da Berto » dom mag 31, 2015 12:35 pm
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Giovedì 4 Novembre 2004 Dal Jornałàso de Viçensa
Padri e figli nella Grande guerra - Meglio morti che disertori di Pietro Nonis
Gli venne quasi un colpo a Nonis Luigi fu Giacomo, classe 1870, quella mattina dei primi di novembre 1917 mentre usciva dalla stalla dove aveva governato, con l’aiuto delle due figliole più grandi (cinque ne aveva, tutte minorenni), le poche mucche rimaste, allorché vide comparire il suo maschio più anziano, Nonis Emilio classe 1894, che doveva far il bersagliere sul Carso o da quelle parti là.
L’altro era prigioniero in Germania.
A capo scoperto, le giberne vuote, via il fucile i vestiti bagnati e malandati, il soldato - solitamente fiero dei suoi baffetti a manubrio, delle piume che portava sul cappello - si aspettava forse un saluto festevole: ma il padre si accorse subito che quella non era una lieta vacanza, con ciò che si vedeva e sentiva da ogni parte negli ultimi giorni.
«Dov’è il tuo schioppo? E il tuo cappello? Come puoi andare in giro conciato così?», gli chiese il padre con nella voce un filo che era insieme di rabbia e di tenerezza.
Il bersagliere appiedato confessò amaramente che per lui la guerra era finita; tutti scappavano; gli ufficiali non sapevano che ordini dare; piombavano bombe e fischiavano pallottole da ogni parte.
A casa! A casa! Il padre, più avvilito che stupefatto, fece chiamare le cinque figlie, e la madre che vestiva sempre di nero.
«Guardami bene», disse al figlio umiliato e sudicio, «e ascolta bene quello che ti dico: in questa casa, meglio morti che disertori.
Raccogli il fucile e il cappello, saluta tua madre che ti darà qualcosa da mangiare, e fila via, raggiungi i tuoi compagni: ma qui non farti vedere fin che la guerra non sarà finita». «E vinta», avrebbe forse voluto aggiungere: ma non era il caso, con le notizie dell’esercito fatto a pezzi e le notizie dei tedeschi e di quegli ungheresi - i quali passavano con mazze ferrate a spaccare la testa dei tramortiti dai gas - che scendevano giù dal Nord, da destra, da sinistra, da ogni parte.
Nonis Emilio, che visse gran parte della restante vita esaltando la Prima guerra mondiale, e parlava come se metà dei nemici caduti li avesse uccisi lui - poveretto, aveva compassione anche di una lucertola, persino d’una mosca - non raccontò mai ai figli fieri di lui quell’episodio, che io stesso venni a conoscere dopo la sua morte, quando avevo avuto modo di farmi sulla guerra, sulle vittorie, sulle sconfitte, sui vivi e sui morti alcune idee diverse da quelle bevute sui banchi della scuola al tempo del Duce.
Mi aiutarono, ad aprire gli occhi, gli elenchi lunghissimi dei Caduti incisi in nero sui monumenti, al centro delle piazze. Più di tutti riuscì eloquente, impressionante, il cimitero di Redipuglia, che continua purtroppo a fare da serbatoio d’una retorica periodica di cui il Paese non ha proprio bisogno: centomila morti, che messi all’impiedi, uno ad un metro dall’altro, fanno una fila di cento chilometri. Molti di loro provenivano da regioni lontane e dalle isole. Non si può immaginare, oggi, che cosa fosse allora l’interno della Sicilia, della Sardegna, del profondo Sud, segnato ancor più di noi da una miseria secolare.
Seicentosettantamila furono i morti, più di un milione i feriti e gli invalidi: quasi due milioni di famiglie - mogli figli genitori compaesani - in un lutto duro da consolare. Dall’altra parte, dove stavano i nemici a volte odiati a volte no, non andò meglio. Ancora oggi l’Alto Adige (o Sud Tirolo) è punteggiato di cimiteri nei quali i caduti, uccisi dai «nostri», erano così numerosi da venir sepolti, talvolta, a strati.
Solo più tardi la letteratura seria, il cinema drammatico, riuscirono a dare, a livello europeo anzi mondiale, idee vicine al vero, su ciò che era stata di fatto quella che il piccolo papa Benedetto XV, preso in giro dai belligeranti dell’una e dell’altra parte, aveva chiamato «Un’inutile strage».
Ecco, fra le ragioni che inducono a celebrare con festa civile il 4 Novembre c’è, sicuramente, la riconoscenza per coloro che si sacrificarono, la compassione per chi tanto soffrì, ma anche il bisogno, che tutti abbiamo, di convincerci con serie ragioni della bellezza della pace (non del pacifismo rissoso o arrendevole), e dell’orrore comportato da ogni guerra, la quale si rivela prima o poi per ciò che veramente è: la più grande alleata della morte.
Mama mia ke oror sto pare de vescovi!
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.