El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » mer feb 26, 2014 10:46 am

Meno Regioni ordinarie, meglio tutte a “statuto speciale”

http://www.lindipendenza.com/meno-regio ... o-speciale

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di NICOLA FIORETTI

“Occorre superare le Regioni a statuto speciale: l’assetto di 70 anni fa non è quello attuale”. Queste le parole che il Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, ha usato durante un’iniziativa del Lions Internazionale. Parole che stupiscono e amareggiano, specie chi con estrema responsabilità sta dimostrando nei fatti che l’autogoverno può davvero essere la soluzione per molti problemi che affliggono il nostro Paese.

Considerare superate le Regioni a Statuto Speciale significa considerarle un’eccezione da “tollerare” piuttosto che un modello per il decentramento dei poteri e questa la dice lunga sulla visione di alcuni politici italiani. Va ricordato come queste “eccezioni” rappresentino un quinto delle Regioni del Paese, un quarto del territorio nazionale e il 15% della popolazione nazionale e che spesso costituiscono modelli di buona amministrazione, come nel caso della nostra Regione.

Accanto a queste ci sono realtà che chiedono -giustamente e a gran voce- il diritto di autogovernarsi: si pensi a realtà come la Valtellina-Valchiavenna, dove è nato il movimento “Autonomia di Valtellina e Valchiavenna” e il bellunese, dove da tempo è attivo il “BARD – Belluno Autonoma Regione Dolomitica”. Complici gli episodi di malcostume che hanno riempito i quotidiani negli ultimi mesi -si pensi agli scandali in Piemonte piuttosto che a quelli di Fiorito in Lazio-, è tornato al centro del dibattito politico il ruolo delle Regioni e a maggior ragione quello delle Regioni a Statuto Speciale viste non sempre di buon occhio dall’opinione pubblica che spesso non ne coglie le vere potenzialità.

Gli episodi stanno fornendo un alibi in più a chi vede nel modello centralista la risposta ai problemi che investono il nostro Paese. La situazione è davvero complicata e la paura è che venga affrontata con troppa leggerezza e sminuita ad una semplice equazione tale per cui “decentramento = spreco“, anche quando questo non è assolutamente vero. Dando un’occhiata al c.d. “residuo fiscale” partendo dai dati della Ragioneria Generale dello Stato e ISTAT si può infatti scoprire come la situazione a livello nazionale sia davvero molto variegata e che non tutte le Regioni sono uguali e non tutte le “Speciali” sono uguali.

A titolo di esempio
-la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol ha un saldo positivo pari a 1,39 miliardi di Euro (soldi quindi che vanno a finire nelle casse dello Stato),
-allo stesso modo la Sicilia ha un saldo negativo pari a -16,020 miliardi di euro (soldi quindi che lo Stato versa alla Sicilia).
-La Lombardia ha un saldo positivo pari a 56,490 miliardi,
-mentre la Campania uno negativo pari a -15,770 e così via.

In una situazione così disomogenea non è semplice trovare una soluzione chiara e immediata. Tuttavia immaginare di superare il problema, centralizzando i poteri in modo verticistico, o peggio ancora mettendo in discussione la sopravvivenza degli enti locali, non fa bene ad un Paese che non può crescere senza corresponsabilità dei suoi territori che lo rendono davvero “vivo” e “ricco”. Ecco quindi che non sono le “speciali” ad essere superate ma le “ordinarie” a dover diventare gradualmente più “speciali”. Questo permetterebbe di rimettere al centro i territori, le loro esigenze e i loro interessi in modo da ottimizzarne le risorse e la competitività.

In questo scenario il concetto di “Regioni a geometria variabile” -così come esposto nell’omonimo libro di Mauro Marcantoni e Marco Baldi- potrebbe essere un valido modello da seguire. Da un lato il governo centrale concede autonomia entro certi limiti (ovvero all’interno delle materie concorrenti: norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente e dei beni culturali, ecc.), dall’altro pretende buon governo e responsabilità. Un percorso quindi che consente alle “ordinarie” di muoversi nella direzione della “specialità” obbligando però i territori a fare i conti con la sostenibilità finanziaria.

Non un “dormire sugli allori” quindi, ma una continua sfida per dimostrare di essere più efficienti del Governo centrale.

Presidente OSAR – Osservatorio di Studi Autonomistici Regionali ed Europei
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Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » sab mar 08, 2014 4:38 pm

Beppe Grillo batte un colpo: “E se l’Italia domani si dividesse”

http://www.lindipendenza.com/beppe-gril ... -dividesse

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di BEPPE GRILLO*

E se domani, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all’Etiopia.
Una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa.
Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati(?) dello Stato.
Quale Stato?
La parola “Stato” di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti.
E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un’arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme?
La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti.

E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all’interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant’anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all’estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche.
E se domani, invece di emigrare all’estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di “delocalizzare” le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse “Basta!” con questa Italia, al Sud come al Nord?
Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. E’ ormai chiaro che l’Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino.

Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l’Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l’identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie.
E se domani fosse troppo tardi?
Se ci fosse un referendum per l’annessione della Lombardia alla Svizzera, dell’autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d’Aosta e dell’Alto Adige alla Francia e all’Austria?

Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani…

*Tratto da http://www.beppegrillo.it
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Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » lun mar 10, 2014 6:23 pm

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Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » ven mar 14, 2014 11:07 am

Ke oror!

http://www.comune.vicenza.it/amministrazione/stemma.php

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Vicenza risulta essere l'unica città d'Italia che, in luogo del Gonfalone, detiene la Bandiera Nazionale decorata con ben due Medaglie d'Oro al Valore Militare (M.O.V.M.).
La prima fu concessa il 19 ottobre 1866 dal Re Vittorio Emanuele II "per la strenua difesa fatta dai cittadini contro l'irruente nemico nel maggio e giugno 1848", mentre l' 11 marzo 1995 il Presidente della Repubblica Oscar
Luigi Scalfaro, su proposta del Ministro della Difesa, consegnava la seconda massima ricompensa al Valor Militare, con la seguente motivazione:

Comune di Vicenza. Già insignita della massima onorificenza al valor militare per la strenua difesa opposta agli austriaci nel maggio-giugno 1848, la città non si smentì mai, nel corso di due guerre mondiali, le sue elevate tradizioni di virtù patriottiche, militari e civili.
Nel periodo della lotta di liberazione occupata dalle truppe tedesche, costituì subito, fra le sue mura, il primo comitato di resistenza della regione veneta, che irradiò poi, in tutta la provincia ed oltre, quella trama di intese e di cospirazioni che furono le necessarie premesse di successive e brillanti operazioni militari.
Le sue case, i suoi colli, le sue valli servirono allora da rifugio ai suoi figli migliori che, da uomini liberi, operarono per la riscossa e che, braccati e decimati da feroci rappresaglie, sempre tornarono ad aggredire il nemico, arrecando ingenti danni alle sue essenziali vie di comunicazione ed alla sua organizzazione, logistica e di comando.
I primi nuclei partigiani e dei G.A.P., operanti in città, e, in seguito, le numerose brigate delle divisioni "Vicenza", "Garemi", e "Ortigara", gareggiarono in audacia e valore, pagando un largo tributo di sangue alla causa della liberazione, mentre gran parte della popolazione subiva minacce, deportazioni, torture e morte e centinaia di altri suoi cittadini in divisa combattevano all'estero, per la liberazione di altri paesi d' Europa.
Benchè davastata dai bombardamenti aerei, che causarono oltre 500 vittime e che d'altrettante straziarono le carni, mutilata nei suoi insigni monumenti, offesa nei suoi sentimenti più nobili, la città mai si arrese al terrore tedesco, ma tenne sempre alta la fiaccola della fede nel destino di una Patria finalmente redenta.
10 settembre 1943 - 28 aprile 1945
(Estratto dalla G.U. del 24 novembre 1994 n. 275)

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... -osari.jpg
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Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » gio mar 27, 2014 10:50 am

El rejsta veneto Olmi lè drio far on film so la prima goera mondial:

el ga dito ke no ghè gnente de "Grande" ente la goera e sto film el trata de on reparto ke se ge rebelà e revoltà contro.

'Torneranno i prati', Olmi in trincea per raccontare la "Grande Guerra" (no ghè gnente de grande el ga dito Olmi)

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Asiago (Vicenza), 14 mar. (Adnkronos/Cinematografo.it) - Torneranno i prati, e torna la Prima Guerra Mondiale: è il nuovo film di Ermanno Olmi. Nel centenario del primo conflitto mondiale, riprese sull'Altopiano dei Sette Comuni, nel cast Claudio Santamaria, Andrea Di Maria, Francesco Formichetti, Camillo Grassi e Niccolò Senni, soggetto e sceneggiatura dello stesso Olmi, produzione Cinema Undici e Ipotesi Cinema con Rai Cinema, siamo sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli Altipiani, e, promette il regista 83enne, ''la pace della montagna diventa un luogo dove si muore: tutto ciò che si narra in questo film è realmente accaduto, e poiché il passato appartiene alla memoria, ciascuno lo può evocare secondo il proprio sentimento''.


Otto settimane di riprese, due trincee ricostruite a Val Formica e Val Giardini, tre milioni e 200mila euro di budget. ''Il miglior modo di celebrare il centenario - dice Olmi - è capire perché è successo: noi oggi siamo a una vigilia che rischia di assomigliare molto a quella della Prima Guerra Mondiale con conseguenze devastanti: la celebrazione deve essere 'voglio capire perché', perché non succeda un'altra volta''.
''Negli anni '80 storici austriaci e italiani sono stati incaricati di raccontare la Prima Guerra Mondiale, ma viene buono che quel scriveva Raymond Chandler 'Sapeva veramente tutto, ma solamente quello', perché non conoscono direttamente la realtà di cui vanno parlando. Io ho letto, riletto libri di testimoni diretti della guerra, come il mio amico Mario Rigoni Stern, Gadda, Lussu, Weber e altri: pagine di straordinaria sensibilità percettiva nel cogliere quelle sfumature che lo storico di professione non può avere. Ma oltre a questi autori, che hanno vissuto ma anche metabolizzato quegli eventi nello scrivere i loro romanzi, ho letto pagine di anonimi: c'era il nome in fondo, ma era quello di chi non ha nome. La verità l'ho trovata lì. Allora, chi scrive la storia? Quella ufficiale gli intellettuali, quella reale coloro che non hanno parola''.
Tra le testimonianze dirette, lo stesso padre di Olmi e Toni il Matto, un pastore che combatté sull'Altopiano: ''Nel '14-'15 in Italia sono successe cose vergognose, si sono mercanteggiate le condizioni di convenienza: se entrare o meno in conflitto, se schierarsi con gli austriaci o non belligerare, ma casa Savoia, sempre distratta nei confronti della storia, ha ritenuto più conveniente legarsi alle nazioni che avevano bisogno di mercati in Europa, l'Austria-Ungheria, un po' come oggi la Merkel. Fate questo lavoro, storici, e vedrete - tuona il regista - quanti fatti vergognosi di cui dobbiamo arrossire e abbassare il capo''.
Dunque, l'urgenza di questo film, 'Torneranno i prati', ambientato nell'autunno del 1917, ''il preludio di Caporetto, il preludio della disfatta: racconto di come dagli alti comandi vien l'ordine di trovare un posizionamento per spiare la trincea avversa: si finisce accoppati, ma l'ordine è arrivare là''. Probabilmente lo vedremo alla Mostra di Venezia, per ora Olmi rivela una battuta sintomatica del film che definisce 'onirico': ''Dopo una disfatta, tutti tornano a casa loro e dopo un po' tornerà l'erba sui prati''. La trincea è un avamposto, un caposaldo italiano sull'Altopiano e, continua il regista, ci sono ''due personaggi che fanno prevalere la propria coscienza sulle esigenze militari dei comandi superiori: disobbediscono, e la disobbedienza è un atto morale che diventa eroicità quando la paghi con la morte. Uno è un alto ufficiale, l'altro il solito anonimo soldatino il cui nome non significa nulla: entrambi hanno la coscienza di disobbedire. Nel processo, Eichmann sosteneva 'Abbiamo obbedito a un ordine', ma no: non ci sono ordini, quando un ordine è un crimine''.
E Olmi affonda: ''Sui monumenti che ancora oggi ritraggono gli alti comandanti, bisognerebbe scrivere sotto criminale di guerra''.
'Torneranno i prati' è profondamente radicato nella cittadina di Asiago che il maestro Ermanno Olmi ha scelto per vivere e si inserisce a buon diritto tra le iniziative promosse dalla presidenza del Consiglio per il centenario della I Guerra Mondiale. Il film, che nel cast annovera Alessandro Sperduti e Claudio Santamaria, dovrebbe arrivare nelle sale nel prossimo autunno.


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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... osari1.jpg

Almanco Olmi el ga vesto el corajo de dir calcosa contro la goera, contra sta goera e contro coeli ke li la ga comandà e fata; xente come de Marsi (el maestro ? ma de cosa?) fin deso no me par kel se gapie mai pronounsià contro ... De Marsi el ga scrito on mucio de canson ke le mensiona l'oltema goera mondial e li patimenti de li soldà ma mai el ga dito calcosa contro e contro el stado kel la ga fata.
Me par ke De Mrsi el sipia on nasionalista talian roso no tanto difarente da coeli neri de na olta.

http://www.antiwarsongs.org/canzone.php ... 03&lang=it

[1981]
Dall’album “Voci della montagna Vol.2”
Le parole (scritte con l’apporto del paroliere Carlo Geminiani) sono ispirate alla testimonianza di Giulio Bedeschi, medico e alpino, sopravvissuto alle campagne di Grecia e di Russia ed in seguito autore del celebre “Centomila gavette di ghiaccio”, stracensurato nel dopoguerra e pubblicato per la prima volta solo nel 1963.
Musica di Bepi De Marzi.

Alpini al monte Golico nel 1941

[Nell’autunno del 1940] “Gli Alpini, soprattutto quelli della Divisione Julia, erano partiti per il fronte greco, per una guerra che i governanti di allora si illudevano fosse poco più di una passeggiata: “Spezzeremo le reni alla Grecia …”, era lo slogan dei capi fascisti.
La Julia, che già era stanziata in Albania, iniziò la sua tragedia il 26 ottobre 1940 con l’attacco ordinato dal Comando Supremo in una stagione autunnale che, per l’arrivo delle piogge e delle prime nevi, non era quella opportuna per intraprendere una guerra. Per quanto riguarda l’organizzazione, basti pensare che già il 1° novembre gli alpini della Julia avevano già terminato la riserva di viveri. Scarseggiavano pure le munizioni e la copertura aerea promessa non si fece vedere. Dall’inizio dell’offensiva vera e propria (28/10/1940) all’11 novembre le perdite della divisione ammontarono a 1674 uomini, di cui 40 ufficiali. La resistenza greca, esercito e partigiani, bloccò le truppe italiane sui monti ai confini con l’Albania e l’inverno completò l’opera. Divenne una guerra di posizione.
Il Golico è un monte nei pressi del fiume Vojussa (quello citato in un altro famoso canto degli Alpini, Sul ponte di Perati bandiera nera il fiume che “col sangue degli alpini s'è fatto rosso…”; la montagna fu più volte presa e perduta, soprattutto nel periodo 7/3/1941-18/3/1941, e ciò con numerose perdite fra gli alpini dei Battaglioni Tolmezzo, Gemona e Cividale, della Julia, ed anche del Btg. Susa della Taurinense. Il solo Btg Cividale il giorno 18 marzo ebbe 40 morti e 240 feriti.
Il testo, anche se segue la tradizione di tutti i canti alpini, non è un testo che esalta la guerra, anzi, tutt’altro (???). Infatti l’alpino, conscio che qualsiasi azione potrebbe essere l’ultima, rivolge un pensiero alla madre e prega la Madonna di dare alla madre, che perderà il figlio, la forza di non cedere alla disperazione.” (Sergio Piovesan, dal sito del Coro Marmolada di Venezia.)

Se la Julia non fesse ritorno,
la me mama pregherà par mi,
Se la Julia non fesse ritorno,
la me mama pregherà par ti

Là sul Golico sotto la neve,
nà preghiera prima de dormir
là sul Golico sotto la neve
nà preghiera prima de morir.

Oh Madonna regina del cielo,
su me mama meti la Tua man,
daghe forza de pianzer pianelo,
daghe forza de non disperar.

Se la Julia non fesse ritorno,
la me mama pregherà par mi,
Se la Julia non fesse ritorno,
la me mama pregherà par ti

inviata da Bartleby - 23/6/2011 - 11:43

No la me par purpio na canson de cretega contro la goera.
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Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » mer apr 02, 2014 8:24 am

Pa i skei e la fama cosa ke no se fa, ke oror!

Ma qualcuno l’ha detto alla signorina che il tricolore porta sfiga?
http://www.lindipendenza.com/ma-qualcun ... orta-sfiga

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di TONTOLO

Andato male il colpo degli Europei di calcio, il circo patriottico si affida alle Olimpiadi.
La solfa è cominciata male con il Presidente che non viene inquadrato dalla televisione nella manifestazione inaugurale dei giochi. Napolitano se ne è lamentato piagnucolando contro la perfidia anglosassone. In realtà chi si deve lamentare sono i contribuenti che gli hanno pagato il viaggio.
La campagna pubblicitaria del connubio Sport-Patria (roba da DDR dei bei tempi) è affidata a due testimonial di bell’aspetto.
Alla Minetti tocca il lancio dei braccialettini ricamati in punto croce tricolore:lo slogan è “L’originale o niente” e non è chiaro a cosa si riferisca. Ma la fanciulla non ha fatto in tempo a farsi fotografare con il patriottico orpello che si è scatenato il coro di ex amici che la vogliono far dimettere.
Federica Pellegrini si è fatta invece fotografare in costume avviluppata nel tricromatico feticcio di seta: lo slogan del marchio che sponsorizza ufficialmente la Federazione Italiana Nuoto è: “Passione Determinazione Fede”, che gioca sul nome della bionda e non certo dell’Emilio, nonostante anche lui sia di granitica Fede patriottica. Le pose sono da eroina del popolo dell’arte sovietica o da walkiria modello Berlino 1936. In gara però l’ondina nazionale arriva solo quinta e la disperazione è generale.
Ma qualcuno l’ha detto a queste procaci fanciulle che quell’accostamento cromatico porta sfiga?
PS. Neanche il Presidente scherza…
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Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » gio apr 10, 2014 8:57 am

A go on sogno!
A go on sogno da vivar vanti de morir e lè coeło de poder vedar, miłara de Veneti montegar so łe nostre Alpi sante e ke a miłara łi se raduna so łe piane dei 4 osari vixentini: del Cimon, del Paxoubio, de Axiago, del Gràpa
e ke da łi, łi ghe sighe ai nostri morti, a l’Ouropa e al mondo intiero kel nostro canto no lè coeło barbaro e viołento de łi tałiani, el canto mamełego-roman de łi sasini de Cristo ma tuto naltro, na canta de paxe, de fradernetà e de ben;
e ke dapò a miłara ognoun el porte on tricołor tałian a bruxar so l braxer del riscato e ke l’oxe alto: mi so veneto e no tałian e ke pì gnente me podarà costrenxar a portar sta orenda bandera ke ła gronda del sangoe de ła nostra xente veneta.
No łi se vargogna mia łi alpini de ver sempre en man el tricołor tałian e de cantar l’orenda canta mamełega piena de viołensa e ke ła exalta łi sasini de Cristo.

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Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » mar apr 22, 2014 6:31 am

Ogni riferimento all’italianità è estraneo alla cultura Alpina

http://www.lindipendenza.com/ogni-rifer ... ura-alpina

di ALESSANDRO ZERBINATO

Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò addosso le sue settantadue bombarde. Incipit de “Il Sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern.

E’ innegabile che, nelle regioni del nord e nel Veneto, uno dei collanti dell’italianità sia costituito dagli alpini che con l’ANA danno vita a manifestazioni che negli ultimi anni si sono moltiplicate interessando moltissimi Comuni riempiendoli di tricolori.

Riguardo a tale sfoggio tricolorito, a questo gran pavese itinerante di un’italianità sempre meno sentita, un indipendentista veneto prova sentimenti contrastanti poiché se è vero che questo spirito patriottico provoca una certa nausea per l’evidente falso storico su cui è costruito è anche vero che proviamo grande rispetto per gli alpini.

http://www.dirittodivoto.org/dblog/arti ... newsletter


Le truppe alpine furono usate senza criterio nella guerra fascista prima contro la Grecia e poi in Russia.

La folle guerra condotta da Mussolini a fianco dei tedeschi ma anche in competizione con loro vide l’Italia aggredire la Grecia senza aver concordato o avvertito il più potente alleato che si stava preparando all’operazione Barbarossa in Russia.

Il Comando italiano invece di sfruttare la superiorità navale ed aerea nel mediterraneo attaccando dal mare la debolissima Grecia pensò bene di aggredirla attraverso l’Albania dai passi montani al confine con la Macedonia ed impegnando le truppe alpine in combattimenti sanguinosi ove poche mitragliatrici nemiche, ben piazzate sui passi, inchiodarono le truppe italiane numericamente superiori ed inflissero loro pesantissime perdite.

Le truppe alpine che per intima costituzione non erano adatte a guerre di conquista, bensì a difendere le alpi dall’invasione, combatterono di malavoglia sui passi greci ben consapevoli dell’insensatezza di quell’aggressione o almeno avvertendone le contraddizioni.

L’affondamento del piroscafo Galilea a causa di un siluro inglese nel braccio di mare tra Albania ed Italia in cui morirono mille alpini della Julia, quasi tutti del battaglione Gemona, rese ancor più evidente la totale impreparazione del Comando italiano alla guerra.

Evidentemente non ancora sazio di sangue inutilmente sparso il Comando italiano accondiscese all’invio in Russia di un Corpo d’Armata Alpino in quel grande raggruppamento di truppe italiane che viene ricordato dalla storia come ARMIR.

Gli alpini con armamento leggero a malapena adatto alla difesa dei passi alpini vennero schierati in Russia sulla pianura attraversata dal fiume Don sulle cui sponde ghiacciate fecero da raccordo tra le truppe rumene a sud e quelle tedesche a nord.

Si acquartierarono con grande laboriosità costruendo rifugi sotterranei per l’inverno e, completamente sguarniti di carri da battaglia, si approntarono a resistere all’attacco russo con i fucili del 1896 usati anche nella prima guerra mondiale, il Carcano mod. 91, con le Breda pesanti a bassa cadenza di tiro, con le O.T.O. bombe a mano che nemmeno esplodevano, con cannoni da montagna di calibro 75 di nessuna efficacia contro i carri sovietici e con ai piedi scarponi non adatti alle temperature glaciali della steppa russa mentre le Valenke che tante vite avrebbero potuto salvare erano stipate intonse nei magazzini italiani.

In pieno inverno, a 40° sotto zero, la linea del fronte venne travolta dai russi nell’intersezione a sud con quella rumena, interi corpi d’armata corazzati russi penetrarono all’interno delle retrovie creando una sacca in cui costrinsero l’ARMIR e da cui gli alpini si sottrassero con disumane marce forzate riuscendo alla fine ad uscirne dopo eroici combattimenti lasciando sul campo i nove decimi dei propri componenti e solo in poco più di diecimila sui centomila iniziali fecero ritorno a casa.

Gli alpini in Russia si fecero onore proprio quando furono attaccati da forze preponderanti e dovettero difendere le posizioni dimostrando, cosa più unica che rara tra le forze armate italiane, grande coesione con gli ufficiali in comando che condividevano con la truppa gli stessi disagi e fornirono quasi sempre esempi di eroico attaccamento al dovere.

Ai tempi della guerra le truppe alpine comprendevano oltre agli abitanti di paesi e città ai piedi di alpi e prealpi anche i coriacei abruzzesi mentre nel dopoguerra via via la leva si allargò anche ad abitanti della pianura padana fino ai tempi nostri in cui, dopo che è stata tolta la leva obbligatoria, anche le truppe alpine sono composte prevalentemente da meridionali.

Per la maggior parte quindi dei componenti l’ANA in Veneto parliamo di pensionati che prestarono servizio di leva obbligatoria e che vivono di miti della giovinezza assai suggestivi ma in buona sostanza anacronistici e che attualmente si fanno forse inconsapevole stampella di uno Stato unitario che depreda i propri sudditi di denaro ed identità attraverso una tassazione sovietica ed un centralismo esasperato.

Tuttavia, andando a grattare un poco più a fondo a questa foia italianista di tanti onesti alpini, assieme ad un impegno per un civismo molto tipico delle regioni del nord Italia e ad una fiducia in uno Stato paternalista molto mal riposta, troviamo la passione per tutti quei valori traditi da tutto ciò che il tricolore nella realtà rappresenta.

Gli alpini sono stati nella storia gente seria e posata rispetto ad uno Stato poco serio, per niente credibile all’estero e conculcante le libertà all’interno, gli alpini furono espressione della tenacia e dell’attaccamento al dovere delle popolazioni montanare mentre l’ente statuale italiano ha dilapidato ogni risorsa come la cicala di Esopo, gli alpini aborrono ogni guerra di conquista mentre hanno dovuto servire uno Stato guerrafondaio e dissennato.

Insomma, paradossalmente, ogni virtù a cui fanno riferimento gli alpini è una virtù estranea all’italianità tanto come ogni riferimento all’italianità che rappresenta il tricolore è estraneo alla cultura alpina.


Me despiaxe asè ma mi co vedo łi alpini col tricołor tałian a provo n’oror e na desperasion sensa fine.
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Heinrich
22 Aprile 2014 at 2:44 pm #
Gli Alpini sono stati fondati per opera del capitano di Stato Maggiore Giuseppe Domenico Perucchetti (Regio Decreto n. 1056 del 15 ottobre 1872) come truppe di montagna per la difesa dei confini montani del regno sabaudo ma, anche se il Corpo nasce più tardi, le truppe da montagna sabaude già fecero la loro prima comparsa nella Guerra di Crimea (1853-56), a memoria della quale i reparti Alpini valdostani usano ancora oggi quale slogan il motto evidenziato in grassetto di una canzone nata durante quella guerra in Crimea.

La creazione di queste truppe alpine fu sin da subito chiara espressione del nazionalismo imperialista italiano, nato nel XIX secolo, che poneva un’attenzione sempre maggiore sul preteso confine naturale del paese lungo l’arco alpino.
Già nel 1888 gli alpini, nati per difendere questo confine, furono invece inviati in Africa a conquistare delle colonie per l’Italia.

Alla guerra contro l’Impero Ottomano (1911-12), iniziata dall’Italia per annettersi le province turche della Tripolitania e della Cirenaica (Libia), nonché le isole egee del Dodecaneso, parteciparono dieci battaglioni di Alpini.
Reparti di Alpini furono anche coinvolti nella dura repressione del movimento per la liberazione della Libia, durata fino al 1933.
La popolazione libica fu decimata nei campi di concentramento, con marce di morte nel deserto e con le armi chimiche usate anche contro i civili.
Questa guerra crudele viene ricordata dal monumento all’Alpino di Meran e, al cimitero di Brixen, dalla scritta sotto il busto del brissinese Heinrich Sader, morto in circostanze misteriose in Libia.
“Caduto in terra d’Africa per la più grande Italia” recita questa scritta,, cioè per le guerre imperialiste italiane.
Secondo la propaganda, ripetuta ancora oggi, l’Italia avrebbe portato cultura e civiltà; in realtà ha portato solo morte e distruzione. “I veri barbari siamo noi”, scrisse a suo tempo il giornale socialista italiano “Avanti”.

Nella guerra d’aggressione contro l’Austria, a partire dal 1915, gli Alpini sostennero gran parte dei combattimenti, soprattutto sul fronte del Tirolo, e dopo la guerra la propaganda fascista creò il mito dell’Alpino come soldato montanaro che avrebbe conquistato per l’Italia quella parte delle Alpi che sarebbe stata destinata all’Italia dalla Natura o addirittura da Dio stesso.

Almeno fino all’applicazione del trattato di pace del febbraio 1921, non avrebbero potuto cambiare una virgola nei territori occupati del Tirolo e del Litorale, in ossequio a quanto stabilito nella Convenzione dell’Aia del 1907; avrebbero dovuto tenere in vigore le leggi austriache, non avrebbero potuto internare i civili, epurare, licenziare, perseguitare, arrestare, espellere gli “austriacanti” o i reduci dell’esercito austro-ungarico, cambiare i cognomi “non italiani” alla popolazione, cambiare i nomi delle strade, dei paesi e delle provincie, chiudere scuole, distruggere monumenti o innalzarne di nuovi; non avrebbero potuto espropriare, nazionalizzare, imporre loro plenipotenziari quali amministratori di società commerciali, navali ed industriali private. Avrebbero dovuto solo comportarsi come dei diligenti “custodi”.
Inoltre, la “Brigata Sassari” sedò a cannonate una rivolta cittadina nel quartiere operaio di San Giacomo, a Trieste nel settembre del 1920, che occupavano dal 1918 ed era stata scelta per merito dell’incomunicabilità tra i soldati sardi e la popolazione triestina a causa della mutua incomprensibilità linguistica.

Un ruolo molto importante, gli Alpini lo hanno svolto nella guerra d’annientamento contro l’impero etiopico (1935-1936).
Proprio per questa guerra fu costituita il 31 dicembre del 1935 la divisione alpina “Pusteria”, che infanga ancora oggi il buon nome della valle.
In questa guerra l’Italia fece uso delle armi chimiche in quantità mai viste anche contro i civili, le truppe italiane non fecero quasi mai prigionieri ed anche gli Alpini parteciparono alle uccisioni di massa della nobiltà etiope e dei religiosi cristiani copti: soltanto nella città sacra di Debre Libanos furono uccisi circa 2000 tra preti e monaci.
La Divisione Pusteria partecipò poi alle battaglie cruente di Tigrai, Amba Aradan, Amba Alagi e Tembien ed ai massacri di Mai Ceu e al lago Ashangi, che continuarono anche dopo la fine ufficiale della guerra.

Nell’aprile del 1937, la Divisione Pusteria ritornò in Italia e sfilò per le vie di Roma.
Nel 1938 Mussolini ordinò di persona la costruzione di un monumento a Bruneck per glorificare le “gesta eroiche” della Divisione Pusteria.
Davanti a questo monumento degli orrori gli Alpini depongono ancora oggi le loro corone.

La Divisione Pusteria intervenne anche quando l’Italia, il 10 giugno del 1940, dichiarò guerra alla Francia, e successivamente partecipò all’aggressione contro la Grecia, aggiungendosi alla “Julia”, presente in quella campagna sin dall’inizio.
L’occupazione italiana della Grecia costò la vita a circa 100.000 tra civili e soldati greci.

La Divisione Pusteria fu trasferita nell’estate del 1941 in Montenegro ed in Croazia, per la lotta contro i partigiani.
Il comportamento degli Alpini in questi paesi balcanici non fu meno crudele che in Etiopia; interi paesi furono bruciati, persone sospette torturate ed uccise. Alcuni episodi sono noti, come ad esempio quello degli alpini dei battaglioni Ivrea e Aosta, «che rastrellarono undici villaggi in Montenegro e fucilarono venti contadini».
Ma né più né meno di altri reparti italiani, a meno che non emerga una statistica comparativa.

Un capitolo a parte merita la partecipazione degli Alpini alla guerra contro l’Unione Sovietica.
L’Italia dichiarò la guerra all’Unione Sovietica il 23 giugno del 1941, un giorno dopo la Germania nazista; Mussolini inviò tre divisioni di fanteria, il cosiddetto Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), che nel 1942 aumentò a dieci, che formarono la nuova VIII Armata, detta “Armata Italiana in Russia” (ARMIR).
Di queste dieci divisioni, tre erano divisioni alpine: Cuneense, Julia e Tridentina.
I comportamenti dei soldati italiani nei confronti della popolazione dei territori occupati non si differenziarono da quelli dei soldati nazisti: secondo le direttive degli alti comandi, ogni resistenza attiva o passiva della popolazione civile era da reprimere con metodi durissimi. Le cosiddette spie erano da giustiziare sul posto.
Il generale Gabriele Nasci, comandante del corpo alpino, aveva dato l’ordine di rispondere con “rappresaglie di severità esemplare“ ad ogni atto ostile; le truppe dovevano prendere ostaggi ed ucciderli, nel caso fosse necessario, mentre i commissari politici sovietici, i “ribelli” e gli “elementi indesiderati”, come ebrei e zingari, venivano consegnati il più presto possibile ai tedeschi, conoscendo ed approvando quello che era loro destinato.
Diversi documenti provano come questo sia veramente successo; così come ampiamente documentata è la completa distruzione dei paesi di Snamenka e di Gorjanowski, in Ucraina, dove l’intera popolazione di questi villaggi fu trucidata dalle truppe italiane.

L’Unione Sovietica ha condannato per crimini di guerra diversi ufficiali italiani catturati, ed ha chiesto l’estradizione di diversi altri criminali di guerra all’Italia, che fu negata.
Perfino i comandi militari tedeschi (sic!) criticavano a volte il comportamento troppo crudele degli italiani, mentre il comandante dell’ARMIR, Generale Giovanni Messe, scriveva viceversa subito dopo la guerra che il corpo di spedizione italiano si sarebbe distinto da tutti gli altri eserciti “per la sua cultura superiore, il suo senso di giustizia e la sua comprensione umana”.
Nelle lettere dei soldati italiani, raccolte nel centro di censura a Mantova, si legge invece di soprusi e di assassinii di civili.

Si può quindi affermare che gli alpini non hanno mai combattuto una guerra difensiva nella loro storia, ma hanno effettuato solo invasioni di terre altrui, come tutte le altre forze armate italiane.

Dei 57.000 Alpini che parteciparono all’aggressione contro l’Unione Sovietica, soltanto 11.000 ritornarono, e dopo la guerra è uscita in Italia una ricca letteratura giustificativa, che ha creato il nuovo mito dell’Alpino come vittima e non come colpevole in questa campagna di Russia; in realtà gli alpini sarebbero state vittime di un governo irresponsabile.
Il loro sacrificio fu di certo strumentalizzato dal fascismo, e questo viene fatto ancora oggi per giustificare comportamenti non giustificabili e creare nuovi miti.
Uno di questi nuovi miti è quello di Nikolajewka: secondo questa leggenda, la Divisione Tridentina avrebbe sfondato, il 26 gennaio 1943, dopo aspri ed eroici combattimenti, l’accerchiamento sovietico, aprendo la strada verso ovest a tanti soldati sia italiani che tedeschi.
In realtà l’accerchiamento fu rotto dal 24° corpo corazzato tedesco.
Più di questo falso storico-militare preoccupa però il fatto che gli alpini ricordano ancora oggi una presunta vittoria in una guerra criminale, identificandosi in questo modo ancora oggi con questa guerra.

Dopo la guerra, il governo Degasperi, in seguito all’amnistia decretata dal Ministro alla Giustizia Togliatti, ha fatto di tutto per impedire procedimenti contro militari italiani per crimini commessi in Libia, Etiopia, nei paesi balcanici o nell’Unione Sovietica.
Si cercava di creare l’impressione che le forze armate italiane, pur essendo stata l’Italia alleata della Germania nazista, si sarebbero sempre comportate in modo impeccabile.
Nella logica della guerra fredda, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, per tenere l’Italia nel blocco occidentale, non ebbero alcun interesse nel perseguire crimini di guerra italiani commessi in paesi ormai comunisti, per cui questi rimasero impuniti.
Questo perdono generale per i crimini del regime fascista è stato fondamentale nel minare la fiducia dei paesi dell’Est nella memoria collettiva europea.

Oggi tutto questo non si vuole ricordare; si cerca invece di costruire nuove leggende; così oggi tutti i media italiani si attengono strettamente alla retorica fascista secondo la quale l’Alpino sarebbe un montanaro semplice, tenace, buono, coraggioso e patriottico, ed è proprio allo scopo di diffondere questo falso spirito che fu fondata nel 1919 l’Associazione Nazionale Alpini, subito allineatasi al regime fascista e dal quale non si è mai distanziata in modo inequivocabile.
Gli stessi reduci sono convinti di rappresentare degli alti valori e di essere “buoni”, mentre sono in realtà a loro volta vittime inconsapevoli del nazionalismo italiano.

Nonostante tutto ciò che commisero con quella divisa, gli Alpini hanno sempre dato grande importanza alla continuità della loro tradizione e non hanno mai preso le distanze dal loro passato; ad esempio la continua deposizione di fiori e corone ai monumenti di Meran e Bruneck dimostra che gli Alpini non si vergognano per niente dei crimini commessi in Libia ed in Etiopia, così come in Sudtirolo gli Alpini si continuarono a comportare da forze occupatrici: nel 1958 riuscirono a far sospendere per sei mesi il sindaco di Brixen, Valerius Dejaco, perché si era rifiutato di partecipare il 4 novembre alla festa degli Alpini per la “vittoria” contro la popolazione che il sindaco stesso rappresentava.

Non solo gli alpini, ma tutte le forze armate italiane, non hanno mai preso le distanze dal loro passato colonialista e criminale; la differenza tra gli alpini e gli altri corpi è che i primi hanno “penetrato” la società civile con le loro associazioni di reduci, veicolo del nazionalismo italiano e del suo militarismo, mentre gli altri corpi militari italiani non sfilano in centomila nelle città occupate delle “terre redente” e non ottengono le dirette televisive.
Gli Alpini sono comunque uno strumento di propaganda di “italianità” quasi quanto le “Frecce Tricolori” ma, purtroppo, non più di quanto lo siano le scuole pubbliche ed i media.

-Alessandra Kersevan: “Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942-1943″, Comune di Gonars ed Ed. Kappa Vu, 2003
-Alessandra Kersevan: “Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943″, Ed. Nutrimenti, 2008, ISBN 88-88389-94-6
-Alojz Zidar: Il popolo sloveno ricorda e accusa, Založba Lipa, Koper 2001, ISBN 961-215-040-0
-Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia, 2 volumi, Roma, Bari, 1986-88
-Angelo Del Boca: Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, ISBN 88-545-0013-5
- Nicola Labanca (ed.), Un nodo. Immagini e documenti sulla repressione coloniale in Libia. Bari 2002
- Asfa Wossen Asserate, Aram Mattioli (Hg.), Der erste faschistische Vernichtungskrieg. Die italienische Aggression gegen Äthiopien 1935-1941. Köln 2006
- Aram Mattioli, Experimentierfeld der Gewalt. Der Abessinienkrieg und seine internationale Bedeutung. Zürich 2005
-Boris Gombač: Atlante storico dell’Adriatico orientale, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera 2007, ISBN 978-88-8641-327-8
-Bruce Vandervort, Verso la quarta sponda la guerra italiana per la Libia (1911-1912), Stato maggiore dell’esercito, Roma, 2012
-Conti D., Criminali di guerra italiani. Accuse, processi e impunità nel secondo dopoguerra, Odradek, Roma 2011.
- David Bidussa, Il mito del bravo italiano, Milano 1994
-Effie G.H. Pedaliu: Britain and the ‘Hand-Over’ of Italian War
-Eric Salerno: Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale (1911-1931),SugarCo, Milano, 1979Criminals to Yugoslavia, 1945 – 48,Journal of Contemporary History, Vol. 39, No. 4, 503-529 (2004)
-Gianni Oliva: Si ammazza troppo poco. I crimini di guerra italiani. 1940-43, Mondadori, 2006, ISBN 88-04-55129-1
- Gerald Steinacher (Hg.), Zwischen Duce und Negus. Südtirol und der Abessinienkrieg 1935-41. Bozen 2006
-H James Burgwyn: General Roatta’s war against the partisans in Yugoslavia: 1942, Journal of Modern Italian Studies, September 2004, vol. 9, no. 3
-Lidia Santarelli: “Muted violence: Italian war crimes in occupied Greece”, Journal of Modern Italian Studies, September 2004, vol. 9, no. 3, pp. 280–299(20); Routledge, part of the Taylor & Francis Group
-Marcel Junod: Il Terzo Combattente: dall’iprite in Abissinia alla bomba atomica di Hiroshima, Franco Angeli, 2006, ISBN 88-464-7983-1
- Thomas Schlemmer (Hg.), Die Italiener an der Ostfront 1942/43. Dokumente zu Mussolinis Krieg gegen die Sowjetunion, München 2005.
-Tone Ferenc: La Provincia ‘italiana’ di Lubiana – Documenti 1941- 1942, Istituto Frilulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine 1994
-Thomas Schlemmer, Invasori non vittime. La campagna italiana di Russia. 1941-1943, Laterza, Roma-Bari, 2009
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Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » gio apr 24, 2014 5:18 pm

I fasisti rosi-i comounisti-i partexani taliani, mi co sta xente no go valori en comoun, ghemo do paree/patrie difarenti, lori ła Tałia naltri el Veneto

Anpi Veneto contro i venetisti e il loro raduno: veri campioni di libertà!

http://www.lindipendenza.com/anpi-venet ... di-liberta

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di TONTOLO

Ormai siamo al delirio contro il venetismo e all’aspirazione di libertà e di indipendenza. Leggete questa notizia battuta dalle agenzie, come si suol dire in linguaggio giornalistico un po’ antiquato ormai (battere deriva dal fatto che le agenzie un tempo arrivavano per telescrivente, che battevano rumorosamente ogni parola.

«Il 25 aprile è la festa della Liberazione, dopo 20 mesi di resistenza sanguinosa, e così va celebrata. Altre cose, altre manifestazioni, non c’entrano nulla con lo spirito del 25 aprile. E, in ogni caso, siamo contrari a qualsiasi prospettiva di indipendentismo e di secessione del Veneto. Siamo anche contro chi vuole utilizzare la data del 25 aprile per finalità che non c’entrano nulla con la festa della Liberazione». Non usa mezzi termini Maurizio Angelini, presidente dell’Anpi Veneto che spiega la sua posizione e della sua associzione a riguardo delle annunciate manifestazioni venetiste domani a Venezia, in occasione della festa del patrono San Marco. «Non si possono mescolare le due cose – spiega Angelini – la festa di San Marco è una festa religiosa, che viene celebrata da sempre a Venezia. Il 25 aprile è una festa del calendario civile in cui si riconoscono tutti, credenti e non credenti. Adesso i venetisti cercano di utilizzare questo spazio, questa data, che ripeto, ha un nome: Festa della Liberazione , conquistata dopo una lunga Resistenza che ha comportato lutti, morti, e sofferenze. Questo non si può accettare». Di più, il presidente dell’Anpi ribadisce con forza: «dopo di che, anche se i venetisti celebrassero la loro festa il 27 aprile, noi siamo comunque molto lontani dalle loro idee». In ogni caso il presidente dell’Anpi Veneto si dice fiducioso: «Le forze in campo si misureranno nelle piazze: sono convinto che saranno molti di più i veneti che parteciperanno alle cerimonie al fianco dei partigiani e dei rappresentanti dell’Italia, che a quelle indette dai secessionisti».

A me che son Tontolo ma non tontolon viene un solo commento: eccoli i campioni a comando della libertà che mostrano il loro vero volto!
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Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » lun apr 28, 2014 3:13 pm

Don Pellegrini: l’insostenibilità dell’espressione “Repubblica una e indivisibile”

http://www.lindipendenza.com/don-pelleg ... divisibile

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di DON FLORIANO PELLEGRINI

Don Floriano Pellegrini è stato testimonial Plebiscito2013.eu, il movimento che ha organizzato il referendum digitale che ha fatto tanto discutere e ha riscosso notevole successo. Don Floriano, in qualità di testimonial, aveva inviato a Plebiscito2013.eu questa breve presentazione che riportiamo di seguito e che la dice tutta sul suo spirito

Ho 57 anni, appartengo a una famiglia antica, sono felice di essere sacerdote e di stare con la gente, pur con i miei limiti, in campo spirituale e in quello culturale, ma non solo.

Per me Venezia è sempre stata un punto di riferimento. Mio, della mia famiglia, della mia valle e di tutto il Popolo veneto. Quante emozioni, sofferenze, speranze, dietro queste parole! Non vedo perché non possiamo continuare ad essere Popolo in tutto e per tutto, indipendente e sovrano, profondamente capace e desideroso di collaborare con gli altri Popoli della penisola italiana e del continente europeo, ma Popolo! Mi auguro, perciò, non sia lontano il giorno in cui questi auspici saranno realtà.

Don Floriano Pellegrini pubblica abitualmente delle sue riflessioni sotto l’insegna de “IL LIBERO MASO DE I COI, FEUDO SIGNORILE DEL XIV SECOLO, ALLE PENDICI DEL MONTE PELMO, NELLA COMUNITÀ STORICA DEL PATRIARCATO DI AQUILEIA”. Qui potete leggere una interessante riflessione sulla indivisibilità della Repubblica italiana.

E’ noto che la Costituzione italiana, del 1947, all’art. 5, dice: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali […]”. L’affermazione sull’unità e indivisibilità della Repubblica è, pertanto, un’esplicazione e non una parte del discorso diretto; questo inciso esplicativo può essere inteso in due sensi contrapposti: in senso minimale, come sarebbe a dire un’affermazione meno vincolante, oppure in un senso massimalista, dando all’inciso valore di sottolineatura, che si risolverebbe di fatto persino nell’impossibilità di (ri)mettere in discussione tale unità e indivisibilità. Finora è prevalsa, giustamente, l’interpretazione massimalista e, a livello di opinione pubblica, solo da pochi anni essa è osservata con maggiori distacco e criticità; ma è ora, possibilmente una volta per tutte, di scorgere e di comprendere come quella “bella frase” non abbia un entroterra filosofico e giuridico che la giustifichi e la sostenga. Che anzi, al contrario, la caricano di un qualcosa di ridicolo e grandemente inopportuno.

In filosofia, infatti, solo l’essere in sé e in quanto tale è “uno e indivisibile”, mentre tutti gli esseri, dal primo all’ultimo, non godono contemporaneamente di entrambe quelle qualità. L’Essere è uno e indivisibile perché, se fossero due, occorrerebbe postulare una diversità; ma qualcosa che sia diverso dall’Essere non può essere. Tutta la filosofia dell’uno ruota, e nessuno l’ha mai contestata, attorno a questa verità. Nessuno, eccetto la Repubblica italiana, che, se avesse fondamento filosofico quanto detto all’art. 5, sarebbe un ente che coincide con l’Essere stesso, un ente necessario, eterno, dal quale scaturirebbero, essendo unico e indivisibile, tutti gli altri esseri, in Italia e fuori.

Le varie religioni hanno ben presente l’accennata verità filosofica. Ma è soprattutto nel cristianesimo e con il concilio di Calcedonia, in Cappadocia, nel 451, che si ebbe la formulazione del dogma della Trinità, quale Dio “uno e indivisibile”, pur in tre persone. Da allora l’espressione è entrata nel linguaggio comune, sia liturgico che civico, tanto che ancora nel 1700 (e anche oltre) troviamo atti diplomatici e notarili che iniziano con la frase: “In nomine sanctae et individuae Trinitatis”, “In nome della santa e indivisibile Trinità”. Così anche il trattato di pace tra Austria e Italia, del 3 ottobre 1866, per evidente volontà dei cattolici austriaci, iniziò con le parole: “In nome della Santissima e Indivisibile Trinità” (un traduttore poco religioso intese il Santissima per Serenissima!). La qualifica di “Essere uno e indivisibile” in senso personalistico, in effetti, può essere applicata in assoluto solamente a Dio; a Dio… e alla Repubblica italiana, secondo quest’ultima! “In assoluto”, perché se è “in relativo” ossia rebus sic stantibus al 1947, oggi potrebbe essere modificata; ma, se non è modificabile, è frase che, unico Stato al mondo (che si dice democratico) applica a sé solo… e a Dio!

Neppure nella storia troviamo istituzioni (neppure la Chiesa cattolica, che nella professione di fede si dichiara “una, santa, cattolica e apostolica” e che è indubbiamente indivisibile) che abbiano avuto l’ardire di applicare a sé una definizione riservata a Dio. Nessuna, neppure tra gli Stati antichi che adesso diciamo assolutisti; mai se l’applicò, ad esempio, l’Impero d’Austria. E’ stato necessario giungere alla Costituzione francese del 3 settembre 1791, estorta dai rivoluzionari e in spirito ormai apertamente anticristiano, per leggere la frase: “Le Royaume est une et indivisibe”. Persino nello Statuto albertino (del 1848 e in vigore fino al 1947) non v’è traccia d’una frase sull’unità e indivisibilità dello Stato. E’ inevitabile chiedersi: la Repubblica italiana aveva proprio bisogno d’essere la “più furba” e far sua una frase che nessuno, a parte i rivoluzionari di 156 anni prima, aveva osato pronunciare? Era un completamento necessario della dichiarazione, all’art. 1, del suo essere democratica o non corrispondeva, piuttosto, al bisogno di mettere de facto un limite, mascherandolo di forza de iure, alla democrazia interna? In ogni caso, resta una limitazione, che nessuno Stato moderno impone ai propri cittadini; e ciò non è da poco.

E interessante ricordare, a questo punto, che J. J. Rousseau nel “Contratto sociale” (libro II, cap. 2) fa una riflessione sulla sovranità quale bene indivisibile. Da qui l’interrogativo se la frase della Costituzione possa essere letta non in riferimento alla Repubblica come tale, sebbene tale sia la dizione letterale, ma in rapporto alla sovranità, di cui all’art. 1 c. II. Se, cioè, non si debba intendere riferita al popolo al quale tale sovranità “appartiene” (così nel testo). Penso che in definitiva sia proprio così, altrimenti dovremmo concludere che la frase dell’art. 5 è una castroneria. Se però, volendo salvarla, la colleghiamo al concetto di sovranità e di popolo, dobbiamo avere il coraggio di portare le conseguenze di cui parla J. J. Rousseau, ossia che, per essere tale, la sovranità deve esprimere il volere di tutto il popolo; il che, in effetti, è indiscutibile. Come che la si voglia mettere, resta vero, solo a essere intellettualmente onesti, che l’art. 5 della Costituzione o è della massima stravaganza (filosofica, storica e giuridica) o è tale da non contrapporsi al diritto sovrano della Nazione e dei popoli che la compongono.
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