese (poco più di 900 euro al cambio attuale), la massima è il doppio (2210 franchi, cioè 1813 euro). Sul piano dell’equità non ci sono quindi paragoni con la distanza siderale che in Italia separa il trattamento pensionistico di un pensionato sociale (500 euro al mese) da quello di un membro della casta politico-burocratica (fino a 90.000 euro al mese, talvolta a partire dalla mezza età).

Il secondo pilastro pensionistico svizzero è quello della previdenza professionale, che a differenza della pensione pubblica non è a ripartizione ma a capitalizzazione (si riceve cioè l’investimento accumulato). I contributi per la previdenza professionale sono in pratica obbligatori solo per i lavoratori dipendenti che percepiscono un salario superiore a 20.000 franchi e inferiore a 82.000. Per tutte le altre categorie, come quelle dei lavoratori autonomi, questo tipo di assicurazione pensionistica è solo facoltativo. Infine, il terzo pilastro pensionistico svizzero è quello della pensione integrativa privata, che serve a colmare eventuali lacune; è facoltativa ma viene favorita con delle agevolazioni fiscali.

Nel 2014 il sistema pensionistico svizzero è stato giudicato dal Global Retirement Index, un indice che valuta 150 sistemi pensionistici internazionali, il migliore del mondo quanto a capacità di garantire la sicurezza finanziaria agli ex lavoratori. Fare ulteriori confronti con il sistema pensionistico pubblico italiano, ricolmo di disparità e privilegi, e destinato alla bancarotta a causa dei suoi colossali deficit, sarebbe blasfemo.


La sanità

Se il sistema sanitario italiano è ben conosciuto per i suoi enormi sperperi, la corruzione, gli ospedali fatiscenti e le liste d’attesa interminabili, niente di tutto questo si verifica nel sistema sanitario svizzero, che è interamente privato e gestito dalle assicurazioni. Il paziente paga mensilmente un’assicurazione obbligatoria di circa 300 euro al mese, cifra nient’affatto elevata se si tiene conto che in Svizzera gli stipendi sono mediamente molto più alti che in Italia e le tasse molto più basse. Nessuno resta fuori perché una società di “compensazione sociale” provvede a coprire le spese di chi non può sostenerle. Il sistema svizzero è attentissimo ad evitare gli sprechi, e per questa ragione è molto raro, ad esempio, che un medico prescriva antibiotici.

L’assicurazione sanitaria privata comunque garantisce tutto, compreso il ricovero in ospedale in stanza singola o con al massimo tre persone. Anche se si stenta a crederlo, quando un paziente entra in ospedale per operarsi viene accolto da un infermiere che, catalogo alla mano, gli chiede di scegliere quale stampa preferisce avere sul muro (Picasso, Van Gogh, ecc.). Poi viene organizzato una specie di seminario personale dove i medici spiegano al paziente tutti i dettagli dell’intervento. Il paziente può scegliere di essere operato dal primario oppure dall’assistente. Nel primo caso paga un surplus, ma se quel giorno non c’è e opera un assistente (comunque sempre un medico d’eccellenza) il supplemento viene immediatamente restituito con tante scuse. Infine, l’assicurazione sanitaria spesso riduce il premio da pagare a coloro che svolgono attività salutari, come frequentare la palestra, la piscina o la sauna. Chi è più in forma, quindi, paga meno per la sanità! (Sanità? Vietato Sprecare, Il Fatto Quotidiano Zurigo, 12 aprile 2012)


Il mercato del lavoro

In Svizzera il mercato del lavoro, anche sotto il profilo dei licenziamenti, è molto liberale. Solo in caso di malattia, incidente o gravidanza i lavoratori godono di una protezione contro il licenziamento temporalmente limitata. Di regola i lavoratori e i datori di lavoro sono liberi di licenziarsi o licenziare nei termini concordati nel contratto di lavoro, o in mancanza semplicemente rispettando i termini di disdetta previsti dal codice delle obbligazioni. Questa grande flessibilità in entrata, ricorda Paolo Malberti sul Corriere della Sera, fa sì che «ogni giorno come apri il giornale sei subissato di annunci. Se non ti trovi più bene dove stai, fai qualche colloquio e cambi ditta. E con l’occasione puoi anche toglierti la soddisfazione di mandare il capetto che te li ha rotti a quel paese».

In ogni caso per chi rimane senza lavoro non ci sono sussidi pubblici o casse integrazioni come in Italia, che favoriscono senza ragione i dipendenti delle grandi aziende rispetto a tutti gli altri. C’è invece un’assicurazione privata che copre il rischio di rimanere disoccupati, usufruibile da chi ha lavorato come dipendente in Svizzera per più di 12 mesi negli ultimi due anni. Questa assicurazione contro la disoccupazione viene pagata con dei contributi pari al 2 % dello stipendio, per metà a carico del datore di lavoro e per metà a carico del lavoratore.

Il bello del mercato del lavoro svizzero è che le regole del settore privato non sono molto diverse da quelle che valgono per il settore pubblico, comprese quelle sui licenziamenti: ecco forse spiegata la ragione principale della sorprendente efficienza della burocrazia svizzera. Tanto per fare un paio di esempi, ci vogliono solo due settimane per la registrazione al Registro del Commercio e un solo giorno per immatricolare un veicolo. In Svizzera, infatti, non esiste come in Italia il posto fisso a vita per il dipendente pubblico che, in spregio a ogni sbandierato principio costituzionale di uguaglianza, crea una società divisa in due caste: i cittadini di serie A (gli statali ipertutelati qualunque cosa accada) e i cittadini di serie B (i lavoratori privati assoggettati alle incertezze dell’economia).

Negli ultimi decenni si è imposta infatti nella maggioranza dei cantoni e dei comuni svizzeri la tendenza ad equiparare le condizioni di impiego degli impiegati pubblici a quelle vigenti nell’economia privata. La Confederazione ha seguito questa evoluzione con la nuova legge sul personale federale entrata del 2002, che ha abolito lo statuto di funzionario autorizzando così i licenziamenti. Dal 1° luglio 2013 è entrata in vigore un’ulteriore revisione legislativa che ha reso ancor più flessibile il rapporto di pubblico impiego.

In Svizzera comunque i dipendenti statali sono molto meno numerosi che in Italia: solo 1 su 47 abitanti, mentre in Italia sono 1 su 18 (1 su 23 in Lombardia). In particolare i dipendenti federali in Svizzera sono circa 35.000, cioè uno ogni 200 abitanti: un rapporto che esprime senza bisogno di troppe spiegazioni la leggerezza del governo centrale nella confederazione elvetica. In sostanza la probabilità di imbattersi in un dipendente pubblico svizzero è del 60 % inferiore rispetto alla probabilità di imbattersi in un dipendente pubblico italiano.


Quando le strade hanno cominciato a divergere?

Perché l’Italia è uno Stato fallito sull’orlo del crack, mentre la Svizzera è un successo planetario? Se guardiamo alla storia, ci accorgiamo che le strade prese dai due paesi hanno cominciato a divergere proprio negli anni dell’unità d’Italia. In Svizzera le ultime turbolenze si ebbero nel 1848, nella “guerra civile” del Sonderbund tra cantoni cattolici e cantoni protestanti. Si trattò in realtà di uno scontro incruento, nel quale morirono meno di cento persone e che durò solo 26 giorni. Alla fine venne adottata una nuova costituzione, dopodiché la Svizzera imboccò definitivamente la via della saggezza, della neutralità, del federalismo e della riduzione ai minimi termini del governo centrale. Anche gli italiani avrebbero potuto seguire la sorte felice degli svizzeri, se ai tempi del Risorgimento fossero prevalse le idee di Carlo Cattaneo e di coloro che proponevano un assetto confederale per l’Italia. Gli avvenimenti presero purtroppo una piega opposta.

Un’interminabile serie di sciagure si sono infatti abbattute sugli italiani da quando la penisola è stata forzosamente unificata per via militare dai Savoia. Fin da subito le popolazioni del sud dell’Italia non accettarono la conquista dei piemontesi, che avevano inasprito fortemente la tassazione e introdotto la coscrizione obbligatoria, e si rivoltarono in massa. Questa guerra civile durò una decina d’anni e, malgrado venga minimizzata ancora oggi nei libri di testo come “lotta al brigantaggio”, fu in verità il conflitto più cruento che si ebbe in Europa nel periodo compreso tra le guerre napoleoniche e la prima guerra mondiale. L’esercito piemontese represse la rivolta con lo stato d’assedio, i campi di concentramento e la tattica della terra bruciata. Quante furono di preciso le vittime tra la popolazione meridionale non si saprà mai, ma le stime degli storici vanno dalle centomila (secondo Giordano Bruno Guerri) al milione (secondo La Civiltà cattolica).

Il 1874 può essere considerato l’anno simbolo della distanza ormai abissale che separava la Svizzera dall’Italia unita. Una modifica della costituzione elvetica attribuì infatti ai cittadini quel potere referendario di confermare, abrogare o proporre nuove leggi, che ancora oggi rende la Svizzera famosa nel mondo. In quegli stessi anni in Italia si era conclusa da poco la feroce repressione al sud, e il Regno d’Italia era diventato uno degli stati più centralisti e fiscalisti d’Europa. Come ricorda Gilberto Oneto, tra il 1860 e il 1880 la porzione di reddito nazionale assorbita dalla tassazione praticamente raddoppiò. Fra il 1865 e il 1871 si ebbe un aumento del 63 % delle imposte sul reddito e del 107% delle imposte sui consumi che gravavano soprattutto sulle classi popolari, come l’odiata tassa sul macinato che trasformava i mugnai in esattori, inaugurando la prassi italiana di mettere cittadini contro altri cittadini. All’inizio degli anni Settanta il ministro delle finanze Quintino Sella ammise che l’Italia era il paese più tassato al mondo. Nel 1892 la pressione fiscale raggiunse il 18 % del pil contro il 7 % dell’Inghilterra e il 10 % della Germania.

La tassazione eccessiva provocò la rovina dell’economia italiana, e con essa un fenomeno sconosciuto prima dell’unità: l’emigrazione di massa all’estero degli italiani. Tra il 1876 e il 1914 emigrarono 14 milioni di italiani, su una popolazione che nel 1881 era di poco superiore a 29 milioni. All’inizio gli emigranti partirono soprattutto dalle regioni del nord, in particolare dal Veneto. Il grande esodo meridionale cominciò con l’adozione delle tariffe protezionistiche del 1887, che colpirono soprattutto l’agricoltura del sud, gettando nella disperazione milioni di persone già oberate dalle tasse italiane e dalla pesante novità del servizio di leva, che distraeva per anni dai lavori nei campi le braccia migliori (G. Oneto, La questione settentrionale, 2008, p. 152, 154).

Il Regno d’Italia era anche uno Stato militarista e guerrafondaio: sentendosi grande e forte, si lanciò in una serie continua di guerre che mai i piccoli Stati preunitari si sarebbero sognati di intraprendere. Dal 1861 al 1871 impegnò metà dell’esercito nella repressione della rivolta delle regioni del sud; nel 1866 entrò nella terza guerra d’Indipendenza senza alcun motivo (dato che l’Austria aveva già offerto il Veneto al Regno d’Italia in cambio della sua neutralità), rimediando alcune cocenti sconfitte; poi cominciò l’epoca delle sciagurate avventure coloniali in Somalia ed Eritrea, culminate con l’umiliante disfatta di Adua nel 1896, e in Libia nel 1911.

Per gli abitanti della penisola, comunque, le disgrazie non erano finite. Nel 1915 il governo italiano non seguì il saggio esempio di neutralità della Svizzera, e si gettò a cuor leggero nella fornace della prima guerra mondiale. Milioni di coscritti, quasi tutti poveri contadini, vennero spediti a morire nelle trincee. Quelli che cercavano di salvarsi la vita disertando o rifiutandosi di avanzare sotto il fuoco nemico venivano fucilati dai carabinieri che sparavano a vista sui “codardi”, o dai plotoni d’esecuzione che per punizione decimavano interi reparti. In questa “inutile strage” il Regno d’Italia sacrificò la vita di quasi settecentomila italiani, mentre un numero più che doppio di giovani rimasero feriti o mutilati.

Seguirono i vent’anni del fascismo, che dichiarava di voler portare a compimento la rivoluzione nazionale del Risorgimento, e la catastrofe immane della seconda guerra mondiale, che lasciò l’Italia completamente distrutta. Nel 1948 l’Italia evitò per un soffio di diventare una dittatura comunista di tipo staliniano, ma nei vent’anni successivi l’adozione di politiche economiche più liberali generò il cosiddetto “miracolo economico”. Forse è stato questo l’unico periodo positivo della storia dell’Italia unita. Nel 1968 si aprì infatti la stagione degli anni di piombo, del terrorismo e della crisi economica. Chiuso questo tragico periodo, negli anni Ottanta ebbe inizio l’epoca dell’esplosione della spesa statale, del debito pubblico, della tassazione e della corruzione, che ci ha portato alla crisi dei giorni nostri.

Il verdetto della storia sembra chiaro. In 150 anni di vita lo Stato nazionale ha dato agli italiani soprattutto due cose, morte e tasse. È venuto il momento di ripudiare questo esperimento fallimentare, questa parentesi sbagliata della nostra storia, e di rivendicare quella vocazione pluralistica e quelle libertà che hanno reso grande non solo la Svizzera, ma anche la civiltà italiana nei secoli passati.
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Re: Ła barbarie de ła prima goera mondial

Messaggioda Berto » sab mar 15, 2014 1:14 pm

El rejsta veneto Olmi lè drio far on film so la prima goera mondial:

el ga dito ke no ghè gnente de "Grande" ente la goera e sto film el trata de on reparto ke se ge rebelà e revoltà contro.

'Torneranno i prati', Olmi in trincea per raccontare la "Grande Guerra" (no ghè gnente de grande el ga dito Olmi)

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Asiago (Vicenza), 14 mar. (Adnkronos/Cinematografo.it) - Torneranno i prati, e torna la Prima Guerra Mondiale: è il nuovo film di Ermanno Olmi. Nel centenario del primo conflitto mondiale, riprese sull'Altopiano dei Sette Comuni, nel cast Claudio Santamaria, Andrea Di Maria, Francesco Formichetti, Camillo Grassi e Niccolò Senni, soggetto e sceneggiatura dello stesso Olmi, produzione Cinema Undici e Ipotesi Cinema con Rai Cinema, siamo sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli Altipiani, e, promette il regista 83enne, ''la pace della montagna diventa un luogo dove si muore: tutto ciò che si narra in questo film è realmente accaduto, e poiché il passato appartiene alla memoria, ciascuno lo può evocare secondo il proprio sentimento''.


Otto settimane di riprese, due trincee ricostruite a Val Formica e Val Giardini, tre milioni e 200mila euro di budget. ''Il miglior modo di celebrare il centenario - dice Olmi - è capire perché è successo: noi oggi siamo a una vigilia che rischia di assomigliare molto a quella della Prima Guerra Mondiale con conseguenze devastanti: la celebrazione deve essere 'voglio capire perché', perché non succeda un'altra volta''.
''Negli anni '80 storici austriaci e italiani sono stati incaricati di raccontare la Prima Guerra Mondiale, ma viene buono che quel scriveva Raymond Chandler 'Sapeva veramente tutto, ma solamente quello', perché non conoscono direttamente la realtà di cui vanno parlando. Io ho letto, riletto libri di testimoni diretti della guerra, come il mio amico Mario Rigoni Stern, Gadda, Lussu, Weber e altri: pagine di straordinaria sensibilità percettiva nel cogliere quelle sfumature che lo storico di professione non può avere. Ma oltre a questi autori, che hanno vissuto ma anche metabolizzato quegli eventi nello scrivere i loro romanzi, ho letto pagine di anonimi: c'era il nome in fondo, ma era quello di chi non ha nome. La verità l'ho trovata lì. Allora, chi scrive la storia? Quella ufficiale gli intellettuali, quella reale coloro che non hanno parola''.
Tra le testimonianze dirette, lo stesso padre di Olmi e Toni il Matto, un pastore che combatté sull'Altopiano: ''Nel '14-'15 in Italia sono successe cose vergognose, si sono mercanteggiate le condizioni di convenienza: se entrare o meno in conflitto, se schierarsi con gli austriaci o non belligerare, ma casa Savoia, sempre distratta nei confronti della storia, ha ritenuto più conveniente legarsi alle nazioni che avevano bisogno di mercati in Europa, l'Austria-Ungheria, un po' come oggi la Merkel. Fate questo lavoro, storici, e vedrete - tuona il regista - quanti fatti vergognosi di cui dobbiamo arrossire e abbassare il capo''.
Dunque, l'urgenza di questo film, 'Torneranno i prati', ambientato nell'autunno del 1917, ''il preludio di Caporetto, il preludio della disfatta: racconto di come dagli alti comandi vien l'ordine di trovare un posizionamento per spiare la trincea avversa: si finisce accoppati, ma l'ordine è arrivare là''. Probabilmente lo vedremo alla Mostra di Venezia, per ora Olmi rivela una battuta sintomatica del film che definisce 'onirico': ''Dopo una disfatta, tutti tornano a casa loro e dopo un po' tornerà l'erba sui prati''. La trincea è un avamposto, un caposaldo italiano sull'Altopiano e, continua il regista, ci sono ''due personaggi che fanno prevalere la propria coscienza sulle esigenze militari dei comandi superiori: disobbediscono, e la disobbedienza è un atto morale che diventa eroicità quando la paghi con la morte. Uno è un alto ufficiale, l'altro il solito anonimo soldatino il cui nome non significa nulla: entrambi hanno la coscienza di disobbedire. Nel processo, Eichmann sosteneva 'Abbiamo obbedito a un ordine', ma no: non ci sono ordini, quando un ordine è un crimine''.
E Olmi affonda: ''Sui monumenti che ancora oggi ritraggono gli alti comandanti, bisognerebbe scrivere sotto criminale di guerra''.
'Torneranno i prati' è profondamente radicato nella cittadina di Asiago che il maestro Ermanno Olmi ha scelto per vivere e si inserisce a buon diritto tra le iniziative promosse dalla presidenza del Consiglio per il centenario della I Guerra Mondiale. Il film, che nel cast annovera Alessandro Sperduti e Claudio Santamaria, dovrebbe arrivare nelle sale nel prossimo autunno.

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... osari1.jpg
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Re: Ła barbarie de ła prima goera mondial

Messaggioda Berto » sab apr 05, 2014 10:01 pm

Taliani bruta xente skifoxa:

http://www.lindipendenza.com/abbasso-li ... erci-tutti

Sandi Stark
3 Aprile 2014 at 10:41 am #

Infatti Bracalini, si desume dai Suoi scritti che non si è mai liberato del tutto dalla “Kultur” risorgimentale e post risorgimentale, i Suoi tentativi di coniugare l’indipenendismo con i miti risorgimentali di “liberazione dallo straniero” sono in contraddizione. O si è nazionalisti o si è internazionalisti, non vedo come grande passo in avanti, la sostituzione del nazionalismo italiano con il nazionalismo padano e successori.

Popoli e territori hanno il sacrosanto diritto di autodeterminarsi, senza necessità di nazionalismi vecchi e nuovi e di miti fondativi che ricalcano la stessa matrice ideologica di presunte antiche patrie statali che giustificano la loro ricostituzione, magari litigando con i vicini per i confini e opprimendo nuovamente le minoranze come hanno sempre fatto quasi tutti gli stati nazioanli.

Relativamente ad Oberdank, tenga presente che il suo reato più grave fu una strage effettuata pochi giorni prima del suo arresto, nella quale morirono due ragazzini e furono feriti più o meno gravemente, decine di cittadini. Non fu processato per questo, mancavano prove sostenibili e se ne seppe solamente in seguito grazie ad una storia di documenti cancellati e ritrovati che fece dire a Spadolini nel 1970 “ogni tanto una bomba ci sta bene”, se i testimoni non hanno sbagliato qualche parola.

Il suo nome era proprio Oberdank, il manifesto con la Sentenza di morte che scrive “Oberdan” è un falso storico confezionato dal fascismo e diffuso in vari luoghi, non ultimo il liceo Oberdan di Trieste dal quale sono stati sfornati migliaia di cittadini italiani.

Il manifesto originale, oltre a scrivere il nome corretto, riportava come primi firmatari della condanna a morte, i suoi commilitoni soldati sempllici “Infanteriest”, totalmente scomparsi nel manifesto taroccato.
Ciò accadeva perchè i primi a pronunciarsi nelle Corti Marziali erano i più bassi in grado, in modo che non fossero infulenzati dalle opinioni dei loro superiori.

La vulgata italica, che Oberdank fu condannato dal Kaiser in persona, non permetteva certo che qualcuno si facesse domande sul funzionamento delle corti marziali, scoprendo magari che erano talmente garantiste da rasentare la democrazia.

Le corti marziali condannarono decine di ufficiali per maltrattamenti ai soldati, erano sufficenti anche semplici maltrattamenti verbali. Questo doveva rimanere ignoto agli italiani, che dovevano pensare che l’Austria fosse un regime illiberale e non rendersi conto che i massoni irredentisti stavano costituendo un’oligarchia molto peggiore e subdola, creata per sfruttare le masse contadine ed operaie, quando il sistema asburgico era invece il principale difensore dei contadini, il 98% della popolazione agli albori del “risorgimento”… mica scherzi.

E per favore, non chiami il Capo di Stato dei nostri nonni “Cecco Beppe”, se vuole usare l’italiano può scrivere Francesco Giuseppe, se vuole usare il tedesco Franz Joseph, nelle lingue slave František Josef, in polacco Franciszek Joseph, in romeno Francisc Josef eccetera.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Ła barbarie tałiana de ła prima goera mondial

Messaggioda Berto » gio apr 10, 2014 8:56 am

Mi a go on sogno!
A go on sogno vanti de morir e lè coeło de poder vedar, miłara de Veneti montegar so łe nostre Alpi sante e ke a miłara łi se raduna so łe piane dei 4 osari vixentini: del Cimon, del Paxoubio, de Axiago, del Gràpa
e ke da łi, łi ghe sighe ai nostri morti, a l’Ouropa e al mondo intiero kel nostro canto no lè coeło barbaro e viołento de łi tałiani, el canto mamełego-roman de łi sasini de Cristo ma tuto naltro, na canta de paxe, de fradernetà e de ben;
e ke dapò a miłara ognoun el porte on tricołor tałian a bruxar so l braxer del riscato e ke l’oxe alto: mi so veneto e no tałian e ke pì gnente me podarà costrenxar a portar sta orenda bandera ke ła gronda del sangoe de ła nostra xente veneta.

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Re: Ła barbarie tałiana de ła prima goera mondial

Messaggioda Berto » mar apr 22, 2014 7:39 pm

Ogni riferimento all’italianità è estraneo alla cultura Alpina

http://www.lindipendenza.com/ogni-rifer ... ura-alpina

di ALESSANDRO ZERBINATO

Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò addosso le sue settantadue bombarde. Incipit de “Il Sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern.

E’ innegabile che, nelle regioni del nord e nel Veneto, uno dei collanti dell’italianità sia costituito dagli alpini che con l’ANA danno vita a manifestazioni che negli ultimi anni si sono moltiplicate interessando moltissimi Comuni riempiendoli di tricolori.

Riguardo a tale sfoggio tricolorito, a questo gran pavese itinerante di un’italianità sempre meno sentita, un indipendentista veneto prova sentimenti contrastanti poiché se è vero che questo spirito patriottico provoca una certa nausea per l’evidente falso storico su cui è costruito è anche vero che proviamo grande rispetto per gli alpini.

http://www.dirittodivoto.org/dblog/arti ... newsletter


Le truppe alpine furono usate senza criterio nella guerra fascista prima contro la Grecia e poi in Russia.

La folle guerra condotta da Mussolini a fianco dei tedeschi ma anche in competizione con loro vide l’Italia aggredire la Grecia senza aver concordato o avvertito il più potente alleato che si stava preparando all’operazione Barbarossa in Russia.

Il Comando italiano invece di sfruttare la superiorità navale ed aerea nel mediterraneo attaccando dal mare la debolissima Grecia pensò bene di aggredirla attraverso l’Albania dai passi montani al confine con la Macedonia ed impegnando le truppe alpine in combattimenti sanguinosi ove poche mitragliatrici nemiche, ben piazzate sui passi, inchiodarono le truppe italiane numericamente superiori ed inflissero loro pesantissime perdite.

Le truppe alpine che per intima costituzione non erano adatte a guerre di conquista, bensì a difendere le alpi dall’invasione, combatterono di malavoglia sui passi greci ben consapevoli dell’insensatezza di quell’aggressione o almeno avvertendone le contraddizioni.

L’affondamento del piroscafo Galilea a causa di un siluro inglese nel braccio di mare tra Albania ed Italia in cui morirono mille alpini della Julia, quasi tutti del battaglione Gemona, rese ancor più evidente la totale impreparazione del Comando italiano alla guerra.

Evidentemente non ancora sazio di sangue inutilmente sparso il Comando italiano accondiscese all’invio in Russia di un Corpo d’Armata Alpino in quel grande raggruppamento di truppe italiane che viene ricordato dalla storia come ARMIR.

Gli alpini con armamento leggero a malapena adatto alla difesa dei passi alpini vennero schierati in Russia sulla pianura attraversata dal fiume Don sulle cui sponde ghiacciate fecero da raccordo tra le truppe rumene a sud e quelle tedesche a nord.

Si acquartierarono con grande laboriosità costruendo rifugi sotterranei per l’inverno e, completamente sguarniti di carri da battaglia, si approntarono a resistere all’attacco russo con i fucili del 1896 usati anche nella prima guerra mondiale, il Carcano mod. 91, con le Breda pesanti a bassa cadenza di tiro, con le O.T.O. bombe a mano che nemmeno esplodevano, con cannoni da montagna di calibro 75 di nessuna efficacia contro i carri sovietici e con ai piedi scarponi non adatti alle temperature glaciali della steppa russa mentre le Valenke che tante vite avrebbero potuto salvare erano stipate intonse nei magazzini italiani.

In pieno inverno, a 40° sotto zero, la linea del fronte venne travolta dai russi nell’intersezione a sud con quella rumena, interi corpi d’armata corazzati russi penetrarono all’interno delle retrovie creando una sacca in cui costrinsero l’ARMIR e da cui gli alpini si sottrassero con disumane marce forzate riuscendo alla fine ad uscirne dopo eroici combattimenti lasciando sul campo i nove decimi dei propri componenti e solo in poco più di diecimila sui centomila iniziali fecero ritorno a casa.

Gli alpini in Russia si fecero onore proprio quando furono attaccati da forze preponderanti e dovettero difendere le posizioni dimostrando, cosa più unica che rara tra le forze armate italiane, grande coesione con gli ufficiali in comando che condividevano con la truppa gli stessi disagi e fornirono quasi sempre esempi di eroico attaccamento al dovere.

Ai tempi della guerra le truppe alpine comprendevano oltre agli abitanti di paesi e città ai piedi di alpi e prealpi anche i coriacei abruzzesi mentre nel dopoguerra via via la leva si allargò anche ad abitanti della pianura padana fino ai tempi nostri in cui, dopo che è stata tolta la leva obbligatoria, anche le truppe alpine sono composte prevalentemente da meridionali.

Per la maggior parte quindi dei componenti l’ANA in Veneto parliamo di pensionati che prestarono servizio di leva obbligatoria e che vivono di miti della giovinezza assai suggestivi ma in buona sostanza anacronistici e che attualmente si fanno forse inconsapevole stampella di uno Stato unitario che depreda i propri sudditi di denaro ed identità attraverso una tassazione sovietica ed un centralismo esasperato.

Tuttavia, andando a grattare un poco più a fondo a questa foia italianista di tanti onesti alpini, assieme ad un impegno per un civismo molto tipico delle regioni del nord Italia e ad una fiducia in uno Stato paternalista molto mal riposta, troviamo la passione per tutti quei valori traditi da tutto ciò che il tricolore nella realtà rappresenta.

Gli alpini sono stati nella storia gente seria e posata rispetto ad uno Stato poco serio, per niente credibile all’estero e conculcante le libertà all’interno, gli alpini furono espressione della tenacia e dell’attaccamento al dovere delle popolazioni montanare mentre l’ente statuale italiano ha dilapidato ogni risorsa come la cicala di Esopo, gli alpini aborrono ogni guerra di conquista mentre hanno dovuto servire uno Stato guerrafondaio e dissennato.

Insomma, paradossalmente, ogni virtù a cui fanno riferimento gli alpini è una virtù estranea all’italianità tanto come ogni riferimento all’italianità che rappresenta il tricolore è estraneo alla cultura alpina.


Me despiaxe asè ma mi co vedo łi alpini col tricołor tałian a provo n’oror e na desperasion sensa fine.
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Comenti===============================================================================================================================

Heinrich
22 Aprile 2014 at 2:44 pm #
Gli Alpini sono stati fondati per opera del capitano di Stato Maggiore Giuseppe Domenico Perucchetti (Regio Decreto n. 1056 del 15 ottobre 1872) come truppe di montagna per la difesa dei confini montani del regno sabaudo ma, anche se il Corpo nasce più tardi, le truppe da montagna sabaude già fecero la loro prima comparsa nella Guerra di Crimea (1853-56), a memoria della quale i reparti Alpini valdostani usano ancora oggi quale slogan il motto evidenziato in grassetto di una canzone nata durante quella guerra in Crimea.

La creazione di queste truppe alpine fu sin da subito chiara espressione del nazionalismo imperialista italiano, nato nel XIX secolo, che poneva un’attenzione sempre maggiore sul preteso confine naturale del paese lungo l’arco alpino.
Già nel 1888 gli alpini, nati per difendere questo confine, furono invece inviati in Africa a conquistare delle colonie per l’Italia.

Alla guerra contro l’Impero Ottomano (1911-12), iniziata dall’Italia per annettersi le province turche della Tripolitania e della Cirenaica (Libia), nonché le isole egee del Dodecaneso, parteciparono dieci battaglioni di Alpini.
Reparti di Alpini furono anche coinvolti nella dura repressione del movimento per la liberazione della Libia, durata fino al 1933.
La popolazione libica fu decimata nei campi di concentramento, con marce di morte nel deserto e con le armi chimiche usate anche contro i civili.
Questa guerra crudele viene ricordata dal monumento all’Alpino di Meran e, al cimitero di Brixen, dalla scritta sotto il busto del brissinese Heinrich Sader, morto in circostanze misteriose in Libia.
“Caduto in terra d’Africa per la più grande Italia” recita questa scritta,, cioè per le guerre imperialiste italiane.
Secondo la propaganda, ripetuta ancora oggi, l’Italia avrebbe portato cultura e civiltà; in realtà ha portato solo morte e distruzione. “I veri barbari siamo noi”, scrisse a suo tempo il giornale socialista italiano “Avanti”.

Nella guerra d’aggressione contro l’Austria, a partire dal 1915, gli Alpini sostennero gran parte dei combattimenti, soprattutto sul fronte del Tirolo, e dopo la guerra la propaganda fascista creò il mito dell’Alpino come soldato montanaro che avrebbe conquistato per l’Italia quella parte delle Alpi che sarebbe stata destinata all’Italia dalla Natura o addirittura da Dio stesso.

Almeno fino all’applicazione del trattato di pace del febbraio 1921, non avrebbero potuto cambiare una virgola nei territori occupati del Tirolo e del Litorale, in ossequio a quanto stabilito nella Convenzione dell’Aia del 1907; avrebbero dovuto tenere in vigore le leggi austriache, non avrebbero potuto internare i civili, epurare, licenziare, perseguitare, arrestare, espellere gli “austriacanti” o i reduci dell’esercito austro-ungarico, cambiare i cognomi “non italiani” alla popolazione, cambiare i nomi delle strade, dei paesi e delle provincie, chiudere scuole, distruggere monumenti o innalzarne di nuovi; non avrebbero potuto espropriare, nazionalizzare, imporre loro plenipotenziari quali amministratori di società commerciali, navali ed industriali private. Avrebbero dovuto solo comportarsi come dei diligenti “custodi”.
Inoltre, la “Brigata Sassari” sedò a cannonate una rivolta cittadina nel quartiere operaio di San Giacomo, a Trieste nel settembre del 1920, che occupavano dal 1918 ed era stata scelta per merito dell’incomunicabilità tra i soldati sardi e la popolazione triestina a causa della mutua incomprensibilità linguistica.

Un ruolo molto importante, gli Alpini lo hanno svolto nella guerra d’annientamento contro l’impero etiopico (1935-1936).
Proprio per questa guerra fu costituita il 31 dicembre del 1935 la divisione alpina “Pusteria”, che infanga ancora oggi il buon nome della valle.
In questa guerra l’Italia fece uso delle armi chimiche in quantità mai viste anche contro i civili, le truppe italiane non fecero quasi mai prigionieri ed anche gli Alpini parteciparono alle uccisioni di massa della nobiltà etiope e dei religiosi cristiani copti: soltanto nella città sacra di Debre Libanos furono uccisi circa 2000 tra preti e monaci.
La Divisione Pusteria partecipò poi alle battaglie cruente di Tigrai, Amba Aradan, Amba Alagi e Tembien ed ai massacri di Mai Ceu e al lago Ashangi, che continuarono anche dopo la fine ufficiale della guerra.

Nell’aprile del 1937, la Divisione Pusteria ritornò in Italia e sfilò per le vie di Roma.
Nel 1938 Mussolini ordinò di persona la costruzione di un monumento a Bruneck per glorificare le “gesta eroiche” della Divisione Pusteria.
Davanti a questo monumento degli orrori gli Alpini depongono ancora oggi le loro corone.

La Divisione Pusteria intervenne anche quando l’Italia, il 10 giugno del 1940, dichiarò guerra alla Francia, e successivamente partecipò all’aggressione contro la Grecia, aggiungendosi alla “Julia”, presente in quella campagna sin dall’inizio.
L’occupazione italiana della Grecia costò la vita a circa 100.000 tra civili e soldati greci.

La Divisione Pusteria fu trasferita nell’estate del 1941 in Montenegro ed in Croazia, per la lotta contro i partigiani.
Il comportamento degli Alpini in questi paesi balcanici non fu meno crudele che in Etiopia; interi paesi furono bruciati, persone sospette torturate ed uccise. Alcuni episodi sono noti, come ad esempio quello degli alpini dei battaglioni Ivrea e Aosta, «che rastrellarono undici villaggi in Montenegro e fucilarono venti contadini».
Ma né più né meno di altri reparti italiani, a meno che non emerga una statistica comparativa.

Un capitolo a parte merita la partecipazione degli Alpini alla guerra contro l’Unione Sovietica.
L’Italia dichiarò la guerra all’Unione Sovietica il 23 giugno del 1941, un giorno dopo la Germania nazista; Mussolini inviò tre divisioni di fanteria, il cosiddetto Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), che nel 1942 aumentò a dieci, che formarono la nuova VIII Armata, detta “Armata Italiana in Russia” (ARMIR).
Di queste dieci divisioni, tre erano divisioni alpine: Cuneense, Julia e Tridentina.
I comportamenti dei soldati italiani nei confronti della popolazione dei territori occupati non si differenziarono da quelli dei soldati nazisti: secondo le direttive degli alti comandi, ogni resistenza attiva o passiva della popolazione civile era da reprimere con metodi durissimi. Le cosiddette spie erano da giustiziare sul posto.
Il generale Gabriele Nasci, comandante del corpo alpino, aveva dato l’ordine di rispondere con “rappresaglie di severità esemplare“ ad ogni atto ostile; le truppe dovevano prendere ostaggi ed ucciderli, nel caso fosse necessario, mentre i commissari politici sovietici, i “ribelli” e gli “elementi indesiderati”, come ebrei e zingari, venivano consegnati il più presto possibile ai tedeschi, conoscendo ed approvando quello che era loro destinato.
Diversi documenti provano come questo sia veramente successo; così come ampiamente documentata è la completa distruzione dei paesi di Snamenka e di Gorjanowski, in Ucraina, dove l’intera popolazione di questi villaggi fu trucidata dalle truppe italiane.

L’Unione Sovietica ha condannato per crimini di guerra diversi ufficiali italiani catturati, ed ha chiesto l’estradizione di diversi altri criminali di guerra all’Italia, che fu negata.
Perfino i comandi militari tedeschi (sic!) criticavano a volte il comportamento troppo crudele degli italiani, mentre il comandante dell’ARMIR, Generale Giovanni Messe, scriveva viceversa subito dopo la guerra che il corpo di spedizione italiano si sarebbe distinto da tutti gli altri eserciti “per la sua cultura superiore, il suo senso di giustizia e la sua comprensione umana”.
Nelle lettere dei soldati italiani, raccolte nel centro di censura a Mantova, si legge invece di soprusi e di assassinii di civili.

Si può quindi affermare che gli alpini non hanno mai combattuto una guerra difensiva nella loro storia, ma hanno effettuato solo invasioni di terre altrui, come tutte le altre forze armate italiane.

Dei 57.000 Alpini che parteciparono all’aggressione contro l’Unione Sovietica, soltanto 11.000 ritornarono, e dopo la guerra è uscita in Italia una ricca letteratura giustificativa, che ha creato il nuovo mito dell’Alpino come vittima e non come colpevole in questa campagna di Russia; in realtà gli alpini sarebbero state vittime di un governo irresponsabile.
Il loro sacrificio fu di certo strumentalizzato dal fascismo, e questo viene fatto ancora oggi per giustificare comportamenti non giustificabili e creare nuovi miti.
Uno di questi nuovi miti è quello di Nikolajewka: secondo questa leggenda, la Divisione Tridentina avrebbe sfondato, il 26 gennaio 1943, dopo aspri ed eroici combattimenti, l’accerchiamento sovietico, aprendo la strada verso ovest a tanti soldati sia italiani che tedeschi.
In realtà l’accerchiamento fu rotto dal 24° corpo corazzato tedesco.
Più di questo falso storico-militare preoccupa però il fatto che gli alpini ricordano ancora oggi una presunta vittoria in una guerra criminale, identificandosi in questo modo ancora oggi con questa guerra.

Dopo la guerra, il governo Degasperi, in seguito all’amnistia decretata dal Ministro alla Giustizia Togliatti, ha fatto di tutto per impedire procedimenti contro militari italiani per crimini commessi in Libia, Etiopia, nei paesi balcanici o nell’Unione Sovietica.
Si cercava di creare l’impressione che le forze armate italiane, pur essendo stata l’Italia alleata della Germania nazista, si sarebbero sempre comportate in modo impeccabile.
Nella logica della guerra fredda, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, per tenere l’Italia nel blocco occidentale, non ebbero alcun interesse nel perseguire crimini di guerra italiani commessi in paesi ormai comunisti, per cui questi rimasero impuniti.
Questo perdono generale per i crimini del regime fascista è stato fondamentale nel minare la fiducia dei paesi dell’Est nella memoria collettiva europea.

Oggi tutto questo non si vuole ricordare; si cerca invece di costruire nuove leggende; così oggi tutti i media italiani si attengono strettamente alla retorica fascista secondo la quale l’Alpino sarebbe un montanaro semplice, tenace, buono, coraggioso e patriottico, ed è proprio allo scopo di diffondere questo falso spirito che fu fondata nel 1919 l’Associazione Nazionale Alpini, subito allineatasi al regime fascista e dal quale non si è mai distanziata in modo inequivocabile.
Gli stessi reduci sono convinti di rappresentare degli alti valori e di essere “buoni”, mentre sono in realtà a loro volta vittime inconsapevoli del nazionalismo italiano.

Nonostante tutto ciò che commisero con quella divisa, gli Alpini hanno sempre dato grande importanza alla continuità della loro tradizione e non hanno mai preso le distanze dal loro passato; ad esempio la continua deposizione di fiori e corone ai monumenti di Meran e Bruneck dimostra che gli Alpini non si vergognano per niente dei crimini commessi in Libia ed in Etiopia, così come in Sudtirolo gli Alpini si continuarono a comportare da forze occupatrici: nel 1958 riuscirono a far sospendere per sei mesi il sindaco di Brixen, Valerius Dejaco, perché si era rifiutato di partecipare il 4 novembre alla festa degli Alpini per la “vittoria” contro la popolazione che il sindaco stesso rappresentava.

Non solo gli alpini, ma tutte le forze armate italiane, non hanno mai preso le distanze dal loro passato colonialista e criminale; la differenza tra gli alpini e gli altri corpi è che i primi hanno “penetrato” la società civile con le loro associazioni di reduci, veicolo del nazionalismo italiano e del suo militarismo, mentre gli altri corpi militari italiani non sfilano in centomila nelle città occupate delle “terre redente” e non ottengono le dirette televisive.
Gli Alpini sono comunque uno strumento di propaganda di “italianità” quasi quanto le “Frecce Tricolori” ma, purtroppo, non più di quanto lo siano le scuole pubbliche ed i media.
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Re: Ła barbarie tałiana de ła prima goera mondial

Messaggioda Berto » ven mag 30, 2014 9:00 pm

La Grande Guerra: una mia personale celebrazione

http://www.lindipendenza.com/la-grande- ... lebrazione


di PAOLO L. BERNARDINI

Non si aspetterà, non si aspetta, il fatidico ingresso nella I Guerra Mondiale dell’Italia “liberale”, i famosi primi fanti che solcano la Piave, il 24 maggio 1915, dopo un bel tradimento (il primo del Novecento) dell’alleato, repentino, per l’orgia celebrativa di una strage immonda. Già si comincia, si affida alla memoria di 600.000 massacrati invano e ad undici prodi azzurri in Brasile l’ultima chance di sopravvivenza italiana, mentre ad un governo di ragazzini è già stata, da mesi, assegnato il compito di portare alla “soluzione finale” il problema Italia (locuzione questa peraltro non mia, ma di un periodico sindacale dedicato alla ricerca, “Il foglietto”). E allora, giocando in anticipo ma neppur troppo, ripubblico qui una poesia che scrissi quasi dieci anni fa, in occasione della visita del Presidente Ciampi a Venezia nel Novembre 2004. Non è una poesia per bambini, e non ne raccomando la lettura a chi ami le liriche fughe, non è L’infinito di Leopardi, insomma: anche se infinito fu il dolore che essa racconta. I tenutari dell’Italia dal 1915 al 1918 mandarono a morire dei bambini, quella guerra fu, tra l’altro, un abominevole infanticidio di stato.

F. e M. sono due soldati semplici, i nomi si possono prendere tra i tanti Mario, i tanti Federico, che si trovano tra i 600.000 morti italiani per quel massacro privo di ogni senso di coscritti che neanche sapevano per cosa combattevano. Gli altri F. e M. sono Francesco Baracca, il “bianco airone”, e Manfred von Richtofen, il “barone rosso”. Il primo morì sul Montello, colpito da un proiettile giunto dal suolo. Aveva 30 anni. Il secondo, vicino ad Amiens. Aveva 26 anni. Forse abbattuto da un pilota canadese, forse anch’egli per un proiettile sparato da terra. Avevano sentito parlare l’uno dell’altro e speravano di potersi scontrare in duello. Ricorda da qualche parte l’anziano Elias Canetti, a proposito dell’ebbrezza data dalla comune (per le élites) lettura di Nietzsche, negli anni precedenti la prima guerra mondiale: “Quanti gli individui che Nietzsche ha colmato della voglia del pericolo! Poi i pericoli sono arrivati davvero, e quelli sono miserevolmente crollati”. Questi piloti, provenienti in gran parte dalla cavalleria, amavano mitragliare dall’alto i soldati nemici, si divertivano un mondo in questa caccia. Indubbiamente, fecero grandi stragi in questo modo. L’onore del duello lo riservavano ai loro pari. Non so chi abbia dato loro il nome di eroi. C’è sempre qualche errore – e qualche “eroe” – all’origine delle peggiori disgrazie. Il tema del soldato come assassino attraverso la cultura del Novecento, da Kurt Tucholsky a Karlheinz Deschner, quest’ultimo morto di recente, a novant’anni, fiero nemico della Chiesa Cattolica, tradotto in italiano, ma soprattutto grande autore di aforismi (Gli assassini fanno la Storia, il titolo dell’ultima sua raccolta).

Credo fermamente nel valore “politico” della poesia, appreso, dal vivo, a Genova, dalla lezione di Edoardo Sanguineti, lezione sui cui ho molto meditato (più di quanto non abbia fatto per altri Maestri a me assai meno cari, però, di poesia politica, da Fortini a Pasolini). E mi onoro, nel mio piccolo, di appartenere ad una tradizione anti-celebrativa della I Guerra Mondiale, che nella mia Liguria annovera, tra gli altri, un Fabrizio de Andrè, “La guerra di Piero” è un capolavoro lirico, oltre che melodico. In questo senso vanno questi versi.

Quattro piccole scene dalla Grande Guerra

I.

E’ un rivo di orina
Di merda. E’ uno strato
Di ghiaccio. Il freddo
Lo ferma ma non ferma
Il suo odore. E’ ghiaccio
Striato di sangue, di vomiti
Vi scivolano sopra
Topi.
E’ la trincea.
Qui, F., ad esempio
Si piega su M. Gli mette
Dentro le dita.
Lo masturba, in silenzio, piano.
Viene. E godono insieme di quel poco
Di caldo, un dito su per il culo.
Lo sperma tra i pantaloni. Godono
Per quel caldo breve, sopra ogni cosa.
Il cielo è scuro, piove.
M. piange. F., anche.
Il tenente poi lancia il grido: “All’assalto!”
Gli arti ghiacciati, i piedi a pezzi
Ci faranno alzare.
Due passi fuori, il vento, la pioggia sul viso
Le gambe incerte. Le mani
Piagate
Innestano la baionetta.
Due passi ancora.

II.

Nulla equivale
L’ebbrezza di un volo:
Del bianco airone,
Di un rosso sparviero
Che s’alza rombando
Dal suolo.
E giunge sopra le vette
Sui campi.
Sfiora le nubi, le cime
Più ardite.
Scende e si inebria e risale.
F. attende M. M, F.
“Come un vespro sulla terra
Arda la vostra virtù nel morire, lo
Spirito vostro.
Altrimenti sarete morti male”.
Così parlò il Maestro nostro
E noi suoi seguaci spariamo e voliamo.
Voliamo, e spariamo.
Il nostro sogno è che un giorno
Ci incontreremo.
Che l’ali lievi dei falchi
Rechino l’artiglio fatale.
Il nostro sogno è morire
Al tempo giusto, né prima, né dopo.
Ogni lancio è slancio di vita
Fino a quello mortale.

III.

Due passi. Al terzo
Il vento porta un confetto
Di piombo.
Cadeste senza un lamento.
M., prima.
“Sei così alto, sei bello”.
Per le vostre nozze fu questo
Il regalo.
M. è più basso ed il colpo
Della mitraglia lo prende alla fronte
Muore, in meno di un attimo è andato.
F., è più alto. Per questo
Ora invidia l’amico.
Per la prima volta è un vantaggio, vedi,
La bassa statura.
Tua madre non te lo diceva.
Poi guarda le proprie viscere, sparse per terra.
Le budella piene di merda, di cibo raffermo
D’acqua ghiacciata, di sperma, di paura, di vita.
Ci metterà un giorno a morire.
Cresce l’invidia per quel cervello, era l’amico, che vede
Ad un passo, a pezzi, da lui.
Cresce l’invidia con il dolore.
Le urla. Lo stupore, il sangue a fiotti che esce
E ghiaccia, allontana, con strazio
La fine.
Dura più di una messa
…Morire.

IV.

“E’ bella, è bella la guerra,
Morir per la patria, una gioia.
Ma la gioia più grande è morire”.
Non si incontrarono, F. e M.

E’ giugno al Montello, un proiettile
Sale dal suolo. Il veivolo brucia.
F. l’accoglie nel viso. L’airone bianco
Richiude così le sue ali.
E’ un giorno di giugno dell’ultimo anno
Della guerra grande, il grande
Massacro.

“Quant’era bello sparare
Sul gregge di esseri umani
Dall’alto, come l’assiro
Che canta in forma di lupo
Il grande romantico inglese…”

M.
M. se ne era già andato.
La decade terza d’aprile
Sui cieli di Francia
Colpito
Da un altro eroe dell’aria
Un altro “asso nemico”.

Muor giovane chi agli dei è caro.
Sarà: e sarà anche vero, se sol lo si crede.

Ci rimangono i brandelli di carne
Di tutti e quattro:
Morta e rossa giù al suolo:
A vederla si dubiti pure
Che si tratti di carne di uomo.

Di chi è morto senza neppure sparare
Di chi è morto da eroe del volo.

E vennero poi altri avvoltoi,
Con gli stessi che uccisero loro
Canteranno le odi a giovinezza
All’ebbrezza del morire
Per i loro tricolori:
Erano i loro affari più vili
Spacciati per “patria” ed “onore”.

8 Novembre 2004.
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Re: Ła barbarie tałiana de ła prima goera mondial

Messaggioda Berto » mer giu 25, 2014 9:44 pm

Fucilati per un paio di mutande

http://espresso.repubblica.it/grandegue ... tto&id=214

Paolo Ciotti racconta fucilazioni, disciplina militare a Nervesa della Battaglia (TV) il 02 novembre 1917

Dopo la rotta di Caporetto l’esercito italiano si assesta sulla linea del Piave. Sono giorni di confusione e di tensione, anche tra i vertici militari e le truppe. La brigata Treviso, di cui fa parte il reggimnento di Paolo Ciotti, è a Nervesa della Battaglia

Tre soldati, fra cui un caporale, erano stati sorpresi dal Colonnello Brigadiere (dal 29 agosto all'11 novembre 1917 il comandante della brigata Treviso fu il colonnello brigadiere Giuseppe Barbieri, Ndr.), mentre uscivano da una villa di Nervesa con alcuni effetti di biancheria. Vi erano entrati così per quel senso di curiosità, di cui tutti ancora si era invasi nel vedere una casa abbandonata, e trovando nelle stanze deserte della biancheria, avevano innocentemente commesso l'errore di scegliere qualche camicia e qualche paia di mutande per cambiarle con quelle sporche e piene di insetti che tenevano ancora addosso fino dal Settembre.

Il Generale li interrogò, prese il nome e cognome di ciascuno e tre ore dopo, quando ancora eravamo a mensa, un porta ordini del Comando di Brigata recò un biglietto scritto a matita con l'ordine perentorio al Comandante della 3^ Compagnia di fare immediatamente fucilare da una squadra dello stesso reparto i tre soldati, di null'altro colpevoli, che di avere innocentemente asportato da una casa abbandonata una camicia e un paio di mutande!!

A nulla valse che il Capitano Brenci e il Colonnello stesso scongiurassero il Comando di Brigata di ridurre la punizione; la belva umana, anzi le belve umane, perché ad influenzare l'animo del Generale non fu estraneo, si disse, il Capitano Oliva – Aiutante di Brigata – furono irremovibili.

Il Ten. Medico Aschettino, che fu obbligato di assistere l'esecuzione, raccontò che i soldati della squadra che doveva far fuoco, piangevano e così pure gli Ufficiali della Compagnia a cui fu imposto di essere presenti alla tragica scena. Invece non un lamento da parte dei giustiziati; prima di allinearsi, si baciarono e si rammaricarono soltanto, ad alta voce, di essere vittime di piombo italiano, anziché di quello nemico; poi pregarono i compagni di mirar giusto affinché non li facessero agonizzare. Vollero anche non essere bendati ed essere colpiti al petto.

Così, l'epilogo di un banale incidente! Oh! Quanti, per non dire tutti, avrebbero dovuti essere fucilati per lo stesso motivo! Si volle dare un esempio triste di rigidità militare che, se ebbe l'effetto di impedire momentaneamente lo svaligiamento e la razzia, ebbe altresì l'effetto di debilitare gli animi, sempre sotto l'incubo di pene feroci e di far nascere un odio grande contro il Comandante di Brigata.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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