El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » mer gen 08, 2014 7:43 am

El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian
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Ieri hanno festeggiato il tricolore, quel sacro feticcio

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http://www.lindipendenza.com/il-tricolo ... o-feticcio

di GILBERTO ONETO

In occasione del secondo compleanno de “L’Indipendenza”, riproponiamo un articolo che ha attinenza con i festeggiamenti avvenuti ieri in Italia.

Secondo la storia patria “ufficiale”, il tricolore italiano ha compiuto 215 anni e ci siamo subiti le omelie “napolitane” sulla sacralità del feticcio e sul suo salvifico ruolo di totem dell’unità nazionale. Come ogni altro simbolo politico e identitario, anche il tricolore italiano nasce da una serie di sovrapposizioni di segni, di casualità e di invenzioni: come tutti i simboli merita rispetto e – per questo – non servono mitizzazioni e sacralizzazioni, non serve farne una reliquia circondata da nuvole di incenso e protetta dai gendarmi. Invece oggi il tricolore – caso pressoché unico al mondo - è difeso da alcuni minacciosi articoli del Codice Rocco e la sua esposizione è oggetto di una serie di disposizioni di legge puntigliose quanto sistematicamente disattese.

Forse è proprio la sua debolezza semiotica ad aver costretto la vulgata patriottica ad avvolgerlo in un’aureola di balle, mistificazioni, omissioni e risibili panzane.

Sul significato dei tre colori si sono sbizzarrite generazioni di poeti e di redattori di sillabari, che hanno tirato in ballo verdi prati, fuoco di vulcani, nevai, sangue, speranza e purezza: i più arditi si sono gettati in acrobatiche citazioni dantesche.

La verità è più prosaica e trova una vasta gamma di spiegazioni che vanno dalla casualità di taluni accostamenti cromatici di uniformi militari, al banale riferimento al tricolore francese o al più “nobile” (ma solo in termini simbolici) richiamo alla cromia massonica. Sono, a questo proposito, proprio i “venerabili fratelli” che in molte occasioni hanno rivendicato la paternità morale e grafica della bandiera. E non è evidentemente un caso che gli stessi colori si trovino nei vessilli di altre loro creature, fra cui il Messico, repubblica massonica per eccellenza.

Anche la sua affermata italianità è piuttosto traballante: il periodo giacobino e poi napoleonico, in cui essa ha trovato la sua genesi, è stipato di decine di altre bandiere simili: bicolori o tricolori che hanno rappresentato una effimera genia di repubbliche e repubblichette. Infatti il bianco-rosso-verde era solo il vessillo degli Stati che hanno interessato la Padania centro-orientale: altrove garrivano altri accostamenti cromatici.

Non ha neppure il monopolio della rappresentanza risorgimentale: tutte le rivolte carbonare utilizzavano altri colori (soprattutto la tricromia rosso-nera-blu), la repubblica romana e Pisacane sventolavano un drappo rosso, a Genova nel 1849 garriva la Croce di San Giorgio, e lo stesso Garibaldi si era confezionato un vessillo nero con un vulcano fiammeggiante ed ha appreso dell’amato tricolore solo durante il suo viaggio di ritorno in Italia, e ha dovuto rimediare in tutta fretta mettendo assieme tovaglie, indumenti e tappezzerie trovate a bordo della nave che lo trasportava.

Spesso si ricorda l’utilizzo del tricolore nelle Cinque Giornate ma si omette di dire che erano i colori dello Stato autonomo che aveva avuto Milano per capitale e che esso veniva utilizzato in forma complementare alla Croce di San Giorgio. Solo i rivoltosi più “politicizzati” avevano coscienza che si trattava del simbolo di un partito politico, la Giovane Italia, che lo aveva adottato qualche anno prima. Carlo Alberto lo ha furbescamente fatto diventare la bandiera del regno per affermare la sua volontà di diventare re dei territori che quarant’anni prima lo avevano preso come contrassegno, e cioè la Padania. Per esorcizzarne le implicazioni mazziniane lo ha “marchiato” con uno scudo di Savoia, agli inizi sproporzionatamente grande.

Solo da allora, esso è diventato bandiera d’Italia seguendo la trasmigrazione del termine, fino a ricoprire l’intera penisola. In seguito esso ne ha accompagnato tutte le avventure, emergendo con più forza nel corso di guerre e avventure dolorose, e – soprattutto – nel mesto cerimoniale che vi ha puntualmente fatto seguito col suo corollario di funerali, ossari, monumenti eccetera. Il fascismo ha aggiunto il nero arrivando alla sublimazione di una quadricromia dalle forti implicazioni ideologiche ma anche funebri, che non a caso è la stessa dei simboli dell’estremismo islamico.

Questo suo passato nazionalista e fascista aveva relegato il tricolore nell’ambito del nostalgismo e – fuori dal quadro politico – a bandiera calcistica, buona solo per gli stadi o per le vittorie della nazionale di football. Esso è stato ripescato di recente solo in funzione anti-autonomista, nel tentativo di promuovere un patriottismo unitarista in grado di opporsi all’ondata di crescita della aspirazioni locali di libertà e vere identità. Non è un caso che esso sia stato riesumato con forza proprio dagli ultimi tre presidenti, per uno dei quali forse anche per una sorta di espiazione di antiche memorie di rosso-bianco-verdi ungheresi.

Per finire, giova ricordare che il tricolore mazziniano è un rarissimo caso di simbolo di partito diventato segno dello Stato conquistato. Era successo con la bandiera rossa diventata segno dell’Unione sovietica e con la svastica diventata vessillo della Germania. La sola divertente differenza è che il partito mazziniano non ha conquistato il potere ma anche questo è un sicuro segno di italica creatività.

Comento de on talian ==============================================================================================================

Giglio Nero
5 Dicembre 2012 at 11:38 pm #
E’ una vergogna che nel 2012 si disprezzi in tal modo la nostra Italia. Alle orde barbariche (quando non addirittura ridicole) di pseudo-secessionisti non bastava attaccare il nord se del sud e il sud se del nord; non bastava offendere con le loro buffonate i milioni di caduti per l’Italia. Ora eccoli uniti pronti ad insozzare anche il sacro Tricolore.
Del resto siamo in una democrazia. Purtroppo, mi vien di pensare. E certe cose sono vergognosamente tollerate. Se solo si fosse disperso col dovuto piombo nella schiena la malagenia degli imboscati a suo tempo, come qualcuno disse, forse oggi non ci troveremmo a leggere idiozie come quest’articolo

un’italiano
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Re: El tricolor talian e la canta mamelega

Messaggioda Berto » mer gen 08, 2014 7:47 am

L’orenda canta mamelega
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Li sasini de l’ebreo Cristo - I romani
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Łi barbari romani: çeveltà e ençeveltà, masacri e rexistense
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L'oror de li talego romani
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L'oror de li talego padani
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Re: El tricolor, la canta mamelega el nasionaleixmo talian

Messaggioda Berto » mer gen 08, 2014 8:31 am

Se muore il Sud muore l’Italia! E’ una minaccia o una speranza?

http://www.lindipendenza.com/se-muore-i ... a-speranza

di GIAN LUIGI LOMBARDI CERRI

Ho appena finito di leggere il libro: “Se muore il Sud”, di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Libro che merita un qualche commento. Gli autori lasciano intendere dal titolo: “Se muore il Sud muore l’Italia”. Ne viene una immediata domanda provocatoria: cos’è? Una minaccia o una speranza?

L’intera trattazione non è scritta a 4 mani, ma da mezzo Corriere della Sera, leggendo le persone che gli autori intendono ringraziare, per cui è giustificabile che in mezzo ad una valanga di dati che a naso riteniamo corretti, appaiano enunciazioni da “cinque palle per una lira”. Quali, ad esempio la versione ad usum delphini dell’Ilva di Taranto e la storia dello stabilimento Boeing a Grottaglie. E via, con altre amenità.

Tuttavia riteniamo che un buon 80% di quanto scritto siano notizie valide ed interessanti. Quello che non riusciamo a capire è la continua pressione sull’argomento: mettiamoci d’accordo per risolvere il problema degli orrori del Sud. Mettersi d’accordo chi e su che cosa? Mettersi d’accordo per continuare a permettere ad una valanga di personaggi di vivere, nulla facendo, alle spalle del Nord? Ma si rendono conto gli autori che almeno il 70 % dei politici, dei burocrati, delle forze dell’ordine e dei giudici sono meridionali e che quindi il potere per raddrizzare la barca lo hanno loro senza particolari necessità di intervento (peraltro utile solo se si continua a pagare) dei “polentoni”.

Certamente anche al Nord vi sono delinquenti ed incapaci, ma è la quantità percentuale che conta. A puro titolo di esempio si insiste sul Nord che manda al povero Sud immondizie di tutti i tipi. Cominciamo a dire che, in questo settore, per Nord non si deve intendere solo nord Italia, ma nord Europa. Comunque questi lai mi ricordano da vicino quelli che avendo portato in giro la moglie a prostituirsi, con ogni mezzo, vanno poi, incassata la mercede, a piangere e ad imprecare contro quei maledetti che se la sono portata a letto.

Sono perfettamente in grado di fornire i nominativi di aziende padane con tutte le carte in regola per smaltire ecologicamente e legalmente residui velenosi. Certamente, in taluni casi più pericolosi, il costo ammonta a parecchie decine di euro al Kg. Pertanto se all’improvviso si presenta un tizio all’industriale che deve smaltire e gli propone più o meno insistentemente di dare a lui l’incarico per qualche centesimo di euro è sufficiente che se il potenziale cliente non è proprio uno stinco di santo… Altro esempio. Non vi ha mai raccontato la mamma che nel settore edilizio qualche azienda ricicla denaro sporco tenendo come ricompensa il 50% (sì dico proprio il 50%) del valore riciclato? Le aziende disoneste sono una minoranza, ma ci sono.

Gli autori tirano anche in ballo continuamente la responsabilità della Lega. Non sono qui a fare il difensore d’ufficio della Lega, ma occorre ricordare che all’acme del successo la Lega aveva il 10% dei voti. Ben scaldati gli autori arrivano a quella che dovrebbe essere la parte conclusiva del libro, ossia quella in cui si dovrebbe dire: allora proponiamo di fare. E invece se la cavano con pistolotti esortativi assommanti a sole 30 righe. Richiamano, in copertina una loro affermazione .”Ma che razza di classe dirigente è quella che lascia affondare un pezzo dell’Italia?”. Semplice: la classe di dirigenti meridionali che hanno in mano ben il 70% del paese!

Conclusione del sottoscritto: dal meridione è partito un cancro che ormai evidenzia metastasi anche al Nord. Cancro che richiederebbe, come al solito, uno spietato intervento chirurgico e con interventi ausiliari di chemio e di radio-terapia. Diversamente la soluzione è senza alternative. Mini conclusione aggiuntiva: gli autori scrivono nella dedica: “Ai nostri genitori, quelli terroni e quelli polentoni, che si sono sentiti semplicemente italiani”. Ma chi si sente italianooggi, con tutto quello che succede, se non ha interessi materiali che derivano dal suo patriottismo? Il vero ed unico obbiettivo di Stella e Rizzo, con questo libro, è stato quello di fare cassa attraverso una copiosa vendita.

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Il processo delle terre liberate
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... 9RYkE/edit


Li taliani dapò ver desfà la tera veneta e copà xentenara de miliara de veneti li ciamava el Veneto
Veneto bubbone d’Italia
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... pTaUE/edit


Malavita a Trevixo
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... p5Ymc/edit
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Malavita a Treviso
Alla fine dell’infame guerra (La Grande Guerra ?)

2. Malavita a Treviso

Agli inizi degli anni venti l'ordine pubblico a Treviso è così precario e [a sicurezza dei cittadini così a repentaglio, che l'insostenibile situazione è resa oggetto di una inchiesta giornalistica.
Ne esce un quadro scottante attualità, tanto da lasciar perplessi circa la capacità di uno Stato come il nostro (di chi?), che spaccia la propria debolezza per garantismo e l'infingardia corporativa per conquista sociale, di saper e voler combattere davvero la microcriminalità e la criminalità organizzata.

Chi conduce l'inchiesta denuncia come ormai troppo comodo l'alibi delle conseguenze dovute alla guerra oppure della dispersione della forza pubblica nel territorio, per effetto delle continue agitazioni politico-sindacali.

"Il vieto pregiudizio che la guerra è la cagione della maggiore delinquenza attuale non deve essere assunto a scusante, né meno ancora il fatto che in altre città la delinquenza è del pari attiva e grave.
Treviso non è un grande centro che possa sentire un riflesso notevole anche nel male, né ha tradizioni che di tranquillità patriarcale".

Quali allora le ragioni che, a due anni dalla fine del conflitto, fanno di Treviso "un covo di ladri, di delinquenti di ogni specie, di ricettatori, di favoreggiatori, di imbroglioni, di spacciatori di monete false"?

Seguiamo il comparire del fenomeno nel tempo.
"Una volta a Treviso si dormiva con le porte di casa aperte,
ora bisogna tapparvisi e chi ha negozi o roba altrove dorme con l'animo sospeso pensando che alla mattina farà probabilmente una dolorosa constatazione".


"Caporetto aveva agito da spartiacque.
Fu a cominciare da quel tragico evento che la ‘mala’, in divisa o senza, ma avendo sempre l'esercito quale punto di riferimento, fece di Treviso la mecca dei suoi loschi traffici.
Tutta gente forestiera, segnatamente meridionale, che assorbì rapidamente i balordi della piccola delinquenza locale.


Da un lato, dunque, malfattori che conoscono la città come le proprie tasche, perché in molti vi "furono già da lungo tempo da militarie vi rimasero perché avevano fatto conoscenze adatte e lega tra di loro", individui "notoriamente colpiti da mandati di cattura, (...) suonatori ambulanti e pregiudicati calati da altro paese, e infine parecchi vigilati speciali (... che) se la spassano in qualunque ora del giorno lavorativo o festivo, nelle osterie e nei ritrovi pubblici;
dall' altro lato, manovalanza locale, o comunque veneta, dedita un tempo al furto di galline o al massimo di biciclette, ed ora imbaldanzita, perché entrata in un più lucroso commercio.

La loro audacia s'è venuta man mano formando dall'esperienza fatta di una quasi completa impunità, dal sapere che nessuno li disturba, dalle condanne lievissime in caso di arresto, dalla libertà di riunirsi, viaggiare, organizzare, vendere e nascondere la refurtiva".

La forza della associazione delinquenziale è provata anche da "un altro fatto degno della camorra napoletana d'altri tempi.
A qualche negoziante di qui è stato assicurato da qualche noto pregiudicato che, godendo della loro protezione, non avrebbero patito alcun furto".

La gente non ha dubbi.
"Per la conosciuta indole mite e laboriosa degli abitanti è risaputo da tutti che l'origine del male deve ricercarsi soprattutto nell'esistenza di elementi estranei alla città, che esercitano impunemente i loro loschi affari sotto l'egida della deplorevole inerzia degli agenti della pubblica sicurezza".

Ed è questo appunto che la gente non si spiega, non comprende perché l'autorità non riesca ad arrestare ed espellere delinquenti che sono traditi dalla loro stessa inflessione dialettale. "Sono sempre gli stessi.

Al tempo della ritirata di Caporetto, chi di essi non era soldato restò a Treviso e finì ripetutamente in carcere, chi era soldato prima e dopo disertò, andò in carcere e fu ... amnistiato.
Tutti hanno al loro passivo larghe serie di condanne; e sono sempre qui, fra i piedi, a godersi la libertà che non ha confine, di giorno e di notte, più di notte che di giorno".
La gente va deprecando che troppi esempi di mitezza ha dato l' autorità giudiziaria, causa questa non ultima se qualche agente è diventato svogliato o negligente, e il delinquente si fatto più audace".

La gente sa, però, che fare si doveva e si poteva, e che volutamente non fu fatto.
"Sarebbe bastato, ad evitare che la malavita riallacciasse le sue fila - (a guerra finita) - e ristendesse la sua rete, un'accurata vigilanza da parte dell'autorità locale competente e la deportazione di tanta gente venuta dal di fuori, alla quale mancavano i legittimi motivi della sua presenza.

Si richiedeva all'uopo un servizio di pattuglia, che, tuttora deficiente, allora mancava affatto, un numero conveniente di agenti realmente, e non per celia, investigatori, qualche sorpresa in qualche pubblico esercizio, qualche sopralluogo con relative retate di malviventi in qualche casa eccentrica, l'arresto e la deportazione di presenti organizzatori e la sorveglianza di sospetti favoreggiatori.
Non ultima si richiedeva la collaborazione dell'esercito, specialmente dei capi reparti, ai quali non sarebbe stato difficile prevenire e reprimere i furti commessi su vasta scala da soldati, specie automobilisti, ed il commercio clandestino da loro esercitato attraverso la cooperazione di congedati, divenuti improvvisamente padroni di frequentazione di parecchie automobili e di parecchi autocarri.

Di tutte queste misure di precauzione e di repressione della mafia importata nel Veneto e su più vasta scala nel Trevigiano che cosa fu fatto? Dovremmo rispondere nulla o quasi nulla".

La connivenza tra malavita di importazione e addetti all'ordine pubblico che rispondono alla stessa matrice regionale si legge tra le righe.
I diretti responsabili del mantenimento dell'ordine e della sicurezza si difendevano dall'accusa proveniente dall'opinione pubblica sostenendo che non si può procedere all'espulsione di alcuno quando "non vi sono motivi gravi".

Giustificazione che la gente respinge sdegnata, perché non può essere che ciò che a Treviso non si ritiene `grave' lo si ritenga invece a Udine, ove la questura era invece intervenuta ed aveva rimpatriato in pochissimi giorni centinaia e centinaia di forestieri che, come nel capoluogo della Marca, infestavano la zona.

Si insiste, insomma, sul sospetto della combutta o, quanto meno, del concorso esterno, e proprio per questo si rimane, scettici sulla possibilità di avere un futuro migliore.
"Non ci rassicura la esperienza del passato, il quale rivive nelle penose impressioni della cittadinanza che per lungo tempo assistette con profondo disgusto e fra gravi preoccupazioni all'indifferenza, eretta a sistema, delle autorità, quasi una parola d'ordine fosse corsa, dagli uffici ai corpi di guardia, di non disturbare la mala vita e di lasciar correre il triste e deplorevole andazzo.

Mai si prevenne, e di rado si represse con la dovuta energia la mala vita, la vera mafia, qui attratta dalla fama, onde la Marca Trevigiana fu ritenuta, dopo Caporetto, terra di facile conquista, come alla losca speculazione, così al più audace brigantaggio".

L'accusa si configura ormai in tutta la sua gravità, e Il Risorgimento' si rifiuta prudentemente di farla propria. Respinge però con fermezza il tentativo di giustificazione avanzato dalla forze dell'ordine – eterno ritornello di tutto lo apparato statale italiano –, cioè a dire la carenza di personale.

In Italia, i dipendenti pubblici eccedono, e troppo spesso sono reclutati con sistemi clientelari, per essere poi distribuiti malissimo sul territorio e impiegati peggio ancora.

"A Treviso, sede di Legione RR.CC. non c'è che una squadra di soli tre uomini dell arma che fanno servizio indagativo. E più incredibile ancora è il fatto che questi non dispongono neppure di una bicicletta, mentre tante biciclette vengono adoperate per piantoni, postini, scrivani, ecc. per null'altro fine che la polizia e non per quello direttamente.
Alla Questura poi, dove figurano in servizio, un Commissario, quattro o cinque vice commissari, un vice ispettore o dieci o dodici guardie investigative, il vero servizio di polizia giudiziaria non lo fanno che un vice commissario, il vice ispettore e due o tre guardie. Tre vice commissari sono da lungo tempo assenti e non vennero sostituiti, un terzo fino l'altro giorno aveva mansioni di ufficio che potrebbero essere sbrigate da chi a differenza sua conosce la città e l'ele mento delinquente, e grande numero di guardie sono negli uffici a scrivere e a rovinare carte. (...) Succede un delitto grave di notte?
Non c'è che un piantone, alla Questura. Tutti gli altri sono a casa a letto e gli uffici sono chiusi.

Ammazzano qualcuno per la strada?
La Questura lo sa il giorno dopo dai giornali o dopo molte ore perché gli agenti investigativi ... investigano sulle carte in ufficio e non sono fuori a raccogliere notizie ed a fare servizio".

L'indignazione, a questo punto, esplode. "Fuori, in città, a conoscere l'ambiente, a constatare che soldati offrono ‘pacchi vestiario’ che forse non son che pezze di stoffa rubate nelle recenti imprese, (...) senza ritegno, sicuri della indifferenza o della paura di chi accetta e delle assenze di chi dovrebbe essere ovunque presente".
Fuori, "prima che la giustizia ufficiale venga sostituita dai cittadini onesti, che hanno il sacrosanto diritto, in assenza dello Stato, di difendersi nella persona e negli averi contro il brigantaggio, qualunque ne sia l'etichetta".


Voleva essere un monito, non una previsione.
Il monito non fu raccolto, e successe quello che per forza succede quando le cose vanno così.

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Re: El tricolor, la canta mamelega el nasionaleixmo talian

Messaggioda Berto » mar gen 21, 2014 9:10 pm

La Grande Guerra, un altro approccio

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di Benedikter Von Den Bergen

http://vivereveneto.com/2013/10/28/la-g ... -approccio

A proposito della gloriosa guerra del 15-18, combattuta dai valorosi soldati italiani con sommo spirito di sacrificio e totale patriottica abnegazione, spesso, quel che appare ovvio, non è per niente reale, perché la realtà vera, a volte, è talmente sorprendente da non poterci credere.

Che la prima guerra mondiale fosse un affare sporco, come pochi altri, lo sapevano bene quelli che si son visti costretti a parteciparvi, a soffrire, a morire. La “vittoria zoppa” di una guerra costata sofferenze indicibili, suonava male a tutti. Gli italiani del dopoguerra hanno dovuto per forza trovarle una giustificazione patriottica che, seppure poco plausibile, era indispensabile per sopportare una condizione di vita talmente degradata che definire catastrofica sarebbe stato ancora poco. L’illusione del patriottismo e il miraggio di un grande condottiero, avrebbero risollevato le sorti di un popolo privato di ogni speranza.

Fu così che i Veneti, come per incanto, divennero improvvisamente gli indomiti patrioti difensori del Grappa, del Pasubio e del Piave, tramandando ai posteri le gesta eroiche dei salvatori della patria italiana, dimenticando tutto ciò che era successo come se non fosse mai accaduto. Da una necessità sociale è nata l’epopea dell’alpino impavido e ardito, immagine ben diversa dalla realtà di poveri contadini, pacifici, spauriti e affamati, scaraventati in un inferno senza sapere perché e senza possibilità d’uscita.

Oggi potremmo valutare i fatti con maggiore obiettività se non fosse che certe motivazioni nelle scelte di allora sono, nostro malgrado, riproposte tali e quali seppure con diverse modalità e le spine di allora pungono e feriscono oggi più di ieri. Nonostante sia trascorso un secolo, ci troviamo nelle medesime condizioni dei nostri nonni, pervasi da falsità e oppressione, ma con l’ordine tassativo di “pensare ad altro”, di fingere un mondo diverso, costretti a credere che le cose non stanno come sono realmente ma come vogliono farci credere che stiano.

Valutando le cronache del primo decennio del ’900 sul territorio veneto, appare verosimile inquadrare i fatti bellici del 15-18 come una esigenza dello stato italiano volta più a sedare e sottomettere le riottose province venete da poco italianizzate, che non alla conquista dei nuovi territori i quali, è bene ricordarlo, da sempre facenti parte dello stato austriaco e non, come la Venezia, territori autonomi sotto giurisdizione austriaca. L’Italia era ben conscia della differenza e s’era visto pure in occasione della guerra del 1866, quando il Garibaldi, vittorioso alle porte di Trento, dovette retrocedere con il famoso “obbedisco!”.

Ormai tutti sono al corrente della proposta austriaca con la quale, pur di non aprire un nuovo fronte a sud, era disposta a cedere i territori di Trento e Trieste all’Italia, in cambio della neutralità, ed essendo per l’Italia, la “liberazione” delle due città, scopo e finalità ufficiale della guerra, non si spiega e non si capisce perché si sia sobbarcata un onere per lei insostenibile, per conseguire un risultato che avrebbe potuto ottene senza muovere un dito!

Ma il motivo c’era eccome!

Ripassando i giornali di inizio secolo, appare evidente che nelle Terre Venete le cose non andavano per il giusto verso! Era tutto un susseguirsi di proteste, manifestazioni, insurrezioni, con conseguenti repressioni, rappresaglie, massacri, imprigionamenti, confische.

Gli “anni ruggenti” che fremevano in tutta Europa parevano portare un vento nuovo, favorevole ad una riscossa dell’indipendentismo veneto che vedeva l’Italia, già WW1-3in difficoltà venendo da 15 anni di guerra feroce nelle regioni del sud, versare in condizioni disastrate dopo le catastrofiche imprese belliche in Africa e nel Mediterraneo. Pareva a molti che non avrebbe superato il frangente e si sarebbe in qualche modo disgregata offrendo l’occasione agli stati preunitari di risorgere. La fiscalità aveva raggiunto livelli insopportabili e la popolazione veneta, ridotta alla fame dal sistema impositivo e repressivo italiano, era sull’orlo della deflagrazione!

Alcuni leader veneti si stavano facendo strada e pareva che davvero mancasse poco ad un evento risolutivo che accendesse le polveri dell’insurrezione verso la liberazione. Pareva mancasse un niente!

Ed invece, è scoppiata la guerra! Mobilitazione generale. Militarizzazione del territorio veneto. Divieto di assembramenti. Legge marziale! Confische su larga scala!

La condotta della guerra da parte italiana spiega molte cose circa le reali intenzioni dei politici romani ai quali, più che colpire gli Austriaci, interessava “dare una lezione” ai poveri disgraziati ridotti sotto al loro comando. Come proclamavano allora re, generali e ministri: fatta l’Italia si dovevano fare gli italiani!

Una guerra con tattiche assurde finalizzata al massacro delle proprie truppe per “educarle”.

Le scene assurde viste nel film “Uomini contro” sono successe veramente! I soldati “austriaci” parlavano veneto e urlavano agli italiani di non farsi ammazzare!!! le decimazioni erano pratica usuale come lo erano gli assalti impossibili ripetuti fino all’ultimo uomo, o i plotoni di carabinieri che sparavano alle ultime file per indurli ad avanzare. Una carneficina assurda e inspiegabile.

Ma non solo, e veniamo al punto centrale della questione. Negli anni della guerra è stato possibile portare avanti con estrema efficacia e senza alcun disturbo il piano di pulizia etnica nelle Terre Venete iniziato nel 1870 e mai sospeso. Interi paesi, non interessati alle operazioni del fronte, con azioni militari (e pertanto segrete!) sono stati completamente svuotati della popolazione civile, procedendo con la fucilazione immediata di chi opponeva resistenza. Decine di migliaia di Veneti strappati con la forza dalle loro abitazioni e abbandonati in numerosi “campi profughi” disseminati tra Calabria, Sicilia, Campania, Puglia. Abbandonati a sé stessi con poche possibilità di sopravvivenza, senza mezzi, nell’assoluta impossibilità di poter far ritorno alle proprie case.

Questa “operazione” non figura ufficialmente da nessuna parte. Ovvio! E’ difficile credere che uno stato possa comportarsi in maniera così barbara a danno dei propri cittadini, è stato sufficiente far sparire ogni riferimento ed è come nulla fosse accaduto. Ma! Purtroppo per loro, sono rimaste le prove. Prove inconfutabili alla portata di chiunque: è sufficiente una ricerca di cognomi tipicamente veneti attraverso i siti specializzati; e poi chiedersi come si spieghi la presenza di così numerosi Veneti nelle regioni del profondo sud. Ebbene, sono i discendenti dei sopravvissuti alla deportazione del 15-18! Persone inermi gettate in luoghi impervi, abitati da gente che parla lingue incomprensibili, ridotte nella più nera miseria. Un inferno forse più terribile di chi pativa il terrore del fronte.

E’ comprensibile se di quelle vicende siano rimaste ben poche memorie nei protagonisti, ed è un dovere per noi commemorare quei nostri fratelli martiri della Patria, vittime di uno stato feroce, senza pietà e senz’anima, avido del possesso, sprezzante della dignità, causa di immani sofferenze.

Una breve considerazione finale : le condizioni attuali sono MOLTO simili alle condizioni di inizio XX° secolo. Come allora, fame e miseria. Oppressione di uno stato incapace a risolvere i problemi. Malcontento nella popolazione. Venti di novità e di speranza che giungono da lontano. Movimenti indipendentisti in attività…

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Comenti================================================================================================================================

Enzo Trentin scrive:
28/10/2013 alle 14:28
Ecco come scrive sul Corriere della Sera del 30 marzo 1916, Luigi Barzini, delegato dal direttore Luigi Alberini a fissare nella fantasia dei lettori i luoghi e la tipologia della guerra. Si tratta di una delle tipiche «barzinate» ( l’espressione sprezzante è anch’essa d’epoca) tratte da articoli del gennaio-marzo 1916. Successivamente raccolti in libro: Sui monti, nel cielo e nel mare – La vittoria, p. 140.

«Come si va all’assalto:
Un colonnello degli alpini ha gettato in aria il cappello dalla piuma bianca: Avanti! Alla baionetta! Le truppe salivano l’ultimo gradino con l’impeto di un’onda, urlando di gioia frenetica. Ridevano combattendo ancora, scivolando, cadendo, morendo. Sono i cadaveri rimasti su quella estrema balza che, rovesciatisi con la faccia al cielo, hanno conservato nella fissità della morte un sorriso pallido, come se un sogno di gloria illuminasse il loro sogno senza fine.»

Le testimonianze, quelle vere, verranno decenni dopo, ma non pubblicate dai cosiddetti mezzi di comunicazione di massa. Ecco un contadino di Cherasco, classe 1887, che ci racconta l’Ortigara:

«Che cosa pensavamo noi di quella guerra? Non avevamo nessuna voglia di farla, per forza, andare. A noi non interessava la guerra, noi eravamo poveri diavoli, a noi non conveniva. Interessava a qualcuno per farsi i soldi ma non a noi. “Andiamo là a perdere tempo e ancora a farci ammazzare”, ecco che cosa ci dicevamo. È sull’Ortigara che ho visto la guerra più brutta. Là i colpi di mortaio cadevano e facevano tremare la terra. Una notte siamo usciti dalla trincea, ero con la 15a compagnia del battaglione Borgo San Dalmazzo. Abbiamo raggiunto una valletta che era piena di morti. Abbiamo costruito una lunga morena con i morti, abbiamo tolto i morti e ci siamo ammucchiati al loro posto. Poi al mattino, alle sette, arriva l’ordine di partire all’assalto. “Fuori”, grida il capitano. “Prima esce lei, poi usciamo noi”, gli dicono i soldati. Le mitraglie dei tedeschi sparavano a gran forza raso terra. Esce il capitano, esce la prima ondata di alpini, e muoiono tutti. Io ho tardato un attimo: “Se ho da morire muoio qui”, mi sono detto. Poi la nostra artiglieria ha cominciato a bombardarci, e anche i tedeschi hanno preso a bombardarci. I nostri ci bombardavano per farci uscire dalla trincea, per spingerci all’assalto. Neh… che guerra falsa! In quel batiböi ne sono morti migliaia e migliaia. Mah! Quante volte mi sono nascosto sotto i morti per ripararmi dalle schegge degli shrapnel! Com’erano i nostri ufficiali? Ce n’erano dei buoni e dei cattivi. I cattivi ogni tanto li trasferivano di reparto perché se no i soldati li ammazzavano. Il soldato stava sempre zitto, ma l’ufficiale cattivo aveva paura di essere ammazzato. Non ci siamo mai ribellati, non eravamo mica capaci di ribellarci. Non avevamo nemmeno più fame in trincea, tanta era la paura, tante erano le sofferenze. Avevamo sempre tanta sete. Oh, dell’Ortigara mi ricordo sempre.» (Nuto Revelli «Il mondo dei vinti, I» Torino, © Einaudi, 1977, pag. 39)

«…Una sera uno di noi gridò:
“Guardate l’Ortigara, ha cambiato colore!” Aveva cambiato colore, la montagna, e fumava, gialla e negra, dai suoi mughi inceneriti, dalle buse colme di gas…» (Paolo Monelli, Sette battaglie)

La battaglia dell’Ortigara, denominata in codice Azione K, fu una violentissima battaglia d’alta montagna combattuta dal 10 al 25 giugno 1917 tra l’esercito italiano e quello austriaco, che vide impiegati 400.000 soldati per il possesso del monte Ortigara, sull’altopiano di Asiago. Si tratta della più grande battaglia in quota mai combattuta.

Nei 15 giorni di battaglia muoiono circa 23.000 soldati italiani e ben 5.969 nella giornata conclusiva. Per questo motivo il Monte Ortigara è stato chiamato “il Calvario degli Alpini“. Le perdite austriache furono circa 7.000 uomini.

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Eugenio Fontana scrive:
28/10/2013 alle 17:04
Parlando il mese scorso con un vecchio professore universitario,della 1 guerra Mondiale,mi disse ke la stragrande maggioranza degli Itagliani ,non volevano la Guerra,Perfino Giolitti era Contrario..a Convincere la casa Savoia ad entrare in Guerra furono gli INDUSTRIALI ..Itagliani in prima fila la F.I.AT. E poi certo con questa guerra era una occazione per fare gli Itagliani,Tra gli Interventisti vi era un Certo Benito Mussolini ,ex Socialista Rivoluzionario,il quale dopo avere Rinnegato le sue Idee,abbiamo visto cosa a fatto..Voleva fare dei vari Popoli della penisola Italica un solo Popolo ,ma non c’è Riuscito, Solo ke grazie a questo Patriota Itagliano ,abbiamo perso pure L’istria .

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Andrea Arman scrive:
29/10/2013 alle 09:00
Che ne dice l’autore dellarticolo se lo si inviasse all’Associazione Nazionale Alpini. Sarebbe interessante vedere se lo pubblicano e l’eventuale commento.

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Benedikter Von Den Bergen scrive:
29/10/2013 alle 10:03
L’autore dell’articolo non è un professionista della comunicazione nè tantomeno uno storico referenziato.
I pensieri che ho riportato sono desunti da memorie personali che fanno riferimento a testi e testimonianze che ho avuto modo di consultare e leggere in tempi passati per puro spirito di conoscenza e approfondimento personale. Non ho sottomano bibliografia nè fonti (tuttavia bisogna precisare che in internet si trova materiale interessante). Per presentare un argomento così scottante ad un ente che dalla fondazione porta avanti la celebrazione e l’esaltazione del patrottismo italico, bisogna quanto meno avere prove evidentissime per non essere tacciati di qualunquismo disfattista!
In ogni caso non credo siano disponibili ad andare oltre il luogo comune della cieca esaltazione della loro presunta patria.

E dire che gli alpini (in stragrande maggioranza veneti da Bergamo a Udine.. così hanno trovato il modo di discriminare i Veneti anche in guerra!) sono stati impiegatii sempre nelle condizioni più disgraziate e improbabili, mandati allo sbaraglio, sacrificati inutilmente in tutte le vicende belliche italiane degli ultimi cento anni. Dai Balcani al deserto, dalla steppa russa alle isole del peloponneso, ovunque gli alpini hanno dovuto subire e soffrire e morire dove gli altri “non erano ritenuti idonei” e vigilavano le retrovie. Per i soci ANA è un vanto ma a mio avviso meriterebbe un approfondito esame.

Per i Veneti celebrare le glorie della PGM è esattamente come innalzare monumenti a napoleone. Una incomprensibile follia!!!
E’ il risultato (e la dimostrazione!) di un lavaggio del cervello cui sono stati sottoposti i Veneti e dal quale sembra non se ne vogliano liberare.

Replica
Luca Segafreddo scrive:
30/10/2013 alle 12:27
Quello pubblicato è un grandissimo articolo che tocca dei punti salienti relativi alle ragioni dell’entrata in guerra dell italia (minuscolo) nella I guerra mondiale. Reiteratamente e sistematicamente i testi storici glissano su questo aspetto, di rilevanza estrema per coloro i quali hanno visto il conflitto svolgersi sulle loro terre. Mio nonno e suo fratello non hanno mai voluto dire una singola parola di quanto hanno visto e fatto sul Pasubio e sull’altopiano. Mio zio si tenne soltanto la sua coperta (che possiedo oggi io) e basta, bruciarono tutto il resto e gettarono via la medaglia. Ad un incontro con diversi alpini, ad inizio di quest’anno, nelle conversazioni dissi che abbiamo vinto la guerra che dovevamo perdere, perdendo in seguito quella che non si sarebbe dovuto perdere per nessun motivo. Nessuno ha detto nulla in merito, ognuno ha riflettuto su questo senza fare il benchè minimo commento. Un Veneto può anche essere alpino, ma resta prima Veneto, se è un Veneto vero. Se è itaglian, allora si può dire quel che si vuole

Benedikter Von Den Bergen scrive:
29/10/2013 alle 11:54
A conferma di quanto riportato sull’articoletto.
Mi sono preso la libertà (chiedo scusa anticipatamente se tocco le sensibilità e la privacy… di questi tempi ci si può aspettare di tutto! nel caso si cancelli subito!) di cercare il cognome ARMAN sul sito http://www.gens.org.
risultato: come prevedibile la maggioranza si trova nelle venezie. Una consistente presenza in Lombardia e Piemonte (le migrazioni del dopoguerra). Come per tanti altri cognomi veneti non mancano i puntini sparsi in Sicilia, Campania, Basilicata!!
Decisamente non è un cognome meridionale e dire che dei Veneti si sono trasferiti là in epoca recente è poco probabile, oltre alle vacanze non saprei che altre “opportunità” avrebbero potuto trovare.
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Re: El tricolor, la canta mamelega el nasionaleixmo talian

Messaggioda Berto » mar gen 28, 2014 9:31 am

Penso a Mastrapasqua e… odio il tricolore

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... mastra.jpg

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... LORE-e.jpg

http://www.lindipendenza.com/penso-a-ma ... -tricolore

di DANIELE QUAGLIA

Passa quasi in sordina la notizia che Antonio Mastrapasqua è indagato dalla procura di Roma. Il presidente dell’Inps e vice presidente di Equitalia, uno degli uomini più potenti d’Italia con i suoi oltre 20 incarichi, è sotto inchiesta per migliaia di cartelle cliniche taroccate e fatture gonfiate all’Ospedale Israelitico, di cui è direttore generale. In tutto 85 milioni di euro: 14 milioni sarebbero rimborsi “non dovuti” ma richiesti lo stesso alla Regione Lazio. Gli altri 71 sono un presunto “ingiusto vantaggio” conseguito dalla clinica romana dal 2011 al 2013.

In questo Paese è una notizia normale come rientrano nella normalità le notizie che vedono membri del Governo coinvolti in vicende poco chiare e a volte costretti alle dimissioni come Josepha Idem, ministro delle pari opportunità dimessosi dopo d’aver evaso IMU e ICI e il ministro dell’Agricoltura Nunzia de Girolamo dimessosi per lo strascico di polemiche seguenti le note interferenze con l’USL di Benevento o altri che, nonostante tutto, ancora resistono aggrappati al loro posto come il ministro della giustizia Cancellieri intercettata sulle telefonate “umanitarie” per ottenere la scarcerazione dei Ligresti o il vice premier Alfano di cui emerge una telefonata al potente Ligresti in cui si parla di una cena e di un appartamento. Perfino Renzi, neo fiamma tricolorita, porta in dote una condanna in primo grado da parte della Corte dei Conti per danno erariale come Presidente della Provincia di Firenze.

Come sembra essere altrettanto normale la presenza in parlamento di circa 110 parlamentari indagati se non addirittura già condannati in via definitiva e non fa nemmeno storcere il naso la notizia che 5 saggi nominati da Letta per elaborare la riforma della Costituzione siano indagati per vicende di concorsi truccati. E non ci si meraviglia neppure quando si viene a sapere che il costo della Presidenza della Repubblica italiana non ha eguali nei Paesi più potenti, come non ha eguali il costo della politica o quello della pubblica amministrazione e del para stato. Per non parlare di pensioni d’oro o delle pensioni degli ex statali, pensioni erogate senza che lo Stato italiano, loro datore di lavoro, abbia mai versato un cent di contributi risultando il più grande evasore contributivo mondiale.

Chi vive in questo mondo surreale gode di un tenore di vita agiata, i cui costi sono a carico dei veri ma ignavi lavoratori; rivendica fiero la sua italianità e strumentalizza ideologicamente il tricolore facendone una linea di difesa invalicabile, una linea Maginot a difesa dei suoi privilegi. Mentre solo chi lavora alla fine paga e, plagiato, spesso subisce la rapina con spirito masochista per poi finire a condividere la stessa italianità del suo carnefice. Ma chi gira il mondo sa che nella immaginazione collettiva internazionale, non a caso, italiano è sinonimo di mafia, malcostume, malaffare e malapolitica.

Lo è anche nella mia immaginazione e aggiungo all’elenco, sinonimo di schiavitù per chi lavora e intraprende: per queste ragioni, e non solo, odio il tricolore.


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VALENTINA VEZZALI: “NEL TRICOLORE CI SON TUTTI I MIEI VALORI” ke ensemina e ke buxiara o ke 'gnorante, xovane e envaxà!

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http://www.lindipendenza.com/valentina- ... iei-valori

Nel tricolore tutti i suoi valori, dietro quella bandiera, lei sente, sfilerà l’Italia intera.
A Valentina Vezzali serviva la botta «di adrenalina» del Quirinale dove è partita ufficialmente, con la consegna dalle mani del capo dello stato della bandiera che lei porterà alla cerimonia inaugurale dei Giochi di Londra, la corsa degli azzurri alle Olimpiadi: reduce da un europeo in cui l’oro con il fioretto a squadre ha parzialmente bilanciato una prova in ombra per la jesina, la Vezzali ha promesso che «a Londra non ci sarà la sosia vista agli europei, ma quella vera che ballerà come sa fare in pedana».

Il conto alla rovescia verso Londra è partito e per la schermitrice, 5 ori olimpici di cui tre individuali, Londra rappresenta un’emozione nuova.
«Ho realizzato il mio sogno – dice la portabandiera – Rappresentare il paese è un’emozione grandissima, e mi sento leggerissima con questa bandiera in mano. Le parole di Napolitano mi hanno commosso, ha parlato con il cuore. Il 27 luglio vivrò un momento magico, in questo tricolore ci sono tutti i miei valori.
Spero che questo fuoco che sento dentro possa contagiare tutti gli azzurri per far grande l’Italia e far risuonare l’inno che portiamo dentro le nostre divise».

Per smorzare l’emozione ha cominciato la giornata correndo, di prima mattina («non riuscivo a dormire…»), poi la cerimonia.
E la gioia di vedere Napolitano commosso: «Mi stavo per mettere a piangere anche io – racconta la campionessa – è bello far vedere le proprie emozioni, così come è bello realizzare i propri sogni. Io sono una macchina da guerra e quello che mi sono messa in testa l’ho ottenuto».
E così mamma Vezzali («Mi ha commosso vedere mio figlio cantare l’inno agli europei») vive la sua giornata doppiamente speciale: la bandiera da Napolitano e la festa per i 10 anni di matrimonio con il calciatore Domenico Giugliano. E non ha intenzione di fermarsi. «Non è detto che smetto dopo Londra – dice – vediamo, se sento ancora il fuoco dentro vale la pena continuare.
E poi devo superare il record di Mangiarotti, e ancora un pò ci vuole…».
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Re: El tricolor, la canta mamelega el nasionaleixmo talian

Messaggioda Berto » mer gen 29, 2014 4:58 pm

Vilipendio al tricolore, iniziato il processo per Eva Klotz

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http://www.lindipendenza.com/vilipendio ... -eva-klotz

È iniziato tre giorni fa, il processo per vilipendio che vede sul banco degli imputati i consiglieri provinciali Eva Klotz e Sven Knoll assieme ad altri sette rappresentanti di Süd-Tiroler Freiheit, difesi dall’avvocato Nicola Canestrini.

A sostenere l’accusa il procuratore capo Rispoli. Il processo ruota intorno ad un manifesto del 2010, in cui campeggiava una scopa che spazza via il tricolore per far posto alla bandiera tirolese e sopra la scritta: «Il Südtirol può fare a meno dell’Italia».

Sono stati sentiti gli uomini della Digos che hanno condotto le indagini. «Possono parlare in italiano – ha detto Klotz – perché so che faticano a parlare tedesco». Sia Klotz che il suo avvocato hanno ribadito che “non c’è stato vilipendio, ma solo critica”. Si riprenderà il 23 maggio.

FONTE ORIGINALE: http://altoadige.gelocal.it


Vilipendio al tricolore, Eva Klotz assolta: «Nessun reato»
Gio, 21/01/2016

http://www.ladige.it/territori/alto-adi ... ssun-reato

Il fatto non costituisce reato. Assolta in appello a Bolzano la pasionaria sud-tirolese Eva Klotz, assieme ai compagni del partito Südtiroler Freiheit Sven Knoll e Werner Thaler, dal reato di vilipendio alla bandiera.
I tre erano stati condannati in primo grado ad un'ammenda di tremila euro ciascuno per un manifesto con una scopa che spazza via il tricolore lasciando solo il bianco ed il rosso del labaro tirolese.
«Klotz - ha detto il suo legale, Nicola Canestrini - è stata assolta in forza della tolleranza. La tolleranza è infatti la forza di una società civile e si dimostra con chi non la pensa come noi».
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Re: El tricolor, la canta mamelega el nasionaleixmo talian

Messaggioda Berto » lun feb 03, 2014 9:03 pm

Ke oror coante stronsade kel dixe sto omo!

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Caro Abruzzo, perché scadi nelle più trite “balossate” patriottiche?

http://www.lindipendenza.com/caro-abruz ... triottiche

Su Tabloid, periodico ufficiale del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia (anno XLIII, n. 4-6, settembre-dicembre 2013, pagg- 70-72), Franco Abruzzo ha pubblicato un pezzo titolato “Quando Il Caffè univa già l’Italia. L’illuminismo milanese che anticipò il Risorgimento” a presentazione della riproposizione di un articolo di Gian Rinaldo Carli, pubblicato nel 1765 proprio sullo storico periodico lombardo.

A un certo punto della sua presentazione, Abruzzo scrive:
«Anche in questo momento cruciale della storia nazionale, i giornali saranno chiamati a giocare un ruolo di primo piano nella diffusione delle idee di rinnovamento e di riscatto del popolo italiano e nella costruzione dello Stato nazionale inteso come organizzazione politica della Nazione italiana (che già esisteva da mille anni attraverso l’opera dei suoi scrittori, santi, poeti, scienziati, artisti, scultori, musicisti, politologi, storici, giornalisti ed economisti).

La lingua (?), le tradizioni(?), la comune fede cristiana(?), i costumi (?), l’eredita romana e latina (?), il mito di Roma (?) – (che per prima aveva unificato la Penisola, dando la sua cittadinanza ai popoli che la abitavano dalle Alpi alla Sicilia, dal Quarnaro alla Sardegna ) – dicevano che la Nazione c’era (???).
Quando la vocazione militare e il disegno espansionistico settecentesco del Piemonte sabaudo nella valle padana incrociarono le aspirazioni e l’anelito di tutto il popolo italiano alla libertà scocco la scintilla che avrebbe portato l’Italia al ruolo di soggetto politico autonomo nello scenario europeo e internazionale.
Sotto la regia di un grande statista, Camillo Benso Conte di Cavour, e la determinazione di Vittorio Emanuele II di Savoia a diventare Re d’Italia o a ritirarsi in esilio come il signor Vittorio Emanuele di Savoia.
L’Italia repubblicana non deve aver timore di celebrare quel Re, Padre della Patria, che fece una scommessa al limite dell’impossibile, e il mito di Roma nel Risorgimento (rilanciato con 30 anni di anticipo sul 1861 da Giuseppe Mazzini e poi anche da Cavour nel formidabile discorso davanti al primo Parlamento italiano il 27 marzo 1861, quando indicò la Città eterna come capitale della Nuova Italia).

Se il Risorgimento fu progresso per l’Italia (?) lo dobbiamo anche al Re Galantuomo (?), che difese lo Statuto e il Tricolore davanti a Radetzky vittorioso nel 1849.
La Nazione, con Cavour e Vittorio Emanuele, deve onorare adeguatamente e sempre Giuseppe Mazzini, creatore della coscienza nazionale attraverso la severa scuola del sacrificio, e Giuseppe Garibaldi, che mise la sua spada, la sua audacia generosa ed entusiastica, il suo genio militare al servizio dei sogni del popolo italiano.
Non dimenticando mai che dietro la conquista della Unità e della Libertà, c’è una schiera infinita di martiri e di combattenti caduti per tener fede alla missione, individuata dal giansenista Mazzini, di distruggere l’Impero d’Austria visto come mosaico di popoli oppressi.
Eppure nel 2011, 150° dell’Unità nazionale, nessuno ha pensato al “Caffè” e agli Uomini del “Caffè”, che hanno avviato quel processo conclusosi con successo 100 anni dopo: l’Italia libera e unita».

Commentando la pubblicazione nel 2008 del cosiddetto “Appello di Blois” contro l’ingerenza della politica nell’interpretazione della storia, Timothy Garton Ash aveva scritto sul Guardian: «Perché la gente possa affrontare queste cose, le deve innanzitutto conoscere: questi temi devono essere insegnati a scuola e ricordati pubblicamente. Ma, prima di essere insegnati, devono essere oggetto di ricerca. Bisogna rivelare le prove, verificarle e riverificarle. Bisogna opporvi altre interpretazioni per vagliarle. Questo processo di ricerca e verifica storica implica la più completa libertà, limitata solo dal rispetto per le leggi contro la calunnia e la diffamazione, e scritte per proteggere persone viventi ma non certo i governi né gli orgogli nazionali».

Franco Abruzzo ha grandi doti di cultura e intelligenza che hanno permesso a lui, cosentino, di essere stato per più 18 anni Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia e di farlo con serietà e coraggio.
Per questo spiace vederlo nella parte dell’acritico divulgatore delle più trite balossate patriottiche e di farlo con il linguaggio di un sillabario per “Balilla” e “Giovani italiane”.
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Re: El tricolor, la canta mamelega el nasionaleixmo talian

Messaggioda Berto » gio feb 06, 2014 12:59 am

La Repiovega Serenisima e l'idea de 'Talia
https://picasaweb.google.com/1001409263 ... deaDItalia
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Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » mar feb 11, 2014 8:03 pm

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Re: El tricołor, ła canta mamełega el nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » ven feb 21, 2014 1:57 pm

Va in scena la “Nuova Italia” che raccoglie il peggio del peggio

http://www.lindipendenza.com/va-in-scen ... del-peggio

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... isegno.jpg

di GILBERTO ONETO

Che libertà e democrazia siano nello stivale merce rara e distribuita col contagocce e a intermittenza è una triste realtà che ha – nella sua veste patriottica e unitaria – 153 anni. La vicenda è però sempre stata edulcorata da un velo di ipocrisia che consentiva di esibire apparenze decenti. Anche questo velo è caduto: si è cominciato fottendosene dei risultati dei referendum popolari, si è passati ai listoni compilati dalle segreterie dei partiti, poi alle soglie di sbarramento, e ai governi creati con manovre extraparlamentari giustificate da qualche emergenza più o meno fasulla.

Oggi si è arrivati alla sublimazione dell’italocrazia: al governo viene “distaccato” un giovanotto di tante parole e di poche idee, che nessuno ha eletto, in sostituzione di un altro – altrettanto inetto – ma che poteva almeno vantare un briciolo di investimento formale. L’operazione è spudorata e non ha neppure la misera consolazione della schiettezza: i veri padroni del vapore non si sono presentati su un palco – come facevano i generali cileni o il Comitato supremo dell’Urss – a dire “Così è perché così ci piace” ma si nascondono dietro a marionette e a statue di cera.

Il nuovo governo nasce da licenziamenti, colpi di palazzo, articoli a orologeria di giornalisti americani, interventi della Bce, fruscii di grembiulini, scambi di pizzini fra mammasantissime e vecchi rituali da Botteghe Oscure.

Dietro le quinte si muovono poteri forti, finanza internazionale, interessi inconfessabili, logge massoniche, organizzazioni criminali incistate nel corpo dello Stato e vecchi rancori comunisti. In prima fila zampettano un Presidente che ha attraversato con compassata autorevolezza tutta l’italianità (è stato fascista, comunista, carrista, intercettato, trasvolatore low cost, risorgimentalista: gli manca solo di avere presentato Sanremo), un Cavaliere imprenditore, politico, dongiovanni, inquisito, gorgheggiatore, cinofilo e gelliano, un paio di Presidenti delle Camere dall’aspetto trucido e un po’ iettatorio, e – infine – un attor giovine tirato fuori di peso da una foruncolosa nidiata di “marturel de l’uratori”, un saccente e logorroico catto-comunista un po’ Cateno, Benigni e La Pira. Con questo cast (arricchito da una banda di comparse di proporzionata qualità) va in scena lo spettacolo della “Nuova Italia” (che somiglia drammaticamente a quella vecchia), che gira la penisola su un treno chiamato “Italicum” (che somiglia a “Italicus”) su cui possono salire solo i clientes dei due partiti maggiori, che si dicono diversi e alternativi ma che in realtà sono uguali e consociativi. Se non altro, si è finalmente fatta chiarezza: lo Stato italiano si rivela per quello che è davvero, una patriottica consociazione di massoni, mafiosi e comunisti che si avvale di un esercito di burocrati e di mantenuti.

L’obiettivo condiviso è di umiliare la gente per bene, rapinare il frutto del lavoro dei cittadini mediante l’estorsione fiscale, distruggere ogni libertà politica con una legge elettorale sciagurata, annientare ogni identità con l’immigrazione, terrorizzare la gente con la criminalità grande e minuta, ridurre in povertà la Padania e distruggere ogni autonomia. Non è un caso che i punti su cui hanno subito trovato un granitico accordo sono l’abolizione delle Province, la colpevolizzazione delle Regioni, l’attacco a quelle a Statuto speciale, la cancellazione dei costi standard e la revisione del Titolo V, il solo scampolo di autonomia conquistato in vent’anni.

Consola solo che non andranno lontano. Si schianteranno trascinandoci tutti in un baratro da cui le nostre comunità potranno uscire solo facendo il contrario di tutto quello che è stato loro fatto subire. Facendo il contrario dell’Italia.
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