Comun, Arengo, Concio, Mexoevo, Istitusion

Re: Comun, Arengo, Concio, Mexoevo, Istitusion

Messaggioda Berto » gio nov 30, 2017 3:08 pm

Tra federalismo, secessione e piccole patrie
30/11/2017
di ENZO TRENTIN

http://www.lindipendenzanuova.com/tra-f ... e-patrie-2

Dalla drammatica ondata degli spostamenti di grandi masse verso l’Europa sottoposta a una costante pressione sulle sue frontiere più aperte come quelle italiane, si capisce agevolmente come sia divenuto assolutamente centrale la questione dei poteri locali e della cittadinanza: di chi possa dirsi tale e di chi debba e possa in definitiva decidere i problemi quotidiani che più investono la vita del cittadino. Devono essere dei nostri rappresentanti lontani, concentrati in «Roma ladrona», cui è stata conferita una delega sostanzialmente in bianco, o non dovranno essere piuttosto dei politici cittadini come noi, che operino localmente, sotto il nostro controllo quotidiano? E anche laddove territori come il Veneto o la Lombardia (o altri che vi aspirano) arrivassero all’indipendenza, come risolveranno il problema testé esposto? Affidandoci ancora alla cosiddetta “rappresentanza”? Perciò anche il problema della città e della cittadinanza, già aperto sul piano storiografico, ha ripreso consistenza e attualità, mentre si profila come soluzione possibile quella del potere locale: come dare un nuovo ruolo e più penetranti poteri alle città nel più ampio e ridisegnato contesto?

Il federalismo di aeree geografiche e/o di città-Stato, è di conseguenza balzato all’attenzione pubblica come mai prima, anche perché si parla di modelli concreti esistenti e funzionanti all’estero come Amburgo e Berlino (ad esempio), oltreché dei tradizionali cantoni svizzeri, a volte basati ancora sulla democrazia assembleare diretta (Landesgemeinde), o dei tradizionali «Stati» americani nati dalle colonie inglesi. Questi esempi non vengono più sentiti oggi (ce lo dice la fortuna di Tocqueville, ad esempio) come relitti del passato, ma come modelli possibili di organizzazione del potere nel presente: è la via, cioè, della grande responsabilità assegnata alla classe dirigente locale e alla cittadinanza che la esprime.

Osserviamo, allora, per sommi capi come nasce la civiltà Comunale. Il Comune è una forma di governo locale che interessò in età medievale vaste aree dell’Europa occidentale ma che ebbe origine in Italia centro-settentrionale attorno all’XI secolo, sviluppandosi, poco dopo, anche in alcune regioni della Germania centro-meridionale e nelle Fiandre. Si diffuse successivamente (in particolare fra la seconda metà del XII e il XIV secolo) con forme e modalità diverse anche in Francia, Inghilterra e nella penisola iberica. In Italia, culla della civiltà comunale, il fenomeno andò esaurendosi fin dagli ultimi decenni del XIII secolo e la prima metà del secolo successivo, con la modificazione degli equilibri politici interni, con l’affermazione sociale di nuovi ceti e con la sperimentazione di nuove esperienze di governo (signoria cittadina, come prosecuzione del fenomeno podestarile che tratteremo in futuro). In Italia, quanto meno dal punto di vista teorico, le città erano sottoposte all’autorità suprema dell’imperatore: questo è il punto di partenza per comprendere la dinamica storica che accompagnò lo sviluppo del Comune in Italia e le lotte che esso dovette sostenere per affermarsi.

Una di tali lotte fu indirettamente originata da Ottóne di Frisinga. Costui nel 1138 divenne vescovo di Frisinga; partecipò alla crociata con l’imperatore Corrado III (1147-49) e accompagnò poi Federico Barbarossa, di cui era lo zio, nella sua prima discesa in Italia. Meglio conosciuta è l’opera di Ottone “Gesta Friderici imperatoris” (Imprese dell’Imperatore Federico), scritta per desiderio di Federico Barbarossa, e introdotta da una lettera dell’Imperatore stesso all’autore. Inoltre, la sorella di Ottone, Giuditta, era andata in sposa al marchese Guglielmo V del Monferrato. Ottone era quindi imparentato con le più potenti famiglie della Germania e dell’Italia del nord.

Contestualmente bisogna tener presente che sin dagli albori della storia la società dell’uomo era stata dominata da un principio politico indiscusso e indiscutibile, addirittura sacro: nessuna comunità poteva nascere, sopravvivere e crescere senza che un monarca la reggesse, ovviamente per diritto divino. E allora, ai fini della nostra trattazione, arriviamo ad un giorno del 1143 in cui Otto von Freising, ossia Ottone di Frisinga, durante un viaggio scoprì – assai scandalizzato, ci dice il professor Quentin Skinner di Cambridge – che quel sacro principio in Italia era stato violato. Nel nord della Penisola infatti le città si governavano da sole.

Era successo che lì, intorno all’anno Mille e per la prima volta nella storia allora nota, i sudditi si erano ribellati alla signoria, ad ogni forma di signoria laica o religiosa che fosse, e si erano trasformati in cittadini e costituiti in libero comune, privando per maggiore cautela, soprattutto in Toscana, la nobiltà di ogni diritto politico attivo e passivo (Mauro Aurigi in “il Palio o delle libertà” ci ricorda che Siena fu la più rigorosa di ogni altra città sotto questo aspetto, e la norma rimase in vigore fino alla caduta della Repubblica nel 1555). Non c’era più una plebe, ma un popolo capace di provare sentimenti nuovi e straordinari come l’amore per la città-patria, la fierezza di sentirsene cittadino pari a tutti gli altri e di sentirsene nel contempo, sempre insieme agli altri, padrone. Si trattava, in sintesi, dell’orgoglio civico e di tutto il resto che oggi va sotto il nome di capitale sociale: il civismo, i pari diritti, la fiducia e il rispetto reciproci, la solidarietà, la cooperazione, tutto quello insomma che ancora, dopo quasi mille anni, distingue il nord dell’Italia da un sud a cui quell’aspirazione fu negata, talvolta soffocandola nel sangue. È questo spirito e non altro che sta alla base della vittoria sul Barbarossa nella battaglia di Legnano avvenuta il 29 maggio 1176, ad opera della Lega Lombarda formata da Milano, Ferrara, Piacenza e Parma, e dal 1º dicembre 1167 allargata tramite l’alleanza con la Lega Veronese ed altri Comuni, che portò nella Lega ben 26 (in seguito 30) città della pianura padana (che allora poteva essere definita ‘Lombardia’ nella sua totalità), tra cui Crema, Cremona, Mantova, Piacenza, Bergamo, Brescia, Milano, Genova, Bologna, Padova, Modena, Reggio nell’Emilia, Treviso, Venezia, Vercelli, Vicenza, Verona, Lodi.

Insomma quei cittadini erano animati da uno speciale spirito: combattevano per la libertà che essi stessi avevano determinato a statuire. Lo stesso spirito che in tempi recenti portò alla cacciata dei colonialisti francesi dall’Algeria il 19 marzo 1962, o alla evacuazione dai tetti di Saigon dei soldati USA il 30 aprile 1975. I liberi cittadini si autodeterminano. Nella cultura costituzionale di queste città infatti c’è la piena adozione del principio maggioritario per le votazioni assembleari, divergente dalla massima politica che proprio allora, traendo da un passo del Digesto di Giustiniano, sanciva che «quel che tocca tutti da tutti deve essere approvato» (quod omnes tangit ab omnibus adprobari debet), il famoso principio passato anche nell’Oculus pastoralis, divenuto fondamento precipuo del parlamentarismo medievale per ceti. Infatti, come scrive Mario Ascheri (Le città-Stato – ed. Il Mulino – 2006): «Nel turbinio dei conflitti tra impero e papato, i vescovi potevano essere imposti dall’esterno, e addirittura essere degli stranieri diretti rappresentanti d’un re tedesco.» Si ricorda sempre, a questo proposito, il luminoso esempio di Raterio, cacciato dai cittadini di Verona. In questa città, da sempre su un nodo viario assolutamente fondamentale, i cittadini arrivarono al punto di combattere per le piazze con tanto di caduti contro i Teutonici, com’è ben certo per il 996.

«I cittadini» prosegue Mario Ascheri «si dotano quindi di […] statuti come raccolte di regole complessive del diritto cittadino, perché la città per garantirsi doveva predisporre un programma di governo quanto più esaustivo e preciso, facendo tesoro degli errori maturati, oltreché riunire in un unico testo per comodità di giudici e litiganti le normative di diritto sostanziale e processuale divenute tradizionali. Negli statuti rimaneva per lo più ferma la parte ormai tradizionale, di diritto privato, penale e processuale, ma aggiornava alle mutate esigenze la parte che oggi diremmo politica, costituzionale e amministrativa – con tanto di impegni precisi in tema di accordi diplomatici, di lavori pubblici, di esazione fiscale e così via. […] La revisione annuale dello statuto divenne quindi un momento alto e delicato della politica in città, perché una commissione incaricata, di solito mista di «politici» e di giuristi e notai per assicurare veste tecnico-giuridica alle scelte politiche, doveva dare una valutazione complessiva, dei problemi emersi in passato e prospettare i contenuti di un vero programma di lavoro […] Conoscere i personaggi membri di quelle commissioni – purtroppo raramente conservati per la mancanza di registri comunali amministrativi preservati almeno fin verso la metà del Duecento – vorrebbe dire poter identificare il nucleo ristretto del ceto dirigente.»

Sono temi o dimenticati o ignoti al pubblico più vasto, pur tempestato di parole sul federalismo, l’autonomia, l’autodeterminazione, l’indipendenza, la secessione. Temi che dobbiamo invece recuperare – unitamente allo spirito civico di cui sopra s’è detto – in questa sede vedendone le lontane origini prettamente medievali e tipicamente italiane con alcune implicazioni per il dibattito culturale ed istituzionale attuale, facendone pertanto oggetto di un esame tanto colto quanto serenamente propositivo.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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