El Corier de ła Sera, l'onto xornal de ła goera e pro Ixlam

El Corier de ła Sera, l'onto xornal de ła goera e pro Ixlam

Messaggioda Berto » mer mag 27, 2015 8:06 am

El Corier de ła Sera, l'onto xornal de ła goera, senpre stà contro i veneti, jeri cofà ancó col so veneto renegà Steła
viewtopic.php?f=139&t=1622


http://www.corriere.it
http://it.wikipedia.org/wiki/Corriere_della_Sera
Il Corriere della Sera è uno storico quotidiano italiano, fondato a Milano nel 1876. Pubblicato da RCS MediaGroup, è il primo quotidiano italiano per diffusione e il secondo per lettorato. Il suo slogan è "La libertà delle idee". ???

Dall'articolo di fondo del nº 1 del «Corriere della Sera»: Al Pubblico

"Pubblico, vogliamo parlarci chiaro. In diciassette anni di regime libero tu hai imparato di molte cose. Oramai non ti lasci gabbare dalle frasi. Sai leggere fra le righe e conosci il valore delle gonfie dichiarazioni e delle declamazioni solenni d'altri tempi. La tua educazione politica è matura. L'arguzia, l’esprit ti affascina ancora, ma l'enfasi ti lascia freddo e la violenza ti dà fastidio. Vuoi che si dica pane al pane e non si faccia un trave d'una fessura. Sai che un fatto è un fatto ed una parola non è che una parola, e sai che in politica, più che nelle altre cose di questo mondo, dalla parola al fatto, come dice il proverbio, v'ha un gran tratto. Noi dunque lasciamo da parte la rettorica [sic] e veniamo a parlarti chiaro.
Non siamo conservatori. Un tempo non sarebbe stato politico, per un giornale, principiar così. Il Pungolo non osava confessarsi conservatore. Esprimeva il concetto chiuso in questa parola con una perifrasi.

Ora dice apertamente: "Siamo moderati, siamo conservatori". Anche noi siamo conservatori e moderati. Conservatori prima, moderati poi. Vogliamo conservare la Dinastia e lo Statuto; perché hanno dato all'Italia l'indipendenza, l'unità, la libertà, l'ordine. In grazia loro si è veduto questo gran fatto: Roma emancipata da' papi che la tennero durante undici secoli. [...]
Siamo moderati, apparteniamo cioè al partito ch'ebbe per suo organizzatore il conte di Cavour e che ha avuto finora le preferenze degli elettori, e - per conseguenza - il potere.[...] L'Italia unificata, il potere temporale de' papi abbattuto, l'esercito riorganizzato, le finanze prossime al pareggio: ecco l'opera del partito moderato.


Siamo moderati, il che non vuol dire che battiamo le mani a tutto ciò che fa il Governo. Signori radicali, venite tra noi, entrate ne' nostri crocchi, ascoltate le nostre conversazioni. Che udite? Assai più censure che lodi. Non c'è occhi più acuti degli occhi degli amici nostri nel discernere i difetti della nostra macchina politica ed amministrativa; non c'è lingue [sic] più aspre, quando ci si mettono, nel deplorarli. [...] Gli è che il partito moderato non è un partito immobile, non è un partito di sazi e dormienti. È un partito di movimento e di progresso.

Sennonché, tenendo l'occhio alla teoria, non vogliamo perdere di vista la pratica e non vogliamo pascerci di parole, e sdegniamo i pregiudizii liberaleschi.
E però ci accade di non voler decretare l'istruzione obbligatoria quando mancano le scuole ed i maestri; di non voler proscrivere l'insegnamento religioso se tale abolizione deve spopolare le scuole governative; di non voler il suffragio universale, se l'estensione del suffragio deve porci in balia delle plebi fanatiche delle campagne o delle plebi voltabili [sic] e nervose delle città. [...]

[Conclusione] A' giornali dello scandalo e della calunnia sostituiamo i giornali della discussione pacata ed arguta, della verità fedelmente esposta, degli studi geniali, delle grazie decenti, rialziamo i cuori e le menti, non ci accasciamo in un'inerte sonnolenza, manteniamoci svegli col pungolo dell'emulazione, e non ne dubitiamo, il Corriere della sera potrà farsi posto senza che della sua nascita abbiano a dolersi altri che gli avversari comuni".
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El Corier de ła Sera, l'onto xornal de ła goera

Messaggioda Berto » mer mag 27, 2015 8:11 am

La granda menxogna de l'Onta Goera Mondial
viewtopic.php?f=139&t=1616

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... gna-kw.jpg



L’entrata dell’Italia nella Grande Guerra? Fu un colpo di Stato
L’opinione pubblica era contraria, Giolitti pure. Come mai allora entrammo in guerra?


23/05/2015
Giacomo Properzj
http://www.linkiesta.it/intervento-ital ... o-di-stato

Il vero giornale interventista era il Corriere della Sera, molto efficace particolarmente nel coagulare gli interessi degli industriali e collegarli con quelli del Re e della Corte e dei militari.

Abbiamo detto che il Secolo d'Italia di Mussolini era stato il pungolo dell'interventismo che aveva avuto da subito un grande successo editoriale, ma il vero giornale interventista era il Corriere della Sera, ben più diffuso in tutta Italia e modernamente organizzato. Luigi Albertini era il suo attivissimo direttore, intelligente, molto capace nelle relazioni sociali, talvolta pettegolo, non sempre attendibile, ma efficace. Molto efficace particolarmente nel coagulare gli interessi degli industriali e collegarli con quelli del Re e della Corte e dei militari. L'Ansaldo di Genova era l'industria più grossa nel settore degli armamenti, ma lo sviluppo che la guerra avrebbe dato all'industria non si limitava ai soli armamenti. La più grande impresa italiana dell'epoca era la Pirelli dove i due fratelli Alberto e Piero avevano ereditato la gestione dal padre Giovanbattista. Alberto era colto, intelligente, volitivo, interventista e, probabilmente come il padre, massone. La massoneria francese, seguita a ruota da quella inglese, che agiva particolarmente su Sidney Sonnino, si dava un gran da fare, soprattutto a Milano dove interventista era diventato anche Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace oltre che Gran Maestro del Grande Oriente.

http://it.wikipedia.org/wiki/Interventismo
L'inizialmente più ristretto fronte interventista aveva però una linea di comunicazione più decisa, basata sul diffuso sentimento anti-austriaco e sull'idea che l'egemonia della Germania in Europa avrebbe frustrato le aspirazioni nazionali italiane. Ne facevano parte forze politiche di natura profondamente diversa: oltre al punto di forza dello schieramento, i nazionalisti, vi era una componente neo-risorgimentale e irredentista che aveva un riferimento in Cesare Battisti e vedeva la Grande Guerra come una quarta guerra di indipendenza, necessario punto di arrivo delle lotte di riscatto nazionale, e una componente più democratica, che invece pensava alla guerra come un'opportunità per consolidare l'unità nazionale intervenendo sulla pesante frattura fra Stato e classi sociali medio-basse derivato dal processo di unificazione nazionale; ma anche sfumature liberali rappresentate da Antonio Salandra e Sidney Sonnino. Vi era inoltre il fronte dell'interventismo di sinistra, costituito dal sindacalismo rivoluzionario, nato dalle espulsioni operate all'interno dell'Unione Sindacale Italiana (USI) e guidato da Filippo Corridoni (questi ultimi speravano che la guerra avrebbe portato al crollo dei regimi borghesi); da Benito Mussolini, espulso appositamente dal partito socialista e dalla direzione dell'Avanti!, con il suo nuovo Popolo d'Italia; e dai futuristi, capeggiati da Filippo Tommaso Marinetti ed Umberto Boccioni, e fedeli al loro manifesto in cui la guerra era definita "sola igiene del mondo":
« Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore del liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna »
(Filippo Tommaso Marinetti, Il manifesto del Futurismo, Le Figaro, 20 febbraio 1909)

A questo schieramento composito si aggiunse in un secondo tempo il fronte degli interventisti democratici, da Leonida Bissolati a Gaetano Salvemini, dai repubblicani al Corriere della Sera diretto da Luigi Albertini.

Inoltre un altro interventista è stato Gabriele D'Annunzio, poeta appartenente alla corrente letteraria del Decadentismo.
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Re: El Corier de ła Sera, l'onto xornal de ła goera

Messaggioda Berto » mer mag 27, 2015 8:18 am

No par gnente so sto jornałàso orendo a ghe laora JA Steła, on veneto renegà.

???
http://radionbc.it/mancato-tricolore-in ... -polemiche

Steła gnorante, ła Marepàrea ła scuminsia dal canpanil o da ła tore çevega, da ła purpia caxa.

La purpia tera: edentetà e tacamento - Heimat
viewforum.php?f=103
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Re: El Corier de ła Sera, l'onto xornal de ła goera

Messaggioda Berto » mer mag 27, 2015 8:28 am

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... ttoria.jpg


http://tagli.me/articolo/1915-chi-erano ... nde-guerra

Pubblicato da Dai nostri lettori il 04 / 11 / 2014
1915: chi erano gli italiani favorevoli alla Grande Guerra

I mesi che intercorsero tra il luglio del 1914 e il maggio del 1915 videro l’Italia collocarsi in posizione neutrale rispetto ai due schieramenti contrapposti nella Grande Guerra (le forze della Triplice Intesa capeggiate dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dall’Impero russo da una parte; e gli Imperi centrali, guidati dagli austro-tedeschi dall’altra).

La neutralità aprì un contenzioso nell’opinione pubblica italiana:

da un lato vi era la fazione neutralista, composta dal Partito Socialista Italiano, dai liberali vicini a Giovanni Giolitti e da una buona parte del mondo cattolico, che intendeva prolungare sine die il non intervento italiano;
dall’altro c’era l’eterogeneo universo dell’interventismo, che caldeggiava l’entrata nel conflitto come necessaria e inevitabile.

Chi faceva parte di quest’ultimo schieramento? Quali erano le ragioni politico-ideologiche che soggiacevano alla volontà di vedere la propria nazione coinvolta nell’immane conflitto?
Ricordiamo brevemente le principali correnti interventistiche che, per quanto minoritarie nel paese e divise da profonde differenze valoriali, si rivelarono decisive per l’entrata in guerra dell’Italia nel “maggio radioso”.

Alla “destra” dello schieramento interventista, un ruolo significativo venne giocato dai nazionalisti dell’Associazione Nazionalista Italiana. In termini ideologici, l’approccio nazionalista vedeva come necessaria l’ascesa dell’Italia nel novero delle grandi potenze imperialistiche europee.
Perciò era indispensabile una rinnovata politica estera aggressiva e la liquidazione del parlamentarismo in politica interna, condizioni che si sarebbero verificate solo con l’intervento italiano.
Dopo l’iniziale orientamento filotriplicista (vicino cioè agli storici alleati austroungarici e tedeschi), i nazionalisti si schierarono dalla parte dell’Intesa, che parve loro la più appropriata per veder realizzate le loro velleità di grandezza: ricongiungere le terre irredente alla nazione e preparare per questa un futuro di espansione imperialistica a partire dai Balcani.

Portavoce dell’interventismo nazionalista fu «L’Idea Nazionale», giornale sostenuto economicamente dalla grande industria siderurgica, su cui scrivevano Enrico Corradini e altre personalità di spicco dell’ANI, affiancate per l’occasione dal “vate” Gabriele D’Annunzio (foto a sinistra).
Parteggiare per l’intervento italiano a fianco dell’Intesa rivelava l’ambiguità di un gruppo politico che, pur non nutrendo simpatie per gli alleati “democratici” (e in particolare per la Francia), si ritrovava a invocare la guerra contro gli Imperi centrali pur di assicurare all’Italia una posizione di forza nel Mar Adriatico a discapito dell’Austria-Ungheria e dei popoli sud slavi.

Di tutt’altra natura appariva l’interventismo democratico, che caldeggiava con spirito risorgimentale il ricongiungimento delle terre irredente al suolo patrio e la necessità di adottare il “principio di nazionalità” nella risoluzione delle questioni territoriali tra stati confinanti - il tutto all’interno di un’interpretazione della guerra vista come lotta internazionale della democrazia contro le forze imperiali della reazione e della conservazione.

Proprio il “principio di nazionalità”, cioè l’intento di dotare ogni “popolo” di un proprio stato-nazione, era ciò che separava nettamente l’interventismo democratico da quello nazionalista, imperialistico e guerrafondaio. Ovviamente, tale lotta non poteva che essere concepita a fianco delle “democratiche” potenze occidentali.
Portavoce dell’interventismo democratico si fece, tra tutti, un intellettuale proveniente dal mondo socialista quale Gaetano Salvemini (foto a destra), difensore della necessità dell’intervento italiano dalle colonne de «L’Unità».

Fuori dagli schemi politici “tradizionali” si collocarono le eterogenee forze dell’interventismo rivoluzionario, accomunate dall’avversione per la linea ufficiale neutralista del PSI e da una visione della guerra quale motore di una futura rivoluzione sociale e politica che si sarebbe definitivamente sbarazzata dello stato borghese e parlamentare.
Tra i protagonisti di questo orientamento ricordiamo:

alcuni sindacalisti rivoluzionari quali Angelo Oliviero Olivetti, Arturo Labriola e Alceste De Ambris;
alcuni esponenti dell’anarco-sindacalismo;
parte dei repubblicani;
taluni “battitori liberi” quali lo stesso Mussolini, convertitosi nell’autunno del 1914 dal neutralismo socialista all’interventismo.

Infine, a metà strada tra la tendenza nazionalista e quella dell’interventismo di natura democratica o rivoluzionaria si situarono i gruppi liberal-conservatori, che scorgevano nella guerra la possibilità di metter fine alla politica giolittiana e portare la nazione italiana, divenuta compiutamente laica e borghese, a ricoprire il ruolo di grande potenza in grado di dialogare con le più importanti compagini statali europee.
Questo orientamento fu incarnato dalla linea governativa di “politica nazionale” del Presidente del Consiglio Antonio Salandra e del Ministro degli Esteri (dal novembre 1914) Sidney Sonnino.
Si fece portavoce di questa impostazione Luigi Albertini, direttore del «Corriere della Sera», che con il prosieguo della guerra tese però ad avvicinarsi alle posizioni interventiste democratiche di Salvemini.

Ivan Rotunno
@twitTagli

Bibliografia

G. Carocci, Giolitti e l’età giolittiana, Einaudi, Torino 1961.
R. De Felice, L’interventismo rivoluzionario, in Il trauma dell'intervento: 1914/1919, Vallecchi, Firenze, 1968.
F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Laterza, Roma-Bari 1981.
E. Gentile, La grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2011.
M. Isnenghi, G. Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, La Nuova Italia, Milano 2000.
F. Perfetti, Il nazionalismo italiano dalle origini alla fusione col fascismo, Cappelli, Bologna 1977.
L. Valiani, La politica delle nazionalità, in Il trauma dell'intervento: 1914/1919, Vallecchi, Firenze, 1968.
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Re: El Corier de ła Sera, l'onto xornal de ła goera

Messaggioda Berto » lun mag 02, 2016 12:40 pm

L'ensemenio nol se dimanda ma se a ghemo miłioni de dixocupai?

Un progetto sui migrantiper le nostre società spaventate
PAESI RICCHI E POVERI
Milano, 30 aprile 2016 - 22:36

Nei prossimi vent’anni, per mantenere costante la popolazione in età lavorativa (20-64), ogni anno dovranno entrare in Italia, a saldo, 325.000 persone. Ci vorrà tempo, pazienza, fermezza, lungimiranza
di Gian Antonio Stella

http://www.corriere.it/cultura/16_maggi ... a75b.shtml

O sono ciarlatani gli scienziati che studiano la demografia o sono ciarlatani coloro che buttano lì formulette di soluzioni facili facili. «Se il sogno di alcuni si realizzasse, e i paesi ricchi “blindassero” le loro frontiere», scrivono nel saggio Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (Laterza) Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna citando i dati ufficiali della Population Division delle Nazioni Unite, «nel giro di vent’anni i loro abitanti in età lavorativa passerebbero da 753 a 664 milioni». Ottantanove milioni in meno. Più o meno la popolazione in età lavorativa della Germania e dell’Italia messe insieme.

Nel nostro specifico, «nei prossimi vent’anni, per mantenere costante la popolazione in età lavorativa (20-64), ogni anno dovranno entrare in Italia, a saldo, 325.000 potenziali lavoratori, un numero vicino a quelli effettivamente entrati nel ventennio precedente. Altrimenti, nel giro di appena vent’anni i potenziali lavoratori caleranno da 36 a 29 milioni». Con risultati, dalla produzione industriale all’equilibrio delle pensioni, disastrosi. Vale anche per l’Austria che vuole chiudere il Brennero: senza nuovi immigrati nel 2035 la popolazione in età 20-64 calerebbe lì del 16%: da 5,3 a 4,4 milioni. Con quel che ne consegue. Semplice, barricarsi: ma poi? Chi vuole può pure maledire i tempi, ma poi? E allora, ringhierà qualcuno, «dobbiamo prenderci tutti quelli che arrivano?» Ma niente affatto.

Sarebbe impossibile perfino se, per paradosso, lo accettassimo. Se fossero i Paesi poveri a chiudere di colpo le loro frontiere infatti «nel giro di vent’anni la loro popolazione in età 20-64 aumenterebbe di quasi 850 milioni di unità, ossia più di 42 milioni l’anno». Brividi.

Nessuno ha la formula magica per risolvere questo problema epocale. Nessuno può ricavarla dalla storia. Gli uomini si spostano, come spiega il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani, «da quasi due milioni di anni». Ma mai prima c’era stato uno tsunami demografico di questo genere.

Questo è il nodo: se possiamo tenere i nervi saldi e prendere atto con realismo della difficoltà di individuare qui e subito soluzioni salvifiche, un po’ come quando la scienza brancola dubbiosa davanti a nuovi virus, è però impossibile rassegnarci a certi andazzi. Di qua il tamponamento quotidiano e affannoso delle sole emergenze con la distribuzione dei profughi a questo o quell’albergatore (magari senza scrupoli) senza un progetto di lungo respiro. Di là i barriti contro gli immigrati in fuga dalla fame o dalle guerre con l’incitamento a fermare l’immensa ondata stendendo reti e filo spinato. E non uno straccio di statista che rassicuri le nostre società spaventate mostrando di essere all’altezza della biblica sfida.

Dice un rapporto Onu che «chi lascia un Paese più povero per uno più ricco vede in media un incremento pari a 15 volte nel reddito e una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile»: chiunque di noi, al loro posto, sarebbe disposto a giocarsi la pelle per «catàr fortuna», come dicevano i nostri nonni emigrati veneti. Anche se, Dio non voglia, ci sparassero addosso. Tanto più sapendo che in Europa e in Italia, grazie a una rete familiare e a un welfare che comunque garantisce quel minimo vitale altrove impensabile, c’è ancora spazio per chi è pronto a fare i «ddd jobs», i lavori «dirty, dangerous and demeaning» (sporchi, pericolosi e umilianti) rifiutati da chi si aspettava di meglio.

Non basterebbe neppure una miracolosa accelerazione nel futuro: nella California di Google e della Apple, ricordano ancora Allievi e Dalla Zuanna, «ogni due nuovi posti di lavoro high tech ne vengono generati cinque a bassa professionalità: qualcuno dovrà pure stirare le camicie dei benestanti, curare i loro giardini, prendersi cura dei loro anziani». Altro che i corsi di formazione per baristi acrobatici.

Come ne usciamo? Soluzioni rapide «chiavi in mano», a dispetto di tutti i demagoghi, non ci sono. Ci vorranno tempo, pazienza, fermezza, lungimiranza. Alcune cose tuttavia, nel caos, sono chiare. Primo punto, nessuno, se può vivere dov’è nato, affronta le spese, le fatiche, i rischi e le umiliazioni di certi viaggi: occorre dunque «aiutarli a casa loro» sul serio, non con le ipocrisie, gli oboli (il G8 dell’Aquila diede all’Africa i 13 millesimi dei fondi dati alle banche per la crisi), i doni ai dittatori o la cooperazione internazionale degli anni Ottanta che finì travolta dagli scandali (indimenticabili i silos veronesi sciolti sotto il sole sudanese) dopo che Gianni De Michelis aveva ammesso alla Camera che il 97% dei fondi al Terzo mondo finiva (spesso a trattativa privata) ad aziende italiane che volevano commesse all’estero.

Mai più. Meglio piuttosto cambiare le regole del commercio internazionale che per proteggere lo status quo dell’Occidente inchiodano i Paesi in via di sviluppo a non crescere. Citiamo Kofi Annan: «Gli agricoltori dei Paesi poveri non devono solo competere con le sovvenzioni ai prodotti alimentari d’esportazione, ma devono anche superare grandi ostacoli a livello di importazione. (…) Le tariffe doganali Ue sui prodotti della carne raggiungono punte pari all’826%. Quanto più valore i Paesi in via di sviluppo aggiungono ai loro prodotti, trasformandoli, tanto più aumentano i dazi». Qualche anno dopo, la situazione non è poi diversa.

Secondo: basta coi traffici di armamenti verso Paesi in guerra. Quanti eritrei che arrivano coi barconi scappano da casa loro dopo aver provato sui loro villaggi e le loro famiglie la «bontà» delle armi vendute al regime di Isaias Afewerki anche da aziende italiane ed europee, come dimostrò l’Espresso, nonostante l’embargo? Pretendiamo che restino a casa loro e insieme che si svenino a comprare le nostre armi?

Terzo: parallelamente a un percorso accelerato per mettere gli italiani in condizione di fare più figli sempre più indispensabili, a partire da una ripresa vera del ruolo educativo della scuola anche su questo fronte, è urgente arrivare finalmente alle nuove norme sulla cittadinanza. Forse ci vorranno decenni per realizzare il sogno di Mameli («Di fonderci insieme già l’ora suonò») allargato a tanti nuovi italiani che vogliono sentirsi italiani, ma certo non è facile pretendere che sia un bravo cittadino chi cittadino fatica a diventare.
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Re: El Corier de ła Sera, l'onto xornal de ła goera e prò Ix

Messaggioda Berto » gio giu 02, 2016 9:20 pm

Chiamatelo “Corano della Sera”
di Gianluca Veneziani

http://www.lintraprendente.it/2016/06/c ... della-sera

Dopo aver cambiato formato, linea editoriale, direttore, ora cambia anche il titolo. Si chiamerà “Corano della Sera”. Almeno così pare leggendo le pagine culturali del Corriere della Sera, dove un illuminato (da Allah, probabilmente) Pietro Citati recensisce il saggio La conquista del Paradiso. Una storia islamica delle Crociate (Einaudi) di Paul M. Cobb, che rilegge lo scontro islam-cristianesimo dopo l’anno Mille da una prospettiva musulmana. Ne viene fuori un ritratto oltremodo fazioso in cui si dimostra che l’islam era superiore, che il suo era l’unico vero modello di civiltà, che i musulmani si lavavano ed erano colti a differenza dei cristiani che erano sporchi e rozzi e puzzavano (sic!), che quella dei Crociati era una guerra santa per conquistare terre e tesori, mentre quella degli islamici una jihad tutta spirituale, e che il Saladino non era un feroce combattente – come lo hanno descritto le cronache malevole – ma un mite sovrano, giusto e generoso, come Allah stesso.

Ci sarebbe da invocare l’accusa di discriminazione religiosa contro i cristiani e gli occidentali in senso lato, a leggere il libro di Dobb e la recensione di Citati. Ma in questo caso siamo noi le vittime di giudizi sprezzanti e offensivi, e quindi tutto va bene. Pensa un po’ fosse uscita una recensione sul Corsera che dicesse le stesse cose dei musulmani. Sarebbe scoppiato il finimondo…

Ma leggiamo un po’ i vari passaggi del pezzo di Citati animati da una viscerale ammirazione per il mondo islamico e da un malcelato disprezzo verso la nostra civiltà. «Nel IX e X secolo», scrive l’intellettuale citando il geografo andaluso al-Bakri, «in quasi tutti i campi, il cristianesimo era inferiore all’islam: i musulmani coltivavano la purezza rituale che importava poco ai cristiani; il digiuno cristiano era nullo rispetto al Ramadan». E ancora: «Il mondo islamico rappresentava il modello della civiltà: ricco, ordinato, illuminato, colto, protetto da Dio misericordioso. L’Occidente era una zona di oscurità e di freddo perpetuo; e per questo i Franchi (nome con cui venivano indicati allora tutti gli abitanti dell’Europa, ndr) erano rozzi, stupidi e corpulenti, prossimi agli animali. Facevano il bagno solo una volta l’anno: non lavavano mai i vestiti; e questa sporcizia feriva i musulmani». Impuri, dunque, eravamo, sia nel corpo che nell’anima.

E a riprova di ciò Citati, commentando il libro di Dobb e riportando le frasi di alcuni cronisti arabi del tempo, ricorda gli atti di ferocia commessi dai cristiani durante le Crociate: volgari assassini e anche ladri. «”Il numero di uomini, donne e bambini, uccisi, fatti prigionieri e schiavi, è incalcolabile”, scrisse un cronista arabo». E poi: «I crociati portarono via i candelabri d’oro e d’argento, come le legioni romane avevano profanato il tempio. “La croce – lamentava un poeta arabo – sarebbe giusto ricoprirla di sangue di maiale”». Iniziò allora, sostiene ancora Citati appellandosi al saggio di Cobb, la reazione araba e «i musulmani cominciarono a parlare di jihad». Ma, avverte lo scrittore, «mentre le Crociate cercavano di recuperare una terra sacra, il jihad mirava a salvare le anime; era “uno sforzo sulla strada di Dio”».

In questa prospettiva, anche la riconquista araba di Gerusalemme viene letta come un atto dovuto e benedetto da Dio; e il suo artefice come un eroe che restituì la terra al suo popolo, “purificando Gerusalemme” insozzata dai Crociati. Il Saladino viene infatti definito come «il re giusto: generoso con i nemici, protettore della fede» che «possedeva la qualità del dono: la generosità senza fine e senza misura, che imitava la sovrana magnificenza di Dio». Al punto che “Saladino purificò Gerusalemme. Lavorava tutti i giorni insieme ai suoi: lavava con acqua di rose i cortili e i pavimenti delle moschee, che i cristiani avevano trasformato in chiese”. E poco male se, in questa azione di “purificazione”, i musulmani «legarono la croce (innalzata dai cristiani, ndr) con delle funi e la gettarono al suolo», «calpestarono il luogo della messa e sgozzarono sull’altare monaci e preti e diaconi». Che sarà mai, piccoli incidenti di percorso…

Nella narrazione entusiasta che fa Citati del libro di Dobbs manca solo un “Allahu Akbar” finale. Ci pensa allora ad aggiungerlo implicitamente il caporedattore delle pagine culturali, citando due altri libri sull’islam appena editi da Il Mulino, uno sul Corano, l’altro sui sunniti, che dimostra «l’estrema complessità di un mondo che non può certo essere schiacciato sulla dimensione violenta del terrorismo jihadista».

Come dire: comprate il libro sui sunniti, gente. E pure quello sulle Crociate. Scoprirete quanto è grande l’islam e raffinata la loro civiltà. E quanto beceri e violenti e sozzoni siamo noi. Parola del Corano della Sera.
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Re: El Corier de ła Sera, l'onto xornal de ła goera e pro Ix

Messaggioda Berto » dom dic 18, 2016 10:27 am

L'etnorasixmo contro i veneti: Toscani, Balàso, Formej, Steła
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Poartà/povartà e mexeria venete
viewtopic.php?f=161&t=2444
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