El mito de Garibaldi

El mito de Garibaldi

Messaggioda Berto » mer gen 29, 2014 5:11 pm

El mito de Garibaldi
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Garibaldi e il fascismo (I)

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http://www.dirittodivoto.org/dblog/arti ... ticolo=392

Di Admin (del 29/01/2014 @ 10:03:32, in Statalismo, linkato 197 volte)

Ospitiamo il primo di una serie di articoli, scritti per Diritto di Voto da Marcello Caroti, autore del volume "Garibaldi il primo fascista - Le radici del Fascismo nel Risorgimento italiano" (Youcanprint.it edizioni). Il lavoro di Caroti ha ricevuto ottime recensioni da Libero e L'Indipendenza; esso rappresenta uno dei rari testi storiografici volti a smitizzare quel protagonista dell'unificazione statuale italiana, che la retorica "ufficiale" ha santificato. Nel pezzo che presentiamo oggi non mancano passaggi che forse susciteranno qualche polemica. Al di là di alcune definizioni, scelte dall'autore, che non condivido, resta intatto il valore di una ricerca e di un'analisi che ben inquadrano Garibaldi quale vero e proprio primo Duce d'Italia. Buona lettura (A.S.)

* * *

1. Il nazionalsocialismo

Sembra che Pisapia voglia fare lezioni di antifascismo nelle scuole di Milano.
Per me giunge a proposito, esattamente un anno fa pubblicavo il mio primo libro: “Garibaldi il primo fascista”.
Era da tempo che volevo scriverlo e mi sono deciso dopo la celebrazione dei 150 anni d’Italia perché mentre da una parte i patrioti continuavano a parlare di un personaggio che non è mai esistito dall’altra le critiche erano imprecise, a volte stravaganti e comunque non andavano al cuore del problema.

Il titolo del mio libro non vuole essere una provocazione. E’esattamente quello che Garibaldi è stato e, soprattutto, cosa ha significato per il futuro del paese che lui ha creato: “fascista” è la caratterizzazione più precisa per quella persona.
Lo scopo di questi articoli è di illustrare, in modo sintetico, gli elementi che fanno di Garibaldi un fascista e per fare questo è indispensabile, innanzi tutto, definire il fascismo. Dobbiamo quindi parlare di ideologia per vedere come Garibaldi avesse già dentro di se questo atteggiamento mentale molti anni prima che venisse fondato il relativo movimento politico.

Il fascismo è la versione italiana del nazionalsocialismo. All’Italia spetta il primato di aver prodotto, con Mussolini, il primo movimento politico e il primo regime nazionalsocialista della storia e questo non è avvenuto per caso. Questo primato dell’Italia è l’eredità più profonda che Garibaldi e il Risorgimento hanno lasciato a questo paese (e al mondo).
Mussolini usò il termine “fascista” per il suo nuovo movimento perché questo riferimento ai fasci dell’antica Roma era già stato usato in Italia per definire un associazionismo populista, rivoluzionario e “anti sistema”. Era anche stato usato da Garibaldi quando tentò di “legare in un fascio” varie associazioni operaie e quindi aveva già una certa autorevolezza, però il termine “fascista” non dà alcuna indicazione sul contenuto ideologico del movimento.

Il termine che descrive correttamente questa ideologia lo dobbiamo a Hitler che chiamò il suo nuovo movimento politico il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori. Il termine “nazionalsocialista” è più corretto perché questa è la sua vera natura: la sintesi di socialismo e nazionalismo.
Ora descriviamo come queste due ideologie si siano evolute fino ad arrivare a sintetizzarsi in una nuova ideologia e come Garibaldi sia parte in questo processo evolutivo.
Il nazionalismo (la fede nella patria) nasce con la Rivoluzione Francese e il Giacobinismo ed esplode poi col Romanticismo. Il socialismo lo si può rintracciare dalla Fabian Society in Inghilterra nel ‘700, ma probabilmente questa patologia la si dovrebbe ricondurre al cristianesimo delle origini. Purtroppo sarebbe necessaria un biblioteca per illustrare questa evoluzione.

Quando nasce Garibaldi il nazionalismo era già ben affermato in Europa, in Italia Mazzini ne era il suo profeta mentre il socialismo prende piede un poco più tardi; l’Internazionale Socialista nasce nel 1864. L’800 è stato il secolo incubatore di queste patologie e, in particolare, a fine ’800 inizia a prender piede questa nuova patologia: il nazionalsocialismo. Quando Garibaldi si affaccia sulla scena politica internazionale il socialismo che si stava diffondendo aveva come suo messaggio centrale (marxismo) l’abolizione della famiglia e della proprietà privata e, inoltre, prevedeva l’annientamento delle nazioni perché erano un prodotto della società “borghese”; la rivoluzione del proletariato avrebbe prodotto un’entità mondiale, la dittatura del proletariato, che avrebbe spazzato via le nazioni. Era noto a tutti che la base della fede socialista era un assoluto internazionalismo e a questo punto sembrerebbe ovvio che i nazionalisti non si sarebbe mai accostati al socialismo; ma così non fu. Pur essendo la cosa assolutamente irrazionale, proprio Garibaldi è stato il primo a produrre una sintesi, tutta sua personale, di queste due patologie (nazionalismo e socialismo) non solo dichiarandosi socialista senza rinunciare al suo nazionalismo ma soprattutto vivendo in tutta la sua vita, e nel suo pensiero, gli elementi di questa nuova ideologia: il fascismo o nazionalsocialismo. Naturalmente i dirigenti dell’Internazionale protestavano che Garibaldi non aveva capito nulla del socialismo, ma inutilmente. Garibaldi era convinto di essere lui il vero socialista e continuò a considerarsi socialista fino alla fine dei suoi giorni restando sempre un fanatico nazionalista e condannando i dirigenti dell’Internazionale che secondo lui tradivano la vera causa del “popolo”. Molti grandi profeti del socialismo consideravano Garibaldi un bambinone o un vecchio pazzo e molti suoi amici cercavano di dissuaderlo da questo suo atteggiamento assurdo, inutilmente. Garibaldi non era un ideologo e non espresse mai un corpo di pensiero che potesse far nascere una nuova ideologia ma le sue idee erano semplici e irremovibili: lasciavano il segno. Nessuno allora avrebbe potuto neanche immaginare quale mostruoso sviluppo avrebbe avuto negli anni successivi questo atteggiamento mentale di Garibaldi.

Dopo di lui molti seguirono il suo esempio e aderivano al socialismo pur restando fermamente nazionalisti. Come è possibile che personaggi ultranazionalisti come Garibaldi abbiano sentito il bisogno di aderire al movimento socialista con tanta ostinazione? Che senso ha?
La confusione all’interno del socialismo aumentava in continuazione con altre interpretazioni del socialismo (bakuniani, anarchici, utopisti, socialdemocratici, ecc.) e alcune erano chiaramente incompatibili con il suo messaggio centrale: come è stato possibile?
Fino alla Grande Guerra il socialismo tenne assieme tutte queste sue anime e ci fu una sola scissione nell’Internazionale, quella con gli anarchici. E’ da notare che l’anarchia era sicuramente un aspetto fondante del socialismo perché il messaggio di tutti i suoi grandi profeti era sostanzialmente anarcoide. Eppure gli anarchici furono gli unici a essere espulsi dall’Internazionale, perché?

Abbiamo messo in evidenza tutte queste domande senza una risposta perché è indispensabile rendersi conto che stiamo trattando di un delirio, di un fenomeno assolutamente irrazionale che non si può spiegare senza l’aiuto di psichiatria o psicoanalisi. Noi possiamo solo raccontare come è successo e non è facile raccontare un delirio.
Con lo scoppio della Grande Guerra questa finzione, di essere tutti socialisti, non è più tenibile e il socialismo si spacca in tanti pezzi ove i due più importanti, comunisti e nazi-fascisti, danno inizio ai rispettivi partiti. Loro si considerano i veri rivoluzionari anticapitalisti e così fanno esplodere tra di loro un odio irriducibile perché nessun odio può uguagliare l’odio tra fratelli che considerano l’altro il traditore della fede. Quest’odio plasmerà la storia del XX secolo.
In queste poche parole abbiamo spiegato la componente ideologica che fa di Garibaldi il primo fascista, nei prossimi articoli esamineremo gli elementi di fascismo che sono presenti in tutta la sua vita ma vogliamo chiudere questo articolo con una citazione che può fornire un ulteriore spunto di riflessione.

Nel 1864 Garibaldi va in visita ufficiale in Inghilterra ove è accolto con un entusiasmo popolare che nemmeno Lady Diana riuscirà ad uguagliare. Qui Garibaldi incontra Edward Dicey che era il presidente della Cambridge Union. Cosi Dicey descrive Garibaldi: “… mancante di educazione politica, senza cognizione di principi di governo, privo di quella rozza intelligenza che spesso serve agli ignoranti a mascherare l’odio. Non avendo la capacità di valutare i caratteri né quella di resistere all’adulazione, egli era ingannato da tutti coloro che un’elementare prudenza avrebbe consigliato di diffidare. Il fatto che il suo pensiero fosse limitato e le sua mente non potesse afferrare più di un solo aspetto per volta di un problema, gli dava quella concentrazione di intenti e quella intensità di fede necessaria a formare un leader popolare.” Questo è un ritratto perfetto di Mussolini.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El mito de Garibaldi

Messaggioda Berto » ven mar 07, 2014 10:14 pm

SFATARE I MITI: CHI ERA DAVVERO GIUSEPPE GARIBALDI?

http://www.lindipendenza.com/garibaldi-oneto

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Giuseppe Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807 – Caprera, 2 giugno 1882) è stato un generale, patriota e condottiero italiano. Noto anche con l’appellativo di Eroe dei due mondi per le sue imprese militari compiute sia in Europa, sia in America meridionale, è la figura più rilevante del Risorgimento, uno dei personaggi storici italiani più celebri al mondo e anche un eroe nazionale per gli italiani.

Toccare Garibaldi significa toccare uno dei miti sui quali si regge questo paese.

Ma chi era Garibaldi veramente?

Con Gilberto Oneto abbiamo parlato del conduttore italico per antonomasia, dell’uomo che guidò i mille.

http://www.youtube.com/watch?v=rorZTSNtnuI

Comento===============================================================================================================================

Unione Cisalpina
14 Giugno 2012 at 10:25 pm #
ho askoltato l’intervista… x kuanto vi impegniate a sminuire la figura del Rivoluzionario, non ci riuscite … Garibaldi era un rivoluzionario a tutto tondo … dove c’era oppressione, lì lui ci si buttava …
a voi darà probabilmente fastidio il fatti ke fosse Gran Mestro Massone … nemiko giurato di santa romana kiesa … e nel 71. anno in kui il potente Monarka Sakrista Pontifex Maximum Pio Nonò si dikiarava dio in terra (infallibile), lo detronizzò …
x me è un uomo, appunto, MAGISTRALE …
Oggi sikuramente lotterebbe a fianko dei cisalpini x la libertà dei padani dal giogo amministrativo ed usurpatore italiko … e da kuello religioso assolutista kattoliko romano del Sommo Pontefice …

Furt
14 Settembre 2012 at 12:09 am #
Io ne ho una visione equa: un buon stratega e sicuramente un uomo coraggioso. Ma all’italia ha fatto solo del male. In Rio grande ed Uruguay ha aiutato realmente la causa identitaria, come quella dei popoli padani, ma per il resto ha solo eseguito ordini della massoneria inglese. Oggi sarebbe contro di noi, proprio perché lui non aveva alcuna chiara idea sui popoli. A lui bastava una Italia unita e dare addosso al cattolicesimo, da fazioso ignorante qual era.
Ti faccio un altro esempio: per Nizza non ha mosso un dito, per gli stati confederati addirittura stava pensando di andarli a contrastare. Se la massoneria inglese gli avesse detto di fare in contrario, l’avrebbe fatto. Oggi la massoneria e’ ovviamente contraria al Nord libero, così come i tuoi amici protestanti. Fattene una ragione

floriano
4 Febbraio 2012 at 3:02 pm #
LIBERIAMO LE PIAZZE E LE VIE DEL VENETO CHE RAPPRESENTANO QUELLE ORRENDE IMMAGGINI CHE RICORDANO LE INFAMIE COMPIUTE DAL SCIAGURATO, SOTTO IL CONTROLLO DEL SAVOIARDO INFAME.
W L’INDIPENDENZA DEL POPOLO VENETO
W VENETO STATO.org

luigi bandiera
1 Febbraio 2012 at 1:21 am #
Chi era davvero GMG..?
Un SENZA ORECCHI.
Va ben, uno per ora.

luigi bandiera
26 Gennaio 2012 at 8:02 pm #
Beh, il GMG non era italiano…
Ma come sempre i vincitori si prendono liberta’ “poetiche” e li chiamano eroi (ma erano BRIGANTI).
I PATRIOTI invece BRIGANTI..!!!
E la storia e’ senza fine…
Dopo i 150 anni festeggiano il giorno dopo; e poi il dopo ancora; e non so quante linberta’ “POETICHE” si concedono..!
Ti fanno diventare BALBUZIENTE e ti stimolano conati a iosa.
Pero’ loro, SACRIFICI, NIET.
Parlano per gli ALTRI. Beh, rispettono la carta piu’ bella del mondo che gia’ nell’art.1 recita:
l’italia e’ una repubblica democratica (campa cavallo), fondata sul lavoro. MA DEGLI ALTRI..!!
Non trovate l’ultima frase ma e’ sott’inteso… basta leggere i fatti oggi.
E adesso mi vado a godere l’intervento di Oneto.
Saluti e basta menzogne a tre koglioni..!
LB

luigi bandiera
26 Gennaio 2012 at 8:14 pm #
Ocio, non intendo dire che non fosse italiano vero.
Quel senso non va contro il mio senso.
Sono due modi di dare la cittaadinanza e nazionalita’ a un personaggio che era soprattutto MERCENARIO e combattere sotto una bandiera o un’altra per lui era lo stesso.
E quando saremo indipendenti deve essere CANCELLATO da tutte le vie… e piazze. Come fu per Mose’…!!
Saluti

floriano
26 Aprile 2012 at 1:12 am #
DISI UN FIOL DE NA LUIA, E CHI CONOSE EA LINGUA VENETA GA CAPIO COSSA CHE LA SE NA LUIA.
W SAN MARCO SEMPRE

druides
26 Gennaio 2012 at 4:43 pm #
Purtroppo la storia (falsa) la scrivono i vincitori.
E la nostra, non si sa come mai, è costellata, da oltre duemila anni, di occasioni perse.
Ciò detto, dobbiamo continuare a combattere per la verità, per la nostra terra (che non si chiama italia) e per i nostri popoli.

albert
26 Gennaio 2012 at 9:56 am #
Bravo Gilberto!
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El mito de Garibaldi

Messaggioda Berto » mar mag 20, 2014 6:24 am

I garibaldini e i veneti della battaglia di Lissa: veneti di serie A e di serie B ?

Qualche giorno fa mi sono imbattuto, a Fossona di Cervarese S. Croce (Pd) in una recente lapide che ricorda la casa natale di Antonia Masanello, “donna animata da ideali risorgimentali che si unì alla spedizione dei mille”, una garibaldina che seguì l’eroe dei due mondi e che morì a Fiorenze nel maggio del 1862; un’altra lapide la ricorda nel cimitero fiorentino di San Miniato al Monte…ma questa fa meno notizia: laggiù in Italia le lapidi per i garibaldini non si contano…

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Quattro anni dopo la dipartita di Antonia Masanello, durante la cosiddetta “Terza guerra d’indipendenza”, si svolse nel Mar Adriatico, la battaglia di Lissa (20 luglio 1866), che vide il successo della marina austro-veneta sulla marina tricolore.

Lissa viene ricordata come l’ultima vittoria della Serenissima, visto il gran numero di veneti, friulani, istriani e dalmati presenti nella marineria austriaca che fino al 1848 veniva ufficialmente chiamata “Imperial e regia veneta marina”.

E, in una fonte inattaccabile come la “Rassegna Storica del Risorgimento” pubblicata nel 1978,ho trovato in un articolo di Pietro Giorgio Lombardo intitolato “Chioggia dal 1849 al 1866. Appunti” questo elenco dei decorati:



Medaglie d’oro:

PENSO TOMMASO Chioggia
VIANELLO VINCENZO detto GRATAN Pellestrina - Venezia



Medaglie d’argento di prima classe:

ANDREATINI ANTONIO Venezia
PENZO TOMMASO detto OCCHIAI Chioggia
MODERASSO ANTONIO Padova
PREGNOLATO PAOLO Loreo – Rovigo
GHEZZO PIETRO Malamocco - Venezia
DALPRA’ MARCO Venezia
FILIPUTTI ANGELO Palmanova – Udine
DINON GIROLAMO Maniago – Udine
VARAGNOLO ROMA PIETRO FERDINANDO Chioggia
FILIPPO GIUSEPPE Palmanova – Udine
VIDAL BORTOLO detto STROZZA Burano - Venezia

Medaglie d’argento di seconda classe:

GAMBA FRANCESCO Chioggia
ROSSINELLI FEDERICO Venezia
CAVENAGO GIOACCHINO Padova
SCARPA ANGELO ZEMELLO Pellestrina – Venezia
BOUTZEK IGNAZIO Venezia
BUSETTO GIOVANNI ANTONIO Pellestrina – Venezia
PITTERI LUIGI Venezia
GIANNI GIUSEPPE Chioggia
CEROLDI LUIGI GIOVANNI Venezia
MOLIN LUIGI Burano – Venezia
RAVAGNAN GAETANO Donada - Rovigo
SCARPA TOMMASO Chioggia
BORTOLUZZI FERDINANDO Venezia
PREGNOLATTO DOMENICO Contarina – Rovigo
GALLO EUGENIO PAOLO Adria – Rovigo
BOSCOLO LUDOVICO Chioggia
FERLE REDENTORE Venezia
GRASSO LUIGI ANTONIO Chioggia
MARELLA LUIGI ANTONIO Chioggia
NARDETTO DOMENICO Padova
LAZZARI FRANCESCO Venezia
GARBISSI PIETRO Venezia
AMBROSIO ANSELMO Latisana – Udine
FANUTO DOMENICO Venezia
SALVAZZAN ANTONIO Padova
ALLEGRETTO LUIGI Burano – Venezia
VIDALI MASSIMILIANO Maniago – Udine
MARCOLINA ANTONIO Maniago - Udine
VARISCO FRANCESCO Chioggia
BENETTI PASQUALE Padova
BUSETTO CARLO Pellestrina – Venezia
PENSO LUIGI detto MUNEGA Chioggia
NOVELLO RINALDO Venezia
SCOLZ PASQUALE Palmanova - Udine
BOSCOLO CASIMIRO Chioggia
VENTURINI ANGELO detto CIOCOLIN Chioggia
DONAGGIO FRANCESCO Chioggia
NORDIO LUIGI Venezia
MELOCCO detto MEOCCO GIOVANNI Venezia
BOSCOLO VINCENZO Chioggia
SFRIZO AUGUSTO Chioggia
ALLEGRETTO (NEGRETTO) AUGUSTO Burano – Venezia
GALIMBERTI GIOVANN Chioggia


Di tutti questi veneti (e friulani) che si sono battuti in maniera così meritoria da essere decorati, nei libri di storia non c’è traccia; come pure non c’è traccia nella toponomastica dei nostri comuni, di lapidi neanche a parlarne…; è troppo chiedere agli amministratori locali e al mondo della cultura un sacrosanto omaggio a questi veneti ?


Oppure i veneti vanno divisi fra quelli buoni che meritano di essere ricordati (coloro che si batterono per l’Italia) e quelli cattivi che vanno lasciati nell’oblio (tutti gli altri)…?

ETTORE BEGGIATO
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Re: El mito de Garibaldi

Messaggioda Berto » mar ott 07, 2014 9:10 pm

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Re: El mito de Garibaldi

Messaggioda Berto » sab mar 26, 2016 7:26 pm

???

GIUSEPPE GARIBALDI E LA MANOVRA POLITICO/MAFIOSA PER DENIGRARLO

https://www.facebook.com/Giuseppe-Garib ... 0012937592

Giuseppe Garibaldi è uno degli italiani più conosciuti e stimati in tutto il mondo, perché fu un Bandenfuhrer temuto ed ammirato dagli austriaci e dai prussiani, un marinaio apprezzato ed ammirato dagli inglesi signori del mare. Ma egli non fu soltanto un grande condottiero, un grande ammiraglio ed un trascinatore di uomini. Fra le sue molte qualità rifulge la sua onestà adamantina, riconosciuta da tutti gli storici accademici. Si possono portare alcuni esempi di questo:
-durante la guerra marittima autorizzata dal governo del Rio Grande do Sul affrancò tutti gli schiavi che trovò sulle navi catturate e rifiutò di depredare i passeggeri civili.
-durante il soggiorno a Montevideo egli aveva abiti a brandelli e viveva in una casa senza sedie e candele. Eppure rifiutò stipendi e compensi, che pure gli erano dovuti quale combattente per conto della repubblica uruguagia, al fine di mantenere il carattere d’idealità al suo operato.
- nel gennaio 1845 il presidente dell’Uruguay, generale Rivera fece donazione alla Legione Italiana di Garibaldi “della metà delle terre di sua proprietà poste tra l’Arroyo de Las Averias e l’Arroyo Grande a nord del Rio Negro e della metà delle mandrie e degli edifici esistenti in quei terreni”. Garibaldi rifiutò il ricchissimo donativo e convinse anche i suoi ufficiali a respingerlo.
-il dittatore argentino Rosas, in guerra con l’Uruguay, cercò d’assoldare Garibaldi, per una mescolanza di timore ed ammirazione delle sue doti militari. Egli inviò un generale, Oribe, per tentare di comprarlo, con l’incarico di offrigli tutto ciò che Garibaldi avesse voluto. Oribe però non riuscì a convincerlo e scrisse a Rosas che il nizzardo era incorruttibile.
-gli ambasciatori di Francia ed Inghilterra in Uruguay scrivevano durante il conflitto che Garibaldi, l’uomo più popolare nella repubblica sudamericana, era perfettamente onesto, nonostante la sua personale povertà e l’estesa corruzione esistente nel paese.

- Vittorio Emanuele II, dopo la vittoriosa campagna del 1860, offrì a Garibaldi le seguenti ricompense: il collare dell’Annunziata, massima onorificenza del Regno che dava diritto a considerarsi “cugino del re” ed a dare del “tu” al monarca; il titolo nobiliare di duca; la promozione a generale d’armata; un castello, una nave, una tenuta per il figlio Menotti, una dote per la figlia Teresita e la nomina dell’altro figlio, Ricciotti, ad aiutante di campo del re. Garibaldi rifiutò tutto e si ritirò a Caprera con alcuni sacchi di granaglie.
Avendo egli dato questi ed altri esempi non solo di onestà ma di idealismo e profondo disinteresse per il denaro e la ricchezza, può stupire che vi siano alcuni che lo attaccano pesantemente sul piano personale.
Lo stupore viene meno però se si considera in quali ambienti sociali allignino di solito questi sedicenti “critici” dell’Eroe dei Due Mondi.

Costoro insultano e calunniano la sua memoria non sebbene fosse puro, ma proprio per questo. È soltanto una coincidenza che al degrado culturale e sociale dell’Italia s’accompagnino calunnie su Garibaldi? Si vive in un paese in cui la corruzione è diffusissima, in cui interi quartieri o circondari sono controllati di fatto da mafie, in cui “il furbo” è oggetto di ammirazione anziché di esecrazione, nel quale si “fa carriera” o si ottengono cariche per amicizia, parentela, tessera di partito …
Tutti costoro certamente non possono né capire né stimare Garibaldi, proprio perché era disinteressato e corretto. Il suo comportamento integro e retto è una silenziosa condanna e reprimenda del marciume che intasa certi ambienti simili a cloache.

Comento mio:

Mi dispiace tanto ma questo individuo che ha promosso lo stato italiano, a noi veneti non ha portato nulla di buono, con l'Italia per noi veneti sono arrivate:
la miseria nera, la fame, la diaspora nel mondo, la distruzione della I guerra mondiale, il degrado morale, lo sfruttamento economico, la corruzione e il pantano italico, l'infame regno savoiardo, il fascismo e la falsa democrazia repubblicana.
No proprio no, questo individuo per noi veneti è stato soltanto una grande disgrazia e sogno il giorno in cui anche il suo nome verra cancellato dalle piazze e dalle strade venete.
Il mito di Garibaldi è come quello di Napoleone che ha trasformato una repubblica in una monarchia imperiale, e che solo in Francia ha causato la morte di 4 milioni di francesi, in Veneto questo criminale della storia ha causato la morte di 60 mila veneti; tralasciamo i dati dei danni che ha provocato all'intera Europa.
Queste esaltazioni di personaggi denotano la miseria umana e culturale di chi ne è affetto.
Il criterio per valutare le opere di tutti gli uomini dovrebbere essere dato dal bene e dal male che essi, che ogni uomo ha generato, portato alla sua gente e all'umanità intera.
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Re: El mito de Garibaldi

Messaggioda Berto » sab mar 26, 2016 7:26 pm

???

LA MORTE DI ANITA GARIBALDI. IL “CORONER” DELL’EPOCA, PARLO’ DI STRANGOLAMENTO.

http://venetostoria.com/2016/03/26/la-m ... ngolamento

Anita (nata: Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva. Morrinhos, 30 agosto 1821 – Mandriole di Ravenna, 4 agosto 1849) incinta e febbricitante, poiché rallentava la fuga del buon Giuseppe, dopo l’effimero colpo di Stato della Repubblica romana, secondo il primo referto medico legale fu fatta STRANGOLARE dall’amato Garibaldi. Aveva 27 anni.

Anita Garibaldi: com’è morta?

Tutti noi siamo stati indottrinati sulla storia dell’amore fra Anita e Giuseppe Garibaldi.Peccato non venga divulgata anche tutta la controversa verità sulla morte di Anita, morta nelle valli di Comacchio nel 1849.Riportiamo per intero il testo del rapporto stilato dal Delegato Pontificio di Polizia in Ravenna, conte Lovatelli, e consegnato a monsignor Bedini, Commissario Pontificio Straordinario di Bologna, il 12 agosto 1849:

«Eccellenza Reverendissima, mi reco a premuroso dovere rassegnare rapporto a Vostra Eccellenza Reverendissima sul reperimento d’ignoto cadavere. Venerdì scorso 10 corrente da alcuni ragazzetti in certe lande di proprietà Guiccioli alle Mandriole in distanza di circa un miglio dal Porto di Primaro, e di circa 11 miglia da Comacchio, fu trovato sporgere da una motta di sabbia una mano umana.

Presso la ricevuta notizia accedette ieri la Curia in luogo, dove giunta fu osservata la detta mano e parte del corrispondente avambraccio, che erano stati divorati da animali, e dalla putrefazione.

Fatta levare la sabbia, che vi era, per l’altezza di circa mezzo metro, fu scoperto il cadavere di una femmina, dell’altezza di un metro e due terzi circa (1,65 cm) dell’apparente età di 30 in 35 anni alquanto complessa, i capelli già staccati dalla cute e sparsi fra la sabbia, erano di colore scuro piuttosto lunghi, così detti alla Puritana.

Fu osservato avere gli occhi sporgenti, e metà della lingua pure sporgente fra i denti, nonché la trachea rotta ed un segno circolare intorno al collo, segni non equivoci di sofferto strangolamento.

Ne alcuna altra lesione fu osservata nella periferia del di lei corpo; fu veduto mancarle due denti molari della mandibola superiore alla parte sinistra ed altro dente pur molare alla parte destra della mandibola inferiore.

Sezionato il cadavere, fu trovato gravido di circa sei mesi.

Era vestita di camicia di cambrik [tela di cotone, ndr.] bianco, di sottana simile, di sournous [un corto mantellino, ndr.] egualmente di cambrik, fondo paonazzo, fiorato di bianco.

Scalza nelle gambe e nei piedi, senza alcun ornamento alle dita, al collo, alle orecchie, tuttoché forate.

Li piedi mostravano di essere di persona piuttosto civile, e non di campagna, perché non callosi nelle piante.

La massa delle persone accorse da Mandriole, da Primaro, da Sant ‘Alberto e altri finitimi luoghi non seppero riconoscere il cadavere. Non si è potuto stabilire il colore della carnagione per essere il cadavere in putrefazione, nel qual caso non rappresenta il color naturale.

Ne si credette trasportarlo in più pubblico luogo per lo ricognizione, atteso il gran fetore per cui fu subito sotterrato anche per riguardo della pubblica salute.

Tutto ciò conduce a credere che fosse il cadavere della moglie o donna che seguiva il Garibaldi, sì per le prevenzioni che si avevano del di lui sbarco da quelle parti, sia per lo stato di gravidanza.

Fin qui è oscuro come sia giunta quella donna in quei siti, e come sia rimasta vittima.

Si stanno però praticando le opportune indagini, delle quali sarà mia premura sottomettere all’Eccellenza Vostra Reverendissima alla opportunità l’analogo risultato»

Il cadavere risultò essere proprio quello di Anita.

(Il referto è reperibile, tra l’altro, nella biografia Anita Garibaldi. Vita e morte di Ana Maria de Jesus, Boris – Milani, pagg. 156- 157).

Tempo dopo, visto il “ruolo” che le autorità inglesi e sabaude decisero di assegnare a quello che fu oggettivamente usato come un “fantoccio-insanguinato”, fu compilato un altro referto che contraddiceva il primo. Di certo si sa solo che è morta…



Dixen ke no se sa ben come ke la xe ndà.
https://it.wikipedia.org/wiki/Anita_Garibaldi

Alla morte di Anita, si racconta che Garibaldi piangesse stringendo nelle mani il polso di lei e non volesse abbandonarla. A fatica il fedelissimo Leggero lo convinse a riprendere la fuga e a mettersi in salvo prima dell'arrivo della polizia papalina e dei soldati austriaci. «Generale, dovete farlo. Per i vostri figli, per l'Italia...» avrebbe detto Leggero. Il corpo senza vita di Anita fu frettolosamente sepolto nella sabbia, dal fattore e da alcuni amici, nella vicina "motta della Pastorara", allo scopo di nascondere il corpo alle perquisizioni delle pattuglie. Sei giorni più tardi, il 10 agosto 1849, la salma venne casualmente scoperta (un braccio affiorava dalla sabbia ed era già stato mordicchiato dai cani) da un gruppo di ragazzini. Fu trasportata al cimitero di Mandriole.

Il 12 agosto il Delegato Pontificio di Polizia in Ravenna, conte Lovatelli (in sostanza il locale comandante della polizia papalina), consegnò a monsignor Bedini, Commissario Pontificio Straordinario di Bologna, un rapporto nel quale si sostiene che "tutto conduce a credere che fosse il cadavere della moglie o donna che seguiva il Garibaldi, sia per le prevenzioni che si avevano del di lui sbarco da quelle parti, sia per lo stato di gravidanza". Il poliziotto aggiunge che il cadavere mostra "segni non equivoci" di strangolamento (tra l'altro anche lacerazioni alla trachea), come a dire che Garibaldi, per non essere impacciato nella fuga, avesse strangolato la moglie incinta. Il referto della polizia fu poi smentito dallo stesso medico che aveva esaminato il cadavere di Anita: nessuno strangolamento.

Infatti, in seguito a un'accurata indagine giudiziaria delle autorità pontificie (le stesse che davano la caccia a Garibaldi per ucciderlo), esse finirono col prosciogliere completamente i Ravaglia (la famiglia presso cui Anita, moribonda, aveva trovato riparo) da ogni accusa sia d'assassinio, sia di furto. I medici legali stessi (pontifici) dichiararono dopo esame del corpo che Anita era morta per cause naturali. Intorno alla morte di Anita, il rapporto dice: «Fu allora mandato a chiamare dalla boaria Giuseppe Ravaglia, ed essendo stato deciso di dare ricovero a quella donna, fu intrapreso il di lei trasporto per adagiarla in un letto esistente sul piano superiore, sul quale però non poté essere posata viva, perché su per le scale fu investita da una specie di convulsione che la tolse dai viventi” Intorno ai segni che parvero di strangolamento, il rapporto recita: «E quei guasti nel suddetto cadavere riscontrati l'11 agosto, non derivano che dall'effetto della inoltrata putrefazione, la quale avendo agito meno nella parte anteriore del collo, perché il mento lo aveva maggiormente difeso dal calore tramandato dalla sabbia, le aveva lasciato un cerchio come di depressione, nel che convenne poscia lo stesso fisico in successivo esame sostenuto”.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El mito de Garibaldi

Messaggioda Berto » lun mar 28, 2016 8:07 pm

Mama ke oror!

Il fascino di Garibaldi sul Clero italiano
di Dino Mengozzi

http://storiaefuturo.eu/il-fascino-di-g ... o-italiano

Garibaldi ha affascinato anche molti uomini di chiesa, costituendo per certi versi una figura di separazione fra clero conservatore e clero nazionale fin oltre l’unificazione nazionale. L’immagine ereditata del campione dell’anticlericalismo e dell’irreligione, è dunque da riconsiderare. Inizialmente il suo mito si forma all’interno di un discorso “unico” del Risorgimento, né anticattolico né anticlericale. Lo stesso
Garibaldi, nel 1847, metteva le sue armi a disposizione di Pio IX. Con la dissociazione del papa dalla guerra all’Austria, la storia del “clero affascinato da Garibaldi” diventa una storia di singole personalità, almeno fino al 1859-1860, quando l’unificazione del nord Italia e soprattutto l’impresa dei Mille riaprivano un’adesione di tipo quarantottesco fra il clero meridionale. La rottura si aveva più tardi. Diversamente da coloro che l’avevano datata al 1848-1849, il saggio riporta le ragioni della separazione fra Garibaldi e il clero a dopo il 1860, quando il radicalismo garibaldino, accentuato dalla volontà di prendere Roma, conduce Garibaldi verso una contro religione laica, di cui egli si propone quale fonte di sacralità autonoma, fondata sul culto della sua persona. Allora, con un Garibaldi “papa laico”, non ci saranno più preti in camicia rossa, ma preti garibaldini che lasciano la tonaca o vivono piuttosto emarginati.

Abstract english

The fascination Garibaldi exerted over the Italian clergy Garibaldi has fascinated also many clergymen, becoming in some ways a figure who marked a separation between the conservative clergy and the national clergy even after the national unification. The image of the champion of anticlericalism and irreligion has, therefore, to be reconsidered. At first his myth arose within a ‘common’ interpretation of the Risorgimento, which was regarded as neither anti-catholic nor anti-clerical. Garibaldi himself, in 1847, offered his services in defence of Pius IX with his volunteers. After the decision of the Pope to dissociate himself from the war with Austria, the story of ‘the clergy fascinated by Garibaldi’ becomes the story of individual figures, at least until 1859-1860, when the unification of northern Italy and the expedition of the Thousand helped to gain widespread support among the southern clergymen, as shown during the 1848 revolts. The break would come later. Unlike those who had dated it back to 1848-1849, this essay shows that the reasons of the separation between Garibaldi and the clergy are to be found after 1860. A period in which a certain political radicalism emphasized by the will to conquer Rome, leads Garibaldi towards a secular religion, of which he considers himself source of autonomous sanctity, founded on the cult of his own person. With Garibaldi seen as a ‘lay pope’, there will be no more priests wearing red shirts, but garibaldian priests who abandon their cassocks or live quite isolated.

Personaggio considerato da molta storiografia tradizionale come emblema di ciò che il Risorgimento aveva di anticattolico e persino antireligioso, Garibaldi andrebbe – in verità – riportato ai contesti e alle diverse fasi del suo operare. Il suo mito, non di meno, inizia a diffondersi fin dagli anni sudamericani all’interno di un discorso “unico” del Risorgimento italiano, né anticattolico né anticlericale (Banti 2000, 120, 139).

Infatti, fin da prima del suo rientro in Italia, nel 1848, la figura del capo della Legione italiana a Montevideo non è molto caratterizzata in termini ideologici, ma rappresenta un po’ per tutti l’uomo del riscatto dell’onore italiano. Lo stesso Garibaldi si descrive in questi termini nelle prime biografie affidate a Cuneo, Dumas, Carrano e i cui episodi salienti vennero talvolta ripresi da vari periodici italiani (Mengozzi 2012a).
La figura dominante è quella di un soldato volontario, che si batte per la libertà e che riscatta la cattiva opinione diffusa in Europa, secondo la quale la perdita della libertà ha significato per gli italiani la perdita della virilità. Gli italiani “non si battono”, secondo la famosa definizione, che allude anche a una presunta rilassatezza morale (Belardelli 1999, 66-67; Mengozzi 2011, 89-97). In questo contesto, la critica della “decadenza” italiana coinvolgeva la società non meno della famiglia. Sicché il mito di Garibaldi, fondato sulle sue imprese militari e sulla sua figura morale di uomo integerrimo, veniva a incontrare il discorso nazionale italiano, addensando sulla sua figura molte e diverse aspettative: dall’eroe al campione del riscatto militare, dall’uomo d’onore al combattente per la libertà.

Ora, un primo elemento da sottolineare nella prospettiva di questo saggio è che i maggiori tratti di tale costruzione retorica rispondono a “figure” diffuse dal clero patriottico. Mediante prediche, sermoni, quaresimali, abili predicatori trasformatisi in formidabili oratori politici, come i barnabiti Ugo Bassi e Alessandro Gavazzi, avevano percorso l’Italia del centro-nord denunciando la decadenza morale e additando il dovere di una rinascita civile e religiosa della patria nazione. Enrico Francia ha bene ricostruito questo evento e non è il caso di soffermarvisi di più (2007, 440). Per altro una nota pubblicazione come il Panteon dei martiri della libertà italiana, uscita nel 1851, riassumeva quella fase di formazione della coscienza nazionale scrivendo che “la parola era per divenire una suprema potenza in Italia – il verbo dovea esser Dio” (1851, 560).
Va da sé che i predicatori patrioti, in questa fase, sono avvantaggiati: il loro abito li protegge e possono spesso eludere la sorveglianza poliziesca portandosi sul pulpito di Stati diversi, per quanto – in certi casi – mal tollerati dal clero conservatore.



1. Padre Alessandro Gavazzi durante una predica in Inghilterra, disegno.

In ogni caso, il clero patriottico mobilitato nel 1848 non abbandona il campo neppure dopo la nota allocuzione di Pio IX, con la quale il papa si dissociava dalla guerra all’Austria (Gariglio 2011). Anzi, nei casi più noti, come Gavazzi e Bassi, i predicatori della patria non recedono neppure di fronte alla fuga del papa da Roma e alla radicalizzazione della lotta politica. Se mai la sconfitta dell’ipotesi neoguelfa li porta a dissociare la religione patriottica dalle gerarchie e naturalmente dal papa, per un ritorno alla primitiva figura di Cristo martire e liberatore degli oppressi. Da questa svolta, la storia del “clero affascinato da Garibaldi” diventa essenzialmente una storia di singole personalità. Per rivedere un’adesione di tipo quarantottesco e una comparabile creatività di forme e modi della religione patriottica e dei suoi predicatori, in abito talare o col saio, al movimento nazionale, occorrerà attendere un altro evento capitale della storia del Risorgimento come l’impresa dei Mille. Allora potremmo azzardare l’ipotesi di una Chiesa meridionale largamente simpatizzante e in parte militante con i garibaldini. Ma poi di nuovo i destini si separano, e la costruzione dell’Italia unita, dal lato del clero “garibaldino”, tornerà a essere una storia di singole personalità.


1.

Garibaldi rappresenta sulla scena italiana del 1848 una varietà di suggestioni. Campione dai tratti esotici dei volontari che non si arrendono, secondo il democratico e federalista Carlo Cattaneo; figura cristologica e benedicente, secondo una celebre stampa in circolazione nel 1850; patriota combattente al servizio del re Carlo Alberto e del papa Pio IX. Dal canto suo, come si è dichiarato a disposizione del re Carlo Alberto, benché repubblicano, così ha fatto per la causa neoguelfa. Già a Montevideo ha messo le sue armi a disposizione di Pio IX attraverso una lettera spedita al nunzio apostolico Bedini in Rio de Janeiro nel 1847. La lettera sarà ripresa e pubblicata nelle prime biografie di Garibaldi, come quella di Cuneo apparsa a Torino nel 1850, ma anche in Dumas e altri scrittori garibaldini (Dumas 1860, 99-100). Bedini rispondeva elogiando l’offerta.

Nella lettera, Garibaldi lodava le riforme iniziate da Pio IX esaltando anche la religione cattolica e il ruolo del papa: “tutto infine ci ha convinti che sia finalmente uscito dal seno della nostra patria l’uomo il quale, comprendendo i bisogni del suo secolo, ha saputo, secondo i dettami della nostra augusta religione, sempre nuovi, sempre immortali, e senza derogare alla loro autorità, piegarsi all’esigenza dei tempi” (in Dumas 1860, 99). Seguiva l’offerta del suo braccio armato, dopo una sapiente evocazione di possibili pericoli, minacce e tentativi di rovesciare “l’ordine delle cose”. Perciò, scriveva Garibaldi insieme all’esule e amico Francesco Anzani, “se oggi delle braccia che hanno qualche pratica delle armi sono bene accette da Sua Santità, è inutile dire che con il maggior piacere del mondo le consacreremmo al servizio di colui che tanto fa per la patria e per la Chiesa” (Ivi, 100).

Ora, fra queste prime posizioni garibaldine e le prediche patriottiche di Bassi e Gavazzi c’è un terreno comune: gli entusiasmi per il “papa liberale” e la chiamata alla guerra d’indipendenza. Garibaldi rappresenta in questo contesto l’eroe morale, che ristabilisce l’onore nazionale e della famiglia, contro le insidie degli occupanti violenti. Si tratta di un tema ampiamente presente in una vasta letteratura patriottica e nel filone del cattolicesimo liberale, da Alessandro Manzoni alle prediche patriottiche. Alla religione cattolica è riservato il compito di costituire il vincolo fondamentale di quella nuova patria grande famiglia italiana, che gli eventi del 1848 promettono ormai prossima.

Gavazzi agisce soprattutto a Roma, dove solleva l’entusiasmo dei giovani, con i quali è in contatto come professore e soprattutto come predicatore. Il disegno qui riprodotto mostra con efficacia tutta la sua maestria di oratore (foto 1), nel catturare l’attenzione del pubblico (un pubblico inglese, in questo caso). Gavazzi guida la leva dei volontari romani nella prima guerra d’indipendenza, fino a Venezia. Con la Repubblica romana sia lui che Ugo Bassi si affiancarono a Garibaldi. Gavazzi è cappellano del Battaglione italiano della morte. Più fortunato di Bassi, riesce a sfuggire alla caccia dei nemici riparando in Inghilterra, dove aderirà al movimento evangelico. La dissociazione di Pio IX dalla guerra patriottica porterà Gavazzi su posizioni antigerarchiche e antipapali. Nel 1860 era di nuovo con Garibaldi, in qualità di cappellano militare fra i Mille e ancora riprendeva le armi fra i garibaldini nella guerra del 1866. Ugo Bassi, invece, curava la ritirata di Garibaldi da Roma verso Nord nell’estate del 1849. A lui Garibaldi affidava la delicata missione di convincere i reggenti sammarinesi ad accogliere i garibaldini ormai allo stremo sul territorio della Repubblica. Bassi era poco dopo catturato dagli austriaci nelle paludi ravennati, durante la sortita per raggiungere Venezia, condotto a Bologna e fucilato. Ma i religiosi non sono solo compagni d’armi, bensì occupano anche posizioni di rilievo nella struttura del movimento garibaldino. Mi riferisco al caso del brianzolo Giuseppe Sirtori. Sacerdote nel 1838, maturava la rinuncia ai voti quando era studente a Parigi allorché faceva esperienza delle giornate rivoluzionarie del febbraio 1848. Rientrato in Italia, partiva come volontario alla difesa della Repubblica di Venezia. Era poi promosso capo di stato maggiore da Garibaldi in occasione dell’impresa dei Mille. Avrà una lunga carriera militare nell’esercito italiano; uno dei non molti ufficiali garibaldini incorporato nell’esercito regolare.

Bassi, Gavazzi, lo stesso Sirtori, per non fare che alcuni esempi, rappresentano senz’altro casi di giovani cattolici, che maturano autonomamente un impegno nel movimento patriottico, ma che finiscono con l’individuare in Garibaldi la principale figura di riferimento, alla quale restano fedeli nonostante il variare degli orientamenti della gerarchia ecclesiastica. Certamente ne subiscono la leadership carismatica, anche in ragione di riferimenti religiosi da non sottovalutare (Mengozzi 2008, 2012; Gentile 2001). È ormai appurato da una recente storiografia dedicata alle religioni politiche, che linguaggi, retoriche, prestiti, calchi, perfino oggetti sacri come le reliquie sono stati impiegati dal discorso nazionale in formazione (Grevy e Burkardt 2015). E che molti contenuti dell’universo religioso tradizionale sono stati risemantizzati in senso laico dai patrioti. Tutto ciò ci porta a dire che uno dei principali fattori dell’ascendente esercitato da Garibaldi sul clero è, appunto, un fascino di tipo religioso. Non per nulla la sua figura è stata spesso avvicinata con appellativi cristologici. Il caso ha voluto, poi, che il suo viso, se incorniciato – come vuole il personaggio -, con lunghi capelli, barba e baffi rossicci, acquistasse una singolare vicinanza con il Cristo della tradizione iconografica più diffusa.

Ma il richiamo a Cristo, come ha ben mostrato Alberto Mario Banti, è iscritto al centro del discorso nazionale italiano. L’eroe che accetta il martirio per riscattare la libertà fa parte di quel “canone” patriottico che nutre l’immaginario risorgimentale. Banti parla di un linguaggio politico, che per acquisire larga cittadinanza si avvale delle “risonanze profonde” lasciate nella tradizione dalla religione cattolica (morte, salvezza, tradimento, fedeltà, verginità e purezza). Tale uso profano della sacralità non è al momento avvertito come concorrenziale o sostitutivo della fede cattolica. Forse i soli gesuiti ne intuiranno per tempo i pericoli, ma non subito (Menozzi 2007, 454).

Prendiamo un’opera di largo successo come quella di Atto Vannucci dedicata ai “martiri della libertà italiana”. Più volte ristampata e ampliata, a partire dalla prima edizione fiorentina del 1848, l’opera estendeva il concetto di sacralità e di martirio ai caduti per patria, evitando cesure con la religione cattolica. Introduceva, tuttavia, nuovi criteri politici di giudizio, fra salvati e dannati. Demonizzava, per esempio, la violenta repressione del cardinal Ruffo contro i democratici del 1799 ed esaltava per contrasto le vittime della reazione, quali martiri della vera religione di Cristo: ossia i martiri di Piperno, di Altamura e di Venafro (Vannucci 1877-1880, 37-42).

Con un indirizzo molto simile all’opera di Vannucci, ma più ampia nell’impianto, usciva a Torino nel 1851 il Panteon dei martiri della libertà italiana. Ancora biografie, ossia martiri individualizzati, ma questa volta al nome era associata una stampa raffigurante il volto. La sacralità era trasferita su queste figure descritte come santi moderni, vittime del dispotismo. In entrambi i campi, secondo gli autori del Panteon, operano per il bene e per il male anche religiosi, gli uni fanatizzando le popolazioni arretrate e analfabete contro i patrioti, gli altri caduti in nome della fede nella libertà. I nuovi eroi, però, sanno distinguere. Nella biografia dei fratelli Bandiera, per esempio, è detto che i due prigionieri seppero rifiutare il prete mandato dai carcerieri, ma non il conforto prestato loro dal prete liberale Beniamino De Rose, che con “vera carità cristiana” li consolò fino all’ultimo (Panteon 1851, 190). Il sacrificio di Ugo Bassi, invece, confermava per il Panteon la separazione fra la nuova religione patriottica e il papa “traditore”.
Ugo Bassi, vittima della reazione austriaca:
“sofferse il martirio a Bologna, annunziando l’unione del sacerdozio futuro coi propugnatori della indipendenza e libertà italiana, quando il presente sacerdozio rinnegava o tradiva la patria, e credeva sacrilegamente privare del carattere spirituale l’eroe che per lei saliva animosamente la croce” (Panteon 1851, 553).


2. Garibaldi, Cristo benedicente, stampa, 1850.

In questo stesso periodo viene diffusa una stampa raffigurante Garibaldi come Cristo benedicente (foto 2). Martiri non sono solo i morti, infatti; c’è un martirio anche nel patire la sofferenza nelle carceri, il dolore delle ferite e nei lutti. Garibaldi attraversa queste soglie durante la drammatica fuga da Roma nel 1849, quando perde la moglie, i compagni, ed è costretto nuovamente a emigrare. A un prete deve la vita, don Giovanni Verità, che subito nell’iconografia è rappresentato come colui che prende sulle spalle Garibaldi e lo salva portandolo oltre il confine fra Stato pontificio e Toscana. Garibaldi lo gratificherà in varie occasioni e ancora nelle Memorie definendolo “vero sacerdote del Cristo” (1920, 225). Ma la figura cristologica di un Garibaldi vittima ed eroe valoroso ha una diffusione che va oltre l’ambito elitario, come lasciano credere numerose testimonianze circa l’accorrere di donne che gli portavano i figli da toccare. Così ancora nella guerra del 1859, a Varese e a San Fermo, come notava G. Visconti Venosta nei suoi Ricordi di gioventù: “né meno degli uomini erano entusiaste le donne che gli portavano persino i loro bambini perché li benedicesse e li battezzasse” (1904: citato da Banti 2000, 173). Il garibaldino Tosi rammentava a decenni di distanza che “le trasteverine lo avevano assomigliato a Gesù, e più tardi le donne di Palermo lo adoreranno” (1910, 68-69). Evidentemente, in questo periodo o meglio in questi diversi momenti, poca presa ha il contro mito di un Garibaldi anti Cristo. Del resto, solo ai primi anni Cinquanta data una pubblicistica specifica sugli atti sacrileghi che sarebbero stati compiuti dai garibaldini durante l’esperienza della Repubblica romana. E solo dopo il rientro in sede di Pio IX padre Bresciani elaborerà un contro mito di Garibaldi mettendo all’opera il personaggio di Lionello (un anti Garibaldi), settario pentito, il cui ciclo di “avventure” inizia, appunto, nel 1853.

Quando si può parlare, dunque, di una frattura “definitiva” fra il movimento nazionale e il mondo cattolico? Molti storici hanno collocato l’evento nel periodo 1848-49, fra l’allocuzione di Pio IX e la Repubblica romana. Lucy Riall riprendendo alcune osservazioni di Giuseppe Battelli ha osservato che quel periodo rappresenta il vero spartiacque nei rapporti fra Stato e Chiesa in Italia, più di quanto non lo sia il 1870 (2007, 81; Battelli 1986, 809-810). Non sarei del tutto d’accordo con questa tesi, che guarda i vertici. Ma forse ai vertici è giusta. Alla base, però, mi sembra che l’entusiasmo visto per il 1848 si ripeta in parte nel 1859 e soprattutto in occasione dell’impresa dei Mille, quando di nuovo si osserva la corsa dei volontari alla guerra nazionale. Al Sud, in particolare, metà della Chiesa, quella dei nove milioni di abitanti residenti nel Regno borbonico, non è in rotta con la prospettiva unitaria, almeno fino all’estensione delle leggi restrittive dello Stato italiano. Azzarderei questa ipotesi facendo affidamento, soprattutto, sull’osservatorio garibaldino. Già Maurice Agulhon, in un noto saggio sul mito di Garibaldi in Francia del 1982, pronunciato durante il LI congresso di storia del Risorgimento italiano, a Genova nell’autunno del 1982, aveva sostenuto che solo dopo il 1860 Garibaldi era divenuto quella figura che sommava su di sé, agli occhi dei cattolici, l’incrocio d’una rivoluzione liberale, democratica e mortale per il potere pontificio (1988, 89).



2.

Il fascino di Garibaldi sul clero tocca sicuramente il vertice più alto nel 1860. Non più singole personalità, ma un’adesione di massa del clero meridionale. I diaristi garibaldini lo ricorderanno come un ritorno al ’48. L’impresa, per altro, non avvenne sotto il segno dell’anticlericalismo, benché fosse ormai chiaro – dopo il 1859 e l’adesione al Regno di Sardegna della parte Nord dello Stato pontificio – che l’unità d’Italia si sarebbe fatta contro il papa. La storiografia ha insistito sul vuoto politico e di autorità che regnava nell’Italia borbonica e specie in Sicilia (Riall 2011). Una crisi che coinvolgeva anche la Chiesa, nelle sue varie componenti e non solo nel basso clero, su cui aveva già chiamato l’attenzione Giorgio Candeloro (1982, 99; Brancato 1965). Anzi, per certi versi, l’ascendente di Garibaldi fra il clero, ma perfino fra suore e monache, sia nella prima fase palermitana, sia in quella messinese e calabrese, poté crescere in un’atmosfera che potremmo definire improntata, di fatto, a una forma di “autonomia” da Roma.

Non per nulla andrà notato un certo tatto garibaldino verso la Chiesa meridionale nel suo complesso.

Uno dei primi proclami di Garibaldi, emanato a Salemi o forse già a Marsala, era una appello ai “preti buoni” affinché seguissero la “vera religione di Cristo” attribuendo loro un ruolo di guida per “combattere gli oppressori” e liberare la “nostra terra” i “nostri figli” e le “nostre donne” e il “nostro patrimonio” (Riall 2007, 274). Confermava il garibaldino Giuseppe Cesare Abba che “laggiù nell’isola, dove il clero viveva ancora delle passioni civili del popolo, i sacerdoti in generale erano caldi patrioti”. E che “anche i preti, i frati e le monache dicevano bene” di Garibaldi (1910, 108, 156). Giuseppe Bandi, segretario di Garibaldi, raccontava di un funerale cattolico celebrato a un caduto garibaldino nella chiesa dei francescani di Alcamo: al centro il catafalco con sopra la camicia rossa, dal pulpito un frate che grida “Dio lo vuole” (1914, 182). Sulle barricate di Palermo il clero predicava dicendo che chiunque fosse morto avrebbe meritato, subito, un posto bellissimo in paradiso. Gli insorti avevano appiccicato sul calcio dei fucili le immagini di santa Rosalia e lo stesso sulle culatte dei cannoni (Bandi 1914, 186). Del resto, i conventi dei frati erano i soli veri rifugi per i garibaldini. I paesi, fatti di capanne, mettevano sgomento, secondo il ricordo di Abba; non c’era neppure l’acqua da bere (Abba 1910, 104). I monasteri, invece, offrivano cibo e riparo. Fonti un po’ maliziose vedevano suore in gara nel preparare dolci e nel salutare Garibaldi baciandolo sulla bocca.

Come che sia, l’impresa è l’occasione d’una “andata” a Garibaldi. Qui si salderanno nell’universo garibaldino figure di notevole importanza. Il prete Luigi Gusmaroli, quarantanovenne da Mantova, parroco fino al 1846, che girava per Palermo a confortare i feriti e portando loro i saluti dei combattenti. Come prete, tuttavia, rifiutava di impugnare armi. “Essere ucciso poteva; uccidere no” (Ivi, 189-190). Una singolare popolarità gli derivava dalla sua straordinaria somiglianza fisica con Garibaldi, tanto che i picciotti lo prendevano per lui (Ivi, 190). Fra tutti, certamente la recluta di maggior spicco fu il frate Giovanni Pantaleo. Si fece avanti a Salemi, dov’era lettore di filosofia dei minori osservanti. Garibaldi lo accolse immediatamente ribattezzandolo l’Ugo Bassi delle sue nuove legioni (Ivi, 108). Secondo Abba, fra Pantaleo ricordava nel viso i sacerdoti del ’48, quelli che predicavano e benedicevano la patria dal pulpito. Infatti, Pantaleo con la coccarda tricolore sul saio e la spada al fianco, come appare in una stampa del tempo, rappresenta con efficacia l’immagine di una Chiesa siciliana militante e patriottica. Il frate si era presentato a Garibaldi dicendo: “In mezzo a questa gente superstiziosa e cieca, la croce e la parola d’un frate patriota valgono per cento delle vostre sciabole” (Bandi 1914, 128). Pantaleo usava tenere in mano una croce di legno, che una palla borbonica gli aveva spezzata in due, mentre esortava i picciotti alla zuffa (Ivi, 203).

“Piacque ma non a tutti – notò Abba -. Tra quella gente dell’Alta Italia, v’erano i diffidenti e gli avversi per sistema agli uomini di chiesa; ma poiché Garibaldi accolse bene il monaco, e lo chiamò l’Ugo Bassi delle sue nuove legioni, anche quelli rispettarono il frate e lo lasciarono predicare” (1997, 108).



3.

Messe al campo, comunioni, promesse di salvezza: la guerra al Sud era anche una battaglia fra simboli e riti religiosi. Si combatte fra reliquie, immagini sante, benedizioni delle vittime. Predicatori con la tonaca o il saio incitano o guidano i soldati, dall’una e dall’altra parte, fra i garibaldini come fra i borbonici. Garibaldi dal canto suo non trascura nulla: usa il suo carisma fino alla promozione del culto per la sua persona. Benché ufficialmente scomunicato, come gli ricorda fra Pantaleo, asseconda i suggerimenti del frate, come quando ad Alcamo si fa benedire di fronte al popolo sui gradini della chiesa. Lo racconta anche Dumas: la città era in festa. Garibaldi “si lasciò cadere in ginocchio sui gradini esterni della chiesa, davanti ai contadini, ai soldati, alla popolazione”. Il frate, preso allora il santissimo sacramento dall’interno, tornava fuori e gridava: “Guardate tutti! Ecco il vittorioso che si inchina a Colui che dà la vittoria” e benedisse Garibaldi “in nome di Dio, dell’Italia e della libertà” (1996, 73, 74).

Sempre su consiglio di Pantaleo, Garibaldi renderà omaggio in forme solenni a santa Rosalia a Palermo e a san Gennaro a Napoli. E proprio a Napoli, il 31 ottobre, affacciatosi dal balcone della Foresteria, diceva alla popolazione. “Io sono cristiano, sono un buon cristiano, e parlo a dei buoni cristiani; io amo e venero la religione di Cristo, perché Gesù Cristo è venuto al mondo per sottrarre l’umanità alla servitù, che non è lo scopo per cui Dio l’ha creata. Ma il papa, il quale vuole che gli uomini siano schiavi, e chiede ai potenti della terra ceppi e catene per gli Italiani, il papa-re misconosce Cristo; misconosce la sua propria religione” (Du Camp 1963, 374-375). Garibaldi, dunque, distingue la gerarchia ecclesiastica dal messaggio cristiano, verso il quale ha un atteggiamento di rispetto. L’una, cioè il papa, simbolo di “servitù” politica, l’altro ossia il ritorno alla parola di Cristo quale autentica “religione della libertà”, come notava il garibaldino Maxime Du Camp, che ricordava come Garibaldi avesse terminato il suo discorso inneggiando all’Italia, a Vittorio Emanuele e al cristianesimo (Ivi, 375).

I diaristi garibaldini sono prodighi di episodi intorno all’attiva partecipazione di religiosi alla guerra antiborbonica. Abba li ha visti nella battaglia di Calatafimi: sei o sette francescani, i quali “dopo aver combattuto fino con tromboni, partivano per tornare al loro convento. Erano accorsi là da Castelvetrano. A quell’ora se ne andavano giù dal colle nei loro tonaconi grossi, con le loro armi in spalla, seri e tranquilli, come se tornassero da aver fatta la questua tra quei soldati che avevano fame, e stavano divorando pane e cacio distribuito in fretta già quasi nel buio” (1910, 130). Durante la battaglia di Palermo, sempre secondo Abba: “Dei frati veri, molti parevano più rivoluzionari dei garibaldini stessi” (Ivi, 185). Il sacerdote siciliano Antonio Rotolo guidava una grossa squadra di Picciotti (Ivi, 171).

Secondo l’Album storico artistico del 1862, fonte ufficiale dei garibaldini, la rapida risalita dei volontari attraverso la Calabria sarebbe dipesa essenzialmente dal fatto che preti e frati avevano aderito in massa all’appello di Garibaldi. “Questi forti montanari – si legge -, disertando a frotte i loro abituri, armati, erano corsi ad ingrossare le compagnie di Stocco, di Morelli, del parroco Foresta, del prete Bianchi e di tanti altri generosi che organizzarono quel meraviglioso movimento. Preti e frati s’erano posti alla testa degli insorti, e, armati de’ loro fucili, precedevano a capo delle bande” (1862, 104). L’Album riproduceva integralmente l’indirizzo presentato a Garibaldi dagli agostiniani di Monteleone, a conferma dello spirito che animava quei frati. Aperto con un richiamo alle radici storiche “dell’italico sermone”, per dirla con Dante, il manifesto dei “poveri frati” esprimeva gratitudine al “gran cittadino d’Italia” Garibaldi, “per quanto avete operato a pro’ della patria comune”. Né i frati scartavano il pronunciamento politico, per quanto subordinato al fine primario dell’ordine di “professare la dottrina di Cristo”. Alla quale, tuttavia, essi attribuivano il merito di essere “sovranamente inspirata dalla carità dell’amore di patria”. E così concludevano: “Dio è sempre coi giusti, Egli sarà quindi con voi e coi forti che guidate, sino al giorno nel quale la vostra spada trionfatrice potrà scrivere sulle sponde dell’Isonzo e sui dirupi dell’Alpi marittime: Oltre questi confini non passeranno d’ora innanzi eserciti di barbari o di civili stranieri” (Ibid.).

Anche la letteratura antigaribaldina di un don Buttà, confermava il coinvolgimento del clero e perfino di un alto prelato come monsignor Caputo, vescovo di Ariano Irpino in provincia di Avellino, che naturalmente don Buttà vedrà morire più tardi fra gli spasimi dell’inferno, come l’“ateo” Voltaire (1985, 241). Ma don Buttà dimenticava il vescovo di Monreale, Benedetto D’Acquisto, che compiaciuto aveva visitato il forte di Castellamare di Palermo, conquistato dai garibaldini, e dato da demolire alla popolazione (Riall 2007, 284). A voler essere, infine, un po’ impertinenti, anche l’acrimonioso don Buttà non era stato del tutto esente da frequentazioni garibaldine. Si avvicinava ai garibaldini anche uno “strano” frate, già socialista, e che Abba non ricorda per nome (Mengozzi 2010). Un tipo dal quale aveva avuto modo di udire obiezioni rimaste senza risposta. Quel frate gli aveva spiegato che la rivoluzione non bastava, che non di quella guerra la Sicilia aveva bisogno, perché troppo grande era la miseria. “Insomma quel monaco – scriveva Abba – voleva la guerra non soltanto contro i Borboni, ma contro tutti gli oppressori grandi e piccoli, che si trovavano laggiù dappertutto”. Anche contro frati ricchissimi: “ma col Vangelo in mano e con la Croce”. E allora anche lui ci si sarebbe messo. Ma così gli pareva inutile, concludeva il garibaldino (1910, 152).



4.

Ebbene, chiediamoci a questo punto quando finisce tale reciproca intesa o meglio quel tipo di attrazione e simpatia per la figura di Garibaldi o, in altre parole, quando viene meno l’attenuazione dell’anticlericalismo fra i garibaldini, da un lato, e dall’altro riemerge la centralità gerarchica del papa fra i cattolici? Senza levare lo sguardo dalla Chiesa meridionale, potremmo rispondere senz’altro con Vittorio Gorresio, quando in un suo libro del 1958 imputava all’estensione a tutt’Italia delle leggi piemontesi contro i privilegi ecclesiastici, il divorzio della Chiesa meridionale (2011, 111-112). Ma a mettere tutto nel bilancio, non è da dimenticare l’evolvere dello stesso orientamento spirituale e politico di Garibaldi. Con Aspromonte nel 1862, poi Mentana nel 1867, la questione della presa di Roma diviene quasi un’ossessione per lui. Anzi, per raccogliere adesioni, si mette a fare il prete laico, dispensatore di sacramenti, battesimi, e predicatore di una nuova religione del vero, di cui darà un saggio al congresso internazionale della pace a Ginevra (Mengozzi 2008, 31-32).

Garibaldi (non meno di Pio IX) rifiuta la legge sulle guarentigie e la separazione cavourriana fra Stato e Chiesa, radicalizzando il suo anticlericalismo, che in certi tratti appare come una guerra contro la stessa presenza della Chiesa, i suoi istituti e le sue cerimonie nella società, specie quelle vicine ai costumi popolari (Candeloro 1982, 129-135). In parallelo anche la sua concezione filosofica e religiosa si sposta progressivamente dal deismo verso un materialismo scientista. Dio eguagliato a infinito, spazio, materia, rassomiglia sempre più a una formula matematica, alla quale Garibaldi domanda – ultimissima e vaga inquietudine metafisica – se possa ancora appartenere alla materia il pensiero, e cioè – pare di capire – una sorta di anima, del tutto simile – però – alla personalità o all’identità del singolo.

Prende forma sempre più religiosa anche il culto per la sua persona, con rituali e catechismi. Nel 1866 uscirà il primo, forse di mano di Gusmaroli, nel quale vengono offerte preghiere a un Garibaldi divinità laica (Dottrina 1866). Egli assume sempre più le sembianze di un papa laico, che somministra sacramenti, immortalità o dannazione, avente una propria fonte di sacralità, autonoma, fondata sul proprio corpo di eroe.

Nel corso degli anni Settanta, infatti, Garibaldi consegna alla stampa quattro romanzi storici, con i quali si propone di rivedere la lista degli “amici” e dei “nemici” nelle lotte per l’unificazione italiana, gli uni da spedire all’inferno della memoria, gli altri in paradiso. E di farlo rivolgendosi alle nuove generazioni, dando quasi per scontato l’impossibilità di un “dialogo” con la classe dirigente attuale, specie nel definire la sua ultima e gloriosa impresa, la spedizione dei Mille (Isnenghi 2007, 106-130), la cui mitologia – i Mille, appunto – nasceva proprio sotto la sua penna in quegli anni (Mengozzi 2012, 251-255). La forma romanzata gli permette libertà narrativa e anche inventiva. Infatti, nel ripercorrere la liberazione del Sud apriva ampie parentesi per mettere in scena le trame antigaribaldine di un nemico “attuale”, ma che al tempo egli non aveva ritenuto altrettanto pericoloso, e cioè la Chiesa e il papa, con la sua corte di gesuiti, “loschi” preti e monsignori.

In verità, in questo periodo Garibaldi non può più contare su quei preti in camicia rossa, che lo avevano accompagnato e consigliato. Perfino l’amico e biografo Guerzoni non gli risparmierà una certa ironia in merito alle prediche e agli atteggiamenti da sacerdote laico (1882, 470), che pretendeva avanzare la candidatura di don Verità a futuro papa.

Di fatto, Garibaldi ritiene ormai irrimediabile il divorzio fra Chiesa e nazione o addirittura fra clero e nazione, al quale imputa le difficoltà maggiori che il neonato Stato nazionale stava incontrando nel “fare gli italiani”. Nei romanzi storici e nelle Memorie del 1872 fa spesso del clero il capro espiatorio dei mali nazionali, dalla scarsa propensione dei giovani alla vita militare, una debolezza che per Garibaldi deriva dalla passata volontà dei preti a fare chierichetti invece che uomini virili, alla mancata partecipazione dei contadini al volontariato in camicia rossa, perché trattenuti nelle parrocchie dai loro parroci, o infine per il fenomeno del brigantaggio meridionale. In Clelia, romanzo storico del 1870, scriveva, infatti, che “La Nazione italiana vide alla luce del sole il ceffo deforme degli impostori, marciare col crocefisso in mano alla testa delle masnade straniere, suscitando dovunque quel brigantaggio che devasta ancora le nostre provincia meridionali con ogni specie di orribili delitti, per tentare la dissoluzione dell’unità nazionale sì felicemente costituita” (2006, 140).

In tale radicalizzazione dello scontro fra clericali e anticlericali, i cui linguaggi spesso si copiano a vicenda, i preti garibaldini, quelli che non l’avevano ancora fatto, lasciano la tonaca e muoiono da laici impenitenti, come Gusmaroli e Pantaleo, fra i più noti. Tra i pochi che non lo fanno è don Verità, ma al prezzo dell’emarginazione nella sua piccola parrocchia di montagna a Modigliana, sull’Appennino tosco-romagnolo. Sarà, tuttavia, ugualmente punito dalle autorità clericali con la negazione del funerale religioso e punito ancora, dopo morto, con la ritardata traslazione della sua tomba nel nuovo cimitero di Modigliana, all’epoca dei Patti lateranensi. Ancora più triste la fine di Gusmaroli: la lapide per lui, dettata da Garibaldi, nel cimitero della Maddalena sarà poi tolta, si può bene indovinare da chi, e con quella sparirà anche il suo sepolcro.
Bibliografia

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2015 (cur.) Reliques politiques II. Politisation des reliques du XIXe et XXe siècles, convegno di studi tenutosi l’11-12 giugno 2015, alla Faculté des sciences humaines et arts de l’Université de Poitiers, i cui atti sono in corso di stampa.

Guerzoni G.

1882 Garibaldi, Firenze, Barbera.

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2007 Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Roma, Donzelli.

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2008 Garibaldi taumaturgo. Reliquie laiche e politica nell’Ottocento, Manduria-Bari-Roma, Lacaita.

2010 Il socialismo di Garibaldi: l’individuo e la morale sociale contro la lotta di classe, in “Libro Aperto”, gennaio/marzo.

2011 Garibaldi: corpi virili e nazione ovvero gli italiani che si battono, in “Libro Aperto”, gennaio/marzo.

2012 Corpi posseduti. Martiri ed eroi dal Risorgimento a Pinocchio, Manduria-Bari-Roma, Lacaita.

2012a Garibaldi inventé par Garibaldi. Formation d’une idéologie militaire entre l’Italie et la France de 1845 à 1882, in “Transalpina”, n. 15. L’unité italienne raccontée. Vol. I. Interprétations et commémorations, Presses Universitaires de Caen.

Menozzi D.

2007 I gesuiti, Pio IX e la nazione italiana, in Banti, Ginsborg.

Panteon

1851 Panteon dei martiri della libertà italiana, opera compilata da varii letterati, pubblicata per cura di una società di emigrati italiani. Gabriele D’Amato editore, Torino, Stabilimento tipografico di Al. Fontana.

Riall L.

2007 Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Roma-Bari, Laterza.

2011 Il Sud e i conflitti sociali, in Treccani. La cultura italiana, L’Unificazione, on-line.

Tosi R.

1910 Da Venezia a Mentana (1848-1867). Impressioni e ricordi di un ufficiale garibaldino, ordinati e pubblicati a cura del figlio Volturno, Prefazione di Ricciotti Garibaldi, Forlì, Bordandini (le note di Tosi sono datate Rimini 1906).

Vannucci A.

1877-1880 I martiri della libertà italiana, dal 1794 al 1848, Milano, Bortolotti (prima ed. Firenze, 1848).

Visconti Venosta G.

1904 Ricordi di gioventù: cose vedute o sapute, 1847-1860, Milano, Cogliati.
Biografia

Dino Mengozzi è docente di Storia contemporanea e Storia sociale nell’Università di Urbino. Ha studiato con Michel Vovelle e si occupa di sensibilità collettive, cui ha dedicato numerosi saggi. Ha pubblicato La morte e l’immortale. La morte laica da Garibaldi a Costa, prefazione di Michel Vovelle, Lacaita 2000; Garibaldi taumaturgo, Reliquie laiche e politica nell’Italia dell’Ottocento, Lacaita 2008 e 2010. Il suo ultimo volume, Corpi posseduti. Martiri ed eroi dal Risorgimento a Pinocchio, Lacaita 2012, è dedicato alle rappresentazioni del corpo dei patrioti durante il Risorgimento e i primi decenni dell’Italia unita.
Biography

Dino Mengozzi is Professor of Contemporary and Social history in the Department of Formation Science at the University of Urbino (Italy). He has studied with Michel Vovelle. He deals with collective sensitivity, on which he wrote several essays. He published La morte e l’immortale. La morte laica da Garibaldi a Costa, prefazione di Michel Vovelle, Lacaita 2000 (The Death and the Undying. The Secular Death from Garibaldi to Costa, foreword by Michel Vovelle, Lacaita 2000); Garibaldi taumaturgo, Reliquie laiche e politica nell’Italia dell’Ottocento (Garibaldi, Miracle Worker. Lay Relics and Politics in XIX Century Italy), Lacaita 2010. His last book, Corpi posseduti. Martiri ed eroi dal Risorgimento a Pinocchio (Body Possession. Martyrs and heros from the Italian Risorgimento to Pinocchio), is dedicated to the meaning of “human body possession” and how it’s represented during the course of the 18th century Italian Risorgimento.
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Re: El mito de Garibaldi

Messaggioda Berto » mer mar 30, 2016 6:44 am

Li envaxà de Garibaldo, mama mia ke oror!

https://www.facebook.com/Cultura-Gariba ... 3452193457

??? Ke ensemenio !!!

INNO ROMANO

Giù le mitre, vergogna del mondo,
giù le tiare, nel fango calpeste;
dello schiavo lasciate la veste,
della daga affilate l'acciar.

Marceremo, scenderemo
giù dai colli alla vendetta!
dei chercuti, orrenda setta,
Roma nostra a liberar!

G. Garibaldi.
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Re: El mito de Garibaldi

Messaggioda Berto » mer mar 30, 2016 7:03 am

Contro el Garibaldo

https://paparo84.wordpress.com/2007/07/ ... co-del-sud

???
Contro Garibaldi – Appunti per demolire il mito di un nemico del sud
http://roccobiondi.blogspot.com

Siamo borbonici e non asini

La sconfitta dei Borboni non fu provocata dallo slancio dei garibaldini né dal valore delle loro armi. Fu letteralmente comprata a peso d’oro.
Ammiragli e capitani di vascelli, in mare, generali e tenenti effettivi, sulla terraferma, concordarono il prezzo per ritirare le loro truppe davanti al nemico, scappando invece di attaccare.
Non ci sarebbe stata conquista del regno delle due Sicilie se non si fossero unite le convenienze inglesi con quelle della mafia meridionale e se, gli uni e l’altra, non avessero finanziato e soccorso il movimento garibaldino.

Gli inglesi investirono nell’operazione circa 29 (ventinove) miliardi delle nostre vecchie lire.
A fare queste affermazioni non è stato un leghista del nord o del sud o un neoborbonico, ma Lorenzo Del Boca, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, in carica ormai da più di un decennio.

Garibaldi quindi è stato semplicemente un «onesto babbeo», come scrisse il garibaldino scrittore francese Maxime du Camp. In pratica un utile idiota, direi io.
Meravigliano quindi le improvvide celebrazioni in atto per il secondo centenario della nascita del montato «eroe dei due mondi», con grande sperpero di denaro pubblico,
soldi questa volta non degli inglesi ma degli italiani uniti.
Meraviglia pure il grande battage pubblicitario che tutti i giornali italiani stanno facendo per la commemorazione. Persino l’Unità ha messo in vendita in allegato un libro su Garibaldi.

Anzi, il giornale fondato da Gramsci ha pubblicato un articolo nel quale Bruno Gravagnuolo dà dell’asino a chi non si accoda ad incensare Garibaldi, informandoci che Garibaldi aveva battezzato due suoi muli coi nomi di Napoleone III e Pio IX e «non immaginava proprio – aggiunge – quanti asini avrebbe dovuto battezzare e collezionare duecento anni dopo la sua nascita». Io quando avrò un asino lo battezzerò Gravagnuolo.

Mi chiedo su quali libri di storia si sia formato questo giornalista garibaldino. Suppongo su vecchi libri agiografici del Risorgimento.
Qualcuno lo informi che la storiografia su tale periodo è andata molto avanti. Il vero Risorgimento non è quello che ci hanno insegnato a scuola.
Concordo con Beppe Grillo, che peraltro seguo poco, quando afferma: «A scuola il Borbone è il cattivo e il Savoia il buono. Stato borbonico è sinonimo di degrado delle istituzioni. Brigante di protomafioso. Forse vanno cambiati i testi di scuola oltre al significato delle parole. Rivalutati i patrioti che persero la vita contro l’esercito piemontese. Forse dobbiamo raccontarci un’altra storia. In cui il Risorgimento è stato in parte, in gran parte, espansionismo di una dinastia. Che ci ha lasciato in eredità
l’emigrazione di milioni di persone che fuggivano dalla fame, due guerre mondiali, il fascismo».
Ed allora, siamo borbonici e non asini.


La verità su Garibaldi

Da meridionale e amante della verità non posso che essere in disaccordo con le celebrazioni ufficiali che si stanno tenendo nel corrente anno 2007 in occasione del bicentenario della morte di Garibaldi.
Sono stato, sabato scorso 24 febbraio, a Napoli (a 372 km dal mio paese di residenza) per la presentazione del libro di Gennaro De Crescenzo: Contro Garibaldi – Appunti per demolire il mito di un nemico del sud.
Tra i presentatori del libro vi era lo storico e giornalista Lorenzo Del Boca, presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti.
Non sono un neoborbonico, né un antiunitario. L’unità d’Italia andava fatta, ma non con un atto di annessione, tout court, da parte del regno sabaudo.
Su Garibaldi ci hanno raccontato, e continuano a raccontarci, un sacco di menzogne. Sarebbe ora che si cominciasse a ripristinare la verità.
Scrive De Crescenzo: «Non è più il tempo dei Garibaldi “alti, belli, biondi, con gli occhi azzurri” e intoccabili delle figurine o degli sceneggiati televisivi. A circa un secolo e mezzo dall’unificazione italiana, è più che necessario parlare di saccheggi, di popoli massacrati, di paesi devastati, di milioni e milioni di Meridionali deportati verso i paesi più sperduti del mondo».

Nei fatti l’”eroe dei due mondi” fu pirata e corsaro, mercenario e negriero, artefice di saccheggi omicidi e ruberie varie, probabile complice dell’assassinio
di sua moglie Anita, amministratore incapace, massone e ateo. Solo una propaganda interessata e gigantesca ha potuto trasformarlo in eroe nazionale.
Il libro di De Crescenzo, pubblicato nel dicembre 2006, è molto snello, di sole 86 pagine, e si legge d’un fiato.

Lo stesso 24 febbraio, sempre a Napoli, veniva presentato un altro libro su Garibaldi, anch’esso pubblicato nel dicembre 2006, di Luciano Salera: Garibaldi, Fauché e i Predatori del Regno del Sud – La vera storia dei piroscafi Piemonte e Lombardo nella spedizione dei Mille. Questo più corposo, di 518 pagine. E’ una contro-storia documentata sul mito risorgimentale di Garibaldi.
Nell’aprile 2006 era stato pubblicato di Gilberto Oneto: L’iperitaliano, Eroe o cialtrone? Biografia senza censure di Giuseppe Garibaldi. L’autore appartiene all’area leghista del profondo nord. Anche in questo libro, di 316 pagine, si parla male di Garibaldi.

Tutti e tre questi libri sono militanti, contro Garibaldi. Ma non meno militanti sono le celebrazioni che si stanno tenendo in tutta Italia, con larga profusione di mezzi e soldi pubblici.

– Gennaro De Crescenzo: Contro Garibaldi – Appunti per demolire il mito di un nemico del sud, Editoriale il giglio, Napoli 2006, pp. 103
– Luciano Salera: Garibaldi, Fauché e i Predatori del Regno del Sud – La vera storia dei piroscafi Piemonte e Lombardo nella spedizione dei Mille, Controcorrente edizioni, Napoli 2006, pp. 542
– Gilberto Oneto: L’iperitaliano, Eroe o cialtrone? Biografia senza censure di Giuseppe Garibaldi, il Cerchio, Rimini 2006, pp. 324
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Re: El mito de Garibaldi

Messaggioda Berto » mer mar 30, 2016 7:04 am

Chi fu veramente Giuseppe Garibaldi
Chi fu Garibaldi? Un negriero, un grande nemico del Meridione,della Chiesa, dell’Italia.

http://www.libertaepersona.org/wordpres ... baldi-2344

Quando si parla di Risorgimento, di unità politica dell’Italia, l’eroe che viene alla mente è senza dubbio Giuseppe Garibaldi. Per decenni la sua figura è stata celebrata, osannata, sino a farne una sorta di santo laico, da porre sull’altare della patria, a cui dedicare poesie, strade, pazze e statue equestri: al fine di dare, ad un paese che aveva voluto tagliare i conti, in quattro e quattr’otto, col passato, un mito fondativo sufficientemente romantico e affascinante.

Di Garibaldi, il poeta vate Giosue Carducci, cantore dell’Italia mazziniana, e poi di quella crispina e coloniale, scriveva: “Nacque da un antico dio della patria, mescolatosi in amore con una fata del settentrione…”.

In verità il Risorgimento, come notò Gobetti, è stato un tempo senza eroi. “Troppo fumoso e cerebrale Mazzini– scrive Luca Marcolivio, nel suo piacevole “Contro Garibaldi” (Vallecchi)-, troppo machiavellico Cavour, troppo legato alla cattiva fama di casa Savoia Vittorio Emanuele II“. L’unico che “seppe suscitare qualche entusiasmo popolare, anche se dovuto più ai lati spettacolari, pittoreschi e buffoneschi del suo modo di essere e di apparire che non a delle vere qualità di capo”, fu, secondo Indro Montanelli, Giuseppe Garibaldi..

Chi fu veramente Garibaldi? Fino al 1848 la sua vita è poco chiara, perché avvolta nella leggenda. “Da giovane – scrive lo storico Massimo Viglione, nel suo “L’identità ferita” (Ares)- dopo aver partecipato al tentativo mazziniano di invasione del Regno di Sardegna, Garibaldi si mise dapprima a fare il pirata al seguito del bey di Tunisi e poi fu costretto a fuggire in Sudamerica per non finire impiccato. Quindi si coinvolse prima nel furto di cavalli in Perù (dove gli vennero tagliati i padiglioni degli orecchi), e poi praticò la pirateria per il commercio degli schiavi asiatici“.

Un pirata, dunque? La notizia, negata da Phillip K. Cowie, con argomenti piuttosto fragili, è invece confermata da altri storici, come L. Leoni, O. Calabrese, A. Pellicciari, e persino da un agiografo di Garibaldi come Giovanni Spadolini che però, ne “Gli uomini che fecero l’Italia“, vi accenna fuggevolmente senza addentrarsi nelle sue “leggendarie e piratesche imprese in Sud America”.

Più esplicito lo storico del Risorgimento Giorgio Candeloro, che, intervistato su “La Repubblica” del 20/1/1982, fornisce dettagli maggiori: “Comunque Garibaldi, un po’ avventuriero, un po’ uomo d’azione, non era tipo da lavorare troppo a lungo in una fabbrica di candele. Va in Perù, e, come capitano di mare, prende un comando per dei viaggi in Cina. All’andata trasportava guano, al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano: la schiavitù in Perù era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo più nessuno. Insomma un lavoretto un po’ da negriero. Era un avventuriero, un uomo contraddittorio, fantasioso, un personaggio da romanzo“.

Negriero, avventuriero, personaggio da romanzo…sino all’impresa dei Mille, che ne fece, appunto, un mito inarrivabile. Ed è quindi giusto, finalmente, rivedere questa storia di “mille eroi” senza macchia e senza paura, e senza soldi, ma armati solo del loro coraggio e di chissà quali ideali, che piegarono da soli il più grande stato italiano, il Regno delle due Sicilie: una favola che non può più essere raccontata. Occorre un po’ di serietà. Da tempo sappiamo bene che Garibaldi non fu affatto il conquistatore straordinario di cui si è a lungo parlato e che il mito della sua invincibilità fu creato ad arte ancora prima che egli ritornasse, dall’America, in Italia. Nella sua spedizione al sud, Garibaldi contò anzitutto sull’appoggio inglese, senza il quale non avrebbe potuto far nulla.

Nel suo “La strana unità” (il Cerchio), Gilberto Oneto ricorda che la flotta da guerra dell’ammiraglio George Rodney Mundy seguì la spedizione garibaldina passo passo. I Mille neppure sarebbero riusciti a sbarcare, senza di essa. Oltre alla flotta che accompagnava tutti i momenti più delicati, a fianco di Garibaldi vi fu una legione di “volontari” inglesi, anch’essi determinanti. Infine, è da considerare l’importanza dei grandi finanziamenti ottenuti da Garibaldi dall’Inghilterra, che gli servirono certamente a pagare gli ufficiali dell’esercito borbonico che, a differenza dei loro soldati, abbandonarono in massa la difesa del regno.

Pier Giusto Jaeger, nel suo “L’Ultimo re di Napoli” (Mondadori), ricorda che Garibaldi non affrontò una sola battaglia di consistenza vera, sino a quella del Volturno, dove ebbe l’appoggio, oltre che degli inglesi, anche dei piemontesi guidati dall’ammiraglio Persano, scesi dal nord più per evitare che le incerte e traballanti conquiste di Garibaldi sfumassero, che per impedire la sua marcia su Roma. E’ proprio Persano, nel suo “Diario”, a fornirci ulteriori testimonianze sulla corruzione e il tradimento come i mezzi principali con cui il Nizzardo ottenne la vittoria. Persano era stato inviato da Cavour in Meridione, come ricorda Angela Pellicciari nell’introdurre il Diario dell’ammiraglio, proprio con lo scopo di “proteggere-tallonare-controllare Garibaldi, organizzare l’invio di uomini e armi che affianchino i Mille, corrompere i quadri della marina e dell’esercito borbonici” (“I panni sporchi dei Mille“, Liberal).

Corruzione e tradimenti: le migliori armi in mano ad un presunto eroe che da solo, con i suoi Mille, non avrebbe fatto assolutamente nulla. Che non dovette neppure affrontare una vera resistenza, dal momento che il re Francesco II, cugino del sovrano sabaudo, era stato convinto a lasciare il paese, rinunciando quindi ad una strenua difesa, anche su consiglio del suo ministro dell’Interno, il traditore Liborio Romano, al fine di evitare lo spargimento del sangue dei suoi sudditi. Si può infine aggiungere che la vittoria di Garibaldi fu ottenuta anche grazie ai suoi proclami, in cui prometteva libertà e terre. Sappiamo bene cosa ne ebbe il Meridione.

Ce lo hanno raccontato, prima degli storici, Giovanni Verga, già garibaldino, nella novella “Libertà“, in cui descrive le stragi indiscriminate del luogotenente garibaldino Nino Bixio, e Luigi Pirandello, anch’egli di famiglia antiborbonica e risorgimentale, che però nella sua novella “L’altro figlio“, fa dire ad una protagonista che Garibaldi asseriva sì di portare “la libertà”, ma si limitò a liberare dalle carceri tutti i delinquenti e i criminali, per destabilizzare il regno dei Borboni. Afferma la protagonista della novella di Pirandello: “…vossignoria deve sapere che questo Cunebardo (storpiatura popolare di Garibaldi, ndr) diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne. I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena…”.

Scriverà qualche decennio più tardi un altro scrittore siciliano, Carlo Alianello, nel suo “La conquista del sud” (Il cerchio): “Lo stesso giorno 20 ottobre (1860) il Dittatore, il quale esiliava vescovi, arcivescovi e cardinali, fece grazia a tutti i condannati all’ergastolo e alla galera per delitti comuni. Garibaldi sbarazzava le carceri di quei malfattori, per mettervi ufficiali, magistrati, aristocratici, preti e frati. E così si faceva l’Italia“.

Quanto alle terre promesse dal Nizzardo ai meno abbienti, esse finirono non certo nelle mani dei contadini, verso cui dimostrava disprezzo (li considerava “servi dei preti”, perché non si associavano alle sue scalmanate camice rosse), ma dello Stato piemontese, dell’ aristocrazia e della borghesia fondiaria meridionale, che capirono subito, come ci dice Tommasi di Lampedusa nel suo “Il gattopardo”, che si poteva benissimo cambiare tutto, anche mettendo la camicia rossa, senza cambiare nulla, o forse, guadagnandoci ancora di più (Tommasi di Lampedusa accenna infatti allo spartizione, da parte dei nuovi vincitori, delle terre comuni e di quelle della Chiesa, che sino ad allora servivano invece, molto spesso, al sostentamento delle classi più povere).

Non è un caso che dopo la conquista della Sicilia, Garibaldi abbia trovato più amici a Torino e a Londra che in Meridione. Qui infatti il mito di Garibaldi, già di per sé circoscritto, era durato poco più dello spazio di un mattino. Infatti, come testimonia Giuseppe La Farina, braccio destro di Cavour nella organizzazione della spedizione dei Mille, le cui lettere sono state pubblicate sempre da Angela Pellicciari nel testo citato, Garibaldi e i suoi avventurieri si erano subito rivelati per quello che erano: saccheggiatori di ogni ricchezza, pubblica e privata, nelle orge e nel dispotismo.

Lo stesso Garibaldi, nelle sue “Memorie” (Bur), affermava: “Si cominciò a parlare di dittatura, ch’io accettai senza replica, poiché l’ho sempre creduta la tavola di salvezza nei casi d’urgenza e nei grandi frangenti in cui sogliono trovarsi i popoli“.

Dittatore, dunque, in un paese di cui non conosceva nulla, neppure il dialetto, senza il sostegno della popolazione, deciso, per di più, ad imporre ovunque la legislazione piemontese e la leva militare obbligatoria, dai 17 ai 50 anni, ad un popolo che non la conosceva, e che non aveva nessuna intenzione di arruolarsi in massa per guerre che non condivideva e non capiva.

Questo è tanto vero che subito dopo il 1860 il mito risorgimentale fu già, dalle plebi meridionali, dimenticato: al suo posto l’emigrazione di massa, fenomeno prima pressoché inesistente, la leva militare obbligatoria imposta ai meridionali, le rivolte contro l’occupazione piemontese, e i moti anti-sabaudi come quello di Palermo (1866) repressi nel sangue dai prefetti e dall’esercito piemontesi.

Come nota lo storico Mario Isnenghi, infatti, proprio l’opposizione alla unificazione del Meridione al Regno di Sardegna, che cominciò già nel 1860 e che va sotto il nome di “brigantaggio”, “può considerarsi pressoché l’unica manifestazione reale, per estensione geografica, partecipazione numerica e durata, di presenza attiva delle masse subalterne negli anni del Risorgimento“.

Fu Garibaldi stesso a riconoscere, in una lettera ad Adelaide Cairoli: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio“.

Inoltre, nel suo “Poema autobiografico” del 1862, non esitò a biasimare in più passaggi quei fatti che vanno sotto il nome di “Risorgimento”, e di cui lui era stato uno dei principali protagonisti: “E l’Italia? E’ fatta cloaca, ai piedi/ del più schifoso de’ tiranni”, cioè quello stesso Vittorio Emanuele, a cui lui stesso aveva consegnato il Regno borbonico, e che viene ora descritto come un uomo “con libertade sulle labbra e…in cuore del coccodrillo la verace sete/ dell’isterminio! A dar battaglia ei viene/ a chi del Mondo la prima corona/pose a’ suoi piedi. Ingrata volpe!…”.

E ancora, proponendo un bilancio passivo dell’unificazione italiana, ormai avvenuta: “Tutto è menzogna e privilegio. Un vano/ di libertade simulacro illude le moltitudini ingannate…”.

Ma nonostante cercasse spesso di prendere le distanze dalla nuova Italia, di cui era stato artefice principale, almeno in teoria, insieme al Cavour, la popolarità dell’eroe dei due mondi sbiadì presto, anche al di fuori del Meridione. Racconta un agiografo come Alfonso Scirocco, nel suo “Giuseppe Garibaldi” (Laterza), che molto presto per la storia dei Mille, narrata da Nizzardo stesso, “è difficile trovare un editore disposto a garantire le 30.000 lire richieste dall’autore”. Allora “l’Eroe pensa all’Inghilterra ma la traduzione non trova promotori…Per assicurarne la vendita scende in capo la Massoneria. Secondo le consuetudini dell’epoca, nel 1874 Timoteo Riboldi diffonde 12.640 schede di prenotazione tra gli amici e gli estimatori del Generale”.

Negli ultimi vent’anni della sua vita Garibaldi, che era personaggio piuttosto vanesio, si diede dunque alla scrittura, raccontò la sua vita e le sue imprese, per mantenere vivo il suo mito ed anche per guadagnare dei soldi, di cui era sempre alla ricerca, nonostante gli giungessero spesso graditi doni da ammiratori stranieri: da alcuni inglesi ricevette per esempio nel 1869 un panfilo, il Princess Olga, mentre un tale John Anderson gli versò una cambiale di 5000 lire in oro.

Ma il versamento più cospicuo fu quello che ottenne nel 1875: un dono governativo, “di gratitudine nazionale”, di 2.000.000 di lire offertogli dal governo De Pretis, che gli valse il soprannome di “eroe dei due milioni” da parte della “Civiltà cattolica”, e di “pensionato della monarchia” da parte dei mazziniani.

Un fatto è certo: la fama, al di fuori dell’ufficialità, ormai scoloriva sempre più, ma Garibaldi forse sbagliò nel cercare di mantenerla, e di guadagnare ancora, scrivendo romanzi e memorie. E’ proprio leggendo quest’ultimi, infatti, con la loro “traballante macchina narrativa”, la “lutulenza alternata all’improvvisa secchezza”, l’ “invadenza e la ripetitività degli squarci polemici”, il “carattere macchiettistico dei personaggi”, le “filippiche antigovernative e le prediche anticlericali” (Mario Isnenghi, “Garibaldi fu ferito“), che il lettore contemporaneo capisce di trovarsi di fronte ad un personaggio imbarazzante, quasi una caricatura.

Da essi infatti traspare l’immagine di un avventuriero inquieto, senza alcuna profondità né di dottrina né di pensiero, ma fanatico, ripetitivo ed intollerante; di un personaggio amante della guerra per la guerra, dell’avventura fine a stessa, che amava ripetere sovente, a suggello di un discorso o di una lettera, frasi inquietanti come la seguente, “La guerra es la verdadera vida del hombre!”, salvo scrivere, due righe oltre, di essere un ardente “pacifista”; di un presunto eroe-pensatore che, secondo una definizione di The Times di quegli anni, “ha rozze nozioni di democrazia, comunismo, cosmopolitismo e positivismo che si mescolavano nel suo cervello“.

Traspare, inoltre, l’immagine di un uomo che strapazzò allegramente donne e figli – infatti ebbe “tre mogli ufficiali e un numero imprecisato di amanti che gli sfornano un bel po’ di figli”, più o meno conosciuti, come nota Gilberto Oneto; mentre Alfonso Scirocco allude alle “facili occasioni” che “da vecchio marinaio” amava cogliere con le donne, numerose, che incontrava nei suoi viaggi, e Luca Goldoni dedica un intero libro alle sue numerose avventure, ribattezzandolo “L’amante dei Due Mondi”-, con la stessa superficialità con cui aveva combattuto e ucciso o con cui aveva elogiato gli omicidi carbonari come quello di Pellegrino Rossi, che avevano contribuito ad impedire che l’Italia conoscesse un’unificazione pacifica e federalista.

Ke poro mona!

Infine, dalla lettura degli scritti di Garibaldi, si evincono altre due caratteristiche dell’eroe, spesso piuttosto silenziate: il suo odio inverecondo e ossessivo per la Chiesa cattolica e la sua assoluta incapacità di un pensiero politico minimamente coerente e fondato (il che lo renderà utile e obbediente di volta in volta agli interessi di Londra, delle logge massoniche, di Cavour e di Vittorio Emanuele).

Basterebbero alcune righe poste da lui stesso a prefazione delle sue “Memorie”: “In ogni mio scritto io ho sempre attaccato il pretismo, perché in esso ho sempre creduto di trovare il puntello d’ogni dispotismo, d’ogni vizio, d’ogni corruzione. Il prete è la personificazione della menzogna. Il mentitore è ladro. Il ladro è assassino: e potrei trovare al prete una serie di infimi corollari. Molta gente, ed io con questa, ci figuriamo di poter sanare il mondo dalla lebbra pretina coll’istruzione…Quindi libertà per i ladri, per gli assassini, le zanzare, le vipere, i preti! E cotesta ultima nera genìa, gramigna contagiosa dell’umanità, cariatide dei troni, puzzolenta ancora di carne umana bruciata, ove signoreggia la tirannide, si siede tra i servi, e conta nella loro affamata turba… Amanti della pace, del diritto, della giustizia- è forza nonostante concludere con l’assioma di un generale americano: ‘La guerra es la verdadera vida del ombre!‘”.

Oppure si possono leggere le sue lettere, in una delle quali definiva Pio IX “quel metro cubo di letame“, invitava a rompere i confessionali, “resi utili a far bollire i maccheroni della povera gente“, e a schiacciare il “verme sacerdotale”.

Ke poro mona!

Nel suo “I Mille”, scritto intorno al 1870, Garibaldi esalta le imprese delle camice rosse e le pone in contrasto con “la nauseante realtà della società odierna“, a cui il Nizzardo metterebbe fine, come gli sembra possa avvenire in sogno, con la creazione di un dittatore temporaneo, capace di amministrare la giustizia in piazza, in uno stato finalmente senza leggi scritte, senza polizia, senza “sgherri” e senza “preti”, in cui si ode “la parola tolleranza ripetuta da tutti e con rispetto“, tranne, naturalmente, “per i lupi, le vipere e i preti“!

Analoghi concetti si possono trovare in “Clelia, o il governo dei preti“, un altro romanzo del Nizzardo, scritta nel 1869, che Mario Isnenghi considera il modello del romanzo anticlericale di Mussolini, “Claudia Particella, l’amante del cardinale”.

Scriveva l’eroe dei due milioni, in conclusione di quest’opera – dopo aver deprecato i veneti che non si erano affatto ribellati agli austriaci nel 1866 e avevano accolto con pieno disinteresse alcuni candidati al Parlamento da lui personalmente sostenuti, nel 1867, una volta “liberati”-, descrivendo se stesso: “Odia i preti come istituzione menzognera e nociva…Professa idee di tolleranza universale e vi si uniforma, ma i preti, come preti non li accetta perché egli non intende siano tollerati malfattori, ladri, assassini e considera i preti quali assassini dell’anima peggiori degli altri.

Ke poro mona!

Egli ha passato la sua vita colla speranza di vedere nobilitata la plebe e ne ha propugnato ovunque i diritti. Ma con rammarico confessa pure che egli è rimasto in parte deluso…Egli è d’avviso che la libertà di un popolo consiste nella facoltà di eleggersi il proprio governo, che secondo lui deve essere dittatoriale, cioè di un uomo solo” (come mai a scuola è sempre presentato come “repubblicano”?)


Ke poro mona!

Nel suo testamento, infine, Garibaldi, che sempre più spesso, come si è detto, lanciava improperi contro l’Italia che aveva contribuito a costruire, e di cui fu anche, più volte, parlamentare ultra-assenteista, chiese di essere bruciato, in ossequio al suo panteismo e invitò i suoi cari a tener lontano “il prete”, che “considero atroce nemico del genere umano“, asservitore degli uomini, e, soprattutto, come aveva scritto altrove, delle donne (le più credulone…).

All’ultimo punto, con la solita lucidità con cui era passato dalla fede repubblicana mazziniana al ruolo di dittatore in Meridione alla fede monarchica, per cambiare ancora, scriveva: “Potendolo, e padrona di se stessa, l’Italia deve proclamarsi Repubblica, ma non affidare la sua sorte a cinquecento dottori (cioè ad un parlamento, ndr), che dopo averla assordata con ciarle, la condurranno a rovina. Invece, scegliere il più onesto degli italiani e nominarlo dittatore temporaneo…Il sistema dittatoriale durerà sinchè la Nazione sia più educata a libertà… Allora la dittatura cederà il posto a regolare governo repubblicano“.

Questo era l’uomo, che molti italiani, in verità, non amarono. Non lo amarono i contadini, che Garibaldi infatti criticava per la loro inattività rivoluzionaria, né i cattolici, che detestarono la sua avversione violenta alla loro fede, e il suo spirito rivoluzionario, né la gran parte dei meridionali, di cui non fu il liberatore, ma l’affossatore. Ne riconobbero la pochezza, anche molti altri. Scriveva di lui Proudhon: “Gran cuore, ma niente cervello“, mentre Costantino Nigra lamentava: “Questo Garibaldi è buono solo a distruggere“. Persino uno dei suoi collaboratori più stretti, Francesco Crispi, sosteneva: “La piccolezza della sua mente è una sventura. Grande, omerico sul campo di battaglia, si eclissa nei giorni di pace“.

I suoi libri, non le agiografie ufficiali, sono ancora oggi la testimonianza più vera di quest’ultima affermazione.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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