Comun, Arengo, Concio, Mexoevo, Istitusion

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Messaggioda Berto » lun dic 30, 2013 7:20 am

Comun, Arengo, Concio, Mexoevo, Istitusion
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Medhoevo/Mexoevo
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El pluraleixmo juredego entel mexoevo oruropeo
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Gli antichi e il medioevo - i łivri ke łi łexeva e studiava-
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Arte, erudision e coultura
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Arengo - Arena 1 (rena, jara, giara, sabia) e Arena 2 (hara, arengo ?)
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Falbarie so' el mexoevo
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Re: Comun

Messaggioda Berto » lun dic 30, 2013 7:22 am

AUTOGOVERNO E MODERNITA’ DELLA CIVILTA’ COMUNALE


http://www.lindipendenza.com/autogovern ... 9-comunale

di ENZO TRENTIN

L’istituzione comunale sorge in Italia nell’XI secolo, laddove gruppi di cittadini o di abitanti del contado si danno degli ordinamenti giuridico-politici autonomi, sottratti al controllo della feudalità laica e/o ecclesiastica.

Il Comune è un organismo statale (città-stato) in cui si attuano forme di autogoverno politico: esso ha un ordinamento repubblicano, in quanto la fonte del potere risiede nell’assemblea popolare. L’esercizio dell’autogoverno è collegiale e soggetto a pubblici controlli. All’origine della formazione del Comune sta un atto associativo di natura privata, giurata e volontaria, costituito per tutelare, inizialmente, solo gli interessi e diritti di ciascuno dei singoli associati. Col tempo l’associazione, mirando a estendersi, forzatamente, a tutti gli abitanti della città o borgo, cominciò ad esercitare funzioni pubbliche. Il patto comune e giurato di solito veniva fissato in Charte o Statuti che avevano carattere obbligante per tutti i contraenti e costituivano il fondamento giuridico-politico (costituzionale) del Comune, che stabilivano cioè i limiti entro cui i poteri della sovranità potevano essere esercitati. Questo soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, dove l’autorità dell’Impero germanico era più formale che reale. Nell’Italia meridionale (normanna) e nei paesi europei, ove le monarchie erano già abbastanza forti, la rinascita della vita cittadina non portò a forme di autogoverno politico, ma solo a forme di emancipazione economica, di sviluppo amministrativo e di affermazione di taluni diritti civili.

È una riflessione che dovrebbero fare i vari movimenti indipendentisti quando perorano questa o quella via alla creazione di un nuovo Stato, ma non prefigurano a priori nessun ordinamento specifico.

Nella società feudale il governo signorile trovava la sua fonte nell’atto d’investitura da parte del sovrano: l’autorità si giustificava solo se veniva riconosciuta dall’alto. Viceversa, nella società comunale l’autorità procede per investitura popolare, in quanto il popolo è chiamato a raccolta in assemblee periodiche. Fino all’XI secolo tali assemblee erano convocate per compiti puramente amministrativi e consultivi dal vescovo-conte o dal signore del contado. Nel Comune invece l’assemblea esercita poteri legislativi, deliberativi, elettivi (elegge i supremi magistrati del potere esecutivo) e controlla l’esercizio dei poteri e l’amministrazione civile. Vi è quindi una sorta di democrazia politica, anche se col termine “popolo” va inteso solo il ceto dei notabili, cioè quei cittadini più in vista nella vita civile e politica, per censo o ruolo sociale: i nobili (magnati), cioè i piccoli feudatari che avevano contribuito a fondare il Comune; il popolo grasso (grande borghesia, industriale o commerciale, organizzata nelle Arti Maggiori), che a poco a poco si sostituirà ai nobili nel governo della città. Il popolo minuto (media e piccola borghesia, artigiani, organizzati nelle Arti Medie e Minori), insieme alla plebe-operai salariati, aspirava a partecipare al governo della città. Con il tempo, e non ovunque, l’assemblea popolare diviene l’evoluzione del potere esecutivo.

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In quel lasso di tempo il ‘diritto divino’ fu contestato in primo luogo da Marsilio da Padova (per questo la chiesa lo perseguitò) nel Defensor Pacis, (“difensore della pace”. La sua opera più conosciuta), scritto nel 1324, dove tratta, fra l’altro, dell’origine della legge. Marsilio sostiene che è la volontà dei cittadini che attribuisce al Governo, Pars Principans, il potere di comandare su tutte le altre parti, potere che sempre, e comunque, è un potere delegato, esercitato in nome della volontà popolare. La conseguenza di questo principio era che l’autorità politica non discendeva da Dio o dal papa, ma dal popolo, inteso come sanior et melior pars.

Parimenti va considerato Bartolo da Sassoferrato che fu il giurista probabilmente più insigne del medioevo, nato appunto nella cittadina vicina ad Ancona e vissuto nel XIV secolo, professore all’Università di Pisa ed in Polonia, ma apprezzato enormemente in tutta l’Europa. Egli nel trattare la materia faceva attenzione a evidenziare lo spirito di una legge piuttosto che la formula. Proprio di questo periodo fu il passaggio, soprattutto nella nostra penisola, da un potere tutto sommato “legittimo e scevro da assolutismo” (il Comune) ad un potere decisamente più arbitrario e spesso nemmeno legittimato se non dalla forza delle armi (la Signoria), per Bartolo le tesi del diritto romano dovevano essere quindi utilizzate per contrastare una scelta che sarebbe andata contro “l’elezione popolare” nella questione della successione al trono in favore di quella di derivazione divina che in pratica decretava l’ereditarietà.

Se questo può considerarsi il contesto generale, come in ogni dove c’è un modo di vedere il bicchiere mezzo pieno, ed un altro per vederlo mezzo vuoto. I due brani che seguono sono citati da M. Th. Lorcin in: Société et cadre de vie en France, Angleterre et Bourgogne (1050-1250), SEDES, Parigi 1975:

Alla fine del secolo XII, Richard Devize, monaco di Winchester, parla così dei londinesi e della loro città: «Questa città proprio non mi piace. Riunisce persone di ogni specie, che vengono da tutti i paesi possibili; ogni razza vi porta i propri vizi e i propri usi. Nessuno può vivervi senza macchiarsi di qualche delitto. Ogni quartiere sovrabbonda di rivoltanti oscenità [...]. Quanto più un uomo è scellerato, tanta più considerazione gode. Non mescolatevi alla folla degli alberghi [...]. Infiniti vi sono i parassiti. Attori, buffoni, giovanotti effeminati, mori, adulatori, efebi, pederasti, ragazze che cantano e ballano, ciarlatani, ballerine specializzate nella danza del ventre, stregoni, gente dedita all’estorsione, nottambuli, maghi, mimi, mendicanti: ecco il genere di persone che riempiono le case. Così, se non volete frequentare i malfattori, non andate a vivere a Londra. Non dico nulla contro la gente istruita, contro i religiosi o gli ebrei. Tuttavia ritengo che vivendo in mezzo ai furfanti, anche loro siano meno perfetti che in qualunque altro luogo…».

Guillaume Fitz Stephen, contemporaneo del monaco Richard, ha un’opinione ben diversa: «di tutte le nobili città del mondo, Londra, trono del regno d’Inghilterra, ha diffuso in tutto l’universo la sua gloria, la sua ricchezza, le sue mercanzie, e leva la testa al sommo. È benedetta dal cielo; il suo clima salubre, la sua religione, l’ampiezza delle sue fortificazioni, la posizione favorevole, la fama che godono i suoi cittadini, il decoro delle signore, tutto torna a suo vantaggio [...]. Gli abitanti di Londra sono universalmente stimati per la finezza delle maniere e dei costumi e per le delizie della tavola. Le altre città hanno dei cittadini; Londra ha dei baroni. Fra loro un giuramento basta a sedare una lite. Le donne di Londra valgono le Sabine...»

Come si diceva più sopra, dipende dall’osservatore, è in ogni caso la campagna che molto evidentemente ha alimentato l’espansione dei Comuni. È probabile che all’inizio (attorno ad Amiens, Macon, Tolosa, Firenze, ecc.) si dirigessero verso la città uomini agiati che erano attirati dalle sue libertà e dalle sue possibilità di ascensione sociale. Era ancora questo il caso nel contado fiorentino all’inizio del secolo XIII, secolo in cui le famiglie ricche davano alle altre l’esempio del successo cittadino; minoranza migratoria che si trova dappertutto e sempre.

È ugualmente certo che, dal secolo XII in poi, gli agiati erano preceduti, o seguiti, dai fuggiaschi, dai poveri, dagli straccioni che, con l’aiuto dell’espansione, divennero sempre più numerosi; i laboratori cittadini assorbivano l’eccedenza di popolazione dei villaggi, i figli dei contadini parcellari o anche (attorno a Pisa ed anche attorno a Beaucaire e a Saint-Gilles) gli agricoltori rovinati dal mercato urbano e dall’estensione dei pascoli sui terreni che producevano grano. L’area di attrazione urbana, tanto più era estesa quanto più il centro era attivo, tendeva dunque a raggiungere villaggi sempre più lontani, ma che, all’apogeo del mondo abitato, restavano inseriti nella regione. Verso il 1300 Arles resta una città provenzale, Amiens piccarda e Lione franco-provenzale; solo le metropoli commerciali, politiche o universitarie contano un numero importante di forestieri; ma dappertutto l’effettivo dei nuovi arrivati supera largamente quello degli originari del luogo (in certe parrocchie di Pisa, verso il 1260, gli immigrati sono dal 50 al 66 per cento).

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Non che le grandi famiglie siano sconosciute in città, o che la coscienza di lignaggio vi sia precocemente venuta meno; il lignaggio domina la vita sociale e politica delle città mediterranee fino al secolo XIV almeno; nei secoli XI e XII ha rafforzato la sua consistenza, ravvivato la sua memoria genealogica, accresciuto il controllo del patrimonio, lottato per trasmettere al primogenito la domus magna e il governo del gruppo. A Firenze, Metz, Reims, Valenciennes, Verdun il potere s’identifica col lignaggio; «la famiglia secerne il potere come il potere secerne la famiglia» (H. Bresc). Minacciati o indeboliti, i lignaggi hanno determinato la creazione delle vaste parentele artificiali riunite sotto un nome totemico.

Il rapido rinnovamento dei gruppi dirigenti – ogni pochi mesi o una volta l’anno – la collegialità sistematica, dunque la larga ridistribuzione dei poteri che portano con sé, offrono a una maggioranza di confratelli l’occasione di adempiere a una funzione di sentirsi responsabile. In breve, il cittadino che fa parte di una confraternita è, nel suo gruppo, un cittadino o può diventarlo.

La storia delle città occidentali è intessuta di episodi di violenza, di spaventi o di rivoluzioni che hanno come posta l’onore familiare, la partecipazione ai consigli o le condizioni di lavoro. In altre parole, molti cittadini, anche se vissero lunghi e difficili periodi di tensione, sfuggirono agli orrori della sommossa e della repressione, ma tutti dovettero affrontare quasi quotidianamente un’atmosfera di violenza.

In altre parole, nella città socialmente gerarchizzata, l’individuo è tratto parecchie volte nella sua vita a giurarsi amicizia con uguali o con persone che pretendono di esserlo. Anche se le gerarchie non tardano a ricomparire, la dinamica sociale riunisce periodicamente dei volontari che temporaneamente credono all’uguaglianza. È questa la ragione per cui le sommosse cittadine non furono sempre dei semplici turbamenti, tutt’altro; prima di ritrovare le gioie della comunità primitiva, dell’età dell’oro, o del Millennio, molti (come il Comune di Damme nel 1280 i Ciompi di Siena o Firenze negli anni 1370, ecc.) desiderano far tappa in una città reale più giusta. Ma è soprattutto la ragione per cui, in definitiva, le sommosse furono tanto rare. Le reti di socievolezza cittadina integravano l’individuo a un tempo in un territorio, in catene di solidarietà tra persone che uguali non erano, e in accordi tra uguali; questi legami mascheravano le contraddizioni primordiali, temperavano gli urti, contenevano le spinte impetuose, elaboravano o difendevano infine una quantità di valori e di maniere di vivere, in breve, una cultura che tendeva a diventare comune al medio e al basso ceto. Grazie soprattutto alle loro confraternite i cittadini impararono a viver bene prima di morir bene.

Sono, per esempio, i vicini che, fino al secolo XIV, prendono in consegna il corpo del defunto col compito di accompagnarlo al cimitero parrocchiale. La documentazione permette di rado un’esatta misura dei diversi legami sociali intessuti all’interno del quartiere o della parrocchia; ma sembra che fossero sempre eccezionalmente densi. A Lione i battellieri e i salariati del quartiere Saint-Vincent sposavano (poco dopo il 1500) quattro volte su cinque delle ragazze della parrocchia. A Firenze, nel secolo XV, la maggior parte dei matrimoni si concludeva nell’ambito del «gonfalone» e anche uomini spinti a «uscire» dal quartiere dal livello della loro situazione economica e dalle ambizioni politiche sceglievano i padrini dei loro figli fra i loro vicini ed amici. La sepoltura parrocchiale infine ha di gran lunga il sopravvento, soprattutto fra la gente del popolo, sul fascino dei cimiteri degli Ordini mendicanti e nessuno dimentica la fabbriceria nelle sue ultime volontà (J. Chiffoleau, B. Chevalier).

La popolazione, in quanto massa, appare formata di cellule ristrette, di nuclei familiari di tenue densità; la famiglia cittadina è più ridotta della famiglia rurale; la sua stessa struttura la rende fragile, almeno negli strati medi ed inferiori. Rari sono i padri che possono maritare le figlie all’età della pubertà, fra i 12 e i 15 anni; l’età media si innalza a 16/18 (Firenze, Siena 1450), 20/21 (Digione 1450) e, agli allarmi di san Bernardino da Siena (secondo lui ci sarebbero state, a Milano, nel 1425: 20.000 ragazze da maritare) rispondono quelli del consoli di Rodez nel 1450 (60 ragazze di oltre i 20 anni ancora nubili per povertà su 265 famiglie). Sappiamo anche che gli uomini si sposavano tardissimo: a più di 30 anni in Toscana, verso i 25 a Tours e Digione, in un tempo in cui il livello di vita e le speranze di promozione sociale rendevano la sistemazione più facile che non uno o due secoli prima [...], Il matrimonio, in città come in paese, è dunque una «vittoria sociale». (P. Toubert) che costa cara, al termine di una prolungata giovinezza. Questo ritardo nel matrimonio preoccupava i notabili che ci vedevano il germe di peccati innominabili e che affettavano di ignorare che era il solo mezzo per gli umili di non essere sommersi nella miseria. Quest’aspetto strutturale delle famiglie cittadine, già sensibile a Genova nel secolo XII (gli artigiani si sposano quando i genitori sono morti), ne porta con sé un altro: la frequente rottura tra coniugi; la durata media di un’unione, a Venezia, tra il 1350 e il 1400, presso i non nobili è di soli dodici anni (di sedici presso i nobili). Età matura e rotture: insieme alla fecondità decrescente delle donne, alla mortalità infantile che colpisce più duramente i poveri, all’aborto frequente (praticamente lecito a Digione fino a tre mesi) e alle pratiche contraccettive senza dubbio sviluppate nelle città italiane (ma ignorate o rarissime nelle città francesi) spiegano lo scarso numero dei figli; mentre la differenza d’età fra marito e moglie fa della vedova una figura molto più familiare che in campagna.

Ma il matrimonio, molto spesso, fra gli artigiani modesti o gli operai è frutto di una scelta personale; questo per assenza di un patrimonio o di un’autorità paterna. La famiglia cittadina appare così più duttile, più fragile, e anche meno duratura della famiglia contadina. Anche le ‘fraterne’, più rare che nei villaggi e per la maggior parte stipulate temporaneamente, sono facilmente disciolte per volontà di uno del contraenti. La ricomposizione del lignaggio, così netta nella campagna, va in frantumi davanti alle mura e la famiglia artificiale è, nelle classi inferiori, contrattuale e di breve durata.

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Le «meretrici» erano state in un primo tempo sottomesse all’arbitrio e la fornicazione era stata considerata una colpa fondamentale. Nei fabliaux alla ragazza di facili costumi non si riconosceva il diritto di fondare una famiglia (M. T. Lorcin); nei secoli XIII e XIV i bordelli restavano ancora chiusi di notte, durante tutta la quaresima, e le città che gestivano la prostituzione pubblica erano rare. Dopo il 1350 le restrizioni si attenuarono, il marchio sul vestito si fece discreto, o addirittura sparì, i poteri municipali istituzionalizzarono la prostituzione. Attorno al 1400 a Venezia, a Firenze, un po’ dopo nelle città francesi, le autorità ne facevano un elemento del complesso dei valori civici, uno strumento di salute pubblica. E questo d’accordo coi curati.

Dopo la metà del secolo XIII, in effetti, i più lucidi dei teologi avevano considerevolmente attenuato la gravità della fornicazione semplice e, dopo il 1300, gli autori di trattati o di manuali di confessori sembrano situarla in qualche modo ai confini del peccato veniale. I chierici, nell’atto stesso di porsi dei problemi sulla validità del guadagno, sulla qualità del lavoro, dunque sulla tariffa delle meretrici, introducevano un elemento di misura e di razionalità nell’amore venale. Alla svolta dei secoli XIV e XV le idee più novatrici ebbero ragione dell’ortodossia dominante: i moralisti insegnavano che la carnalità era naturale, che andava vissuta nel matrimonio, ma, dato che raccomandavano un matrimonio ritardato, frutto di matura riflessione e del consiglio dei parenti, dato che denunciavano con accresciuta vivacità i peccati contro natura, in definitiva permettevano ai celibi di fornicare con le meretrici a condizione che cambiassero strada all’età del matrimonio.

Non c’è affatto da stupirsi dunque se san Bernardino da Siena non dice una parola dei bordelli senesi o fiorentini aperti o ingranditi di recente; se Frère Richard a Parigi non parla affatto della prostituzione; se i giovani, soli o in gruppo, vanno dietro i loro abati, con scoppi di gioia, nella Bonne carrière… i padri davano ai figli il danaro per le ragazze e per il vino.

Da questa rapida e per certi versi superficiale carrellata, si scopre che le persone nate fra il Mille e il Millequattrocento: la donna (mulier), il cavaliere (miles), il cittadino (urbanus), il mercante (mercator), il povero (pauper): non avrebbero inteso il significato della parola «intellettuale» (intellectualis) attribuita all’uomo istruito, ma vivevano in una realtà non molto dissimile dalla nostra, e per certi versi godevano di maggiori libertà che non noi cosiddetti democratici.

Qualcosa ci unisce e qualcosa ci divide dall’uomo medievale. Quello che dovrebbe contraddistinguerci non è tanto la consapevolezza di non poter arrivare alla verità, ma solo alla sua ombra, alla verosimiglianza, poiché in tutte le cose che esponiamo non dovremmo pretendere di definire la verità ma soltanto la nostra opinione.

Riferimenti Bibliografici

ChevaIier, B., Les bonnes villes de France, Parigi 1982.
Cohn, Samuel KIine, The Laboring Classes in Renaissance Florence, New York-Londra 1980.
Histoire de la famille, diretta da A. Burguière, Chr. Klapisch-Zuber, M. Segalen, Fr. Zonabend, Parigi 1986.
Histoire de la France urbaine, diretta da G. Duby, t. II, La ville médiévale des Carolingiens à la Renaissance, a cura di J. Le Goff, Parigi 1980.
J. Le Goff, L’Uomo medievale Parigi 1987.
Histoire de la vie privée, diretta da Ph. Ariès e G. Duby, t. II, De l’Europe féodal à la Renaissance, diretta da G. Duby, Parigi 1985 (trad. it., La vita privata, vol. II, Dal feudalesimo al Rinascimento, Roma-Bari 1987).
Le Goff, J., Pour un autre Moyen age, Parigi 1977; L’imaginaire médiéval, Parigi 1985; La bourse et la vie. Économie et religion au Moyen age, Parigi 1986 (trad. it., La borsa e la vita, Roma-Bari 1987).
Little, Lester K., Religious Poverty and the Profit Economic in Medieval Europe, New York 1978.
Jacques Rossiaud, Il cittadino e la nuova città. 1987
Muir, Edward, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton (N. J.) 1981.
Rossiaud, J., La prostituzione nel Medioevo, Roma-Bari 1984.
Trexler, Richard C., Public Life in Renaissance Florence, New York 1982.
Weissman, Ronald F. E., Ritual Brotherhood in Renaissance Florence, New York 1982.
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Re: Comun

Messaggioda Berto » mar dic 31, 2013 8:48 am

Il Podestà non sempre fu garante di “Libertas, Iustitia ed Aequalitas”

http://www.lindipendenza.com/il-podesta ... aequalitas

di ENZO TRENTIN

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Lo sviluppo a tutti i livelli verificatosi nelle città tra la metà dell’XI secolo e i primi decenni del XII, con l’affermazione di una forte coscienza cittadina, dotata anche di propri strumenti di formazione e rafforzata dai cerimoniali pubblici che vanno costruendosi in simbiosi con la chiesa locale (processioni, culto del santo locale, «fabbrica» della cattedrale con fondi comunali, ospedali sovvenzionati, università ecc.), è un dato di fatto che possiamo constatare con grande facilità nelle fonti documentarie. Quelle interne, grazie ai primi statuti e alle cronache pervenutici, e quelle esterne grazie alle registrazioni di viaggio di stranieri, e soprattutto di viaggiatori, arabi ed ebrei in primo luogo, o cronisti forestieri in visita, come il celebre vescovo Otto von Freising, ossia Ottone di Frisinga zio del Barbarossa. La città italiana appare in questi scritti come un luogo di meraviglie perché ricca di ogni mercanzia e abbellita da chiese, palazzi e strade frutto di impegnativi investimenti realizzati sotto la supervisione dell’autorità pubblica locale.

Il conflitto tra città e impero fu anche ricco di reminiscenze e di motivazioni classiche. Cicerone in particolare svolse un ruolo importante. Egli è stato uno degli scrittori più amati e praticati dal Medioevo cristiano, mentre gli studi di diritto romano potevano dare legittimità e smalto all’impero, ma al tempo stesso rinverdivano il passato delle civitates dotate di proprie consuetudines e di un proprio «diritto dei cittadini» (del luogo, non del regno), e per ciò detto ius civile. Del resto, i diplomi imperiali non avevano riconosciuto le consuetudini da sempre godute dalla città? Il re designato per la corona imperiale poteva pretendere il fodro (imposta-contributo necessario per il suo viaggio a Roma per l’incoronazione) ed eventuali altre regalie in caso di necessità, e rispondeva a un’esigenza di tutela dell’ordine da intendersi come rispetto degli equilibri raggiunti tra i poteri organizzatisi sul territorio. (1)

Ma dal punto di vista della città che si era fatta da sé, che si era fortificata e che aveva combattuto per la propria libertà con proprio sacrificio esclusivo, come poteva pretendere di più quell’imperatore per lo più assente, incapace di rispondere ai bisogni locali tutte le volte che la necessità si presentava? Essere fedeli poteva voler dire mandare truppe per una spedizione giusta, che ristabilisse l’ordine nel regno, ma non poteva anche voler dire accettare intromissioni nella vita interna della città che da tempo si era abituata all’autogestione e a trattare come proprio il territorio circostante. La crescita urbana e le responsabilità assunte localmente nel corso dei secoli X-XI rendevano inconcepibile un modello di impero che andasse al di là dell’istituzione competente per la tutela dell’ordine complessivo del sistema, mediante l’uso di un potere solo arbitrale tra realtà autonome e autoreferenti quali erano divenute le città. Ebbene, gli abitanti di queste “libere” città, imbevuti com’erano di cultura classica di origine romana (di Cicerone in particolare), andarono costruendo una scienza della politica comunale imperniata sulle pratiche del confronto per conquistare il consenso degli interlocutori.

Questo non significa che non vi fossero conflitti tra le varie componenti. Civis nei primi tempi di esperienze comunali complesse, poteva indicare uno strato sociale, contrapposto per un po’ di tempo e in quel caso ai milites e agli ecclesiastici. Ora, nel corso del XII secolo, con il pieno diffondersi del diritto romano “riscoperto”, non v’è più dubbio. Tutti i residenti abituali, al di là delle loro mansioni e funzioni sociali, divengono cittadini di questa o quella città, perché identificati e identificabili indipendentemente dal loro status sociale; non sono più sudditi di un Regno d’Italia sempre più evanescente, quando non nemico. Sono cittadini della civitas che già nel linguaggio romanistico indicava anche ogni ordinamento, al di là della città materiale; sono partecipi (anche fiscalmente, beninteso) di un soggetto politico nuovo. E ne sono consapevoli pienamente. Gli avversari politici, dunque, ci sono e possono essere zittiti da larghe maggioranze o dalla loro debolezza, che li rende incapaci di creare ostacoli agli avversari nel mondo comunale del XII secolo, quello in cui la vita pubblica è ancora poco formalizzata e circolano tanti armati e le loro clientele. Ma gli oppositori hanno ugualmente per gli stessi motivi larga libertà di movimento, che può sfociare in colpi di mano, in tentativi violenti di rovesciare gli attuali equilibri politici in città. Ecco allora emergere la figura del Podestà, visto come un manager forestiero e quindi estraneo agli interessi locali, un primus inter pares in città capace di assicurare il «buon governo» stando a colloquio costante con le varie articolazioni della società cittadina; ma con precise cautele: l’obbligo di non prendere regali da nessuno, come anche di non andare a mensa con certi cittadini, comportamenti che avrebbero discriminato l’uguaglianza dei cives, oggi diremmo anche la loro par condicio.

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Le origini storiche del Podestà non sono chiare e neppure è da pensare a un’unica origine: è da ammettere che in alcune città vi si sia arrivati attraverso un’evoluzione del consolato, in altre si sia trattato di creazione nuova, a imitazione della dittatura romana o del baiulo meridionale. Nel periodo di piena affermazione dell’istituto (XIII e XIV sec.), esso si presentava con alcune caratteristiche costanti, come l’unicità e la temporaneità della carica (che variò, di regola, da due anni a un semestre). Quanto alla nomina, inizialmente forse il Podestà fu designato dal predecessore; più tardi fu acclamato dall’arengo o nominato dal consiglio maggiore o da un collegio di ufficiali comunali assistiti da sapientes. Per lo più nobile o di posizione sociale eminente, uomo d’armi o giurista, il Podestà doveva costituire la propria curia e familia (giudici, notai, milites ecc.) con elementi forestieri, che portava con sé e pagava del suo. Il suo ingresso solenne in città e la consegna del bastone segnavano il passaggio dei poteri. Le attribuzioni del Podestà coincidevano in parte con gli antichi poteri del conte, al quale il Comune si era sostituito; la sua funzione principale era quella giudiziaria, esercitata direttamente o delegata ai suoi giudici. Allo scadere della carica, il Podestà e i giudici dovevano restare in città per essere assoggettati al sindacato.

Gli stessi statuti come raccolte di regole complessive del diritto cittadino furono incentivati dal nuovo istituto, perché la città per garantirsi doveva predisporre un programma di governo quanto più esaustivo e preciso per il nuovo Podestà, facendo tesoro degli errori maturati, oltreché riunire in un unico testo per comodità di giudici e litiganti le normative di diritto sostanziale e processuale divenute tradizionali. Perciò in questo periodo gli statuti erano rivisti annualmente, e i politici più accreditati della città dovevano aggiornare il programma di governo per il Podestà del nuovo anno. Il Podestà era responsabile di fronte ai cittadini e per essi al Comune cui aveva giurato del proprio operato. (2) E tale responsabilità poteva esser fatta valere – oltreché nei consigli durante l’anno – normalmente alla fine del mandato, in quei pochi giorni in cui invece di pagargli l’ultima rata dell’onorario, per sé e la familia, lo si sottoponeva controllo di un’apposita commissione di cittadini. Era un vero e proprio processo durante il quale venivano esaminate le denunce anche anonime raccolte contro di lui e i suoi ufficiali per fatti o omissioni di cui venivano indicati come colpevoli e per i quali quindi si chiedeva il risarcimento o almeno un intervento punitivo. E non a caso il compenso al Podestà avveniva tramite un anticipo ad inizio mandato, ed un saldo – laddove giustificato – alla conclusione del suo contratto.

Nella pratica il Podestà esercitava i poteri esecutivo, di polizia e giudiziario divenendo di fatto il più importante strumento di applicazione e controllo delle leggi, anche amministrative. Non aveva, invece, poteri legislativi né il comando delle milizie comunali che veniva affidato al capitano del popolo. Con il passare degli anni la carica di Podestà divenne un vero e proprio mestiere esercitato da professionisti che cambiavano spesso sede di lavoro e ricevevano un regolare stipendio. Questo continuo scambio di persone e di esperienze, con il passare del tempo, contribuì a fare in modo che le leggi e la loro applicazione tendessero a diventare omogenee in città anche distanti tra loro, ma nelle quali avevano governato gli stessi Podestà. A volte la loro professionalità era universalmente riconosciuta, tanto che a Bologna, caso unico al mondo, hanno persino avuto preziosi sepolcri esposti nelle pubbliche piazze. A indicare la strada dell’eccellenza, un modello di sapienza civile, per la città, per la collettività e la sua libertà.

Tuttavia alcuni fecero eccezione. È il caso del bolognese Nicolò dei Bazaleri, da considerarsi il peggior nemico di Vicenza. Questo Podestà, insediatosi nel settembre del 1262 a Vicenza, stravolse gli Statuti comunali della “Città Stato”, determinando il declino delle sue “libertas”, “iustitia” ed “aequalitas” civiche. Esattamente quanto fanno oggi i partiti politici, che chiamati dal popolo ad esercitare la democrazia, ne stravolgono (con la legalità, ma senza la legittimità) i princìpi e la sostanza.

Il Comune di Vicenza aveva anch’esso le famiglie dei magnates – molti dei quali si erano ritirati nei loro castelli rurali – ma erano tuttavia una minoranza nel nuovo organismo di governo. Il Consiglio dei Dodici, infatti, era composto per i due terzi dai rappresentanti delle arti e mestieri. Il primo obiettivo del Comune fu quello di recuperare tutti i beni pubblici, ma anche privati, che erano stati confiscati o acquisiti dai da Romano d’Ezzelino (il “Tiranno” Ezzelino) e a tal fine fece compilare nel 1262 il Regestum possessionum Communis Vincenciae, prezioso documento dal quale è possibile ricostruire con molta precisione la situazione urbanistica del tempo. Esso attesta una nuova concezione del bene pubblico e dei poteri del Comune, per la prima volta concepito come un governo di popolo, che esercita la piena sovranità e giurisdizione su tutte le persone e le proprietà demaniali del territorio: un vero stato-città.

Tuttavia anche a Vicenza, come altrove, c’erano delle famiglie più sostanziose che si segnalavano e distinguevano entro la generalità della cittadinanza tradizionale per ricchezze e cultura, con tanto di proiezioni materiali: i palazzi, le cappelle private nelle chiese, castelli o ville-azienda nel contado. Si tratta del livello sociale che divenne ovunque un elemento di tensione permanente nel mondo repubblicano. Questo non era o non doveva essere quello delle pari opportunità, dei sorteggi, dell’uguaglianza formale tra pari. Gli equilibri interni all’establishment iniziano a vacillare. Sono le stesse tensioni che consentirono a politici consumati, capaci di interpretare le varie anime del ceto dirigente, di farsi arbitri del gioco politico e perciò di disciplinare quelle tensioni: Cosimo il Vecchio prima e poi Lorenzo de’ Medici a Firenze, i Bentivoglio a Bologna, i Baglioni a Perugia, solo per citare qualche esempio. Da quel 1262 Vicenza passerà di mano in mano alle signorie: dai veronesi Della Scala, ambita e soggiogata dai Carraresi padovani, conquistata dagli Sforza milanesi, per poi trovare la sua “stabilità” a partire dal 1404 anno della sua “dedizione” (3) alla Repubblica di Venezia di cui seguirà le sorti sino alla caduta nel 1797. Per inciso, in quel 1404 Venezia si trovò improvvisamente proiettata in un’ottica di potenza terrestre, padrona dell’intero Veneto. Era nato il Dominio di Terraferma della Serenissima.

Se una lezione vogliamo apprendere dal passato, essa e quella relativa alla delega, considerando che libertas, iustitia ed aequalitas erano condizioni della partecipazione civica di tutti i cittadini. In una società ben ordinata ed emancipata, la virtù civica, com’è nella secolare tradizione sviluppatasi nell’Italia centro-settentrionale, deve essere la norma, e i comportamenti negativi o dannosi devono essere l’eccezione. Premiare a proprio “rappresentante” il miglior affabulatore, quello che parla per slogan anziché comunicare o il più disinvolto, o il più ammanicato con parentele, cosche e logge, come si tende invece a fare oggi, significa sottolineare come eccezionali i comportamenti positivi e normali quelli negativi: un chiaro sintomo di una società malata o, in ogni caso, involuta sul piano civile.

* * *

NOTE:

(1) Ibidem «Le Città-Stato» di Di Mario Ascheri – Edizioni il Mulino – 2006

(2) idem c.s.

(3) “Dedizione”: una forma di assoggettamento alla Serenissima, la quale in cambio si impegnava a rispettare e salvaguardare attraverso lo Statuto buona parte delle leggi e delle magistrature precedenti.


Noda mia:

Si si enteresante ma:
1) ghe xe màsa “exaltasion” de la romanetà (enfloensa, dirito, istitusion, aotori/xletrani, lengoa) e de l’aporto de le istitusion de epoca romana;
2) xe poketa, scarsa o coaxi asente l’aporto rilevante de la coultura e de le istutision/tradision xermane; el periodo mexoeval de enfloensa xermana el dura dai do ai tre secoli pì de coelo roman (900 ani el periodo xerman, 6/700 ani el el periodo roman;
3) manca dal tuto l’aporto de le tradision/istitusion milenare taleghe: etruske, venete, çelte, osco-unbre;
Saria da verefegar se vanti del 1000 Cicerone el vegneva leto e studià.
Manca anca on coadro de la situasion ouropea co cu confrontar l’ara talega endove ke le comounedà e le çità xermane no le xera çerto da manco en fato de valori de lebartà e de virtù çeveghe
Mi credo ke ghe sia longo la storia e li milegni on filo ke no scuminsia de çerto co Roma, la romanetà e i romani e ke longo li milegni e li secoli el se ga entreça co tanti aporti etno-coulturali tra cu anca coeli romani e xermani.



Medhoevo/Mexoevo
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https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... NHNWM/edit

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http://www.filarveneto.eu/mexoevo
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El pluraleixmo juredego entel mexoevo oruropeo
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Gli antichi e il medioevo - i łivri ke łi łexeva e studiava-
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... BMMDQ/edit

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Etruski: etimoloja, xenetega e storia
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La Coultura no la xe lomè coela scrita, la pì' parte lè a vista o oral.
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Re: Comun

Messaggioda Berto » mar dic 31, 2013 4:43 pm

Istitusion Venete
http://www.filarveneto.eu/iv

Istitusion Venete - Storia
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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... arengo.jpg

Arengo
Arena 1 (rena, jara, giara, sabia) e Arena 2 (hara, arengo ?)
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... FtUGs/edit
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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... esiana.jpg

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Veronexe, istitudi de li ani xermani pricomounali: arimania, maxnada, famuli, vicinia, ...
https://picasaweb.google.com/pilpotis/V ... uliVicinia
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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 11/222.jpg



Kisà se tra el potestà/podestà mexoeval e el pilpotis venetego ghè on ligo.

http://books.google.it/books/about/Dal_ ... edir_esc=y

Eiscrision venetega:
(Pava 9 -so' on sàso)
-pilpoϑe.i.kuprikoniio.i.
pilpote.i. kuprikoniio.i.


??? Da I Veneti Antichi de Fogolari e Proxdoçimi (da le pagine sol lesego venetego)
pilpotei (dat.) < *pili-pot- (Pa 9) `signore della ‘*p°li-’ è nella posizione di nome individuale e, mentre può essere oculatamente utilizzato per una presenza di ie. *p°li ‘πόλις’ sull’asse genetico del venetico, non può essere invocato quale termine funzionale nella terminologia civica, tipo sscr. viçpati, dampati, lituano viespatis etc. (cfr. Benveniste 1969 ‘Voc.’ I pp. 88-89, 295-296). ???

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La tratasion la seita kive:
viewtopic.php?f=85&t=286
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Re: Comun, Arengo, Mexoevo, Istitusion

Messaggioda Berto » ven gen 03, 2014 11:13 pm

Formazione e strutture dei ceti dominanti nel medioevo - MGH
A. Castagnetti, La società veneziana nel medioevo. II. Le famiglie ducali dei Candiano, ... e la famiglia comitale vicentino-padovana di Vitale ...
http://www.mgh-bibliothek.de/dokumente/a/a118887.pdf
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Re: Comun, Arengo, Mexoevo, Istitusion

Messaggioda Berto » mar feb 18, 2014 8:09 am

È giunto il tempo per i cittadini onesti di pensare ed agire

http://www.lindipendenza.com/e-giunto-i ... e-ed-agire

di ENZO TRENTIN

Con una buona approssimazione possiamo affermare che la cosiddetta civiltà comunale ebbe inizio a seguito di due eventi dirompenti del tempo sul piano politico e religioso: la restaurazione dell’impero e quindi dello stretto rapporto Germania-Italia, fondamentalmente nuovo rispetto al passato, e il dibattito sulla riforma della Chiesa, incentrato sulla possibile nuova funzione effettivamente direttiva del papato a livello europeo, favorita dall’eclissi della sede di Bisanzio per effetto dello scisma (tuttora operante, ma risalente), anch’esso negli anni decisivi intorno al 1054.

Tutto ciò comportò delle novità molto rilevanti, che si innestarono su processi già avviatisi nei decenni precedenti. I potenti in lizza tra loro per la corona d’Italia o per gli uffici pubblici maggiori (di marchese in particolare ma anche di vescovo, che era un «ufficio pubblico» nell’ottica del tempo) per conservare un legame con i poteri radicati nel territorio furono infatti costretti a largheggiare in concessioni di diritti pubblici – che tanto essi non avrebbero mai potuto esercitare effettivamente da lontano.

Di fronte all’incombere delle razzie ungare, ad esempio, i re d’Italia non seppero far di meglio che autorizzare con solenni diplomi questo o quel vescovo, questo o quel gruppo di habitatores, a fortificare il proprio insediamento. Il che fu ammissione di impotenza ma anche, si dirà, di saggezza, visto che non poteva farsi di meglio per rimanere presenti come publicum in «periferia». Solo che le concessioni furono fatte a titolo di donazione, cioè come alienazioni del patrimonio pubblico di diritti a favore dei poteri locali, che si sentirono perciò più forti e responsabili come si sentirono anche i poteri locali che avevano proceduto alla fortificazione senza alcun privilegio specifico dall’alto.

La debolezza del potere centrale portò, insomma, alla creazione di centri localmente autosufficienti, spesso anche ufficialmente «dotati», in quanto titolari di un proprio patrimonio di poteri pubblici garantiti dall’alto e apparentemente intoccabili da parte dei successori dei concedenti. Che detenessero o meno delle «doti», per così dire, quanto meno sul piano di fatto i poteri locali si configurarono a differenza di quanto avrebbe dovuto avvenire in età carolingia – in una miriade di situazioni differenziate, in dipendenza del diverso rapporto intessuto (o non) col potere superiore. Centri che comunque fecero un uso diverso dei poteri usurpati o concessi, e in quest’ultimo caso spesso anche un uso ben più largo di quanto formalmente concesso. Una situazione che favorì ancor più di prima la tendenza alla formazione di ceti dirigenti locali che si identificarono fortemente con la città, stringendosi generalmente attorno alla chiesa e al suo capo, fosse o meno anche conte in senso formale. (1)

Se questo sistema, nei secoli successivi, si espande e si afferma in Italia centro-settentrionale ed in altre parti d’Europa, non è però il sistema di governo allora prevalente sul continente, e quindi anche in Francia, ove negli anni ’60 del Duecento l’esule da Firenze Brunetto Latini, il famoso notaio maestro di Dante, nel suo Trésor, opera enciclopedica in francese, scriveva che le «signorie», cioè i governi, potevano essere di tre tipi. C’era «quella dei re, quella dei “buoni”, e quella dei “Comuni”». Aggiungendo subito dopo: «la quale ultima è la migliore di tutte» (2). Un mezzo secolo più tardi a Firenze lo stesso Brunetto, già cancelliere della repubblica, sarebbe stato ricordato come colui che aveva insegnato ai Fiorentini a «governare la nostra Repubblica seguendo la politica» (3).

Si tratta del quadro assiologico, l’orizzonte di valori, che verrà ancor più chiaramente teorizzato nel Trecento, da un Marsilio da Padova (uno dei primi scrittori a teorizzare la cosiddetta sovranità popolare, e per questo perseguito dalla chiesa) e da un Bartolo da Sassoferrato, il maggiore giurista del tempo. Quel che qui preme invece subito aggiungere è che questa teoria e prassi del governo «ascendente», dal basso verso l’alto (4), molto innovativa (potremmo dire democratica, e l’unica democratica in quel contesto urbano dato), non escludeva né il governo per delega a ristrette commissioni (balie per la guerra, per le imposte, gli statuti ecc.), né la faziosità e le esclusioni anche di massa. Aperture teoriche e formali e tentativi di controlli elitari o chiusure vere di fatto coesistevano contraddittoriamente nelle convulse vicende di quei decenni. Ma riconosciuta la contraddizione, c’è da chiedersi se essa non sia stata un altro elemento notevole, caratteristico e di modernità essa stessa di quel mondo politico-istituzionale che si reggeva all’insegna di libertas e aequalitas tra i cittadini.

Perché c’è l’idea della res publica, d’una entità che non appartiene a nessuno in particolare, a nessun privato e di cui va difeso l’honor, bene essenziale non solo della persona fisica, ma della città, essenziale nei suoi rapporti con i terzi, con le altre città, con i principi, i signori ecc. C’è quindi l’idea d’una sfera di diritti in qualche modo intangibili, fuori commercio, inalienabili. Diritti pertinenti a una realtà impalpabile, astratta, al di là delle persone dei singoli governanti, sempre rappresentanti pro tempore di essa, ma mai padroni; diritti pertinenti all’ente che noi oggi chiamiamo Stato e che non a caso viene individuato, riconosciuto, da chi in questa esperienza è vissuto.

Siamo agli antipodi del cosiddetto «Stato patrimoniale», a disposizione di un sovrano perché nel suo «patrimonio», e pertanto nella sua disponibilità. Il che concorre con un altro punto importante a costruire il profilo che oggi diremmo «secolare», laico, di queste istituzioni. Questi governi, proprio perché affermatisi grazie a sviluppi non previsti dal mondo della legalità monarchica, imperiale o pontificia, conservavano sempre un qualche profilo di illegalità, di novità eversiva, immotivata, anche quando destinatari di privilegi imperiali. Profili si confermavano platealmente quando le città si ribellavano ai poteri universali.

Nella cultura costituzionale di queste città infatti c’è piena adozione del principio maggioritario per le votazioni assembleari, divergente dalla massima politica che proprio allora, traendo da un passo del Digesto di Giustiniano, sanciva che «quel che tocca tutti da tutti deve essere approvato» (quod omnes tangit ab omnibus adprobari debet), il famoso principio passato anche nell’Oculus pastoralis ricordato, ma divenuto fondamento precipuo del parlamentarismo medievale per ceti.

Il terzo millennio è da poco cominciato, e la storia sembra riproporci l’antico quesito. L’Unione Europea e la sua moneta unica: l’€uro, hanno dimostrato come il sogno autenticamente federalista si sia ancora una volta dimostrato un incubo dove alle Signorie si sono sostituiti poteri economici tanto poco occulti, quanto nefastamente operanti. I rappresentanti pro tempore ed una burocrazia pervasiva ed inumana hanno reso insopportabile il vivere civile e la libera imprenditoria.

È giunto il tempo per i cittadini onesti, quelli che vivono del loro lavoro e non di un reddito pagato per mezzo delle tasse imposte da uno Stato insopportabilmente pauperistico, di pensare ed agire per quello che il Prof. Gianfranco Miglio definiva il neo-federalismo. Secondo Miglio «Il nuovo federalismo che sta dilagando in tutto il mondo, ha un’origine totalmente opposta rispetto a quella da cui nasceva il federalismo “tradizionale”. Mentre, ancora nel secolo scorso, il problema dominante era come fare di ogni pluralità di paesi minori un più o meno grande “Stato nazionale”, oggi la questione cruciale è come restituire, o assicurare, alle convivenze particolari il diritto a conservare e sviluppare la loro identità nel quadro dei sistemi economico-politici non dominati dai principi dell’unità o dell’omogeneità.»

Smettiamola, dunque, con i partiti sedicenti indipendentisti, i cui pseudo leader ambiscono ad essere eletti nelle istituzioni dello Stato dal quale pretenderebbero di secedere. Il poeta Pablo Neruda ebbe a scrivere: «La speranza ha due bellissime figlie: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle.» La storia è lì a dimostrarci che lo Stato italiano non si cambia dal suo interno. Del resto non è una novità. Lo stesso Charles De Gaulle, nel 1952, ebbe a constatare: «Le règime ne se transformera pas de lui-même. Cela n’est jamais arrivé dans notre histoire. Il faut un pression de l’éxtérieur.» Ed ancora Platone ci ammonisce con questa frase a nostro parere molto attuale «Il prezzo da pagare per il non interessamento nei confronti della politica è che si finisce coll’essere governati dai propri inferiori.» Che la partitocrazia italiota sia prevalentemente composta da personale “inferiore” (ed usiamo un eufemismo) non può che convincerci a rifiutare qualsiasi organizzazione che si presenta con le vesti e le operatività del partito politico.

* * *

NOTE:

1. «Le Città-Stato» di Mario Ascheri – Edizioni «il Mulino»
Li livres dou Tresor, n, 44, a cura di F. J. Carmody, Berkeley-Los Angeles, 1948, p. 211.
Così il ricordo che ne fa il cronista Giovanni Villani; si veda ad esempio Q. Skinner, Machiavelli’s Discorsi and the Pre-humanist Origins of Republican Ideas, in Q. Skinner et al., Machiavelli and Republicanism, Cambridge, 1990, pp. 121-141, oltreché ora E. Artifoni in «Roncioniana», 2006.
Di cui con grande acume ha cominciato a segnalare l’interesse nella storia delle dottrine politiche Walter Ullmann e sulla quale cfr. ora N. Rubinstein. Le origini medievali del pensiero repubblicano del secolo XV, in Adorni Braccesi e Ascheri (a cura di), Politica e cultura, cit., pp. 1-20.
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Re: Comun, Arengo, Mexoevo, Istitusion

Messaggioda Berto » ven feb 28, 2014 2:22 pm

Ła naseda del Comoun de Venesia ła xe parałeła, coeva o memoan de ła naseda de altri Comouni ente ła tera veneta e ente l'ara tałega.

viewtopic.php?f=137&t=629


Cronołoja de Venesia
http://it.wikipedia.org/wiki/Cronologia_di_Venezia

Ano 1143
Si istituisce il Commune Veneciarum, cioè il gruppo delle antiche famiglie aristocratiche, che partecipano del governo ducale: inizia l'elezione da parte dei sestieri del collegio dei Savii, consiglio permanente del Doge, composto di 35 membri con l'incarico di controllarne l'attività.

El Comoun Venesian e ła Concio
viewtopic.php?f=137&t=1835
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Re: Comun, Arengo, Mexoevo, Istitusion

Messaggioda Berto » dom mar 02, 2014 1:41 pm

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Re: Comun, Arengo, Mexoevo, Istitusion

Messaggioda Berto » mer lug 23, 2014 9:15 pm

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Re: Comun, Arengo, Mexoevo, Istitusion

Messaggioda Berto » mar ago 05, 2014 11:40 am

Touta/teuta, trabs/treb/tribus, opida, vico/vigo, pago/pagus, viła, viłàjo, paexe, dorf, borgo, çità, muniçipo, mansio/maxo, corte, comun

viewtopic.php?f=172&t=990
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