Albieri: eroe o non eroe?di Elios Andreini
Ventaglio n. 34 - Gennaio 2007
STORIA-TRADIZIONI
http://www.ventaglio90.it/articolo.php?id=483Duecento anni fa, il 14 Ottobre 1806, a Crespino veniva giustiziato Giovanni Albieri detto Veneri o Venerio. Una lapide, posta sulla facciata di un’abitazione della piazzetta XX Settembre, ricorda senza alcuna retorica il fatto, chiarendo i motivi per cui il crespinese fu condannato alla pena capitale, attuata col sistema della ghigliottina. Questo il testo quanto mai conciso:
GIOVANNI ALBIERI
DETTO VENERI
DECAPITATO IN QUESTA PIAZZA
IL 14-X-1806
PER DELITTO DI RIBELLIONE
AL GOVERNO FRANCESE
A RICORDO
La decapitazione fu il triste epilogo dell’atto di insorgenza verificatosi a Crespino giusto un anno prima, il 20 ottobre 1805. Una ribellione contro i francesi dominatori e il loro pesante sistema tributario, che, una volta domata, fu seguita dalla decisione di Napoleone imperatore di punire durissimamente gli abitanti di Crespino. Vediamo dunque i particolari della vicenda cominciando dall’antefatto1.
Eroe o non eroe?
Nelle alterne vicende politico-militari degli inizi dell’Ottocento il Polesine, e non solo, fu sballottato di qua e di là. A volte era confine di stato l’Adige, a volte il Po, a volte, raramente, il vecchio e secolare confine. Inoltre, se i Francesi non scherzavano, i Tedeschi non erano da meno. Lo ricordavano i Bandi, da leggersi nelle Chiese, minaccianti il Consiglio di Guerra per i trasgressori.
Meno amate erano sicuramente le truppe di Napoleone, che avevano imposto la coscrizione obbligatoria. Da qui un fuggi-fuggi generale. I gallici, inoltre, erano scrupolosi ed impietosi nei sequestri di derrate e nell’imposizione fiscale. Quanta nostalgia per gli antichi regimi!
Pagavano le Chiese, i nobili, i borghesi e i mugnai con il dazio di macina. La farina divenne quasi introvabile e i contrabbandieri dovettero moltiplicare l’attività.
Agli occhi dei più, i francesi erano visti come i sovvertitori di ogni ordine costituito, con l’aggravante di essere nemici del Papa e quindi eretici. Ne derivava che, nel periodo in cui il Polesine fu interamente e a lungo sotto Milano (Repubblica Cisalpina) e cioè sotto Parigi, le simpatie dei possidenti e dei preti guardassero oltre Adige, agli Austriaci. Questi, con denaro proprio, russo ed inglese, incoraggiavano i malumori, in vista della liberazione. Qualche soldo arrivò anche nelle tasche dei poveracci.
Tra i nostri borghi, il più insofferente era Crespino sul Po. Le anime dipendevano dall’Arcivescovo di Ravenna e i villani dai nobili di Ferrara, che in loco avevano costruito significative residenze per la villeggiatura. Si ricordi l’Arciduchessa d’Austria ospite a Crespino (1781) del Marchese Camillo Bevilacqua. Costui nei vari trambusti era stato nominato da Vienna come Reggente Imperiale della Città estense.
A Crespino c’erano tutte le premesse, ideologiche, economiche e finanziarie, per alimentare l’odio contro i francesi, colpevoli fra l’altro di avere tentato di umiliarla con l’aggregazione ad Adria, tramite anche la complicità dei “traditori” di Papozze.
Successe così che il 20 ottobre del 1805, anticipando l’esercito austriaco in avanzata dall’Adige, il popolo tutto insorse, distrusse le insegne francesi, abbatté l’Albero della Libertà, bruciò i registri di leva (registri civili non più religiosi), disarmò la Guardia Nazionale. Non contenti, i ribelli presero la strada di Rovigo, dove rubarono (prelevarono) cavalli, carabine, la Cassa Comunale e liberarono i Coscritti. Una vera lotta di Liberazione dai francesi, con qualche eccesso.
L’indomani le avanguardie austriache arrivarono a Crespino a complimentarsi e a progettare una puntata su Ferrara. Ma né i ribelli, né gli imperiali sapevano ancora cosa era successo ad Ulma, in Germania, proprio il 20 ottobre: Napoleone vi aveva sbaragliato le truppe austriache. Fu gioco forza per le citate avanguardie ritornare al di là dell’Adige, lasciando le Ville del Polesine e soprattutto Crespino al loro destino, cioè alla rioccupazione francese.
Tutto come prima? Magari! Capita quasi sempre che, di fronte ad immensi scenari, le terre e i borghi periferici restino dimenticati, pure in coincidenza di episodi di una certa valenza. Così avrebbe gradito Crespino. Ma l’Imperatore Napoleone, nonostante gli splendidi successi e le infinite incombenze, aveva chiesto informazioni sulla “insorgenza” di Crespino.
Prontamente da Milano si erano mossi i Ministri Aldini e il Guicciardi (il Capo della Polizia), che in più Rapporti avevano ricostruito l’intera vicenda. In essi variavano solo il numero dei rivoltosi e il nome dei caporioni. Per il resto la descrizione degli episodi “delittuosi” era precisa e fedele,
Ne seguì, a sorpresa, che alle Tuileries l’Imperatore dei Francesi e Re d’Italia, Napoleone Bonaparte in persona, leggesse tutte le carte in data 11 febbraio del 1806. Visionati i dispacci di terra e di mare, i rapporti dei Ministri, ecc. Egli avrebbe voluto rilassarsi con un buon cognac al ritmo dei giornali compiacenti, ma gli illustri e capricciosi familiari chiedevano udienza. Ed allora il Sovrano, dichiaratosi impegnato, prese la carta geografica a cercare Crespino ed in lui si rinnovò il furore. Chiamò lo scrivano e dettò le sue volontà, tramite Decreto.
Un vero fulmine, una catastrofe per gli illusi crespinesi. Qualcuno aveva sperato che la sentenza colpisse soltanto i capi, il pescivendolo Venerio, un certo Colla (da sottolineare) ed un Bellettati. Oppure che si cercassero i più facinorosi, responsabili di reati specifici. Ma non erano queste le opinioni del furente corso.
Crespino perse i diritti di cittadinanza, fu relegata al rango di Colonia senza patria e fu obbligata a pagare il doppio delle tasse. Inoltre, in futuro sarebbe stata amministrata da un Comandante della Gendarmeria con tutti i poteri. A Lui pure la competenza di infliggere la pena del bastone, nei casi in cui gli altri italiani pagavano con il carcere.
Tutti in paese si agitarono. l maggiorenti cercarono comuni amici del Ministro Aldini; qualcuno si rivolse al Viceré Eugenio; si formò una le delegazione di giovani rampolli su suggerimento del Parroco (Pietro Colla) per andare a Milano. Si chiese clemenza, si riconobbe il terribile errore e ci si dichiarò disposti a pagare di persona anche con “infami punizioni”. I “sacrificandi avevano sui 19 anni e tra essi c’era Vincenzo Carravieri, destinato a meno volontari patimenti2.
La spedizione milanese non sortì effetto alcuno, ed anzi il Principe Eugenio consigliò di non irritare ulteriormente Napoleone con una visita fuori programma a Parigi. Nel frattempo sarebbe stato meglio nominare un’ambasceria più credibile in attesa degli eventi. Anche perché la collera dell’Imperatore sembrava non avesse requie: “Se fossi stato in Italia avrei fatto bruciare il paese”. Poi un poco rinsavì, chiedendo soltanto la fucilazione dei tre capi della rivolta. Non si accontentava di condanne in contumacia e voleva la scritta di traditori sui corpi dei d colpevoli.
Infine, dall’alto venne un suggerimento: che una Delegazione autorevole (Arciprete, Giureconsulto, Maggiore della Guardia Nazionale) chiedesse un incontro all’Imperatrice Giuseppina. E così i Rappresentanti del paese partirono dal Po per raggiungere la Senna e il Palazzo il Reale che era stato del Re Sole.
Bonaparte ascoltò la consorte, disse che avrebbe deciso diversamente solo dopo il processo ai colpevoli e subito partì per una nuova guerra.
Fin qui è tutto noto. Resta invece misterioso come mai la polizia sia arrivata nelle campagne vallive dei Radetti, tra S. Martino e Beverare (zona Adige), a catturare il citato pescivendolo, Giovanni Albieri, detto Venerio, contumace sotto la protezione di qualche patrizio. Chi lo scelse come capro espiatorio, chi fece la spiata? Non si saprà mai.
Fu riconosciuto a Rovigo come capo della sommossa, condotto in catene a Crespino via Pontecchio, identificato come il più tenace nel calpestare la bandiera francese.
E questo bastò per la condanna capitale. Venerio, di anni 45, vedrà l’ultimo sole in Piazza del Municipio (oggi Trattoria Aligi) il 14 ottobre 1806, un anno dopo la sommossa. Decapitato, raggiungerà un sito particolare del Cimitero, denominato il Purgatorio. E Napoleone revocherà il Decreto, dal Quartiere di Varsavia.
Per Bonaparte, in fondo, Crespino portava fortuna. Il giorno della sommossa aveva vinto ad Ulma, il giorno della decapitazione di Venerio si era ripetuto a Jena.
Lo stesso Napoleone, quando era soltanto Console, era stato più tollerante con gli “insorgenti” del Po, bande di un centinaio di persone, comandate dal prete Giacomo Giorgi.
Eravamo nel 1799 e la rivolta era partita da Ariano, al suono delle campane ed in collaborazione con gli austriaci. Una Cannoniera francese era stata bloccata con l’intero equipaggio e poi, lungo tutta l’asta del fiume, ribelli e regolari avevano imperversato fino a Ferrara.
Sull’uno e sull’altro episodio gli studiosi si sono interrogati a lungo. Sommosse popolari o sanfedismo plebeo, per l’Italia libera o per i vecchi regimi? Venerio va considerato un Martire o un mascalzone sfortunato?
La storia ufficiale, scritta dagli uomini del Risorgimento, quasi tutti filo francesi, ha preferito il mezzo silenzio, e il povero pescivendolo, vittima sacrificale involontaria, non è assurto tra gli Eroi. Pochi polesani ne conoscono il nome e il destino; una lapide, collocata in luogo errato, conferma l’oblio.
Ripetiamone almeno il nome. Giovanni Albieri detto Venerio.
NOTE
1.Il testo qui riproposto è tratto - per gentile concessione dell’autore e dell’editrice - dal volume: Elios Andreini, Crimini e Storia tra Adige e Po, Arcilibri, 2002, pagg. 367-370
2. Vincenzo Carravieri (1787-1876), nel 1806 studente presso la facoltà di medicina di Bologna, si era inutilmente offerto in ostaggio con altri generosi compagni, nel tentativo di placare l’ira di Napoleone. Laureatosi, esercitò la professione di medico nel paese di Crespino, dove partecipò attivamente alla diffusione delle idee della Carboneria con il pretore Felice Foresti. Arrestato dagli Austriaci il 7 marzo 1819, fu condannato al carcere duro nella fortezza di Lubiana. Scarcerato nel 1824, tornò a Crespino, accolto con gioia dai suoi compaesani. Riprese la sua attività di medico e continuò a professare idee patriottiche antiaustriache, iscrivendosi al movimento mazziniano della Giovane Italia. Dopo la liberazione del Veneto con la terza guerra di indipendenza, partecipò alla vita amministrativa del paese, spegnendosi quasi novantenne nel 1876.