L'ultima fase della serenissima - La politica: LA FINE DELLA REPUBBLICA ARISTOCRATICA
1998
http://www.treccani.it/enciclopedia/l-u ... Venezia%29capitolo iii
La fine della Repubblica aristocratica1. "Una Repubblica che già conoscono essere sull'orlo della caduta".
Lineamenti della crisi strutturale dello Stato veneto
GIACOMO NANI - Nel tardo autunno del 1781, al termine del suo mandato di capitanio e vice-podestà di Padova, il patrizio veneziano
Giacomo Nani avrebbe dovuto presentare al senato, come ogni altro rettore uscente, una relazione scritta sul suo incarico di governo. Nani raccolse diligentemente un piccolo dossier di documenti, che gli sarebbero potuti servire per tracciare un bilancio del suo operato. Tuttavia ciò che gli uscì dalla penna non fu una delle tante scritture stereotipate, che i segretari del senato si affrettavano a seppellire negli archivi, ma un suggestivo trattato sulla politica veneziana e sui compiti e i poteri di un rettore di una provincia suddita, i Principi d'una amministrazione ordinata e tranquilla. Nani si guardò bene dal divulgare questa sua opera, ancorché in notevole misura riflettesse e per un certo verso giustificasse lo stagnante conformismo che dominava la vita della Serenissima: ciò che l'indusse a far sparire cautelativamente i Principi in un cassetto furono una diagnosi quanto mai spregiudicata e una prognosi radicalmente pessimista circa i mali che affliggevano la Repubblica marciana.
Nani era infatti convinto che alla costituzione veneziana fossero "già stati corrosi tutti li fondamenti" e che la Repubblica vivesse quindi le sue ultime ore, fosse "già sull'orlo della caduta": "non manca che l'urto di una qualche interna o esterna combinazione, che faccia crollar quella fabbrica". "I buoni cittadini", tra i quali il patrizio collocava, come è ovvio, anche se stesso, sapevano bene che non era possibile invertire la rotta, che stava portando - volendo riprendere una metafora impiegata all'indomani del collasso della Serenissima - "la nave desolata ed involta d'algosa materia" ad infrangersi contro gli scogli. "Non credono che alcuna eloquenza e autorità possa prolungar i suoi giorni. Conoscono essere li mali della vecchiezza incurabili".Stando così le cose, qualsiasi riforma appariva inutile, se non dannosa. Venezia doveva invece puntare ad un'amministrazione ordinata e tranquilla, che le avrebbe consentito, tra l'altro, di mascherare la sua impotenza nei riguardi della Terraferma. L'ordine e la tranquillità non erano, in questo caso, soltanto gli indispensabili ingredienti della ricetta politica cara ai conservatori d'ogni tempo e latitudine, ma anche e soprattutto lo strumento che doveva evitare che la Repubblica colasse a picco nel peggiore dei modi, tra "straggi e convulsioni".
In poche parole, tutto ciò che i "buoni cittadini" si auguravano era una fine dello Stato marciano per eutanasia (1).
PIERO GARZONI - Senza dubbio non era questa la prima profezia colorata di nero pronunciata a carico della Repubblica di Venezia da un membro della sua classe dirigente. Più di cinquant'anni prima l'autorevole savio del consiglio e pubblico storiografo
Piero Garzoni aveva stilato uno sconsolato "pronostico alla durabilità della Repubblica": questa gli appariva, a causa della "corruttela de' tempi", talmente "indebolita de' Stati, d'uomini e di consiglio" e la sua "estimazione" politica così vacillante che non gli rimaneva altro che riporre ogni speranza di salvezza in "Dio Signore".
Soltanto l'Altissimo poteva concedere a Venezia di "reggere e continuare libera sin al fine del Mondo".BERNARDO NANI - Pochi anni più tardi questa visione apocalittica sarebbe stata riproposta in chiave laica da altri nobili veneziani: chi ne avrebbe registrato in un suo diario le amare riflessioni sarebbe stato il fratello maggiore di Giacomo Nani, Bernardo. "La Repubblica Veneta è vecchia", era una delle denunce registrate dal giovane patrizio, "durò assai; ora le cause della decadenza delli Imperi e d'altre Repubbliche sono in essa. Lusso, costumi corotti, e licenziosi". In sintesi, "lo stato della Repubblica è infelice: tutto da disgrazie, senz'amici, senza soldi, senza riputazione, senza amore per il pubblico" (2).
Che queste non fossero opinioni condivise unicamente dalla sempiterna corporazione dei laudatores temporis acti, una categoria tanto più incline a criticare il presente nella misura in cui mitizzava il passato, lo attesta un'ipotesi ventilata nel 1739 da due membri del nucleo dirigente marciano: essendo convinti che "il successivo deperimento della Repubblica" fosse inevitabile, avevano suggerito che "preventivamente a un tal cattivo momento" Venezia chiedesse di entrare a far parte del "Corpo Germanico affine di essere caratterizzata quale un altro Elettore", trovasse un rifugio, in altre parole, all'"ombra dell'impero asburgico" (3).
MARCO FOSCARINI - Nei decenni seguenti questi giudizi erano stati confermati in maniera più o meno drastica dalle bocche o dalle penne dei patrizi veneziani più lungimiranti e impegnati, tra i quali gli stessi dogi Marco Foscarini ("questo secolo dovrà essere terribile a' nostri figli e nepoti") e PAOLO RENIER ("vivemo a sorte, per accidente", aveva dichiarato davanti al maggior consiglio nel corso della Correzione del 1780) (4). Perfino GIORGIO BAFFO, un poeta di solito interessato a tutt'altre faccende, aveva spezzato una lancia, nei primi anni 1760, contro la decadenza della Repubblica: "le gran teste mancando se ne va, / e no resta de qua se no i cogioni".
"No se pensa che all'ozio, al lusso, al ziogo, / e i libri, che se studia sulla sera, / xe 'l mazzo delle carte, o quel del cogo. / Debotto non ghè più zente da guera, / e, se ghe n'è, questi no ha visto el fogo; / come puorla durar in sta maniera?" (5).
È vero che le profezie di queste Cassandre erano rimaste lettera morta talvolta addirittura per più di settant'anni, una constatazione che tra l'altro potrebbe indurre a non attribuire un rilievo particolare alle stesse previsioni avanzate da Giacomo Nani nel 1781. Ma è anche vero che, se il "cattivo momento" era stato procrastinato di decennio in decennio, se l'"orlo della caduta" si era rivelato assai meno sottile di quanto fosse stato predetto, non per questo le denunce della crisi della Serenissima devono essere considerate affatto gratuite. Come avrebbe spiegato Denis Diderot in una pagina della fortunatissima Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes di Guillaume-Thomas Raynal, l'Europa ospitava "quelques Républiques sans éclat et sans vigueur" (e tra queste repubbliche sembra difficile evitare di includere la Serenissima) che, se da un lato apparivano vittime predestinate delle "vastes Monarchies", "qui tôt ou tard les engloutiront", dall'altro potevano continuare a rimanere paradossalmente a galla grazie a "leur faiblesse même" (6).
Naturalmente la "faiblesse" costituiva una garanzia nella misura in cui era tutelata dalla balance of powers internazionale, dall'equilibrio tra le "vastes Monarchies".
Lo stesso Giacomo Nani aveva scritto nel 1763 in coda ad un suo diario di viaggio che "arbitre dell'Italia sono le due nazioni oltramontane", l'Impero e la Francia: "la loro gelosia e il credito del Papa tenne in libertà l'Italia". Era naturale attendersi che, "scemando questo di credito ed entrando altre ragioni in quelle, nasceranno conseguenze diverse" (7). In effetti, quando aveva riconosciuto che l'Italia - e Venezia in particolare - usufruiva di una libertà condizionata dalla reciproca neutralizzazione delle "nazioni oltramontane", Nani aveva trascurato la circostanza che il recente rovesciamento delle alleanze aveva già fatto entrare "altre ragioni" nelle strategie di Parigi e di Vienna, che la tradizionale "gelosia" aveva ceduto il posto ad un'intesa tra i Borbone e gli Asburgo cementata, di lì a poco, anche da scambi matrimoniali.
Va peraltro osservato che questa nuova fase delle relazioni tra gli Asburgo e i Borbone così come la crescente pressione della Russia sul Mediterraneo orientale, se nei primi anni 1780 avevano indotto San Pietroburgo e, soprattutto, Vienna a coltivare un progetto di spartizione dei Domini veneziani, di fatto avevano finito per lasciare com'era l'assetto italiano consacrato dalla
pace di Aquisgrana. Ma, se l'"esterna combinazione, che faccia crollar quella fabbrica", doveva presentarsi soltanto dopo che l'antico regime era stato spazzato via in Francia e nei paesi nell'orbita della Grande Nation, non per questo si deve abbracciare la tesi di Francesco Gritti che la fine della Repubblica aristocratica "forse non poteva svolgersi che alla sola condizione del sovvertimento di Europa" (8), attribuire, cioè, la responsabilità della caduta al devastante impatto della rivoluzione francese e del suo braccio armato in Italia, Bonaparte. Dopo tutto non va dimenticato che a Leoben fu un'intesa franco-imperiale basata, a ben vedere, sulla tradizionale Realpolitik e comunque assai lontana dai principi proclamati dalla rivoluzione che decretò la scomparsa della Serenissima.
Nel sommario dei primi capitoli de La fin de la République de Venise. Aspects et reflets littéraires lo storico della letteratura Guy Dumas ha riassunto in maniera esemplare, un terzo di secolo fa, le tesi di coloro che, a partire da Gritti e dagli altri protagonisti e spettatori delle vicende traumatiche del 1797, avevano in ogni caso individuato nel futuro Napoleone il villain della pièce della caduta della Repubblica veneta, gli avevano assegnato la parte del malvagio affossatore della Serenissima. "Sa disparition a, en réalité, des causes essentiellement extérieures: la France et l'Autriche s'étant mises d'accord pour la dépecer, plus rien ne pouvait la sauver. Doit-on faire grief son gouvernement de l'amour de la paix manifesté par lui au cours du XVIIIe siècle? [...] L'ambition de Bonaparte, cause primordiale de la perte de Venise [...]. Pour conclure avec l'Autriche le marché qu'il médite, il présente la Sérénissime comme un Etat dégénéré et le Directoire finit par se ranger à son avis. C'est là l'origine des jugements péjoratifs portés sur Venise par tant d'historiens".
Dopo aver ῾provato' la duplice colpa di Bonaparte - non solo aveva deciso l'esecuzione della Repubblica aristocratica, ma aveva anche fabbricato e imposto la leggenda nera, che l'avrebbe perseguitata post mortem -, Dumas ha potuto dipingere la Serenissima con i colori più rosei ed idilliaci: "réelle vitalité", "patriotisme de l'ensemble de la population", "la noblesse: preuves de son attachement au régime", "les patriciens continuent à assurer consciencieusement les devoirs qui leur incombent", "le peuple: joie de vivre, satisfaction et sécurité générale", "l'amour de la patrie et du régime était commun à toutes les classes de la société" (9).
In effetti la tesi della "réelle vitalité" politica generosamente attribuita da Dumas alla Repubblica fa a pugni, oltre che con i giudizi dei patrizi citati in precedenza, anche con quanto scriveva - e non era il solo a tracciare un quadro così negativo - il residente napoletano a Venezia nel gennaio del 1784: "questa Repubblica ritrovasi nella totale sua decadenza sì per la corruzione e divisione che regna tra i suoi individui, come per la mancanza di denaro nel pubblico erario, per lo stato della sua truppa, che non ascende a più di 10 mila uomini [...] e finalmente per lo deterioramento del suo commercio, così che qualunque potenza volesse un poco mostrarle i denti, Ella è nella dura necessità di compiacerla intieramente" (10). È evidente che la rivoluzione francese si limitò a mettere a nudo, oltre alla crisi strutturale della Repubblica, la precarietà della sua collocazione internazionale, un pavido isolamento che in un quadro europeo sempre meno capace di opporsi con successo all'imperialismo delle grandi potenze non appariva più un salvacondotto, ma al contrario un decisivo elemento di debolezza.Nonostante che nel luglio del 1788 l'ambasciatore veneziano a Parigi Antonio 1° Capello facesse presente che, "ora che la nostra Repubblica non ha niente a sperare dalla passata rivalità tra la casa d'Austria e la Francia; ora che questa corte segue gl'impulsi di quella per i motivi già noti, e che lacerata da debiti, e da intestine discordie abbandona, o perde i suoi più antichi alleati; ora che tutti i sovrani d'Europa cercano di fortificarsi con amicizie [...]; ora che la Repubblica può essere disturbata nel suo sistema di neutralità da chi forse vorrebbe imbarazzarla, ed associarla a' suoi pericoli", era il caso di "riflettere seriamente alla propria situazione" e chiedersi se convenisse "alla nostra sicurezza starsene isolati da tutti gli altri" (11), i savi del consiglio avrebbero preferito allora e negli anni seguenti rimanere fedeli alla massima di Andrea Tron, che prescriveva alla Repubblica di "nascondersi come i fanciulli che hanno vergogna di comparire fra gli uomini e raccomandarsi alla provvidenza" (12), e ad ogni buon conto avrebbero occultato al senato l'invito di Capello a ridiscutere le linee di fondo della politica estera della Serenissima.Quanto invece all'"interna [...] combinazione", che avrebbe potuto causare la caduta di "quella fabbrica", essa doveva riflettere e discendere, stando ai Principi, dalla recente metamorfosi ideologica del patriziato. Nani riteneva che i tradizionali valori marciani fossero stati debellati da uno spirito di "despotismo", che aveva trasformato le istituzioni repubblicane in un mero simulacro: ad un tempo la Serenissima aveva smarrito la propria identità e la propria forza. Il verdetto stilato da Nani a carico della Repubblica aristocratica, se da un lato lo induceva ad auspicare una fine dello Stato marciano non molto diversa da quella che sarebbe stata decisa dalla storia (che lo si qualificasse con disprezzo, come avrebbe fatto il pubblicista conservatore Jacques Mallet du Pan, quale "un esempio inaudito per anco ne' fasti della pusillanimità", oppure lo si esaltasse, nella scia di Gritti, quale un magnanimo sacrificio della sovranità dettato da "principi di moderazione", una virtù tipicamente repubblicana, rimane sempre il fatto che il regime aristocratico si sarebbe "disciolto da se stesso", che si sarebbe dato una morte, tutto sommato, dolce, in quanto preceduta e seguita da alcune "straggi e convulsioni" di ridotta magnitudine e che in ogni caso avrebbero affatto risparmiato il patriziato) (13), dall'altro segnalava che la "fabbrica" era minata da profonde crepe interne, non ultima delle quali la persuasione, che paradossalmente aveva fatto breccia proprio nelle file dei "buoni cittadini" più lucidi, dell'ineluttabilità del crollo.
FRANCESCO DONA' - "La caduta della repubblica veneta sarà tanto memoranda nella storia, quanto memoranda si è la sua origine", avrebbe dichiarato Francesco Donà, l'ultimo storiografo pubblico della Serenissima e uno dei protagonisti della drammatica sequenza finale, nell'introduzione ad un Esatto diario di quanto è successo dalli 2 sino a 17 maggio 1797 nella caduta della Veneta Aristocratica Repubblica frutto, in realtà, della fusione delle effemeridi redatte da lui stesso e dal lontano parente Piero Donà. Anche se Francesco Donà "non pretende[va] di farla da storico" e si riprometteva soltanto di offrire una fonte attendibile a quei "dotti, che a somiglianza de' Ferguson e de' Mably ci daranno un'esatta storia di tale avvenimento politico", in effetti da un lato si rifugiava nella filosofica constatazione che "è già destino delle umane cose, specialmente dei governi, che dopo qualche giro, pieni di scorno vadano a precipitarsi nell'occaso" e dall'altro sentenziava che la storia della caduta della Repubblica marciana "si riduce[va] a molto poco; colmo di debolezza in chi presiedeva alle cose pubbliche; colmo di perfidia in una nazione", ovviamente la Francia della rivoluzione (14).
Benché la formula riduttiva utilizzata da Donà per spiegare o, meglio, per esorcizzare la "memoranda" caduta sia ben lontana dall'essere soddisfacente, mi sembra comunque utile contrapporre, quanto meno dal punto di vista metodologico, i due piani di riferimento individuati dallo storiografo, vale a dire distinguere l'"avvenimento", "la storia", la trama delle azioni e reazioni che sfociarono nella crisi finale, dal processo strutturale dominato dal ῾destino'. È tuttavia evidente che nel caso di Venezia ci si deve riferire non tanto ad un destino tuttofare, ad un generico ῾padrone' delle "umane cose" e, in particolare, della sorte degli Stati quanto ad un destino dai poteri, per così dire, più locali e contingenti, a quello, cioè, che impresse il suo marchio sull'Italia continentale nei convulsi decenni tra la rivoluzione e la restaurazione.
Come è stato osservato fin dalla metà del secolo scorso dagli storici veneziani Girolamo Dandolo e Samuele Romanin (15), il rullo compressore rivoluzionario-napoleonico doveva travolgere, prima o dopo, in tutta la Penisola le formazioni politiche d'antico regime, fossero nemiche dichiarate della Francia, alleate più o meno convinte oppure seguissero gli stretti sentieri della neutralità. Ma va anche ricordato che tutte le repubbliche nobiliari italiane furono definitivamente sepolte nel 1814-1815 dal congresso di Vienna, il quale si guardò bene dal restaurare l'antico regime dei patriziati. Quando, all'indomani della conclusione del congresso, Stendhal cercherà di cancellare in una Vita di Napoleone una delle macchie più vistose che deturpavano la fama del suo eroe, "la distruzione di Venezia", potrà ritenersi autorizzato proprio dalle decisioni prese sulle rive del Danubio a contrapporre il governo marciano, "un'aristocrazia dal piede di argilla", agli "altri governi d'Europa", "aristocrazie su basi di ferro" che avevano saputo superare indenni le devastanti stagioni della rivoluzione e dell'impero (16)....