Immigrazione, l’Italia non ha mai amato gli italianihttp://www.lindipendenza.com/immigrazio ... i-italianidi ENZO TRENTIN
Guardando alla storia dell’unità d’Italia possiamo dire come i vari governanti che si sono succeduti sino ad oggi non hanno mai difeso gli interessi dei propri cittadini. Prendiamo, ad esempio, l’emigrazione moderna. Incomincia in Europa nel 1840.
Nella Penisola inizia con vent’anni di ritardo, in coincidenza con la nascita dell’Italia. Partono per primi i piccoli proprietari, i mezzadri: sono i segni di una crisi che investirà, per molti decenni, le società rurali. Le partenze sono favorite dall’Argentina che offre, a chi arriva, terre gratis.
Tutta l’Europa emigra, ma non si capisce l’emigrazione italiana se si ignora che essa è parte della colossale trasmigrazione che ha portato nell’Ottocento circa 60 milioni di europei al di là dell’Oceano.
Questo movimento tumultuoso è sollecitato da quattro grandi forze:
0-La tasa sol maxenà (ghe la go xontà mi parké Trentin el se la gheva dexmentegà) e altre enposte mese dal Stado Talian pena costituio, par pagarse i debiti fati par la goera de l'espansioneixmo savoiardo, scanvià par resorxemento talian. I debeti dei Savoia li xe devegnesti debeti de li "taliani"1.L’aumento della popolazione. In un secolo l’Europa passa dal 187 milioni a più di 400 milioni di abitanti. Il vecchio continente esplode.
2.L’abolizione delle terre comuni. Un tempo i contadini poveri potevano utilizzare terreni che appartenevano alla Chiesa o ai Comuni. Ora questi terreni non esistono più. Ai poveri non rimane che rifugiarsi nelle città o emigrare.
3.L’arrivo dell’industrializzazione. Cambia il volto della società. Nascono nuove città, le ferrovie accorciano le distanze, arrivano le macchine. Il mercato internazionale del lavoro sposta milioni di persone al di là dell’Atlantico.
4.La crisi delle campagne. Nasce una nuova organizzazione agricola, con grandi mercati aperti alla concorrenza. E la fine delle antiche società rurali. Milioni di contadini si avviano verso i porti di imbarco.
L’emigrazione italiana nasce in questo contesto. È parte di un fenomeno grandioso che investe tutta l’Europa, la manifestazione di una società che cresce di numero e si trasforma. Il mondo vecchio scompare, faticosamente e nasce, sotto la pressione del capitalismo emergente, una società nuova. Al momento dell’unificazione (1861) l’Italia è un Paese in ritardo. Lo Stato è fragile; il Paese diviso da contrasti e paure. La vita è durissima. L’emigrazione è presente, ma in misura contenuta. Poi, improvvisa (1873/74), la grande crisi. Arrivano le prime navi a vapore: l’America scarica in Europa le sue derrate a prezzi allettanti. L’agricoltura europea stenta a reggere la concorrenza; quella italiana, più fragile, crolla. L’emigrazione registra un balzo in avanti. È in questo periodo che nasce e si sviluppa la prima grande migrazione veneta.
Già nel 1876 un certo Don Munari, parroco di Fastro (è una frazione divisa tra i comuni di Arsiè, in provincia di Belluno, e Cismon del Grappa, in provincia di Vicenza), era partito per il Brasile con un gruppo di circa 300 emigranti. Ed è grazie agli emigrati veneti che la colonia di Caxias, nel Rio Grande do Sul (Brasile), conosce uno sviluppo straordinario. In meno di 50 anni passa dalla foresta alla piena industrializzazione. Fondata nel 1875, dopo soli tre anni aveva quasi 4.000 abitanti. Nel 1898 gli italiani erano 25.000, i nove decimi della popolazione. Una peculiarità: a differenza dei meridionali, che partivano con le tasche vuote, gli emigranti veneti partono di solito con un gruzzolo, frutto della vendita di masserizie, animali, di un fazzoletto di terra. È intorno agli anni 1880 che la corrente emigratoria veneta comincia a rompere gli argini. La motivazione è unica: la miseria, la fame. “No se viveva più. Se moriva…”, spiegano i partenti. “Sarà quel che sarà. Peggio del presente non sarà certo” [...] “Tentiamo la sorte. La sarà come la sarà. E poiché abbiamo presto o tardi da morire, tanto vale di lasciare la nostra pelle in America come in Europa”. Ma alcuni commentano: “Il vero agente di emigrazione, in Italia, è Crispi e il suo Governo…”. (1)
La gente parte. A volte si muovono interi villaggi, con il parroco in testa. Partono anche di notte, al buio e in silenzio, quasi fosse tempo di guerra e il nemico stesse in agguato. Qua e là si ode il grido: “Viva l’America! Morte ai signori!” L’emigrazione diventa veramente, per tutto un popolo, una liberazione: dai padroni oppressori, dalla terra che non li mantiene, dal bisogno che incalza, da un Governo inesistente e insensibile. “Noi andiamo in Brasile – gridano alcuni – Ora toccherà ai padroni lavorare la terra…” La partenza è vissuta come un avvenimento doloroso, ma necessario. Rompe una situazione di miseria senza scampo e apre una porta alla speranza. Per questo, a volte, centinaia di persone si mettono in movimento insieme, lentamente, al suono delle campane, come nelle grandi feste, e alla testa della processione vi è un grande Crocefisso o lo stendardo di un Santo che gli emigrati porteranno con loro nella nuova patria.
L’emigrazione avanza con il suo passo dolorante; non è protetta né aiutata. Molti emigrati muoiono ancora, vittime di un ignobile sfruttamento e di un abbandono intollerabile. Di contro l’esempio della Germania è illuminante. Anche la grande Germania aveva, in quegli anni, una forte emigrazione, ma i cittadini tedeschi partivano nell’ordine. Sapevano dove dovevano andare. Erano informati e guidati. Venivano mandati solo dove la terra era buona e dove gli emigrati erano protetti, lasciando agli altri (agli italiani, appunto…) i posti più difficili. Quella italiana era un’emigrazione ancora senza guida, allo sbando. Era nelle mani degli altri.
La Penisola è percorsa da “reclutatori” a caccia di famiglie da avviare oltre Oceano. Le illusioni sono molte; gli imbrogli moltissimi. Nel 1887 i reclutatori saranno riconosciuti ufficialmente dal governo Crispi. La loro azione sarà nefasta. C’è, per esempio, la storia di un bastimento (siamo nell’inverno 1873) carico di contadini abruzzesi diretti a Buenos Aires, dove li attendono parenti ed amici, e che finisce invece a New York. O quell’altra che parla di alcune centinaia di emigranti che avevano venduto ogni cosa e avevano consegnato i soldi a un agente di emigrazione e avevano raggiunto faticosamente il porto di Napoli. Lì avevano scoperto di essere stati truffati ed erano stati rispediti a casa, tra molte lacrime e imprecazioni.
Fu un disastro. Grazie alla patente gli agenti di emigrazione ottennero di fatto un riconoscimento ufficiale: divennero professionisti tutelati dalla legge. Nel giro di poche settimane “le più squisite canaglie – è padre Maldotti, dell’ordine degli Scalabrini che scrive – gli spostati d’ogni fatta, gli analfabeti più provati corsero a ingrossare l’esercito dei nuovi professionisti. Forti del loro inatteso diritto, diedero audaci la scalata alle prefetture e alle sottoprefetture e strapparono fino a 20.000 patenti, colle quali in tasca scorrazzarono le campagne a fare legalissima propaganda. E la propaganda fu implacabile, scandalosa. Ne abbiamo visto alcuni nelle vallate bergamasche a predicare dalle carrozze, vestiti eccentricamente come i saltimbanchi, su pei mercati e negli stessi sagrati delle chiese, intorno alle fortune straordinarie preparate a coloro che si fossero diretti nelle Americhe. I noli pagati dai Governi del Brasile furono tanta manna per questi professionisti. I 50.000 contadini che prima emigravano, salirono annualmente a quasi 200.000. Solo dal porto di Genova, dal 1882 al 1894, partirono un milione e mezzo di emigranti, di cui 7/9.000 diretti al Brasile”.
Succede anche che gli emigranti vengano ceduti dagli arruolatori alle Compagnie di navigazione, che poi li fanno viaggiare a fantasia. Succede pure che i mezzani si trasformino tranquillamente in usurai. Dai reclutatori (siamo a Bari nel 1874) gli emigranti ricevono in prestito 100 ducati in lire di carta. Dovranno restituirne 150 in oro. L’operazione è fatta per gruppi di dieci persone, ognuna delle quali è responsabile per tutto il gruppo. Se qualcuno muore durante la traversata o dopo per malattie infettive, quelli che si salvano, anche se è uno solo, devono pagare per tutti. Se spediscono i risparmi a casa, vengono sequestrati alla posta.
Di storie come queste ce ne sono a bizzeffe. Libri e libri. Ai giorni nostri, l’incuria dei governanti italiani per i propri cittadini non viene meno. È di questi giorni la notizia che il ministro Kyenge trasferisce i clandestini dai centri di accoglienza agli hotel. L’Italia non ha soldi: non ha soldi per le pensioni, ridotte al minimo, con lavoratori ridotti a mangiare alla Caritas; non ha soldi per pagare i farmaci antitumorali ai malati, che se li devono acquistare da sé (chi può permetterselo), però i soldi ci sono quando si tratta di trasferire gli immigrati clandestini negli hotel – non si sa per quanto tempo – a spese degli italiani, ovviamente. Non bastasse, c’è da aggiungere un posto di lavoro pubblico anche per gli immigrati senza la cittadinanza, solo con permesso di soggiorno o rifugiati. Questa la possibilità prevista dalla Legge 97 del 6 agosto 2013. (2)
Indipendenza! Indipendenza da questo paese che non ha mai amato i suoi cittadini!
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NOTE
(1) Deliso Villa “Storia dimenticata” – Ed. Ente vicentini nel mondo, 1997
(2) Legge 6 agosto 2013, n. 97 – Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2013 – Articolo 7: Modifiche alla disciplina in materia di accesso ai posti di lavoro presso le pubbliche Amministrazioni. Casi EU Pilot 1769/11/JUST e 2368/11/HOME – [...] b) dopo il comma 3 sono aggiunti i seguenti: “3-bis. Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria. [http://reteambiente.it/normativa/18972/legge-6-agosto-2013-n-97/ ]
Comenti:Heinrich
31 Agosto 2013 at 1:48 pm # L’emigrazione dall’italia è sempre stata voluta e mirata, e non è un caso che sia iniziata con la proclamazione del Regno d’Italia ed abbia colpito le regioni man mano che queste venivano annesse al dominio sabaudo.
Dal 1866, mentre i veneti iniziavano ad emigrare in massa verso le americhe e l’oceania, cosa mai accaduta prima quando il Veneto era sotto amministrazione asburgica (ergo “sovrappopolazione” un corno!), i friulani neo-annessi al regno italiano emigravano in massa nel Friuli Austriaco!
Il discorso della sovrappopolazione non sta in piedi, è una boiata sesquipedale.
Se fosse stato così sarebbero emigrati unicamente verso il Nuovo ed il Nuovissimo Mondo, invece dal Regno d’Italia emigravano in Francia, Germania, Svizzera ed Austria-Ungheria.
Questa è una spiegazione lampante: emigravano perché sin dalla sua nascita l’Italia si è dimostrata uno STATO DI MERDA, altro che sovrappopolazione.
Il fatto che, a distanza di una manciata di km, nell’Anpezo asburgica si pagasse il 7% di imposte all’erario imperiale mentre nel Cadore italiano la regia tassazione sabauda fosse già del 27% dovrebbe dare un’idea del drastico peggioramento delle condizioni di vita degli abitanti del Regno Lombardo-Veneto dopo il loro passaggio sotto la dominazione italiana.
Fame e malattia. Ed a proposito ricordiamo i vari scandali tipicamente italiani riguardanti già Cavour ed i suoi colleghi in merito a nepotismi, clientelismi, truffe e ruberie tra le quali il celebre caso dell’aggiotaggio sul prezzo del grano, cosa che portò la popolazione di Milano a rivoltarsi per la mancanza di pane (quindi non chissà qual rivolta libbberale), rivolta che venne repressa nel sangue dal piemontese Gen. Fiorenzo Bava Beccaris, il quale venne decorato con la Gran Croce dell’Ordine militare di Savoia e premiato con la nomina a Senatore per il “merito” di aver aperto il fuoco sui civili milanesi affamati causando 80 morti e 450 feriti.
Inoltre l’italia era uno dei paesi europei con il più elevato tasso di analfabetismo in assoluto, ed i dati parlano chiaro: dopo pochi anni di dominazione italiana il tasso di alfabetizzazione in Lombardia crollò verticalmente…un secolo di sforzi ed innovazioni austriache volto ad estendere l’istruzione obbligatoria e garantire una educazione di qualità, per quanto minima, a tutti, venne smantellato rapidamente dalla (d)istruzione sabauda.
Non stupisce infatti che nella prima guerra mondiale gli italiani tanto del nord quanto del sud guardassero esterrefatti i civili del Friuli Austriaco deportati nei campi di concentramento italiani sparsi in tutta la penisola, quando questi dimostravano di saper tutti (uomini, donne, vecchi e bambini) leggere e scrivere perfettamente non solo in italiano, ma pure in più di una lingua.
Edoardo Rubini (???)
1 Settembre 2013 at 2:11 pm # Un particolare importante: la trasformazione della società nell’800, che porta alla rivoluzione industriale, all’industrializzazione pesante, all’inurbamento di milioni di contadini nelle periferie industriali, all’esplosione demografica, all’emigrazione di milioni di europei è dovuta proprio all’abbandono della struttura socio-economica di tipo cristiano impianta per secoli in Europa (???).
Essa viene soppiantata con la buone e con le cattive dall’imporsi dell’ideologia liberale (di cui il liberismo è l’espressione in economia), che vuole l’abbandono dello stato sociale, l’imporsi del libero mercato con l’abolizione di dazi e dogane, la svendita del patrimonio fondiario pubblico (che alcuni Stati Cristiani, come la Veneta Serenissima Repubblica, prima rivolgevano al libero uso del popolo ???), infine alla requisizione di Monti di Pietà, di istituzioni religiose, la chiusura di conventi ed abbazie, che prima formavano un immenso apparto assistenziale gratuito rivolto ai poveri (???). Questo patrimonio immenso, nel caso italiano, è incamerato dallo “stato leggero” savoiardo, ma poi la cura dimagrante è compiuta con la sua svendita agli amici degli amici di loggia massonica.
Il paradosso è che a denunciare questo sfacelo sono i propugnatori dell’ideologia “libertarian”, continuatori della distruzione della Civiltà Veneta e della Veneta Nazione (???).
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FATTA L’ITALIA, OCCORRE DISFARSI DEGLI ITALIANIhttp://www.lindipendenza.com/fatta-lita ... i-italianidi PAOLO L. BERNARDINI
Il libro curato da Gianpaolo Romanato, L’Italia della vergogna nelle cronache di Adolfo Rossi (1857-1921), pubblicato da Regione Veneto-Longo editore Ravenna nel 2011, ha molti meriti e qualche demerito. Il primo dei meriti è quello di riportare all’attenzione del pubblico Adolfo Rossi, uno dei maggiori giornalisti italiani, originario del Polesine, a cavaliere dei due secoli. Rossi, che appartiene ad una terra che di giornalisti, scrittori e politici illustri ne conta molti, soprattutto in quel periodo – da Balzan a Matteotti – fu prima di tutto un grande viaggiatore, e uno scrittore puntuale, preciso, mai rettorico o oleografico, ma di misurata prosa ed efficace argomentare. Nato povero, fu prima emigrato in America, poi giornalista, poi, dal 1902, ispettore del Commissariato Generale dell’Emigrazione, e quindi, dal 1908 fino alla morte, membro del corpo diplomatico italiano.
Purtroppo manca su di lui quella monografia che ci permetterebbe di cogliere a tutto tondo una figura che si mosse, inesausta, dagli USA all’America Latina, dall’Eritrea, colonia sabauda di recente acquisizione, alla Sicilia, colonia meno recente, da Costantinopoli a Madrid, al Sudafrica della guerra anglo-boera (e dell’emigrazione italiana); la sua bibliografia conta almeno trenta volumi, o lunghe relazioni (come quelle pubblicate qui, su Brasile, Stati Uniti, Sud Africa, e Argentina: Romanato ha escluso la relazione su Basilicata e Calabria del 1908, un peccato, perché avrebbe completato così il volume, che avrebbe contemplato tutte e 5 le relazioni ufficiali che Rossi pubblicò sul “Bollettino dell’Emigrazione” dal 1902 al 1914), oltre ad un numero altissimo di articoli pubblicati sui maggiori periodici italiani.
Rossi dunque affrontò il problema dell’emigrazione italiana soprattutto extra-europea, con dovizia di particolari, viaggiando coraggiosamente attraverso i luoghi più sperduti dove gli “italiani”, ovvero i siciliani, i veneti, i liguri, i campani, gli abruzzesi, i trentini, i friulani, cercavano di sopravvivere fuori da una patria ingrata, ma soprattutto, alla fine, inesistente.
Come spesso accade, quando si affronta il problema della migrazione italiana, pianificata come deportazione degli italiani in eccesso da figure criminali quali Nino Bixio ben prima che l’Italia divenisse un’entità politica (viaggiava perfino in Australia a tale scopo), Romanato tace, come del resto fa Rossi, sulle cause di tale fenomeno, immenso.
“Fatta l’Italia, occorre disfarsi degli italiani”, parafrasando l’esteta D’Azeglio, vacuo e razzista, non solo attraverso politiche destinate esplicitamente ad incoraggiare la migrazione – con relativa corruzione di Stato a livelli estremi, come accadeva soprattutto nella gestione dei mediatori e procuratori di carne umana – ma anche attraverso politiche di tassazione eccessiva ed esagerata, denunciate da molti ai tempi, che aveva ad esempio ridotto il Polesine di Rossi, di Matteotti, e di Romanato alla nascita (è del 1946), a quella miseria ignobile che mai aveva conosciuto sotto la Serenissima, probabilmente neppure ai tempi dei Romani, dei Veneti antichi, e financo degli Euganei. L’inizio della rapida decadenza del Polesine, del resto, risale agli anni Sessanta: prima le rinnovate ed esacerbate richieste del governo austriaco, che doveva finanziare la guerra con la Prussia, poi quelle, ininterrotte, cieche, violentissime, del governo italiano, a partire dal 1866, ovvero dall’annessione del Veneto e di Mantova (peraltro, anche di mantovani è pieno il Brasile di cui ci parla Rossi).
Fortuitamente, l’occupazione sabauda di Veneto, Emilia, Regno delle due Sicilie, Friuli e Lombardia, insieme ad una rivoluzione demografica tardiva (quella europea si era svolta tra metà e fine Settecento), venne subito dopo l’abolizione della schiavitù in tutto il continente americano. Ecco che gli “italiani”, insieme a numerose altre popolazioni di disgraziati, ovvero ridotti in disgrazia dai propri governi, in primis i cinesi, i coolies, meno resistenti però al lavoro duro rispetto a veneti, friulani, siciliani etc., vennero a sostituire gli schiavi, sotto l’apparenza della libertà. Di nuova schiavitù si tratta, in effetti, e se si leggono senza piangere queste pagine di Rossi, si vedrà come della vita in schiavitù gli “italiani” patissero tutti i disagi: violenza, abusi sessuali, fustigazioni, bastonature, malattie, privazioni, stenti. Ora, vero documento per un’antropologia coloniale, i testi di Rossi forniscono materia viva allo storico, sono testimonianze raccolte di prima mano, veritiere. Gli schiavi tricolore, più variopinti dei neri e dei gialli e degli indios messi insieme.
Anche il fatto che gli “italiani” dovunque tenessero i ritratti di Vittorio Emanuele III e della regina Elena (tra l’altro, Rossi era stato anche in Montenegro, pubblicando un resoconto interessante nel 1896), non deve sorprendere, non si tratta di “sindrome di Stoccolma” per gli esiliati dal regno sabaudo. Si tratta dell’umano desiderio di avere un sogno di patria, un’idea di patria, senza comprendere che tale patria, nel caso di specie, era la peggiore “patrigna”, anche se l’effetto che questa patetica ingenuità ci fa, è pari a quello di pensare a ebrei che avessero appeso nelle celle dei lager la foto di Hitler.
Perché occorre leggere Rossi? Perché rende perfettamente chiara la tragedia dell’emigrazione, per tutti, o quasi tutti (qualcuno riuscì a far fortuna), perché rende perfettamente chiare le motivazioni, e le condizioni miserrime di vita, di questa ondata di milioni di disperati che si riversavano fuori dai loro paesini, oggi spesso nomi a cui non corrispondente neanche più una casa. Dice a Rossi, in veneto, nel mezzo del Brasile, il colono trentino Beniamino Fontana: “chi ghe n’ha, sta mejo in Italia de qua” (p. 85), parole sacrosante applicabili ad ogni migrante: non si lascia la propria terra, nella maggior parte dei casi, se essa offre abbastanza per vivere bene, o perlomeno dignitosamente.
Rossi si indigna, a ragione, per i denari spesi nelle colonie africane, e per le sciagurate politiche coloniali; ma non si indigna abbastanza dinanzi ai suoi “connazionali”, ridotti in schiavitù. O meglio, colto da patriottica cecità, come lo storico Romanato (che chiama in ogni momento l’Italia “il nostro paese”, usando il pluralis maiestatis, perché mio, ad esempio, proprio non è), ed insieme senso vivo di pietà per quei tribolati, vorrebbe che il governo italiano spendesse di più per aiutarli in quei paesi lontani, insomma, un po’ come chiedere a Hitler di fornire le mense di Auschwitz con brioches, frittelle, galani e cioccolata calda. I migranti erano merci da export, influivano sulla bilancia commerciale e sull’equilibro diplomatico, valevano un tanto al chilo per il governo italiano, una volta esportati, non erano più interessanti, se già allora si fossero esportate FIAT avrebbe avuto maggior valore e qualche officina per le magnifiche vetture torinese sarebbe stata pur creata (stiamo parlando di Brasile, infatti…).
Ben venga dunque un libro di scritti di Rossi, ben venga, se qualcuno la scriverà, un’opera dedicata interamente a lui, figlio del Polesine asceso a giusta fama, viaggiatore attento anche ai minimi dettagli, e ai più remoti anfratti del mondo, senza mai cadere nella disgustosa retorica dei suoi equivalenti attuali. Ma non si ignorino le ragioni per cui quegli inferni qui descritti sono venuti al mondo, ché prima non c’erano, ché prima del 1861, o del 1866, l’emigrazione era assai limitata, ché prima ancora nel Nuovo Mondo ci andavano Lorenzo da Ponte o qualche nobile viaggiatore lombardo. Non ci andavano queste torme di disperati, affetti da ogni malattia, forse anche dalla nostalgia di una terra che era stata loro sottratta, nell’illusione di averli resi, di tale terra, cittadini a pieno titolo. Se il sogno di Cavour era la fine del latifondo, ecco che i contadini diventano proprietari di piccoli appezzamenti in Brasile, il sogno antinobiliare si frantuma sulla realtà di miseria che l’Italia unita crea, e sperimenta, da subito. Diventano proprietari dopo aver sudato sette, o piuttosto settemila camice. Contribuiscono, certo, a rendere ricchi paesi altri, ma a quale prezzo.