Ƚe colpe, ƚe responsabeƚetà e ‘l tradimento dei venesiani

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Messaggioda Berto » gio gen 29, 2015 8:54 am

Sta kì ła jera ła casta arestogratega venesiana ke ła domenava el Stato Veneto o Repiovega Serenisima.
El Stato Veneto nol gheva on Parlamento Veneto ma el jera domenà da ła casta arestogratega venesiana.
La mancansa de on vero Parlamento Veneto, de tuti łi veneti, ła xe stà ła debołesa de ła Repiovega Serenisima Veneta ke ła ła ga portà a esar consegnà/concoistà, desfà e depredà da Napoleon e dapò a finir ente łe man de łi Saboia e soto el Stado Tałian.



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Messaggioda Berto » sab feb 14, 2015 6:53 pm

El Parlamento Arestogratego Venesian el ga abdegà a favor de ła Mounçepałetà Demogratega el 12 de majo del 1797

Ła Repiovega Veneto Venesiana lè termenà ente 1797 el 12 de majo
viewtopic.php?f=160&t=807


???
http://www.venetieventi.it/napolion/kro ... _kaput.htm

Venezia, di punto in bianco, capitola, perché? Si dice che sia colpa del crollo commerciale. Qualcuno immagina un governo stanco di governare. E allora che cosa si può dire delle centinaia e centinaia di Nazioni meno ricche e meno longeve della Serenissima ancora in piedi? E che dire di quelle Nazioni, seppur piccole, che hanno riacquistato la libertà? Forse è più logico pensare che la morte di Venezia sia avvenuta per colpa di governanti inetti, menefreghisti e “servidori de tanti paruni”.

Dalle numerose e spontanee ribellioni popolari antifrancesi avvenute nei territori eneti in questo infausto periodo napoleonico, appare chiaro che il Popolo veneto non voleva assolutamente saperne di invasori stranieri, proprio come avvenne quattrocento anni prima contro la Lega di Cambrai. E mai una volta nella storia della Serenissima i Veneti si ritorsero contro la propria Repubblica, segni evidenti che sotto San Marco la gente stava bene. Perché, dunque, gli ultimi governanti veneti non tennero conto in nessuna occasione della volontà popolare? E perché nessun governo veneto da allora ai nostri giorni ha mai rivendicato pubblicamente giustizia tenendo conto dei fatti storici? E' chiaro, contrariare i nuovi padroni significava come minimo perdere la carica istituzionale con tutti i relativi benefici che essa comporta.

Da

L'ultimo Maggior Consiglio, impotente di fronte alla supremazia francese, vota e accetta il governo municipale imposto da Napoleone con 598 voti favorevoli, 7 contrari, 14 astensioni (quei 7 contrari dovrebbero essere ricordati come eroi), cancellando in un baleno 11 secoli di storia della Serenissima. Un tale quorum esaudente le richieste di Napoleone non poteva che significare ingraziarsi il tiranno per esigenze future.
E chi ci rimise in quest’operazione?
Non certo gli ex governanti che ben presto rivedremo occupare la vecchia poltrona e mantenere pure tutti i loro beni.
Da questi “calabrache” Napoleone selezionò la peggiore classe dirigente immaginabile.
Egli impose un governo democratico veneziano filo-francese senza alcuna difficoltà (più verosimilmente filo-francese per opportunismo come lo saranno in seguito i governi filo-austriaco e filo-italiano).
Molti nobili, infatti, si precipitarono da Napoleone alla villa di Stra, per assumere le nuove cariche che egli distribuiva a “gente abietta che sostava giorni e giorni sulle soglie delle mie stanze e che sembrava mi chiedessero l’elemosina” (dalle “Memorie”) . Mi par di vederli… uguali a tanti politici odierni che si affannano per conquistare la “karega” del potere, dispensando compiacenti ghigni e false promesse e, all’occorrenza, sconfinando nell’illegalità per conservarla il più a lungo possibile pur non avendo né merito né doti.
I nuovi dirigenti filo-francesi di allora, come tanti di oggi politicamente loro eredi, escludevano qualsiasi pensiero ideologico sociale come patria, popolo, evoluzione storica e culturale della propria gente, morale collettiva ecc. Principi, probabilmente, esclusi da tempo dalla loro antica scuola basata fondamentalmente su “commercio e finanza”. Il banchiere Lippomano era stato del resto ben chiaro, quando scrisse ai suoi colleghi “Bisogna essere delle nullità, come noi siamo, per riuscire a tenere tutto” (9). E tennero veramente tutto.
Ma come sarebbe disegnata ora l’Europa se quel Maggior Consiglio invece di “calare le brache” avesse aderito alle Coalizioni antifrancesi proposte dall’Austria? E’ una domanda alla quale ci vuol poco per rispondere: la Serenissima si sarebbe seduta coi vincitori al Congresso di Vienna e, probabilmente, avrebbe mantenuta la sua indipendenza. Perché dunque non scegliere la Coalizione? E' Impossibile credere che dal 1791, anno in cui venne chiesto alla Serenissima di aderire alla prima alleanza antifrancese, al 1797, anno dell’abdicazione, nessuno del Maggior Consiglio abbia pensato che coalizzarsi significava affiancare un potenziale vincitore. In fin dei conti i duellanti nell'Europa di quell'epoca erano solo due: la Francia e i coalizzati. Ecco che alleandosi la Serenissima poteva vincere o perdere, ma restando isolata la certezza di cadere vittima di uno dei due contendenti era assoluta. Ed è proprio andata così, la gloriosa Repubblica “lìbara” è morta e il Popolo veneto, da allora orfano di madre Patria e educato dagli occupanti a considerarsi di tutto fuorché un Popolo, non sa più se ha una storia e nemmeno se ha un futuro. E' probabile che un giorno, forse non molto lontano, nei libri di storia si trovi scritto: "C’era una volta il Veneto".

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Messaggioda Berto » mar feb 24, 2015 10:31 am

I TERRIBILI PENSIERI DELL'ULTIMO DOGE, LODOVICO MANIN

Riprendo queste sue riflessioni dalle memorie che egli scrisse, poco prima della morte:

'la mia alienazione per questa onorifica dignità andò sempre più accrescendosi, quasi presagendo il di lei funesto termine. Fin dai primi tempi dall'intrapresa dignità,avevo avuto occasione di conoscere che il nostro Governo non poteva sussistere, attesa la scarsezza dei soggetti capaci, l'abbandono o il ritiro di molti andando al bando (cioè allontanandosi da Venezia, quindi rinunciando ad ogni carica pubblica) o dichiarandosi Abbati; e che quellli che restavano pensavano più al privato che al pubblico interesse. Confermatomi sempre più in questa funesta previsione, nelle risposte che dovevo far a la nuova Signoria e Savj, mettevo sempre soto i loro riflessi la necessità di far una seria e radicale riforma, senza della quale era impossibile che il Governo sussistesse. Avevo però conferito oltre che con le Presidenze, anche con diverse persone autorevoli e prudenti per studir li modi di tentar una nuova aggregazione e qualche rimedio relativo ai nostri mali; matutto indarno mentre erimo ridotti a grado che non potevamo soffrire né il male, né li rimedj.
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Messaggioda Berto » ven mag 01, 2015 7:43 pm

Una riflessione sulla Storia - Napoleon e Venesia

De U. Sartori

https://www.facebook.com/umberto.sartori.5?fref=ufi

Capita spesso di sentir applicare alla Storia categorie morali. Un esempio fra tutti quello del linciaggio post-mortem di Napoleone considerato il "male assoluto" che distrusse la Repubblica di Venezia.
Lui ci avrebbe sottratto ogni bene e portato ogni male, quasi che se lui non ci fosse stato ciò non sarebbe accaduto.

La Storia invece, pur essendo generata da comportamenti morali o immorali, in sé e per sé sfugge a questa categoria.

La Storia non dispone di un libero arbitrio, ma è il portato irrimediabilmente consolidato del libero arbitrio degli uomini.
La Storia è un punto fermo, una tappa cementata e irremovibile.
La prima cosa che si deve pensare di lei è che ciò che è accaduto non poteva non accadere.
È una tautologia assoluta, irrinunciabile e inconfutabile, nemmeno tirando in ballo le stringhe i quanti e gli universi paralleli.

Ciò che è accaduto non poteva non accadere. Se in un universo parallelo è andata diversamente, diversa sarà la Storia di quell'Universo a noi imperscutabile, ma non per questo essa sarà meno irremovibile nel suo contesto.

Solo dopo aver ben stabilito dentro di sé questa ragione, è possibile affrontare il lavoro dello Storico, ovvero descrivere e collegare gli eventi tra loro sulla base delle fonti, e comprendere le morali che hanno determinato quel fatto irrinunciabile, compito successivo dell'Ideologo.



Carmen Bizet
La ragione e' come sempre elegante.... La passione piu' colorata : va remengo napoleon
28 gennaio alle ore 20.51

Umberto Sartori
Ci è andato sì a remengo, pover'uomo... Lui e Venezia, tutti e due a remengo.
28 gennaio alle ore 21.14

Remo Pizzin
Anche senza voler per forza scomodare funzioni archetipiche, a volte fa semplicemente comodo prendersela con qualcuno...è un modo come un altro per depotenziare le responsabilità morali che hanno condotto a un determinato evento
28 gennaio alle ore 21.20

Umberto Sartori
Splendido, Remo, hai tratto le stesse conclusioni che avevo intenzione di aggiungere...
28 gennaio alle ore 21.21

Umberto Sartori
Certo, Amelie, lo storico è pieno di doveri morali e quello che enunci è il primo. Ed è anche la ragione per cui da generazioni non apprendiamo la Storia dagli Storici, ma da demagoghi e pennaioli.
28 gennaio alle ore 21.22

Marco G. M. Girardi
Una visione non religiosa della storia non contempla una responsabilità né personale né collettiva, tutto è un accidente. In realtà tutto è un incidente. (le parole accidente e incidente le uso nel "senso" comune e non etimologico)
28 gennaio alle ore 21.24 • Mi piace

...
Umberto Sartori
Vedrai tra poco anche la processione di ori e argenti sacri che fu Manin ad avviare verso le fornaci della Zecca, mentre lui e la sua corte si portavano a casa ogni mese una decina di chili d'oro come apanaggio... Qualche giorno, ho molti dati da ordinare prima della pubblicazione di questo materiale...
28 gennaio alle ore 21.27


Remo Pizzin
Peccherò di dietrologia, ma ho sempre osservato con curiosità il fatto che Venezia sia stata depredata ben più duramente delle altre capitali...ma rischiamo di divagare
28 gennaio alle ore 21.29

Marco G. M.
Girardi In realtà servono anni per poter inquadrare un fenomeno. L'uccisione di un innocente può essere definita di per sé derivante da una colpa dell'innocente? Il libro di Giobbe fa meditare che alcune cose vengono concesse per vagliare l'animo di alcuni, per motivi a noi non chiari.
28 gennaio alle ore 21.30

...

Umberto Sartori
Un giorno, se il Signore mi dà Grazia e tempo, vi racconterò cose di Napoleone che lo faranno comprendere meglio. Non che fosse "pulito", s'intende, la storia è stata inflessibile anche con lui. Ma tutti hanno diritto di essere visti nella interezza della loro esperienza umana.
28 gennaio alle ore 21.31

...
Umberto Sartori
E' da vedersi, Marco, se esista una "visione non religiosa",della Storia o di altro. La visione è metafisica, misterica per sua natura, anche parlando della semplice vista. Quando si intende per visione una teoria, ovvero una visione della mente, una religiosità è necessariamente implicata, a mio modo di vedere. Più o meno profonda,più o meno compresa. Un materialista non ha visione,ma semplice percezione. Di visione, sempre secondo il mio punto di vista, si comincia a parlare solo dalla condizione di ateo (autoteista) "in su". L'ateo, nella sua religiosità embrionale, ha infatti la visione della storia accidentale o incidentale che hai descritto, perché alla sua visione personale manca la conoscenza dei Principi ordinatori collettivi....
28 gennaio alle ore 21.43

Carmen Bizet
Par no parlar dea religion ea ga fatto peso de napoleon ieri gi studia cosa ea ghe ga fatto a beatrice cenci e a so fradeo par portarghe via tutte e ricchezze e i ga manda ea caravaggio parche el pitturasse e emotivamente tegnir in pugno ea povara zente
28 gennaio alle ore 21.47

Carmen Bizet
Ma carava ga pitura giuditta cioe beatrice cenci che ghe taia ea testa a ologerne e cussi la ga vendicada i preti tifiutava e so opere perche e gera autentiche
28 gennaio alle ore 21.50 • Mi piace

Umberto Sartori
Eh, anca dadrio a la Giuditta ghe sé tuta na storia,un poco più complicada... Comunque sì, gera un primo avertimento ai "preti", ma no solo che a lori... Anca ai gaudenti, come de ti :-))))
Ma no se gà mai da butarse tuti da na parte se no la barca se rebalta.
28 gennaio alle ore 21.57
...
Marco G. M. Girardi Sembra un ritorno alla parresia.
29 gennaio alle ore 21.13

Umberto Sartori Cos'è la parresia?
29 gennaio alle ore 21.15

Marco G. M. Girardi http://it.wikipedia.org/wiki/Parresia
Parresia - Wikipedia
La parresìa - dal greco παρρησία composto di pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto) - nel significato proprio è non solo la libertà di parola ma anche la franchezza nell'esprimersi, dire ciò che si ritiene vero e, in certi casi, un'incontrollata e smodata propensione a parlare.[1] In questo senso…
it.wikipedia.org
29 gennaio alle ore 21.16

Paolo Foramitti
A Napoleone non piacevano i cagnetti, quando il cane di un suo cuoco ha sbranato quello di Giuseppina è stato contento. E' successo o a Mombello (MI) o a Villa Manin, nel 1797.
29 gennaio alle ore 21.39

Umberto Sartori
Il cane di Giuseppina, probabilmente glielo aveva regalato il Serbelloni, e il cuoco come minimo sarà stato promosso Generale! :-)))
6 febbraio alle ore 15.34

Carmen Bizet
L importante e' l espressione ho sempre pensato che la grammatica sia un freno per la povera gente piu importante e'l autenticita dei pensieri individuali
30 gennaio alle ore 22.49

Umberto Sartori
Grammatica, morfologia e soprattutto sintassi sono molto importanti per imparare a coordinare pensieri complessi.
31 gennaio alle ore 0.02

Renato Campara
Dipende da cosa ti aspetti e da chi.....Se da un analfabeta ti viene un grande, originale pensiero rimani stupefatto, ma se da un avvocato ti vien uno strafalcione con a punteggiatura alla boia....rimani sì stupefatto ma perchè non ti aspettavi nemmeno questa...
31 gennaio alle ore 0.35

Carmen Bizet
Mi sa che dovro' accontentarmi dei pensieri semplici
31 gennaio alle ore 7.19

Umberto Sartori
C'è però una differenza di ordine morale, tra i due esempi che porti, Renato. Non è impossibile né infrequente che un "analfabeta" possa manifestare pensieri profondi ed esprimerli con frasi semplici e sintetiche, magari avvalendosi di allegorie che ricava dal suo vissuto quotidiano.
La saggezza è un conseguimento soprattutto esperienziale, e non abbisogna di dimestichezza con l'astrazione concettuale, alla quale privilegia il buon senso.
Diverso il caso dell'avvocato o dell'ingegnere come è capitato a Marco.
Lì si tratta invece di millanteria e truffa, poiché non praticando le regole dell'espressione scritta, quelle figure vengono meno e si dichiarano estranee a specifici percorsi di conoscenza basilari per la loro qualifica professionale....
31 gennaio alle ore 8.16

Renato Campara
Sì, vero. la sua ignoranza può causare grossi danni al suo assitito.
31 gennaio alle ore 13.52

Marco G. M. Girardi
Il problema è che questo dovrebbe servire un giudice, più che una parte...
31 gennaio alle ore 14.04

Renato Campara
Sarà suo parente...non mi viene in mente nient'altro.
31 gennaio alle ore 14.05
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Messaggioda Berto » mer giu 17, 2015 8:32 am

???

VENEZIA E LA SUA FINE quello che dobbiamo considerare. Ce lo spiega Edoardo Rubini

SCUOLA DI DIFESA MARCIANA

Uno dei punti dove la disinformazione storica e culturale, batte a ripetizione (vedi anche Leone di Vetro), e spesso trova in noi Veneti animi rassegnati e inermi, quasi rispettosi del clichè che ci vede passivamente educati alla vergogna e sconfitta.... viene qui ,di seguito, evidenziato.

Per l' opera meritoria degli ultimi intellettuali combattenti (???) che ci sono rimasti, ecco come viene allestito uno dei tanti "trabochetti mentali" messi in atto, con il corollario della dissipazione "morale" di cui abbiamo già parlato in precedenza.....ecco cosa ci dicono spesso: “ Vanno riconosciute le colpe dei reggitori veneziani per il crollo della Serenissima. La storia insegna che se le cose avvengono, a determinarle non è mai il caso, ma sono conseguenza di scelte sbagliate. Negli ultimi giorni della Serenissima molti esponenti della classe patrizia si erano adagiati su se stessi, avendo più a cuore i propri interessi e beni che quelli dell'intero stato veneto, che sciolsero in quattro e quattr’otto senza tanti problemi”.

RISPOSTA :

" E’ vero che se le cose avvengono, a determinarle non è mai il caso, ma esse rappresentano le conseguenze di scelte sbagliate.

In questo caso, la scelta errata fu fatta da due potenze militari che disponevano di espansione territoriale, numero di cittadini, risorse economiche e apparato bellico abbondanti e molte volte superiori rispetto a quelli della Veneta Serenissima Repubblica.

Com’è noto, con i preliminari segreti di Leoben (16-17 aprile 1797) e la successiva ratifica con il trattato di Campoformido (17 ottobre 1797) Francia ed Austria smembrarono lo Stato Veneto e se lo spartirono, determinandone la fine dopo 14 secoli di gloriosa indipendenza, dopo che esso aveva intrattenuto buone relazioni con entrambe le parti e con il resto del mondo conosciuto.

Nel maggio 1797 Napoleone, mentre costringeva Venezia a cambiare la sua Costituzione, facendo abdicare Doge e Maggior Consiglio in favore di una municipalità provvisoria, in realtà aveva già venduto sottobanco alla tanto odiata Austria queste terre, con gran scorno degli ingenui progressisti che avevano creduto in lui.

Dal 1796 entrambi gli eserciti sconfinavano in terra veneta, secondo una prassi che consentiva questi movimenti quando rappresentavano un passaggio obbligato nelle manovre militari.

Venezia, consapevole di non avere i mezzi per fronteggiare una guerra furiosa e pericolosissima (che non la riguardava in nessun modo), aveva dichiarato la sua neutralità, purché i contendenti osservassero gli accordi assunti. ???

Il 1° maggio, quando le truppe francesi minacciavano ormai da vicino la laguna, Napoleone dichiarò alla pacifica Repubblica una strana guerra in cui si ordinava ai militari francesi non solo di calpestare la sovranità di uno Stato legale, ma addirittura di cancellarne l’identità, abbattendo l’emblema nazionale del Leone Marciano.

La direttiva politica della soppressione di uno Stato libero e legale fu inopinatamente mantenuta ferma durante il Congresso delle potenze vincitrici a Vienna nel 1815, che restaurò tutti gli altri Stati anteriori ai due decenni di guerre napoleoniche (costate all’Europa milioni di morti), ancor oggi considerate giuste perché “liberarono” il vecchio Continente dal Cristianesimo ed instaurarono i nuovi “ideali” liberal-illuministi.

Imputare alla sola Venezia l’incapacità di respingere l’invasione francese fa sorridere, dato che Napoleone travolse tutti gli eserciti nemici, mise fine al Sacro Romano Impero che durava da mille anni, proclamò se stesso Imperatore del globo, devastò gli sterminati territori russi, umiliò persino il sentimento nazionale germanico, al punto che Fichte si sentì in obbligo di riscattare la dignità della sua Prussia scrivendo i “Discorsi alla Nazione Tedesca”, innescando così quello che il secolo successivo conobbe come il nazionalismo per antonomasia.

Nessuna colpa di rilievo può essere addebitata al Patriziato Veneziano: quasi nessuno scappò, i governanti restarono al loro posto, con il cuore affranto si fecero signorilmente da parte e badarono a (ri)consegnare il potere a quel popolo che, come emerge dagli atti ufficiali, essi sempre considerarono titolare della Sovranità Nazionale (che il Maggior Consiglio custodiva solamente).

Caso unico nella storia, quella classe dirigente che visse in funzione dello Stato, in pochi decenni si spense, quasi a suggellare un’identificazione totale con la Nazione a cui la storia sembrava voler negare il diritto a sopravvivere."

E. Rubini Europa Veneta



Comenti mii: ===========================================================================================================

A difarensa de Venesia ke no ła ga conbatù, l'Ouropa ła se ga difexo contro Napoleon cusì co xe stà vinto el Corso, l'Ouropa ke ła ło ga conbatù lè tornà al vecio ordene, Venesia anvençe, ke no ła ło ga conbatù, lè restà sotana, sudita, sciava. Se ła fuse stà na Repiovega Federal de tuti i veneti e no lomè arestogratega a domegno venesian, forse anca el Stado Veneto el gavaria conbatù Napoleon e el se garia gagnà e meretà ła lebertà. Venesia se ła sentiva cusì debołe ła garia podesto alearse co coalkedon, magari co łi aostriaghi e robe łe saria ndà ente tuta naltra manera.:

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viewtopic.php?f=167&t=1277

La Repiovega Veneta a domegno venesian no ła jera federal
viewtopic.php?f=167&t=1602

No xe vero ke Venesia ła xe stà endependente x 14 secołi parké par i primi secołi ła fea parte del domegno bixantin e i Doxi łi jera bixantini.
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Messaggioda Berto » mer ago 19, 2015 1:13 pm

Venesia e ła rivołusion fransoxa - Ippolito Nievo
viewtopic.php?f=148&t=1847


DA CONFESSIONI DI UN ITALIANO DI IPPOLITO NIEVO


Gli anni che al castello di Fratta giungevano e passavano l'uno uguale all'altro, modesti e senza rinomanza come umili campagnuoli, portavano invece a Venezia e nel resto del mondo nomi famosi e terribili. Si chiamavano 1786, 1787, 1788; tre cifre che fanno numero al pari delle altre, e che pure nella cronologia dell'umanità resteranno come i segni d'uno de' suoi principali rivolgimenti.

Nessuno crede ora che la rivoluzione francese sia stata la pazzia d'un sol popolo.

La Musa imparziale della storia ci ha svelato le larghe e nascoste radici di quel delirio di libertà che dopo aver lungamente covato negli spiriti, irruppe negli ordini sociali, cieco sublime inesorabile.

Dove tuona un fatto, siatene certi, ha lampeggiato un'idea.
Soltanto la nazione francese, spensierata e impetuosa, precipita prima delle altre dalla dottrina all'esperimento: fu essa chiamata il capo dell'umanità, e non ne è che la mano; mano ardita, destreggiatrice, che sovente distrusse l'opera propria, mentre nella mente universale dei popoli se ne maturava più saldo il disegno.

A Venezia come in ogni altro stato d'Europa cominciavano le opinioni a sgusciare dalle nicchie famigliari per aggirarsi nella cerchia più vasta dei negozii civili; gli uomini si sentivano cittadini, e come tali interessati al buon governo della patria; sudditi e governanti, i primi si vantavano capaci di diritti, i secondi s'accorgevano del legame dei doveri.
Era un guardarsi in cagnesco, un atteggiarsi a battaglia di due forze fino allora concordi; una nuova baldanza da un lato, una sospettosa paura dall'altro.


Ma a Venezia meno che altrove gli animi eran disposti a sorpassare la misura delle leggi: la Signoria fidava giustamente nel contento sonnecchiare dei popoli; e non a torto un principe del Nord capitatovi in quel torno ebbe a dire d'averci trovato non uno stato ma una famiglia.

Tuttavia quello che è provvida e naturale necessità in una famiglia, può essere tirannia in una repubblica; le differenze di età e d'esperienza che inducono l'obbedienza della prole e la tutela paterna non si riscontrano sempre nelle condizioni varie dei governati e delle autorità. Il buon senso si matura nel popolo, mentre la giustizia d'altri tempi gli rimane dinanzi come un ostacolo. Per continuar la metafora giunge il momento che i figliuoli cresciuti di forza di ragione e d'età hanno diritto d'uscir di tutela: quella famiglia nella quale il diritto di pensare, concesso ad un ottuagenario, lo si negasse ad un uomo di matura virilità, non sarebbe certamente disposta secondo i desiderii della natura, anzi soffocherebbe essa il più santo dei diritti umani, la libertà.
Venezia era una famiglia cosifatta.

L'aristocrazia dominante decrepita; il popolo snervato nell'ozio ma che pur ringiovaniva nella coscienza di sé al soffio creativo della filosofia; un cadavere che non voleva risuscitare, una stirpe di viventi costretta da lunga servilità ad abitar con esso il sepolcro.
Ma chi non conosce queste isole fortunate, sorrise dal cielo, accarezzate dal mare, dove perfino la morte sveste le sue nere gramaglie, e i fantasmi danzerebbero sull'acqua cantando le amorose ottave del Tasso? Venezia era il sepolcro ove Giulietta si addormenta sognando gli abbracciamenti di Romeo; morire colla felicità della speranza e le rosee illusioni della gioia parrà sempre il punto più delizioso della vita.
Così nessuno si accorgeva che i lunghi e chiassosi carnevali altro non erano che le pompe funebri della regina del mare.
Al 18 Febbraio 1788 moriva il doge Paolo Renier; ma la sua morte non si pubblicò fino al dì secondo di Marzo, perché il pubblico lutto non interrompesse i tripudii della settimana grassa.
Vergognosa frivolezza dinotante che nessun amore nessuna fede congiungevano i sudditi al principe, i figliuoli al padre.

Viva e muoia a suo grado purché non turbi l'allegria delle mascherate, e i divertimenti del Ridotto: cotali erano í sentimenti del popolo, e della nobiltà che si rifaceva popolo solo per godere con minori spese, e con più sicurezza.
Con l'uguale indifferenza fu eletto doge ai nove di Marzo Lodovico Manin : si affrettarono forse, perché le feste della elezione rompessero le melanconie della quaresima.
L'ultimo doge salì il soglio di Dandolo e di Foscari nei giorni del digiuno; ma Venezia ignorava allora qual penitenza le fosse preparata.
Fra tanta spensieratezza, in mezzo ad una sì marcia inettitudine non avea mancato chi prevedendo confusamente le necessità dei tempi, richiamasse la mente della Signoria agli opportuni rimedii.
Fors'anco i rimedii proposti non furono né opportuni né pari al bisogno; ma dovea bastare lo aver fatto palpare la piaga perché altri pensasse a farmaci migliori.

Invece la Signoria torse gli occhi dal male; negò la necessità d'una cura dove la quiete e la contentezza indicavano non l'infermità ma la salute; non conobbe che appunto quelle sono le infermità più pericolose dove manca perfin la vita del dolore.
Non molti anni prima l'Avogadore di Comune Angelo Querini avea sofferto due volte la prigionia d'ordine del Consiglio di Dieci per aver osato propalarne gli abusi e le arti illegali con cui si accapparravano e si fingevano le maggioranze nel Maggior Consiglio.
La seconda volta, dopo aver promesso di discorrere questa materia, fu carcerato anche prima che la promessa potesse aver effetto. Tale era l'indipendenza di una autorità semitribunizia, e tanto il valore e l'affetto consentitole; nessuno s'accorse o tutti finsero non s'accorgere della carcerazione di Angelo Querini, perché nessuno si sentiva voglioso di imitarlo.

Ma quello era il tempo che le riforme avanzavano per forza.
Nel 1779 a tanto era scaduta l'amministrazione della giustizia e la fortuna pubblica che anche il pazientissimo e giocondissimo fra i popoli se ne risentiva.
Primo Carlo Contarini propose nel Maggior Consiglio la correzione degli abusi con opportuni cambiamenti nelle forme costituzionali; e la sua arringa fu così stringente insieme e moderata, che con maravigliosa unanimità fu presa parte di comandare alla Signoria la pronta proposta dei necessarii cambiamenti.

Si nota in quelle discussioni, che quello che ora si direbbe il partito liberale tendeva a ripristinare tutto il patriziato nell'ampio esercizio della sua autorità, sciogliendo quel potere oligarchico che s'era concentrato nella Signoria e nel Consiglio dei Dieci per una lunga e illegale consuetudine.
Miravano apparentemente a riforme di poco conto; in sostanza si cercava di allargare il diritto della sovranità, riducendolo almeno alle sue proporzioni primitive, e insistendo sempre sulla massima da gran tempo dimenticata, che al Maggior Consiglio si stava il comandare e alla Signoria l'eseguire: in ogni occasione si ricordava non aver questa che un'autorità demandata.

I partigiani dell'oligarchia sbuffavano di dover sopportare simili discorsi; ma la confusione e la moltiplicità delle leggi porgeva loro mille sotterfugii per tirar la cosa in lungo.

La Signoria fingeva di piegarsi all'obbedienza richiesta; indi proponeva rimedii insufficienti e ridicoli. Dopo un anno di continue dispute, nelle quali il Maggior Consiglio appoggiò sempre indarno il voto dei riformatori, si trasse in mezzo il Serenissimo Doge. La sua proposta fu di delegare l'esame dei difetti accusati negli ordini repubblicani a un magistrato di cinque corettori; e la convenienza di un tal partito, che si riduceva a nulla, fu da lui appoggiata alle ragioni stesse con cui un accorto politico avrebbe provato la necessità di riformar tutto e subito.

Il Renier parlò a lungo delle monarchie d'Europa fatte potenti a scapito delle poche repubbliche; da ciò dedusse il bisogno della concordia e della stabilità.
«Io stesso,» aggiungeva egli nel suo patriarcale veneziano «io stesso essendo a Vienna durante i torbidi della Polonia udii più volte ripetere: Questi signori Polacchi non vogliono aver giudizio; li aggiusteremo noi. Se v'ha stato che abbisogni di concordia, gli è il nostro. Noi non abbiamo forze; non terrestri, non marittime, non alleanze. Viviamo a sorte, per accidente, e viviamo colla sola idea della prudenza del governo ".»

Il Doge parlando a questo modo mostrava a mio credere più cinismo che coraggio; massime che per solo riparo a tanta rovina non sapea proporre altro che l'inerzia, e il silenzio. Gli era un dire; se smoviamo un sasso, la casa crolla! non fiatate non tossite per paura che ci caschi addosso.
Ma il confessarlo in pieno Consiglio, lui, il primo magistrato della Repubblica, era tale vergogna che doveva fargli gettare come un'ignominia il corno ducale. Almeno il procurator Giorgio Pisani avea gridato che si avvisasse ai cambiamenti necessarii negli ordini repubblicani, e che se fossero giudicati impossibili ad effettuarsi, se ne consegnasse in pubblico atto la memoria, perché i posteri compiangessero l'impotente sapienza degli avi, ma non ne maledicessero la sprovvedutezza, non ne sperdessero al vento le ceneri.
Il Maggior Consiglio accettò invece il parere del Doge; e i cinque correttori furono eletti, fra cui lo stesso Giorgio Pisani.
Quando poi sopito quel momentaneo fermento gli Inquisitori di Stato vennero alle vendette, e senza alcun rispetto ai decreti sovrani confinarono per dieci anni il Pisani nel castello di Verona, mandarono il Contarini a morir esule alle Bocche di Cattaro, e altri molti proscrissero e condannarono, non fu udita voce di biasimo o di pietà.

Fu veduto, esempio unico nella storia, un magistrato di giustizia condannar per delitto quello che il Supremo Consiglio della Repubblica avea giudicato utile, opportuno, decoroso.
E questo sopportare senza risentirsi lo sfacciato insulto; e lasciar languenti nell'esiglio e nelle carceri coloro ai quali avea commesso l'esecuzione dei proprii decreti.
Cotale era l'ordinamento politico, tale la pazienza del popolo veneziano.

In verità, piuttostoché vivere a questo modo, o per accidente, come diceva il Serenissimo Doge, sarebbe stata opera più civile, prudente insieme e generosa, l'arrischiar di morire in qualunque altra maniera.
Di questo passo si toccò finalmente il giorno nel quale la minaccia di novità suonò con ben altro frastuono che colla debole voce di alcuni oratori casalinghi.

Il dì medesimo che fu decretata a Parigi la convocazione degli Stati Generali, il 14 luglio 1788 ", l'ambasciatore Antonio Cappello ne significò al Doge la notizia: aggiungendo considerazioni assai gravi sopra le strettezze nelle quali la Repubblica poteva incorrere, e i modi più opportuni da governarla.
Ma gli Eccellentissimi Savii gettarono il dispaccio nella filza delle comunicazioni non lette; né il Senato ne ebbe contezza.
Bensì gli Inquisitori di Stato raddoppiarono di vigilanza; e cominciò allora un tormento continuo di carceramenti, di spionaggi, di minaccie, di vessazioni, di bandi che senza diminuire il pericolo ne faceva accorgere l'imminenza, e manteneva insieme negli animi una diffidenza mista di paura e di odio.

Il conte Rocco Sanfermo esponeva intanto da Torino i disordini di Francia, e le segrete trame delle Corti d'Europa; Antonio Cappello, reduce da Parigi, instava a viva voce per una pronta deliberazione. Il pericolo ingrandiva a segno tale, che non era fattibile sorpassarlo senza dividerlo con alcuno dei contendenti.
Ma la Signoria non era avvezza a guardare oltre l'Adda e l'Isonzo: non capiva come in tanta sua quiete potessero importarle i tumulti e le smanie degli altri; credeva solo utile e salutare la neutralità non prevedendo che sarebbe stata impossibile.
Crescevano i fracassi di fuori; le mormorazioni, i timori, le angherie di dentro.
Il contegno del Governo sembrava appoggiarsi ad una calma fiducia in se stesso; ed uno per uno tutti i governanti avevano in cuore l'indifferenza della disperazione.
In tali condizioni molti vi furono che più accorti degli altri si cavarono d'impiccio, partendo da Venezia.
E così rimasero al timone della cosa pubblica i molti vanagloriosi, i pochissimi studiosi del pubblico bene, e la moltitudine degli inetti, degli spensierati e dei pezzenti.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Ƚe colpe, ƚe responsabeƚetà e ‘l tradimento dei venesian

Messaggioda Berto » gio set 03, 2015 6:26 am

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Re: Ƚe colpe, ƚe responsabeƚetà e ‘l tradimento dei venesian

Messaggioda Berto » lun giu 06, 2016 7:03 am

I veneti venesianisti ke łi nega e falba ła storia veneta
viewtopic.php?f=148&t=1831

El Parlamento Arestogratego Venesian (e nò de tuti i veneti)
viewtopic.php?f=138&t=1405

La Repiovega Veneta a domegno venesian no ła jera federal, no ła gheva gnente de federal
viewtopic.php?f=167&t=1602


Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... nesian.jpg



Scipione Maffei e el so projeto de Reforma de la Repiovega Veneta

(Projeto ke no lè mai stà descuso en Major Consejo e tegnesto senpre sconto)

http://it.wikipedia.org/wiki/Scipione_Maffei

Alla conclusione del viaggio europeo, scrisse, nel 1737, il Consiglio politico, rivolto al governo veneziano, in cui denunciò la debolezza veneziana nei confronti degli stati europei. Nel Consiglio politico, Maffei metteva in discussione tutto il delicato e complesso sistema di equilibri del governo di Venezia (fondato sul dominio di un ristretto numero di famiglie patrizie veneziane e sull'esclusione di uomini dalla Terraferma), svelandone la decadenza e proponendo una soluzione ardita. Avvertiva la crisi anche fisiologica della classe dirigente veneziana, ed offriva una prima critica a quella che sarebbe stata la soluzione poi scelta dal Senato, cioè la cooptazione di un certo numero di famiglie patrizie della Terraferma nei ruoli della città. Questa soluzione rimandava semplicemente il problema. Venezia aveva in realtà creato un sistema opposto a quello dell'antica Repubblica romana, grande esempio seguito da Maffei, estraniando da sé e dalle responsabilità la maggior parte dei suoi sudditi.

La fragilità di Venezia, la sua impossibilità di fare una politica estera convincente, la sua chiusura in una neutralità che nascondeva l'impotenza, erano il frutto di questo sistema, che aveva escluso i patriziati delle città della Terraferma. Mancava l'amor di patria, unica possibilità per resistere alle crescenti pressioni degli stati europei. La soluzione di Maffei era dunque il coinvolgimento di tutti i cittadini, con un trasferimento del potere dal popolo al Senato e il coinvolgimento delle popolazioni conquistate, “sul modello di Roma Repubblicana” (Mi diria cofà coelo xvisaro!).

A fianco al modello romano Maffei poneva esempi come il modello inglese e olandese, un sistema non assoluto, in cui le rappresentanze conservavano alcuni poteri fondamentali.
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Re: Ƚe colpe, ƚe responsabeƚetà e ‘l tradimento dei venesian

Messaggioda Berto » ven gen 27, 2017 6:06 pm

Memorie de Don Jijo de Gobis
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Re: Ƚe colpe, ƚe responsabeƚetà e ‘l tradimento dei venesian

Messaggioda Berto » dom giu 17, 2018 10:32 am

???

Il Consiglio di Dieci era però diventato negli ultimi anni la principale centrale operativa delle congiure antirepubblicane interne a Venezia

Premetto che sono Veneta, perciò ritengo che a tutt'oggi c'è un conto in sospeso con la Francia, per il genocidio perpetrato da Napoleone nei territori della Serenissima nel 1797 (ne decretò "l'inizio della fine"). Detto ciò, osservo che i franzosi erano CRIMINALI allora e CRIMINALI recidivi sono oggi.
PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEVS

https://www.facebook.com/annamaria.deon ... 6140741238

Umberto Sartori
Portarono via solo l'Archivio del Consiglio di Dieci, e quello non ritornò affatto, fu "scartato" ovvero distrutto a Parigi.
Ma l'intreccio burocratico delle Magistrature veneziane era tale che in pratica gran parte degli stessi documenti figuravano in copia in altri archivi. Il Consiglio di Dieci era però diventato negli ultimi anni la principale centrale operativa delle congiure antirepubblicane interne a Venezia, ed è probabile che nel suo archivio vi fossero documenti particolarmente compromettenti che furono distrutti.


Annamaria Deoni
Umberto Sartori grazie per le precisazioni quindi ci stai dicendo che furono eliminate le prove delle congiure ... Ecco perché molti ritengono, che fu "al comando" il tradimento...

Ferdinando Mattarollo
Un popolo con una cultura non si eliminano se al suo interno non ci sono traditori e vigliacchi, non lo dico io ma la storia in qualsiasi parte del mondo.

Umberto Sartori
No, le prove documentali ci sono eccome, soprattutto grazie al lavoro di Cristoforo Tentori, che ricopiò gran parte delle comunicate non lette in Senato prima che qualcuno, ben dopo Napoleone, facesse sparire anche gran parte di quelle. E, fuor di modestia, anche grazie al lavoro di integrazione di quelle fonti che ho personalmente svolto con l'aiuto delle indicazioni bibliografiche di Paolo Foramitti.
Non dimentichiamo che la prima campagna napoleonica in Italia, da quando passò il Mincio in poi, fu finanziata, rifornita e probabilmente anche guidata proprio da Venezia.
Qui agivano varie forze, ma non si può rendere in sintesi la situazione perché nella Storia non c'è niente di peggio delle semplificazioni, che la trasformano in storiografia quindi in facilità di inganno e uso demagogico.. Per comprendere quel che davvero successe bisogna acquisire una quantità di dati sulla situazione locale e internazionale, sui protagonisti in luce e soprattutto su quelli in ombra.
Per dirne solo una, l'allora primo ministro austriaco barone Thugut, con incarico anche di ministro della guerra, era un agente doppiogiochista francese, ingaggiato da quei servizi quando ancora svolgeva mansioni di dragomanno a Costantinopoli...


Se davvero vuoi comprendere cosa successe temo dovresti affrontare questo ponderoso testo:
http://www.veneziadoc.net/Storia-di-Ven ... ri-idx.php


???
Rivoluzione francese
https://it.wikipedia.org/wiki/Rivoluzione_francese
Sebbene terminata con il periodo imperiale-napoleonico e la successiva Restaurazione da parte dell'aristocrazia europea, la rivoluzione francese, insieme a quella americana, poiché segnò il declino dell'assolutismo, ispirò le rivoluzioni a connotazione borghese liberali e democratiche che seguirono nel XIX secolo (i cosiddetti moti rivoluzionari), dando definitivamente impulso alla nascita di un nuovo sistema politico, sotto il nome di Stato di diritto o Stato liberale, in cui la borghesia divenne la classe dominante, prodromi a loro volta della nascita dei moderni stati democratici del XX secolo.
...
La situazione politico-sociale disastrosa della Francia favorì un forte incremento dell'emigrazione (in gran parte nobili), confermando la progressiva radicalizzazione della Rivoluzione francese. Per cercare di contenere questa espansione rivoluzionaria entro i confini francesi, il 27 agosto 1791 Leopoldo II (imperatore del Sacro Romano Impero) e Federico Guglielmo II (re di Prussia), al termine di un incontro avvenuto a Pillnitz (dal 25 al 27 agosto, venne discusso principalmente il tema della spartizione della Polonia e la fine della guerra tra Austria e Impero Ottomano), rilasciarono una dichiarazione (Dichiarazione di Pillnitz), con la quale invitarono le potenze europee a intervenire contro la Rivoluzione francese per restituire i pieni poteri a Luigi XVI.
...
Conseguentemente all'esecuzione di Luigi XVI, la Gran Bretagna assunse la guida nella lotta alla Rivoluzione francese, favorendo la creazione della Prima coalizione, alla quale aderirono il Regno di Gran Bretagna, l'Arciducato d'Austria, il Regno di Prussia, l'Impero russo, il Regno di Spagna, il Regno del Portogallo, il Regno di Sardegna, il Regno di Napoli, il Granducato di Toscana, la Repubblica delle Sette Province Unite (odierni Paesi Bassi) e lo Stato Pontificio.
La Francia venne così accerchiata da una forte coalizione di potenze avversarie e il 1º febbraio 1793 dichiarò guerra a Gran Bretagna e Paesi Bassi: il 24 febbraio i girondini imposero il reclutamento di massa della popolazione abile al servizio militare per incrementare di 300 000 uomini le file dell'esercito; l'annuncio di questa decisione provocò diverse sollevazioni popolari in tutto il Paese, aggravate dalla successiva votazione della Convenzione nazionale che realizzò una vera logica del terrore: tutti quelli che avessero rifiutato di impugnare le armi sarebbero stati giustiziati immediatamente e senza processo.
...
Grazie agli sforzi del Comitato di salute pubblica, le armate francesi erano passate all'attacco. Nella primavera 1796 una grande offensiva attraversò la Germania per costringere l'Austria alla pace. Tuttavia fu l'armata d'Italia, comandata dal giovane generale Napoleone Bonaparte, che creò la sorpresa aggiungendo sempre nuove vittorie e forzando l'Austria a firmare la pace col Trattato di Campoformio del 17 ottobre 1797.

Napoleone esporta la rivoluzione

Tra il 1797 e il 1799 quasi tutta la penisola italiana fu trasformata in repubbliche sorelle (in Italia chiamate anche "repubbliche giacobine") con dei regimi e delle istituzioni ricalcate su quelle francesi. Se le vittorie alleviavano le finanze del Direttorio, esse resero il potere sempre più dipendente dall'armata e così Bonaparte divenne l'arbitro del dissenso politico interno. La spedizione in Egitto aveva l'obiettivo di impedire la via delle Indie al Regno Unito, ma i Direttori furono contenti di togliere il loro sostegno a Napoleone, che non nascondeva il suo appetito di potere.

La moltiplicazione delle repubbliche sorelle inquietò le grandi potenze, Russia e Regno Unito in testa. Esse temevano il contagio rivoluzionario e una troppo forte dominazione della Francia sull'Europa. Questi due Stati furono all'origine della seconda coalizione del 1798. Le offensive inglesi, russe e austriache furono respinte dalle armate francesi dirette da Brune e Masséna, ma l'Italia fu in gran parte persa e i risultati della campagna di Bonaparte resi vani. Era ormai chiaro che il popolo francese cercava un nuovo uomo forte per difendere le sorti della Repubblica, poiché il Direttorio era inesorabilmente corrotto e cominciava a tramare con Luigi XVIII per restaurare il trono dei Borbone. Allarmato da queste notizie e conscio che la sua ora era giunta, Napoleone tornò dall'Egitto e assunse il comando del complotto che mirava a rovesciare il Direttorio, un complotto tessuto tra gli altri da Sieyès e dal fratello di Napoleone, Luciano Bonaparte, presidente dell'Assemblea dei Cinquecento.




Napoleone Bonaparte e la rivoluzione francese
Riccardo Lestini
http://www.riccardolestini.it/2017/04/n ... e-francese

Capita spesso che i miei studenti mi costringano al gioco delle “domande impossibili”.

Del tipo”qual è il suo poeta preferito?”, “qual è secondo lei il periodo storico più bello?”.

Domande impossibili appunto, cui ovviamente non posso né so rispondere. Tranne in un caso. Quando infatti mi chiedono chi è, a mio avviso, il personaggio più difficile da spiegare e da inquadrare, non ho alcun dubbio e rispondo: Napoleone Bonaparte.

Il celeberrimo generale e imperatore dei francesi, assoluto protagonista di un’epoca tumultuosa e convulsa a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo, è infatti un sorta di gigantesca contraddizione incarnata: principale veicolo e diffusore degli ideali della rivoluzione francese in tutta Europa e, al tempo stesso, artefice della fine ultima del processo rivoluzionario, innovatore e conservatore, reazionario e rivoluzionario, nemico giurato dell’assolutismo dell’ancien régime e fondatore a sua volta di un impero totalitario e accentratore.

Una convivenza così complessa e inestricabile di opposti da rendere davvero difficile rispondere, o anche solo provare a farlo, alla domanda “chi era veramente, e in definitiva, Napoleone Bonaparte?”.

L’aspetto più complicato della materia è proprio il legame di Napoleone con la rivoluzione francese e gli ideali che la determinarono.

Fermo restando il presupposto che Napoleone fu figlio di quella rivoluzione e che la sua epopea politica e militare fu possibile esclusivamente grazie al particolare contesto generato dalla stessa rivoluzione, i fili che legano il generale corso agli eventi e agli ideali rivoluzionari risultano ben più profondi della semplice conseguenza storica.

Nella comprensione della questione nello specifico – e in generale del personaggio – si parte da un sostanziale errore di fondo.

Qualunque narrazione dell’epopea napoleonica – sui libri di scuola, negli speciali a lui dedicati o nei film che ne ricostruiscono la vicenda – ha il medesimo punto di partenza, ovvero quel 5 ottobre 1795 (13 vendemmiaio secondo il calendario rivoluzionario) in cui Barras, allora a capo del Direttorio repubblicano, lo nominò comandante in campo della piazza parigina allo scopo di salvare la repubblica dalla rivolta ordita dai monarchici. La veemenza e la determinazione con cui Napoleone soppresse la rivolta realista scongiurando un colpo di stato, gli valse la nomina a generale di quella Campagna d’Italia che, come risaputo, fu base e inizio della sua inarrestabile ascesa.

Tutto quanto avvenuto prima di questi accadimenti viene taciuto e tralasciato, sommariamente liquidato come trascurabile. Eppure, proprio gli anni e i fatti che precedettero quel 5 ottobre, possono dirci molto più di qualcosa sul rapporto tra il Bonaparte e la rivoluzione.

Quando Napoleone riceve da Barras il controllo di Parigi e una completa carta bianca per stroncare i rivoltosi realisti, nonostante la giovane età ha già alle spalle una esperienza militare di tutto rispetto, maturata proprio in seno alla rivoluzione. Pochi anni di gavetta in realtà, ma che, se guardati con l’ottica di una rivoluzione inarrestabile e capace di mutare scenari e contesti continuamente e quotidianamente, equivalgono a un’eternità.

Inizialmente, durante tutto il suo apprendistato militare alla Regia Accademia di Parigi, consumato negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della rivoluzione, Napoleone – molto più che strano a dirsi – come risulta dai suoi scritti dell’epoca, detesta completamente la Francia, coltivando in gran segreto l’ideale e il sogno dell’indipendenza del popolo corso.

La contraddizione, per cui l’uomo che sarebbe diventato uno dei simboli più forti e rappresentativi del patriottismo francese nel corso dei secoli (al pari, se non di più, di personaggi del calibro di Giovanna d’Arco e del generale De Gaulle) fu in estrema gioventù completamente ostile alla Francia, è in realtà solo apparente.

Al contrario, l’avversione di Napoleone per la Francia è assolutamente in linea con gli ideali che manifesterà in seguito. Vicino, anzi vicinissimo, agli ideali illuministi, nell’indipendenza della Corsica vede quel principio di libertà e autodeterminazione dei popoli caro proprio all’illuminismo e che nella rivoluzione americana aveva trovato pochi anni prima la sua prima e clamorosa applicazione. Allo stesso modo, l’odio per la Francia equivale all’odio per il governo francese, simbolo più alto e compiuto di quell’assolutismo che gli ideali illuministi lo spingono ad avversare in ogni modo.

Non a caso lo scoppio della rivoluzione francese nel luglio del 1789, e la fine dell’assolutismo che da pura utopia si tramuta di colpo in possibilità concreta, riavvicinano immediatamente Napoleone alla Francia, improvvisamente diventata simbolo di libertà. Non solo Napoleone, ma tutto il movimento indipendentista corso, in virtù di quanto appena detto, finisce per appoggiare la rivoluzione.

Tuttavia la strada comune dei rivoluzionari corsi e di quelli francesi, torna a separarsi l’indomani dell’arresto del re Luigi XVI e della proclamazione della repubblica, nell’autunno del 1792.

Il leader dei nazionalisti corsi, Pasquale Paoli, appena rientrato dal lungo esilio cui proprio il re decaduto l’aveva condannato, a fronte degli eccessi di violenza del governo repubblicano (e soprattutto del totale diniego nel prendere minimamente in considerazione la causa della Corsica), prende le distanze da Parigi, invitando tutta l’isola a resistere e insorgere contro i nuovi tiranni.

Napoleone, a dimostrazione di come l’indipendentismo corso fosse più uno dei tanti possibili legami agli ideali dei lumi piuttosto che un autentico e viscerale patriottismo,e soprattutto già dimostrando un’indole tenacemente pragmatica che contraddistinguerà quasi tutto il suo agire, tra la fedeltà alla causa corsa e quella alla rivoluzione francese sceglie quest’ultima, ovvero quella in cui la possibilità di una vera applicazione degli ideali in cui crede appare più realistica e concreta.

Il futuro generale non solo scelse la sponda francese, ma a ulteriore riprova della sua adesione agli ideali della repubblica e della rivoluzione, partecipò a più di un’azione di repressione dell’insurrezione corsa guidata da Paoli (tutta la sua famiglia, a causa di questo, fu costretta ad abbandonare l’isola e a riparare precipitosamente nel sud della Francia).

Una scelta di campo che si fece ancor più netta e precisa al momento di dare il proprio sostegno a una parte politica piuttosto che a un’altra.

Il movimento rivoluzionario infatti non fu mai una realtà unitaria. Al contrario fu sempre attraversato al suo interno da divisioni e scissioni drammatiche e laceranti, soprattutto a partire da quegli eventi che portarono alla deposizione del re e alla proclamazione della repubblica.

In quella galassia composita ed eterogenea di forze politiche spesso in guerra aperta tra loro, Napoleone aderì all’ala più estrema, radicale e intransigente della repubblica: i giacobini di Maximilen de Robespierre.

Napoleone fu quindi, autenticamente e indiscutibilmente, un giacobino, e l’intera sua attività di ufficiale della Guardia Nazionale durante la rivoluzione si svolse all’insegna del giacobinismo più ferreo e radicale.

Per questo la sua scalata ai vertici militari del paese, che in un primo momento, pur svolgendosi rapidamente era comunque rimasta nel raggio di una certa consuetudine e normalità, dall’autunno del 1793, ovvero quando, dopo l’epurazione dei moderati girondini guidati da Brissot, i giacobini di Robespierre e Saint-Just conquistarono la maggioranza dell’Assemblea Nazionale e del Comitato di Salute Pubblica, i gradi e il prestigio di Napoleone presero a salire a velocità prodigiosa.

In questo giocò sicuramente un ruolo ben più che importante l’amicizia tra il giovane Napoleone e il fratello di Robespierre, Augustin. Ma non fu certo soltanto l’amicizia con un politico potente e influente a garantire l’ascesa del futuro generale. A farlo salire così rapidamente e vertiginosamente furono anche, e soprattutto, i meriti conquistati sul campo, le prime evidenti manifestazioni di quell’indiscusso genio militare che di lì a poco avrebbe impressionato l’Europa intera.

In particolare durante l’assedio di Tolone dove, ben prima dello sventato colpo di stato realista ricordato in precedenza, piegò e sbaragliò una grande e tenace resistenza filomonarchica, grazie a una tattica militare completamente innovativa, spregiudicata ed efficacissima.

Però, nel luglio del 1794, la caduta di Robespierre e del governo giacobino, frenò inevitabilmente l’ascesa di Napoleone ed eclissò di colpo tutto il prestigio fin lì guadagnato, essendo il suo nome completamente associato a quella parte politica.

La sua fama venne così forzatamente e improvvisamente oscurata, e per oltre un anno Napoleone si trovò a ricoprire mansioni di poco conto, se non proprio irrilevanti.

Fino a quel 5 ottobre 1795 più volte ricordato, quando Barras, nonostante totalmente ostile ai giacobini e tra i principali responsabili del colpo di stato che aveva mandato Robespierre alla ghigliottina, consegnò nelle mani di Napoleone “il gioco” la stessa sopravvivenza della repubblica e delle sue istituzioni.

La spiegazione alla decisione di Barras – su cui più di uno storico si è a lungo interrogato inutilmente – è in realtà molto semplice. Nessuna contraddizione né chissà quale decisione clamorosa. Semplicemente Barras si trovò con le spalle al muro: l’estrema debolezza politica del governo del Direttorio aveva dato modo ai filomonarchici di riorganizzarsi al punto da costituire, per la prima volta dalla destituzione del re, una concreta minaccia per la repubblica. Così Barras, che conosceva le doti militari di Napoleone, per salvare se stesso, il Direttorio e la Repubblica, scelse di affidare l’operazione più complicata al miglior ufficiale di cui disponeva allora la Guardia Nazionale. Fregandosene, specie in quella situazione di estremo pericolo, che fosse giacobino.

Per il medesimo motivo, mesi dopo, gli fu affidato il comando della spedizione in Italia.

Ciò che accadde dopo è storia nota e risaputa. In Italia il suo genio militare si manifestò in tutta la sua potenza, riuscendo, con un esercito di richiamati, mal equipaggiato e impreparato, a mettere sistematicamente sotto scacco la potentissima Austria , superiore sia numericamente sia per mezzi a disposizione.

Una vittoria che trasformò all’istante Napoleone in mito vivente, un’impresa leggendaria che incendiò l’immaginario della gioventù di tutta Europa, smaniosa di abbracciare gli ideali giacobini e rivoluzionari. 7

Napoleone infatti, per quanto fedele al governo del Direttorio, almeno in quelle prime imprese fuori dai confini nazionali continuò a comportarsi da giacobino, importando, in Italia e altrove, quegli specifici ideali.

Poi le cose, soprattutto dal colpo di stato che determinò l’elezione di Napoleone a console della Repubblica (e che portò alla fine del Direttorio e di quel Barras che pure aveva reso possibile la sua risalita) cambiarono. Da un lato l’innato pragmatismo del generale e del politico, dall’altro la necessità di normalizzare una Francia sconvolta da dieci lunghissimi anni di continui rivolgimenti e stravolgimenti rivoluzionari, lo allontanarono ben presto dall’estremismo giacobino.

Soprattutto in politica estera, dove più spesso e a lungo andare, fu visto come “invasore” e “usurpatore” (ma allo stesso modo, ai tempi delle prime vittorie francesi contro le potenze antirivoluzionarie, erano stati visti e giudicati altri leaders della rivoluzione, in primis Danton); mentre in politica interna, nonostante la decisa sterzata “conservatrice” e moderata, nonostante pure, tanto durante il consolato quanto durante l’Impero, si trasformò in persecutore e castigatore dei reduci giacobini e del loro incrollabile estremismo, il suo nome continuò a essere associato alla rivoluzione francese in generale e al giacobinismo in particolare.

Non a caso i sostenitori dell’ancien régime e di quel processo chiamato “Restaurazione” che seguì la definitiva caduta dell’impero napoleonico, considerarono il decennio rivoluzionario e il quindicennio napoleonico un tutt’uno, un unico processo storico di cui il primo è premessa e preparazione del secondo. E ancora oggi sono molti gli storici, specie francesi, ad allargare le date della rivoluzione francese fino a comprendervi l’intera parabola di Napoleone.

Pur se chiarito, o quanto meno “disseppellito” dalla polvere dell’indifferenza, il rapporto tra il Bonaparte e la rivoluzione francese, gli stretti legami con l’illuminismo e la fazione giacobina negli anni della formazione e della giovinezza, restano chiaramente inalterate la complessità estrema del personaggio, l’altrettanto estrema difficoltà nello spiegarlo e inquadrarlo e, non da ultimo, resta inevasa la domanda da cui siamo partiti.

Ovvero: chi era, veramente e in definitiva, Napoleone Bonaparte?

Ennesima domanda impossibile. Più semplice dire chi non era, Napoleone Bonaparte. E forse non fu tanto Napoleone contraddittorio, quanto la sua stessa epoca, il suo stesso tempo, l’intera sua generazione a essere una gigantesca contraddizione e un’enorme convivenza schizofrenica di opposti.

Una generazione compressa, schiacciata e travolta tra una rivoluzione legittima e sacrosanta ma troppo giovane per non sfuggire di mano e annegare se stessa, e una reazione feroce, frustrante e anacronistica. Una generazione scissa e irrisolta per sua stessa natura e per suo stesso destino storico, tanto nelle sue mediocrità quanto nelle sue eccellenze, a metà tra razionalismo illuminista e passioni irrazionali, tra pragmatismo e ideali utopistici, tra romanticismo e neoclassicismo, tra ateismo e religione. Una generazione che si riconobbe in Napoleone e al tempo stesso lo rinnegò, che lo osannò e al tempo stesso lo calpestò: Beethoven che dapprima gli dedicò come “liberatore dei popoli oppressi” la sua “Eroica” e che poi ritirò sdegnosamente quella stessa dedica dopo l’incoronazione del Bonaparte come imperatore, Foscolo che si arruolò entusiasta come volontario per combattere a fianco e in nome del grande generale e che poi, dopo il trattato di Campoformio, si sentì tradito e violato nei suoi ideali più profondi.

Una generazione, in definitiva, di cui Napoleone fu simbolo sintesi, il personaggio più importante e rappresentativo, la cassa di risonanza più grande ed emblematica.

Questioni colte in pieno da Alessandro Manzoni che, nel momento di stendere il celeberrimo “5 maggio”, non solo in pochi versi riesce a restituirci questa complessità, questa scissione e questa doppiezza, ma soprattutto, nella stessa manciata di versi, riesce a parlare, attraverso il suo esponente più alto, di un’intera generazione. Quella generazione che, sognando la rivoluzione e combattendo la restaurazione, pur tra mille contraddizioni e forse suo malgrado seppe irreversibilmente cambiare il mondo. Quella generazione che, continuamente, “cadde, risorse e giacque”
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Berto
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