El motor de ła regnasensa carołinga

El motor de ła regnasensa carołinga

Messaggioda Berto » sab ott 10, 2015 6:05 am

El motor de ła regnasensa carołinga
viewtopic.php?f=136&t=1902
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: El motor de ła regnasensa carołinga

Messaggioda Berto » sab ott 10, 2015 6:09 am

http://www.medioevo.it/rivista/2014/Ott ... rinascenza

Il motore della «rinascenza» di Federico Marazzi

A che cosa fu dovuta la straordinaria fioritura economica dell’impero carolingio? Determinante fu, di certo, lo sfruttamento delle risorse agricole, gestite da proprietari grandi e piccoli e, spesso, anche dagli stessi monasteri. Non meno importante, però, fu lo sviluppo delle attività commerciali, condotte anche a raggio molto ampio, fino alle favolose terre dei califfi...

Come in ogni epoca anteriore a quella contemporanea, anche nell’Europa carolingia la ricchezza derivava sostanzialmente dal possesso della terra. Chi piú ne possedeva piú poteva ambire a primeggiare. Le aristocrazie laiche ed ecclesiastiche del mondo franco erano considerate tali perché possedevano grandi patrimoni fondiari su cui lavoravano (spesso in condizioni miserabili) masse di contadini, la cui opera forniva ai signori le rendite necessarie per vivere in agiatezza. Per i signori laici questo significava anche e soprattutto poter disporre di risorse necessarie per allestire e mantenere le clientele che avrebbero dovuto affiancarli, soprattutto sui campi di battaglia.
Per i rappresentanti delle principali istituzioni ecclesiastiche (vescovati e monasteri), ciò si traduceva nella possibilità di conferire sempre maggior splendore alle sedi (chiese e residenze) del loro magistero spirituale. Con ciò essi indirettamente glorificavano anche i sovrani, in quanto patroni e protettori delle loro imprese architettoniche. Ma le rendite tratte dai patrimoni fondiari permettevano anche agli alti ecclesiastici di partecipare – al pari degli aristocratici laici – alle campagne militari, fornendo al sovrano vettovagliamenti, quando non anche propri contingenti di uomini armati.
Pipino, Carlo e ancora i successori di quest’ultimo selezionarono con attenzione i gruppi familiari e le istituzioni ecclesiastiche a cui – per ragioni politiche, strategico-militari o di vicinanza familiare – accordare maggiormente il proprio favore. E il favore, come abbiamo visto, si concretizzava in attribuzioni di cariche e largizioni di terre. Date le dimensioni assunte dal regno e poi dall’impero franco, questo determinò il formarsi di potentati che, pur non potendo rivaleggiare con il re, quanto a mezzi economici e influenza politica, assunsero una rilevanza e un respiro territoriale inediti per i secoli successivi alla caduta dell’impero romano.
Come abbiamo visto, la gestione di questi immensi patrimoni fondiari da parte dei maggiori esponenti dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica forniva loro rendite che erano innanzitutto investite direttamente per il mantenimento di clientele e residenze, ma generava anche surplus che permettevano iniziative piú ambiziose, quali la ricerca di beni rari e preziosi che nell’Europa del tempo non erano disponibili, ovvero la promozione di attività intellettuali.

Affari e mecenatismo
Una conseguenza di tutto ciò fu, soprattutto per quanto riguarda i signori ecclesiastici, la possibilità di investire risorse fino ad allora impensabili nella produzione di libri, che contenevano sia testi di autori contemporanei, sia di autori antichi (cristiani e non). Gli esemplari piú antichi, giunti sino a noi, delle opere di letteratura, filosofia, scienze applicate prodotte in età romana risalgono, non a caso, proprio al tempo di Carlo Magno e dei suoi immediati successori. Ciò è il segno del fatto che in quel periodo fu possibile mobilitare uomini e mezzi per intensificare in modo significativo la copiatura di quei testi, utilizzando manoscritti piú antichi poi andati perduti.
La cosiddetta «rinascenza carolingia», che produsse i suoi effetti in ogni campo delle manifestazioni artistiche e culturali fu dunque resa possibile dalla felice concomitanza di diversi fattori. I piú importanti possono essere considerati il clima ideologico che voleva richiamare in vita l’età d’oro dell’impero di Roma e la sua cultura, la possibilità – certamente riservata a una ristretta minoranza di soggetti, politicamente assai influenti – di disporre di accumuli di capitale notevolissimi e la maggiore facilità con cui cose e persone potevano circolare, grazie all’unificazione politica di cui l’Europa occidentale, dopo piú di tre secoli, poté di nuovo godere per alcune generazioni.
Tuttavia, come dicevamo, questi cambiamenti influirono positivamente sulla vita di una ridotta percentuale della popolazione. La schiacciante maggioranza di essa era infatti costituita dalle masse contadine le cui condizioni di vita, in questo periodo, non solo non conobbero particolari miglioramenti, ma forse divennero addirittura piú dure e faticose. ???
Studi condotti sui contratti agrari dimostrano, infatti, che il rovescio della medaglia delle note positive appena ricordate fu rappresentato sia da una radicalizzazione del processo di concentrazione della proprietà agraria in poche mani, sia dal fatto che la popolazione rurale conobbe spesso regimi di sfruttamento piú duri, che dovevano servire ad assicurare ai signori le rendite necessarie all’attuazione del tenore di vita e delle imprese costruttive di cui si è appena parlato.
La realtà della maggior pressione esercitata sulle masse rurali è ben leggibile nella documentazione giunta sino ai nostri giorni, che proviene soprattutto dagli archivi dei grandi monasteri. Meticolosi inventari delle terre da essi possedute, e dei contadini che vi lavoravano, attestano la rigorosa amministrazione dei grandi patrimoni. L’istituzione di nuovi regimi contrattuali mostra che divenne piú diffusa la consuetudine di richiedere ai contadini stessi, accanto alla corresponsione dei canoni d’affitto, prestazioni d’opera gratuite e donativi obbligatori in favore del padrone delle terre su cui essi abitavano.

Gerarchie ben definite

Indagini archeologiche condotte in Italia nei siti di Poggibonsi (nel Senese) e di Sant’Agata Bolognese (in Emilia, entro una proprietà appartenente al monastero di Nonantola) e in Francia nei villaggi circostanti l’abbazia di Saint-Denis, hanno portato alla luce villaggi agricoli – interamente costruiti in legno – realizzati secondo criteri pianificatori che provano il coordinamento «dall’alto» dell’insediamento della comunità contadina che li abitava. Nel caso di Poggibonsi, per esempio, è stata accertata l’esistenza di una gerarchia precisa fra le costruzioni del villaggio, fra le quali spicca la presenza di un grande edificio (del tipo della cosiddetta longhouse, ben attestato nell’Europa centro-settentrionale) interpretato come residenza dell’intendente del proprietario, all’interno del quale venivano ammassate le derrate corrisposte come canone dai contadini.
Questi dati, desumibili dalle fonti scritte e da quelle materiali, sarebbero indizio della penetrazione, almeno nelle aree dell’Italia entrate nell’orbita franca, del cosiddetto «sistema curtense», già ben strutturatosi Oltralpe prima del 774 (ma perfezionatosi ulteriormente nell’età carolingia), che nel regno longobardo, invece, non aveva mai raggiunto piena maturazione. Esso prevedeva che la grande proprietà agraria fosse organizzata in maniera bipartita, con una porzione gestita personalmente dal padrone (detta pars dominica o dominicum), attraverso manodopera servile alle sue dirette dipendenze e con il lavoro forzato dei contadini. Essi vivevano all’interno di poderi ritagliati nella seconda porzione dell’azienda (detta pars massaricia o massaricium) e dovevano versare al padrone, a titolo di canone d’affitto, anche una percentuale sulla produzione ottenuta lavorando le terre loro assegnate.
Nella pars dominica ricadeva abitualmente la maggior parte delle aree non destinate alle attività agricole, ma lasciate a bosco o a pascolo. Se l’utilità delle aree a pascolo ci appare immediatamente evidente, non va dimenticato che anche i boschi svolgevano una funzione economica essenziale: essi infatti erano riserve di legname – che era il materiale da costruzione piú diffuso –, ma anche di selvaggina, a beneficio delle attività venatorie che costituivano il passatempo preferito dei nobili. Infine, non va dimenticato che alberi come il castagno e le querce produttrici di ghiande fornivano risorse fondamentali sia per l’alimentazione umana, sia per quella animale.
Il centro direzionale della proprietà era rappresentato dal luogo di residenza del padrone delle terre, detto curtis; ma poiché in generale i grandi proprietari di quest’epoca (come per esempio i principali monasteri) di curtes ne possedevano assai piú di una sola, di solito in questo luogo abitava personale amministrativo delegato dal signore a gestire le terre che formavano l’azienda dipendente dalla curtis stessa.

Nell’Italia centro-meridionale
Non tutta l’Europa conquistata da Carlo o quanto meno posta sotto la sua influenza adottò tuttavia questi metodi di gestione della proprietà agraria. Nelle regioni dell’Italia centro-meridionale, per esempio, non sembra che essi abbiano avuto applicazione puntuale, anche se, nella documentazione relativa a queste aree, il termine curtis è ampiamente utilizzato e rivesta sostanzialmente lo stesso significato che in quelle piú settentrionali. La differenza piú importante sta però nel fatto che la divisione fra dominicum e massaricium non è cosí rilevante e che la gestione diretta da parte del dominus si limita, apparentemente, soprattutto alle aree a uso silvo-pastorale. Di conseguenza, anche se non del tutto assente, è però meno diffusa l’abitudine da parte dei proprietari di richiedere ai rustici la corresponsione di servizi di manodopera gratuiti e il numero di giornate destinate a questo tipo di lavori è in genere inferiore a quello riscontrabile nell’Italia settentrionale o nel resto dell’Europa d’Oltralpe.
Come abbiamo già visto per il periodo longobardo, anche nell’età carolingia le rendite terriere rappresentavano l’unico cespite sicuro per i rappresentanti dei pubblici poteri, poiché in Italia il sistema di tassazione romano, basato sull’imposizione di pubblici tributi su persone e beni immobili, non si era mai piú ricostituito.
Sebbene possa apparire come un costume tipicamente «medievale», l’uso di esigere prestazioni d’opera dalle popolazioni rurali era in realtà ben presente sin dall’età tardo-antica. Nel tardo latino il termine angaria (che è giunto quasi inalterato nell’italiano moderno, con il significato di «abuso» e di «imposizione arbitraria» nei confronti di qualcuno) designava i servizi che lo Stato richiedeva, soprattutto agli abitanti delle campagne, per la riparazione di strade e ponti e per fornire aiuto logistico agli eserciti. Tuttavia, se nella tarda antichità era lo Stato a richiedere tali servizi, al tempo di Carlo Magno a farlo era di solito il privato che deteneva in regime di proprietà o di concessione le terre su cui lavoravano i contadini.

L’approvvigionamento delle truppe
Come si è già accennato, nelle regioni transalpine dell’impero la prassi di imporre prestazioni d’opera ai contadini era non solo piuttosto diffusa, ma assumeva frequentemente proporzioni rilevanti con l’obbligo, per questi ultimi, di dedicare una parte cospicua delle giornate lavorative annuali al diretto servizio del padrone. L’applicazione sistematica di questo modello di gestione della terra permetteva ai proprietari di disporre direttamente di una maggior quantità di beni. La sua diffusione geografica dipende, probabilmente, dal fatto che proprio agli aristocratici laici ed ecclesiastici delle aree poste a nord delle Alpi toccò piú frequentemente l’onere di organizzare e vettovagliare gli eserciti formati per affrontare le campagne militari che il regno franco condusse, per diversi decenni, con cadenza quasi annuale.
Le cosiddette «Consuetudini» del monastero di Corbie, situato nella regione della Piccardia (Francia settentrionale), redatte nell’anno 822 dall’abate Adalardo, cugino di Carlo Magno, descrivono in modo minuzioso il continuo viavai di persone che conducevano carri trainati da buoi dalle proprietà sparse nella regione circostante verso i magazzini dell’abbazia. Buona parte di questi trasporti doveva essere garantita proprio dai contadini, come parte delle prestazioni gratuite d’opera che essi erano tenuti a offrire alla comunità monastica dalla quale dipendevano.
In tale quadro, anche se da un punto di vista formale la maggior parte della popolazione rurale era composta da persone di stato libero, all’atto pratico la loro vita si svolgeva in un regime di pesante sottomissione al signore. Alcuni di essi potevano riuscire a migliorare le proprie condizioni, facendo carriera nell’organizzazione amministrativa delle aziende agrarie in cui erano nati e cresciuti, ma indubbiamente la maggior parte di essi conduceva un’esistenza abbastanza priva di prospettive.

Verso la crescita demografica
Nonostante tutto ciò, l’età carolingia è considerata quasi unanimemente dagli storici come un momento in cui la curva demografica della popolazione europea s’incamminò lentamente lungo un trend ascendente. Un indizio indiretto in tal senso è il fatto che in diversi documenti dell’epoca troviamo accenni ad attività di dissodamento di terre sin allora coperte da foreste. In un celebre documento datato tra la fine dell’VIII secolo e gli inizi del IX, Carlo Magno raccomandava che gli abbattimenti degli alberi fossero tenuti sotto controllo, affinché l’esigenza di guadagnare nuovi spazi per le coltivazioni non venisse soddisfatta danneggiando in modo irreparabile il patrimonio boschivo. Questo documento è il cosiddetto Capitulare de Villis, che rappresenta una testimonianza fondamentale per la conoscenza dell’organizzazione del mondo rurale in età carolingia, o almeno di quella parte di esso situata nel cuore dell’impero, ricadente nelle regioni comprese fra l’Aquitania e la Germania centrale. Esso contiene, infatti, disposizioni e raccomandazioni emanate dal sovrano inerenti la buona pratica nella gestione delle proprietà direttamente appartenenti al demanio regio. Come si è ricordato in precedenza, esse fornivano la base delle risorse su cui il re poteva contare e costituivano anche parte della rete utilizzata per compiere soste e soggiorni nelle frequenti circostanze in cui egli si spostava all’interno del regno.

Combattere gli abusi
Come ricorda il grande storico francese Georges Duby, il Capitulare aveva degli scopi ben precisi. Innanzitutto, esso dettava regole chiare sul comportamento di coloro che erano preposti alla gestione di queste proprietà. Distribuite su vastissime aree geografiche, esse potevano rischiare di sfuggire al controllo del governo centrale e diventare teatro di abusi, malversazioni e arricchimenti illeciti da parte del personale amministrativo. A questo proposito, il re si preoccupava soprattutto che le terre che costituivano queste aziende non diventassero oggetto di favori e scambi illeciti nei confronti di amici e sodali degli amministratori; ma la sua sollecitudine rivolgeva le proprie attenzioni anche al fatto che i contadini non subissero vessazioni e richieste arbitrarie, cosa che – all’interno di regimi contrattuali come quelli appena descritti – poteva facilmente accadere. In secondo luogo, il testo si preoccupa che le aziende demaniali forniscano con regolarità le rendite che da esse ci si aspetta. Come avviene con le Consuetudines dell’abbazia di Corbie, anche nel Capitulare de Villis è descritto un mondo popolato da diverse figure – tra cui schiavi –, occupate nei lavori con l’aratro, i carri e il bestiame, nella cura dei boschi e nel lavoro di trasformazione dei prodotti offerti dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dall’allevamento. Un’attenzione particolare è dedicata ai prodotti della selva e dell’allevamento e, tra questi ultimi, ai cavalli, per la loro funzione di bestie da guerra, da tiro e da carne.
Le aziende curtensi, come quelle descritte nel Capitulare, erano concepite come una rete di cellule capaci di garantire l’autosufficienza alle popolazioni che vi vivevano e, soprattutto, a chi le possedeva. La diversificazione del loro posizionamento geografico era funzionale a far sí che quanto non fosse reperibile o producibile in una certa zona, si potesse produrre altrove.
Due casi italiani aiutano bene a comprendere questo concetto. Il monastero di S. Giulia di Brescia possedeva un vasto insieme di proprietà distribuito fra le pianure e le Prealpi venete e lombarde. Alcune di esse, situate nelle valli alle spalle di Brescia, avevano la specifica funzione di gestire l’estrazione e la lavorazione del ferro (attività che ha tradizionalmente caratterizzato quel territorio), mentre altre, che si trovavano lungo il Po e suoi principali affluenti, avevano il ruolo di rifornire il monastero di pesce, ma anche di scali per l’attracco di imbarcazioni.

Una dieta ricca e variegata
Un altro monastero, quello di S. Vincenzo al Volturno, stavolta collocato alle frontiere meridionali delle terre conquistate da Carlo, nell’attuale Molise, possedeva numerose corti lungo le sponde dei laghi costieri di Lesina – in Puglia – e di Patria – in Campania – e sulle rive dell’Adriatico, nel territorio della città di Siponto, ai piedi del Gargano. Gli scavi archeologici condotti nell’abbazia hanno dimostrato che la funzione di queste proprietà era quella di rifornire i monaci con pesce di mare e di laguna delle piú diverse varietà, insieme a molluschi come seppie e cozze. Poter disporre di cibo cosí ricercato ed esotico, in un ambiente montano quale quello in cui si trova il monastero vulturnense, doveva costituire uno dei privilegi piú evidenti riservati a chi apparteneva a istituzioni e ceti sociali che potevano disporre di patrimoni fondiari estesi e sapientemente distribuiti sul territorio.
A lungo si è ritenuto che quello «curtense» fosse un sistema chiuso, costituito da tanti microcosmi autosufficienti e sostanzialmente ripiegati su se stessi. Tuttavia, ormai da qualche tempo, questa interpretazione è stata superata, in favore di una visione piú equilibrata che, senza negare l’evidente rilevanza dei circuiti di produzione e consumo locali (o comunque interni a uno stesso insieme di proprietà), individua però proprio nelle dimensioni e nella distribuzione geografica dei grandi patrimoni terrieri dell’età carolingia la prima grande opportunità di ripresa di comunicazioni e commerci a lunga distanza goduta dall’Europa occidentale dopo la fine del mondo antico.
Ciò che sembra piú ipotizzabile è l’esistenza, in questo periodo, di un’economia che marciava a due velocità, molto diverse fra loro, che producevano altrettanti circuiti che non sempre entravano in reciproco contatto. Da un lato vi era quello dei grandi spostamenti di patrimoni e ricchezze, che riguardava i ceti egemoni e coinvolgeva anche coloro che operavano nel commercio dei beni che gli aristocratici erano interessati a vendere (i cospicui surplus prodotti nei loro patrimoni fondiari) o a comprare (beni esotici e di lusso). All’interno di questo circuito potevano anche registrarsi spostamenti piuttosto veloci di beni e disponibilità economiche, i cui flussi talora erano determinati non solo da dinamiche di carattere prettamente commerciale, ma anche da eventi politico-militari, come per esempio la conquista del tesoro di un nemico sconfitto in guerra (e la sua successiva redistribuzione tra i vincitori) o la confisca e la successiva riallocazione dei beni di un avversario caduto in disgrazia presso il re.

L’autosufficienza dei ceti subalterni
Dall’altro lato, vi era il circuito degli scambi economici che interessava la schiacciante maggioranza della popolazione, che viveva in condizioni che sarebbe forse errato considerare in sé miserabili, ma che si può sicuramente definire dai bisogni assai piú limitati. Tali bisogni erano coperti in buona parte dalla capacità che i ceti subalterni, dediti principalmente alle attività agricole, avevano nel provvedere autonomamente alla sussistenza personale, producendo in proprio la maggior parte di ciò che serviva loro per sfamarsi, ma anche per costruirsi gli edifici in cui vivere, per scaldarli e arredarli. L’esigenza di rivolgersi «al mercato» per queste persone si limitava essenzialmente agli acquisti di parte del vestiario, degli utensili necessari a svolgere i lavori agricoli e casalinghi e di alcune suppellettili, come per esempio il vasellame per la cottura e la conservazione dei cibi. Il piú delle volte, la maggior parte di queste (limitate) necessità poteva essere soddisfatta rivolgendosi ad artigiani che vivevano entro un areale d’immediata prossimità, generando quindi numerosissimi circuiti di scambio a corto o cortissimo raggio.
Questa realtà è ben rispecchiata dalle produzioni ceramiche dei secoli VIII e IX che presentano, nello stesso tempo, scarsa varietà tipologica e grande diversificazione produttiva, un fenomeno che testimonia per un verso la semplificazione delle esigenze degli acquirenti, e per l’altro che vi erano molti piccoli e piccolissimi laboratori artigianali che lavoravano per clientele molto localizzate. Solo pochi tipi di vasellame con caratteristiche materiche e formali assai particolari (e quindi destinati a soddisfare esigenze piú specifiche) sono commerciati a piú lungo raggio. Tra questi, si annoverano (in Italia) la ceramica ricoperta di una spessa invetriatura piombifera di colore verde (la cosiddetta ceramica «a vetrina pesante»), usata come vasellame da tavola di pregio, e i recipienti realizzati con una pietra scistosa tipica delle regioni alpine (la cosiddetta «pietra ollare»), apprezzati per la loro capacità di cuocere i cibi ad alta temperatura. Piú in generale, la produzione del vasellame in terracotta è limitata principalmente ai recipienti per la conservazione e la cottura dei cibi e dei liquidi (piccole anfore, olle e testi per la cottura del pane) ed è contrassegnata dall’assenza pressoché totale del vasellame da tavola (piatti, scodelle e piatti da portata), assai diffuso in età classica e tardo-antica, ma che nell’alto medioevo era stato sostituito da stoviglie realizzate in legno.
In questi secoli si registra anche la progressiva scomparsa dei grandi contenitori da trasporto in terracotta – le anfore – in parte sostituiti dalla maggiore diffusione delle botti in legno, ma la cui assenza è anche sintomo della forte contrazione dei commerci a lunga distanza di grandi volumi di prodotti alimentari – fiorenti nel Mediterraneo sino alla fine del VI secolo – e la loro sostituzione con l’approvvigionamento locale delle derrate.
L’Occidente dei secoli VIII e IX, insomma, era in grado di esportare materie prime, costituite in primo luogo da parte delle eccedenze delle produzioni agroforestali generate dai grandi patrimoni fondiari, ma anche da una categoria merceologica meno «presentabile», come gli schiavi, anch’essa particolarmente ricercata presso i mercati delle ricche città dell’Oriente bizantino e islamico. Ciò che s’importava, come abbiamo già visto, erano soprattutto beni di lusso che trovavano acquirenti solo presso la ristretta cerchia delle persone piú ricche. I territori europei, per la prima volta dopo molti secoli, erano però di nuovo in grado di produrre piú di quanto non consumassero e di esprimere un’aristocrazia ricca e capace di spendere per affermare il proprio status attraverso il possesso di beni rari e preziosi.

Alla corte del califfo
Rispetto all’età classica e tardo-antica, il commercio a lunga distanza aveva completamente mutato fisionomia: non era scomparso, ma riguardava quantità di merci e un pubblico di consumatori completamente diversi e assai piú ridotti rispetto al passato, veicolati da navigli in genere di piccole dimensioni. Alcuni episodi particolari ricordati dalle fonti aiutano a comprendere che anche in questo periodo era possibile intrattenere contatti a lunga distanza. Basterà menzionare, a tale proposito, i viaggi diplomatici compiuti da emissari di Carlo in Terra Santa e presso il califfo di Baghdad e l’invio a Carlo, da parte di quest’ultimo, di un elefante come dono speciale, in cambio degli omaggi che l’imperatore franco gli aveva fatto recapitare da parte dei suoi ambasciatori.
Quindi, se le merci e le persone si muovevano, qualcuno (come si direbbe oggigiorno) doveva essere in grado di gestire la logistica di questi spostamenti. Trasporti di elefanti e di diplomatici non potevano essere improvvisati ed evidentemente si poteva contare su qualcuno in grado di organizzarli in modo adeguatamente sicuro ed efficiente. L’Italia rappresenta un laboratorio privilegiato per comprendere chi e in che modo si assunse il compito di gestire i contatti fra l’Europa occidentale e l’Oriente mediterraneo, dominato dall’impero bizantino e dal califfato di Baghdad.
Ai margini dei territori controllati da Carlo Magno, resistevano alcune enclave che, sebbene formalmente dipendenti dall’impero bizantino, stavano mano a mano sviluppando una sempre piú spiccata autonomia.
Esse includevano le lagune venete e ferraresi e una striscia di costa in Campania che andava da Gaeta, a nord, sino alla Penisola Sorrentina a sud, comprendendo quindi anche Napoli e il litorale vesuviano. Agli estremi di questa zona si svilupparono Gaeta e Amalfi che, nel corso della prima metà del IX secolo, si resero a propria volta indipendenti dalla città partenopea.
Nell’area lagunare adriatica, invece, si assiste alla formazione di una serie di villaggi, quali Torcello, Rialto e Malamocco (nel territorio veneto) e Comacchio (nelle lagune ferraresi). Si trattava d’insediamenti che tra loro presentavano notevoli differenze. Mentre Napoli era una vera e propria città, che già al tempo di Carlo vantava una storia millenaria, Amalfi e Gaeta erano invece siti che in età antica non avevano mai raggiunto uno status urbano.

Il mare come risorsa
Gli abitati sorti nelle lagune adriatiche, sebbene forse preceduti nelle stesse aree da tracce di frequentazione risalenti all’epoca romana, rappresentavano tuttavia una novità assoluta, poiché nel corso dell’VIII secolo si costituirono rapidamente in agglomerati stabili. Ad accomunarli era però il fatto di essere proiettati verso il mare e di trovare in esso (ed eventualmente nei bacini lagunari) l’unica vera risorsa per il loro sviluppo. Ciò non significa che la loro vocazione fosse stata da subito solo quella di fungere da scali per la navigazione marittima.
Anche altre attività, come la pesca o l’estrazione del sale (ben attestata, per esempio, nel caso di Comacchio) ne avevano favorito la crescita. Tuttavia, la posizione di contiguità (ma, allo stesso tempo, di autonomia) che questi centri assunsero rispetto alle aree dei domini franchi, e i loro contatti con l’impero bizantino, li resero ben presto luoghi ideali per lo sviluppo dei commerci e degli scambi fra l’uno e l’altro mondo.
I centri campani avevano iniziato a svolgere nel mar Tirreno, a partire dal secondo quarto del secolo, lo stesso ruolo che Venezia era andata assumendo nell’Adriatico, sia pur organizzando le proprie rotte commerciali in modo differente. Mentre Venezia e gli altri centri lagunari si trovavano a diretto contatto con il bacino territoriale della Val Padana, dal quale traevano e verso il quale indirizzavano il grosso delle merci che transitavano attraverso i propri scali, per le tre città campane (e in particolare Gaeta e Amalfi) gli scambi con l’adiacente territorio della Langobardia beneventana rappresentavano solo una parte dei traffici gestiti dai loro navigli. L’attività dei mercanti di queste città era infatti piú itinerante e giungeva almeno sino alla foce del Tevere, anche se non si può escludere che essi si siano spinti anche piú a nord, come potrebbe testimoniare la circolazione di alcune produzioni ceramiche native di Roma e di Napoli (quale la cosiddetta ceramica «a vetrina pesante»), attestata a raggio piuttosto ampio nel bacino del Tirreno.
Il successo del dinamismo commerciale delle città costiere italiane profittò sicuramente dell’offuscamento del predominio militare di cui in precedenza godevano le flotte arabe. Fra la metà dell’VIII e il primo ventennio del IX secolo, in seguito alla vittoria conseguita dai Bizantini nelle acque di Cipro, l’impero d’Oriente recuperò il controllo di quest’isola strategicamente posizionata sulle rotte che si dipartivano dai territori islamici. Questa nuova situazione aprí ai mercanti delle città «bizantine» del basso Tirreno opportunità quanto mai favorevoli per la riapertura di flussi commerciali dall’Italia verso l’Africa e l’Oriente, interrottisi non solo in seguito alla conquista araba della sponda meridionale del Mediterraneo, nel corso del VII secolo, ma, soprattutto, in ragione dello stato di collasso economico in cui aveva a lungo versato tutto l’Occidente europeo.
Nell’ambito dell’impero franco, in posizione geograficamente speculare rispetto a questi centri mediterranei, si venne a trovare l’area costiera della Manica e del Mare del Nord. Abbiamo già visto che, almeno a partire dalla seconda metà del VII secolo, da questi litorali avevano iniziato a svilupparsi nuove rotte commerciali che legavano il mondo franco alle isole britanniche e alle regioni scandinave. L’età carolingia vide crescere significativamente l’importanza e l’attività di alcuni scali commerciali (che gli archeologi hanno efficacemente denominato emporia) posti presso le foci di alcuni dei corsi d’acqua che si gettano nel Mare del Nord. Tra questi, Quentovic (nella Francia nord-orientale), presso l’estuario della Canche, e Dorestad (in Olanda), cresciuto fra l’intricato dedalo dei rami del delta del Reno.

I Frisoni, grandi mediatori
Analogamente a quanto avveniva nelle aree venete e romagnole d’Italia, un posto particolare nell’animazione dei commerci lungo il Mare del Nord fu svolto da una popolazione, i Frisoni, che viveva lungo le aree costiere e lagunari degli odierni Paesi Bassi e della Germania nord-occidentale, ai margini dei territori dominati dai Franchi. Partendo da quelle basi, essi furono in grado di operare efficacemente come mediatori fra le aree dell’impero carolingio, quelle scandinave e quelle insulari britanniche. Anche in queste due ultime zone si svilupparono ulteriormente centri sorti già fra il VII e l’VIII secolo (e ciò vale soprattutto per le coste inglesi) o ne nacquero di nuovi. Questo fenomeno interessò non solo le aree rivierasche del Mare del Nord, ma si estese anche a quelle del Mar Baltico, come testimoniano i ritrovamenti compiuti a Birka, sulle coste svedesi a nord di Stoccolma, e a Hedeby, su quelle al confine tra Danimarca e Germania.
Ciò ha permesso agli archeologi di comprendere che i traffici che si svolgevano nel Mare del Nord costituivano il terminale di collegamenti commerciali fra l’impero franco e il mondo islamico e bizantino che si erano sviluppati su distanze enormemente piú vaste. Essi avevano messo in contatto – attraverso le pianure russe e i grandi corsi d’acqua che le attraversano – il Baltico con il Mar Nero e con gli itinerari terrestri che, percorrendo l’Asia centrale, giungevano sino in Cina. L’aprirsi di queste nuove rotte era stato possibile in quanto, a loro volta, erano state le stesse popolazioni scandinave a impegnarsi progressivamente nelle attività commerciali, affiancandosi ai navigatori frisoni. Questi scali portuali apparsi lungo le coste settentrionali dell’Europa raggiunsero talora dimensioni ragguardevoli, trasformandosi da luoghi frequentati solo periodicamente in insediamenti stabili e complessi.
I documenti d’archivio dei grandi monasteri italiani e francesi mostrano che questi centri costieri – sia quelli italiani, sia quelli fioriti lungo le coste settentrionali dell’impero franco – ebbero contatti continui con i grandi possidenti terrieri delle aree limitrofe. Le abbazie si dotarono, infatti, di dipendenze poste nelle loro vicinanze o, come accade piú di frequente in Italia, di propri scali marittimi e fluviali. Attraverso questi avamposti potevano entrare in contatto con i navigli commerciali gestiti da coloro che operavano all’interno degli emporia, per vendere i prodotti delle loro aziende e acquistare quanto i mercanti erano in grado di reperire nelle lontane piazze d’Oriente o nelle terre dell’estremo Nord europeo.
Non va tuttavia dimenticato che i monasteri non rinunciarono completamente anche a giocare un ruolo attivo all’interno di questi traffici, sia – come si è appena visto – allestendo propri scali portuali, sia talora assumendo alle proprie dipendenze personale mercantile o armando in proprio navi in grado di gestire, almeno in parte, il processo di commercializzazione dei propri prodotti. L’impegno dei monasteri in queste attività emerge dalla cospicua mole di documenti provenienti dai loro archivi, ma non vi è motivo di dubitare che allo stesso modo agissero anche gli altri soggetti che componevano i vertici della società del tempo, come la monarchia, i grandi proprietari laici e i principali vescovadi presenti nell’impero franco.
L’aprirsi di questi contatti commerciali ampliò notevolmente gli orizzonti europei, permettendo però anche alle popolazioni che vivevano al di fuori dei confini dell’impero franco di imparare a conoscerne meglio la società, con i suoi punti di forza e debolezza e, soprattutto, a capire dove si trovassero i luoghi che, con le loro ricchezze, avevano permesso a quegli stessi rapporti commerciali di svilupparsi e prosperare.

Razzie e conquiste
Forse per questo motivo, già nella prima metà del IX secolo, profittando delle lotte apertesi all’interno dell’impero e del suo progressivo indebolimento militare, Arabi e Scandinavi riuscirono con notevole facilità a penetrare all’interno dei suoi territori per compiervi ripetute razzie e perfino per tentare vere e proprie azioni di conquista delle sue aree piú periferiche. Nel corso della seconda metà del IX secolo, in particolare, aree come tutta la Francia del Nord e l’attuale Benelux e, quelle della Francia mediterranea e dell’Italia centro-meridionale furono sottoposte a una pressione pressoché continua da parte di questi popoli, che le fonti occidentali denominano rispettivamente Vichinghi e Normanni e, sul fronte meridionale, Saraceni o Agareni.
A essi si aggiunsero anche i Magiari, che, attestatisi nei territori precedentemente controllati dagli Avari e che corrispondono a quelli dell’attuale Ungheria, iniziarono a compiere scorrerie sempre piú frequenti e perniciose nelle regioni della Germania meridionale e dell’Italia padana. Poche aree dell’impero franco rimasero dunque al riparo da queste nuove minacce esterne, acuite dalla crescente instabilità politica interna, accresciutasi dopo la morte del figlio di Carlo, Ludovico il Pio, avvenuta nell’840.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: El motor de ła regnasensa carołinga

Messaggioda Berto » sab ott 10, 2015 6:46 am

Jeografia storega del lesego ministrativo entel Veneto
viewtopic.php?f=172&t=1002

Enpero carołengo:

http://it.wikipedia.org/wiki/Impero_carolingio

Comitati e Markexati
Viłe
manieri

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 11/218.jpg

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 11/219.jpg

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 11/220.jpg

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 11/221.jpg

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 1/2221.jpg


Borgorico e Dexman
viewtopic.php?f=45&t=337

Maxo, Maxon, Maxio, Maxi, Maxer, Maxera, Maxerà, mansio, maison, demain/domain (demanio/dominio), maniero, Manero, Masaria, transumansa, transumare/transumanare
viewtopic.php?f=45&t=971

Dovie/Duvie/Douvie, Doviłe/Douviłe/Dovil, Dueville
viewtopic.php?f=45&t=960

Formighè, Formigaro, Formigoxa, Formighera, ...
viewtopic.php?f=45&t=984

Veronexe, istitudi de li ani xermani pricomounali: arimania, maxnada, famuli, vicinia, ...
https://picasaweb.google.com/pilpotis/V ... uliVicinia
Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 11/222.jpg


Sagro roman enpero:

http://it.wikipedia.org/wiki/Sacro_Romano_Impero

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 1000-1.jpg

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 1000-2.jpg


Teuta/touta, trabs/treb/tribus, opida, vico/vigo, pago/pagus, viła, viłàjo, paexe, dorf, borgo, çità, muniçipo, mansio/maxo, corte, comun
viewforum.php?f=172

Caxe, corti, castełi, viłe, viłai e çità, cexe e muri veneti
viewtopic.php?f=172&t=938

Corti xerman-venete, venete e mantoane
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... 9JS28/edit
Immagine

Castełi xerman-veneti e veneti
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... xZX3c/edit
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm


Torna a Mexoevo - ani o secołi veneto-xermani (suxo 900 ani) e naseda o sorxensa dei comouni

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 1 ospite

cron