El fisco ente ła Serenisima

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Messaggioda Berto » gio dic 08, 2016 3:35 pm

El fisco ente ła Serenisima
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Re: El fisco ente ła Serenisima

Messaggioda Berto » gio dic 08, 2016 3:36 pm

Il fisco nello stato veneziano di terraferma tra '300 e '500: la politica delle entrate, in G. BORELLI, P. LANARO, F. VECCHIATO (a c. di), Il sistema fiscale veneto. Problemi e aspetti, XV-XVIII secolo, Libreria Universitaria Editrice, Verona, 1982

https://www.academia.edu/25543712/Il_fi ... o=download

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 11/1-4.jpg

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Re: El fisco ente ła Serenisima

Messaggioda Berto » gio dic 08, 2016 3:43 pm

Il fisco dei veneziani. Finanza pubblica ed economia tra XV e XVII secolo, Cierre edizioni, Verona 2003
http://docplayer.it/6146629-Il-fisco-de ... p-239.html
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Re: El fisco ente ła Serenisima

Messaggioda Berto » gio dic 08, 2016 7:24 pm

???

Ke gnorante sta pora persona e ła ensegna anca!:

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... didata.jpg


La Serenissima e i contadini: un feroce sistema di tasse e balzelli (Beatrice Andreose)
28.6.15
“alias il manifesto” 14 gennaio 2012
http://salvatoreloleggio.blogspot.it/20 ... eroce.html

Citata, vezzeggiata, invocata e rimpianta. La Lega Nord indica nella Repubblica Serenissima il più alto grado di civiltà raggiunto dalla storia veneta. Ma ne siamo certi? Una lettura meno superficiale e viziata da ideologia dimostra che essa fondava la sua ricchezza e la sua forza sullo sfruttamento del lavoro contadino perpetrato attraverso un sistema fiscale che impoveriva fino alla fame gli abitanti dei contadi e della terraferma in generale. Le magnifiche sorti del buon governo erano monopolio dei raffinati e ricchi cittadini veneziani, categoricamente esclusi invece i residenti dell’entroterra veneto costretti a condurre esistenze infami.
Venezia città capitale. Tutte le altre, suddite.
E sudditi erano soprattutto i contadini e i miserabili delle plebi urbane. Lo sottolinea un testimone eccellente di quel tempo. Rivolgendosi al potentissimo Cardinale Francesco Cornaro, Angelo Beolco, detto il Ruzante, nella Seconda oratione scrive: «...E vi dirò di più, che quanti stanno nel Pavano sarebbero venuti anche loro, se non fosse che essi sono così secchi e così consunti dalla fame che si potrebbero soffiar via e, come si dice, sono più leggeri di un moscerino» e ancora «In conclusione, questo mondo è diventato come una terra incolta. Guardate se vedete più un innamorato. Vi so dire che la fame gli ha cacciato l’amore via dal culo. Nessuno osa più innamorarsi, per non prendersi spesa in casa; e quei singhiozzi e quei sospiri che si solevano trarre per amore, adesso si traggono per la fame».

Siamo nel 1529.
Pochi anni prima era stata combattuta la devastante guerra di Cambrai che contrappose le principali potenze europee alla ricchissima Serenissima, già in possesso di un vasto impero sul Mediterraneo e impegnata in una guerra di conquista della terraferma romagnola e lombarda. Il Ruzante, l’esempio più alto e genuino del teatro veneto nel Rinascimento,svela il rovescio delle immagini idealizzate, trasmesse sino ad oggi dalla grande pittura veneta del '400-’500 e da gran parte della letteratura ufficiale dello stesso periodo. Descrive come il senso di superiore armonia della Repubblica si fondasse sui sacrifici del ceto contadino, il gruppo iniziale del successivo proletariato protagonista, alcuni secoli dopo, della lotta di classe. Fame e miseria, carestie ed epidemie accompagnavano gli anni '20 del 1500, epoca in cui la Dominante dovette far fronte a tutte le sue risorse per affrontare le orde lanzichenecche che devastavano le campagne del veronese e del bresciano arrivando fino al bergamasco. Per sostenere gli ingentissimi oneri bellici lo stato veneto ridusse le spese razionalizzando e centralizzando l'amministrazione statale, prese denaro a prestito da privati, sfruttò in tutti i modi il debito pubblico.
Non solo. Allora come oggi, quel potere alienò i beni demaniali e gli uffici. Soprattutto torchiò il più possibile i sudditi, aumentando le vecchie imposte e introducendone di nuove, costringendoli a prestare grosse somme di denaro allo Stato e a mantenere gli eserciti in armi. Spesso tutto questo non bastava, così la bancarotta fu inevitabile.
Nulla di nuovo insomma sotto il cielo. Gli aristocratici veneziani fondavano il loro privilegio e ne traevano alimento per esercitare il loro indiscusso potere. Una veloce analisi dell'imposizione fiscale rimessa in piedi dopo la guerra di Cambrai lo dimostra.

Dure le imposte applicate allo Stato «da tera», ovvero ai territori dell'entro terra padano-veneto che, assieme al Dogado e allo Stato da Màr, costituivano le tre ripartizioni in cui era suddiviso lo Stato veneziano. Vi erano le «gravezze» o «angherìe» e i dazi, come quello sul sale, riscossi in funzione della ricchezza dei sudditi o del loro numero e imposti con una quota fissa alle comunità ai corpi del contado o alle arti.
Per le sue guerre Venezia chiedeva ai sudditi della terraferma una imposta diretta come la «dadia delle lance», calcolata in base al valore dei beni posseduti e pagata da ognuno insieme al «corpo» a cui apparteneva che poteva essere il corpo della città o quello del territorio. Ad essa le comunità si opponevano in tutti i modi tanto che all'inizio del ‘500 il gettito annuo dell'imposta era molto ridotto e, comunque, non più adeguato alle necessità della Serenissima. Sino al 1446 i veneziani la evadevano sistematicamente, obbligando gli abitanti dello «stato da tera» a contribuire al loro posto. I contadini e i piccoli proprietari, cosi magistralmente rappresentati dal Ruzzante, erano stati rovinati dagli eserciti in lotta che avevano devastato le campagne tanto che i più poveri si trovavano costretti a vendere a prezzi bassissimi molta terra ai cittadini facoltosi. Ed al danno si aggiungeva la beffa perché la campagna, causa i vecchi estimi, continuava a contribuire anche per le proprietà passate alle città tanto che nel 1516 si registrarono tumulti e sommosse per il riaggiornamento degli estimi stessi.

In quell'anno a Treviso il Podestà e Capitano Nicolò Vendramin avvertiva, ad esempio, l'urgenza di una riforma degli estimi poiché «li poveri contadini lo quali hanno alienato il suo, hanno etiam perso gli animali, et bona parte de lor famiglie son mancate e minate. Et butandose sopra l'estimo vechio, seguiria questo grandissimo inconveniente che bisogneria astrenzer dicti contadini a pagar de cose che non hanno, che seria un meter tuto el paese sotosopra».
Il territorio chiedeva che i proprietari dei beni venduti dopo il 1509 pagassero regolarmente le imposte col comune nel quale abitavano eliminando così il tradizionale predominio della città sulla campagna che aveva nel privilegio fiscale uno dei suoi cardini.
La città di Vicenza fornisce un esempio. Su un totale di 14000 ducati, nel 1518, il riparto attribuiva 1539 ducati della dadia al clero, 4166 alla città e ben 8322 al territorio.

Una palese ingiustizia tanto che la Serenissima intervenne aumentando d'autorità la quota della città di più del 30% e riducendo quella del distretto del 25%.
Oltre alla dadia delle lance venivano imposti anche oneri personali come i lavori pubblici o gli obblighi militari. I contadini erano reclutati come rematori, soldati o guastatori. Scavare canali, realizzare gli argini o portare legna giù dai boschi, erano lavori imposti esclusivamente ai contadini che li dovevano svolgere gratuitamente. Se un Contarmi, patrizio veneziano, o uno Zabarella, nobile padovano, possedevano a Pernumia campi irrigati dall'acqua dei fossi che i distrettuali tenevano puliti e che avevano eretto, ebbene quei signori non pagavano alcuna moneta per quei lavori! Non bastassero le gravezze, i Consigli cittadini, incaricati di rilevare la capacità contributiva di ciascun residente del centro urbano e del distretto, aggiungevano anche la tassazione locale.
Questa la panoramica dunque, per quanto concisa, delle condizioni in cui versavano i residenti dei contadi (leggermente diversa quella dei residenti nelle città, soprattutto se nobili), nel corso della lunga dominazione veneziana.

Nel 1997 i Serenissimi occuparono il campanile di San Marco. Alcuni di loro provenivano dalla pancia del più profondo nord-est, il basso padovano. Una cosa è certa. I loro antenati, contadini padani, facce arse dal sole, cappello di paglia in testa, abiti grezzi, bifolchi insomma, spesso davanti al giudice per far valere i loro diritti contro gli aristocratici veneziani, non avrebbero gradito la ribalderia dei loro insipienti pronipoti!


Sta pora ensemenia no ła se sovien ke tute łe goere łe porta morte, fame e mexera, no ła se sovien de łe goere tałiane ke ente ła tera veneta łe ga porta ła mexeria pì nera e el grando exodo a scuminsiar dal 1866, se pense a ła goera del 15/18, se poense a coeła del 40/45.
La goera de Canbrai ła ghe ła ga fata l'Ouropa a Venesia e al so stado, ła xe stà parte de l'Ouropa ke ła ga agredesto e envaxo łe tere de ła Serenisima portando morte, fame e mexeria.
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Re: El fisco ente ła Serenisima

Messaggioda Berto » gio dic 08, 2016 7:51 pm

LA SERENISSIMA REPUBBLICA VENETA (parte prima)

http://historiadibergamo.blogspot.it/20 ... eneta.html

Bergamo, loggia del Palazzo della Ragione, il leone di S.Marco.
(B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, ed. Bolis, Bergamo, 1989).

Per la Serenissima Repubblica di Venezia, il XV secolo si aprì con la necessità di un cambiamento della propria strategia politica militare sulla terraferma.
L'interesse era stato per secoli rivolto verso il Mediterraneo e l'Oriente, ma a causa del mutare degli avvenimenti nello scenario italiano, Venezia già a partire dal 1337 iniziò ad espandersi nell'entroterra.
Filippo Maria, l'ultimo signore visconteo di Bergamo, si trovò nel 1423 a dover fronteggiar più volte le armate venete che si avvicinavano sempre più alla città.
Lo scontro terminò il 12 ottobre 1427 a Maclodio (nei pressi del fiume Oglio) dove Francesco Bussone, conte di Carmagnola (1380-1432), alla testa delle truppe della Serenissima sconfisse l'armata viscontea.
In territorio orobico, il sentimento antiimperiale guelfo che già era stato espresso negli anni della signoria culminò al punto che i bergamaschi, durante la guerra dei visconti contro Venezia, deliberarono in segreto di darsi alla Repubblica Serenissima.
La delicata situazione e il gradimento del favore bergamasco verso Venezia da parte della Repubblica, è espresso nella monografia di Ignazio Cantù Bergamo e il suo territorio dove riporta:

La città di Bergamo gagliardamente s'oppose a tali mosse per non perdere il merito della volontaria deditione, finchè poi libera da ogni timore, spontaneamente spedì ambasciatori nel mese di aprile 1428 all'eccellentissimo senato venetiano a portar la deliberata deditione, quali s'ebbero in risposta dal principe, che sarebbe tenuta la città di Bergamo non come soggetta, ma trattata come sorella della città di Venetia; parole espresse nel privilegio di essa città, 9 luglio 1428.

Ignazio Cantù, Bergamo e il suo territorio
Veduta di Bergamo nel XV secolo, pagina di codice (Biblioteca Comunale, Mantova).
(B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, ed. Bolis, Bergamo, 1989).

I bergamaschi offrirono uno stendardo vermiglio decorato da strisce verticali gialle (i colori della provincia e delle fazioni guelfa e ghibellina) che fu posto nella Basilica di S.Marco in segno di fratellanza mentre un'insegna di S.Marco (nella simbologia un leone alato con un libro che reca le parole PAX TIBI, MARCE EVANGELISTA MEUS! e poggia le zampe anteriori sulla terraferma e le posteriori nel mare) che avrebbe dovuto sventolare sul luogo più alto della città (la Cappella di S.Vigilio).


Valtorta, Valle Brembana, Chiesa Parrocchiale. Leone di S.Marco dipinto sul muro esterno, secolo XV. (B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, ed. Bolis, Bergamo, 1989).

Il doge Francesco Foscari (1374-1457) nominò primo Podestà e Capitano di Bergamo Marco Giustinian il 20 gennaio 1428, che come primo obiettivo dovette condurre ancora per anni la guerra contro Filippo Maria Visconti il quale, dopo la prima pace stipulata a Ferrara non si era dato per vinto.
Il 26 aprile 1433 fu sancita la definitiva estensione della sovranità veneziana alla città di Bergamo e all'area orobica in precedenza governata dai Visconti, con la seconda pace di Ferrara.
Questo diede il via ad una notevole riorganizzazione della vita pubblica/sociale e, da un punto di vista politico e strategico, Bergamo divenne un dominio molto vantaggioso data la sua posizione geografica (che rappresentava comunque un pericolo per la Repubblica in quanto troppo lontana dalla laguna per poter essere difesa celermente).
I cittadini bergamaschi vennero parificati ai cittadini veneziani e di conseguenza esentati dalle imposte reali e personali, dimostrando quanto, sul piano giuridico e di fatto, la città di Bergamo fosse considerata a tutti gli effetti sorella di Venezia.

Francesco da Ponte detto il Bassano, Bergamo, ex Palazzo comunale, ora biblioteca Caversazzi, Sala del Consiglio. Il rettore Benedetti presenta Bergamo a Venezia.
Il dipinto era stato eseguito per la sala consigliare del Palazzo del Podestà.
(B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, ed. Bolis, Bergamo, 1989).

Furono ripristinate le antiche costituzioni, le consuetudini e le giurisdizioni proprie delle autonomie comunali e comunitarie; negli Statuti di Bergamo del 1430 veniva delineato che la nuova forma di governo adottata con la deditione giurata alla Serenissima era di libertà e non servile.

Da un punto di vista militare i confini della città erano difesi e presidiati dalle truppe della Repubblica coalizzate con le numerose cernite, milizie volontarie locali che in caso di pericolo avrebbero suonato le campane dei campanili della città.
Come le altre città della terraferma, Bergamo ottenne il diritto di avere il proprio ambasciatore a Venezia e il giudizio dei cittadini fu sempre tenuto in considerazione dal Podestà, il quale ne apprezzava la fedeltà.
Tuttavia, come in passato, il rapporto tra la città e le valli (e di conseguenza tra ghibellini e guelfi) restò conflittuale e Venezia sostenne sempre la fazione guelfa.
Fiscalmente, la Repubblica Serenissima impose esigenti tasse su città come Bergamo, una parte delle quali veniva comunque speso sul territorio; la forma di governo, l'amministrazione e la giustizia ripetevano il modello della Serenissima, ma tutti i poteri amministrativi e giuridici furono sempre esercitati dal ceto dirigente bergamasco, a dimostrazione dei diritti e privilegi concessi dal senato veneziano.
I rappresentanti della Serenissima riusciranno, attraverso le ottime pratiche di governo e amministrazione, a garantire, ampliare e aggiornare le singole Comunità con concordate forme di autonomie.

Averara, Valle Brembana, Località Redivo. La dogana veneta sull'antica via del Passo di S.Marco.
(B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, ed. Bolis, Bergamo, 1989).


Le condizione istituzionali e politiche che regolavano queste autonomie erano efficaci garanzie, risarcimenti per fatti bellici e faziosi, esenzioni fiscali e riscatti di diritti, provvedimenti concordati in grado di saldare tra loro le esigenze delle molteplici federazioni presenti nell'ampia area orobica.
La novità introdotta a livello amministrativo fu la ripartizione del territorio in pianura, montagna e valli; ulteriormente ripartito in Quadre, con Comuni e Podesterie.
Ogni Quadra era governata da un Vicario mentre ogni Comune, attraverso l'elezione annuale da parte dei cittadini, era guidato da un Console.
Il congresso generale dei Comuni si svolgeva nella città di Bergamo, nel Palazzo della Ragione
.

Sebbene alcune zone del territorio (specialmente la Valle Seriana superiore, l'alta Valle Brembana e ad esempio la Valle di Scalve che godeva di un'amministrazione autonoma) godessero di particolari agevolazioni fiscali ed immunità, Venezia non assecondò mai i sentimenti di totale indipendenza e separazione delle suddette valli rispetto alla città di Bergamo.
La lungimirante correttezza politica della Repubblica garantì alle diverse comunità una libertà operativa e collaborativa entro il proprio contesto, salvaguardando e rispettando le Autonomie Statutarie.
La scelta di non utilizzare la sciagurata regola divide et impera, ossia esercitare una colonizzazione militare e il successivo governo che limitasse la libertà della Comunità, dimostrò così la saggezza e la prudenza delle capacità governative della Serenissima.

Carta dell'ordinamento amministrativo dato da Venezia al territorio bergamasco con la divisione in Quadre e Podesterie separate.(B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, ed. Bolis, Bergamo, 1989).


Tuttavia, né all'interno della città né nelle altre zone del territorio, furono mai del tutto debellate le rivalità e le profonde divisioni tra guelfi e ghibellini, spesso sovvenzionate e fomentate da Francesco Maria Visconti.
L'atteggiamento della Repubblica nei confronti di tale ostilità fu abbastanza imparziale, considerato il fatto che gran parte delle motivazioni originarie il conflitto erano diventate nel corso dei secoli semplici rivalità di interessi di famiglia.
Con un regime che alternava persuasione e rigore, generosità e severità, la politica veneziana riuscì comunque a tenere sotto controllo una situazione che, soprattutto da parte dei ghibellini continuava a rappresentare un pericolo costante per il dominio veneto e i suoi confini, ponendosi l'obiettivo di conservare intatto il potere della fazione guelfa.

Nel 1437, il conflitto con Milano si riaccese e il territorio bergamasco fu nuovamente campo di battaglia dilaniato da distruzioni e morte.
Il condottiero bergamasco Bartolomeo Colleoni (1400-1476), Capitano della Repubblica di Venezia, riuscì ad opporsi attraverso una strategica difesa della città alle truppe di Niccolò Piccinino (1386-1444), al servizio del duca di Milano.


Venezia, Piazza dei Santi Giovanni e Paolo, Statua equestre di Bartolomeo Colleoni, opera del Verrocchio.
(B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, ed. Bolis, Bergamo, 1989).

Bergamo, Civiva Biblioteca. Effige di Niccolò Piccinino, medaglia del Pisanello.
(B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, ed. Bolis, Bergamo, 1989).


Venezia garantì indennità ed esenzioni alle comunità che avevano maggiormente sofferto a causa della guerra.
Ma Filippo Maria Visconti, dopo aver annesso la Valtellina al proprio ducato, non rinunciò alla volontà di riconquistare il territorio bergamasco inviando il Piccinino verso la parte cremonese e costringendo il Capitano veneto Erasmo da Narni detto Gattamelata (1370-1443) all'intervento di difesa.
Il territorio della Repubblica Serenissima fu messo a ferro e fuoco e già nel 1439 l'intera pianura fino a Padova era passata sotto il dominio visconteo; Bergamo, Brescia e Verona resistevano difese dai condottieri veneti.
I cittadini bergamaschi subirono il morso della fame a causa dell'assedio delle milizie viscontee, richiedendo a Venezia un urgente intervento difensivo.
Quando la Serenissima affidò il comando supremo al Capitano di ventura Francesco Sforza (1401-1466), le truppe venete riuscirono a liberare il vicentino con 8000 uomini.
A Verona il Colleoni si unì allo Sforza con le sue truppe e riuscirono grazie all'aiuto dei partigiani bresciani e bergamaschi a far penetrare un po' di viveri e soccorsi nella città di Brescia, risvegliando in Bergamo la speranza.

Nel 1440 la Repubblica fiorentina alleata a Venezia, riuscì a sconfiggere in Toscana le truppe viscontee di Piccinino ad Anghiari.
Senza il proprio comandante, le truppe ducali persero la capacità organizzativa e il controllo della pianura, risultando sconfitte nella battaglia di Soncino (14 giugno 1440) dal contrattacco di Francesco Sforza.
Il territorio bergamasco fu finalmente liberato dopo 3 anni di guerra; la "pace" venne sancita a Cremona nel 1441 grazie alla sottoscrizione e all'arbitrato di Sforza il quale aveva sposato Bianca Maria Visconti (1425-14689 la figlia di Filippo Maria.


Milano, Pinacoteca di Brera. Ritratti di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, attribuiti a Bonifacio Bembo.
(B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, ed. Bolis, Bergamo, 1989).


La Serenissima garantì e assicurò franchigie ed esenzioni per il territorio orobico che riuscì quindi a risollevarsi dopo i gravissimi danni subiti e constatò la lealtà e la correttezza della Repubblica (che non ebbe mai alcuna tentazione centralizzatrice e colonizzatrice).
Nel 1450, dopo la morte di Filippo Maria Visconti, Francesco Sforza divenne, sostenuto dalla moglie Bianca Maria, duca di Milano.
Egli affrontò una nuova guerra contro Venezia e potè contare su un'iniziale aiuto di Bartolomeo Colleoni il quale, nel 1454 tornò al servizio della Serenissima.
Venezia si trovò in una situazione delicata visto soprattutto l'avanzata dei Turchi nel Mediterraneo orientale e la loro presa di Costantinopoli nel 1453, evento che compromise i cospicui interessi marinari e commerciali della Repubblica con l'Oriente.
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