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Messaggioda Berto » ven gen 17, 2014 10:28 am

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L’UMBRO ATTESTATO NELLE TAVOLE IGUVINE

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http://www.tavoleiguvine.eu/capitolo3.php


§ 3. Dei, teonimi ed epiteti divini.

3.1. Gli studiosi delle Tavole Iguvine hanno a volte applicato in modo rigido il modello onomastico formato da prenome + gentilizio, utilizzandolo anche per spiegare numerose coppie formate da teonimo + epiteto, che vengono interpretate come “divinità dell’Atto”, cioè come la divinizzazione di un’attività posta sotto l’ambito di un dio, caratterizzate da un termine bimembre, nel quale il primo elemento è costituito da un teonimo che esprime l’azione divinizzata, ed il secondo elemento è costituito da un epiteto ricavato dal nome del dio dal quale quell’attività dipende. Sulla base di questo modello, hunte iuvie viene spesso tradotto “Giove che distrugge”, e tefre iuvie[vocativo] “Giove che brucia”....
Questa struttura onomastica tuttavia non è in grado di gettare luce sulla maggior parte dei casi di coppie formate da teonimo + epiteto. Basti pensare, ad esempio, a tursa iuvia e tursa cerfia, interpretate come “divinità dell’Atto”, secondo una lettura che obbliga a collegare tursa al latino terreo. è possibile invece, rispettando il contesto della cerimonia che prevede preghiere e sacrifici presso due cippi di confine monumentalizzati, effettuare una traduzione ben diversa, giustificata dalla appartenenza di tursa all’area semantica definita dai lessemi tud- e turs-, che individuano in umbro i “confini” [vedi qui al paragrafo seguente].
Ed anche nel caso di hunte e di tefre i ragionamenti combinatori e l’evidenza bilinguistica permettono di formulare una diversa ipotesi di traduzione, esposta nel § 3.3.
Se sottoponiamo ad una disanima attenta il complesso dei teonimi + epiteti divini presenti nelle Tavole giungiamo alla conclusione che probabilmente soltanto ahtu iuviu e speture iuviu possono essere letti secondo il modello della “divinità dell’Atto”, perché ahtu, cui corrisponde formalmente il latino actor, e speture, cui corrisponde il latino spector, sono nomina agentis. In questi casi allora l’ipotesi che la coppia di teonimo + epiteto possa essere interpretata come una “divinità dell’Atto” è ammissibile, perché sintatticamente e semanticamente giustificata.

3.2. Durante lo svolgimento della processione descritta in Ia, Ib, VIa, VIb e VIIa il corteo si ferma tras sahata (di là dallo spazio sacro, cioè, probabilmente, di là dal pomerium) in prossimità del confine (termnuco) e sacrifica tre vitelli a tursa cerfia; a conclusione del rito di purificazione dell’esercito il corteo sacrifica nella piazza dell’adunata tre giovenche mature a tursa iuvia. Il contesto – ci si trova nei pressi dell’uscita (ebetraf) dello spazio sacro (sahata) – autorizza l’ipotesi che tursa sia da collegare all’area semantica dei confini, che in umbro esprime anche il lessema tud- ed in etrusco il lessema tul- (da cui tular).
Il lessema turs- si presta ad essere interpretato come variante del lessema tud-, relativo ai confini: infatti “rs” è traslitterazione in caratteri latini della dentale debole d, presente nell’alfabeto umbro-etrusco [figura 16], e tursa, come emerge anche dal ragionamento combinatorio, è probabilmente il cippo di confine divinizzato, esattamente come il latino Terminus. Allora ha senso che i due cippi monumentali che segnano visivamente l’uscita del pomerium siano consacrati ad una divinità del confine equivalente a Terminus [fig. 19]. figura19: i cippi di via Fondazza a BolognaIn un caso questa viene posta sotto il controllo di Giove perché Giove è per eccellenza il dio dei confini; nell’altro viene posta sotto il controllo di Cerus perché questo, come dio della terra, ha giurisdizione anche sui confini.
Nell’area semantica definita dai lessemi tud- e turs- troviamo, nelle Tavole Iguvine, anche i termini tuderato (delimitato), tuderor todcor (confini cittadini), eturstahmu (imperativo di eturstahom, che va interpretato come e/turs/stahom = fuori dal confine pongo, cioè espello, esilio, bandisco) e l’aggettivo tursku, formato da turs- e dalla posposizione -ku (che in umbro significa “presso”). In origine quindi l’aggettivo sostantivato tursku, formato come il latino contermine e il greco σύνορος, e analogo a termnuco (che si trova in VIb 53, 55, 57 e altrove) significava in umbro “colui che sta presso il confine”, il “confinante”, che, per gli umbri, era il vicino etrusco.
Allo stesso modo sono formati in umbro anche i termini naharku (colui che abita presso il fiume Nera, in umbro nahar) e forse iapuzku (colui che abita presso il fiume Iapix, in umbro iapuz). Nell’elenco rituale dei nemici questi due popoli sono ricordati insieme al popolo etrusco (tursku) e alla città e alla tribù di Tadino.

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3.3. Nel vuku kureties (in alfabeto latino coredier) si effettuano sacrifici a hunte e a tefre. La vulgata si limita a traslitterare l’aggettivo kuretie con “Coredio” e a interpretare il teonimo hunte come un nomen agentis (“che sconfigge”) e il teonimo tefre come un derivato da tefro (per cui sarebbe un “dio del braciere”). In questo modo tuttavia si perde il nesso, stabilito dal testo, tra kuretie (in latino Curiatius, epiteto di Giano) e gli dei hunte e tefre. È sufficiente rileggere Ovidio, Cicerone e Tito Livio per ricordare che Giano è sempre posto in relazione alle acque, che egli aveva la facoltà di far scaturire, e che Fons, o Fontus, era considerato suo figlio, generato con Giuturna; che a Roma, sul Gianicolo (il colle sacro a Giano), presso la tomba di Numa c’era un altare dedicato a Fontus; e che anche Tiberinus era considerato figlio di Giano, perché il dio l’aveva generato con una Camena (1).
Ci sono sufficienti indizi, quindi, per interpretare kuretie non come un gentilizio ma come un epiteto di Giano, esattamente come Curiatius in latino, e per tradurre hunte con Fontus e tefre con Tiberinus, ristabilendo quel nesso tra Giano e le acque, tra Giano e i suoi figli, esistente sia nella mitologia che nel pantheon romani. Nel vuku kureties (il bosco sacro di Giano) un percorso sacro collega i tre dei, padre e figli, come avveniva in parte anche sul colle sacro di Giano a Roma, dove si trovava l’altare di Fontus.

3.4. Nel 1937, per spiegare l’aggettivo krapuve (in caratteri latini poi grabouie), il Devoto ipotizzò l’esistenza di un dio *Grabo, una divinità di grado superiore a iuve, marte e vufiune, che quindi ne dipendevano gerarchicamente. A più riprese giustamente Prosdocimi ha suggerito di togliere questo dio Grabo dal pantheon iguvino, ma i traduttori continuano a rendere krapuve con “Grabovio”, che non è né traduzione né traslitterazione, e lascia ambiguamente in vita una divinità che non esiste.
L’aggettivo krapuve va interpretato come un aggettivo di relazione derivato da un termine umbro (probabilmente *krapu) parallelo al greco κράββατος, al latino grabadus e all’etrusco crap(i)s, tutti con il significato di “lettino” o “lettiga”. Come appare chiaro dal confronto tra la grafia in alfabeto umbro-etrusco (krapuve, con la labiale sorda P) e la forma assunta poi in caratteri latini (grabouie, con la labiale sonora B), quel termine umbro è prestito dall’etrusco e non è frutto della normale resa in umbro delle labiali (che avrebbe dato *krabuve, perché nell’alfabeto umbro-etrusco il segno B è disponibile) o dall’importazione della parola dal mondo greco o da quello latino.
In etrusco troviamo crap(i)s sia nel rotolo di Laris Pulena (TLE, Ta 1232) sia nel Liber Linteus di Zagabria. Nel primo caso il defunto si vanta di aver fatto costruire una statua del dio catha da mettere sul crapis; nell’altro il testo prescrive di porre le offerte sul tavolino portatile davanti alla statua del dio posta sul crapis. Sia in un caso che nell’altro il ragionamento combinatorio e il confronto bilinguistico autorizzano a concludere che ci si trova di fronte ad una lettiga; probabilmente quindi le cerimonie di cui si parla prevedevano che alla divinità posta su un lettino e portata in processione venisse offerto un lettisternio (2).
Ecco quindi che krapuve diventa trasparente: si tratta di un aggettivo parallelo al latino Feretrius (da feretrum), a Roma epiteto di Giove, e, come quello, significa “sulla lettiga” o “della lettiga”. A Gubbio le divinità invocate con questo epiteto (iuve, marte e vufiune) venivano quindi trasportate solennemente in processione ed onorate con un lettisternio; l’aggettivo krapuve ha dunque relazione con una lettiga, e non con un dio Grabo. È accaduto in questo caso qualcosa di analogo a quello che accadde ai traduttori dall’ittita: “i figli e le figlie di me” divenne per errore “i figli e le figlie di Anek”. Ripristinata la traduzione corretta, il re Anek scomparve (3).

3.5. Se l’invocazione “di grabouie” (che ricorre 23 volte in VIa) si ripete ad ogni porta e se l’epiteto grabouie (krapuve in alfabeto umbro-etrusco) è attribuito sia a iuve che a marte e a vufiune, è illogico tradurre il vocativo di con “Giove”, adducendo pure argomentazioni etimologiche, quando il contesto obbliga a riferire grabouie sia a Giove che a Marte ed a Libero. Occorre quindi tradurre il vocativo di con “dio”: la preghiera ripetuta ad ogni sosta davanti e dietro le porte cittadine era sempre la stessa, e si riferiva al “dio sulla lettiga” – chiunque dei tre fosse. Del resto anche in latino deus significa semplicemente “dio”, e non ha più alcuna relazione con Giove, nonostante la comune etimologia (da *dieu = cielo luminoso).
Nel Liber Linteus di Zagabria troviamo più volte l’analoga invocazione flere in crapsti (nume che sei sulla lettiga), rivolta alla effigie (flere) del dio al quale si offre il lettisternio.

3.6. Un imperativo, purtupite, che si trova una sola volta in IV 14, reso altrove con purtupitu, purtuvitu e in altri modi, ricorrente in una formula nella quale esso si trova sempre in posizione finale, è stato frainteso in passato e tradotto come se fosse un teonimo; si trova quindi nella vulgata con il nome di Pordoviente. Come Grabo, tuttavia, anche Pordoviente non esiste se non come mero errore di traduzione.

3.7. Interessante è il caso del dio vufiune (poi traslitterato in caratteri latini come uofiono), perché testimonia dei fecondi rapporti all’interno del mondo mediterraneo tra popoli diversi. Nella Magna Grecia ελευθέριος è epiteto di Giove; in osco il termine perde la vocale iniziale, semplifica il dittongo ευ in u: si ha quindi iuve luvfre, il cui genitivo iuveis luvfreis è attestato anche in PL 206. Il lessema ελευθ- è traslitterato non solo in osco, ma anche in etrusco, dove troviamo tin lut (Giove Libertà), forse importato direttamente dal greco.
L’umbro, che rende regolarmente con V la liquida iniziale (vapires = lapides, vatua = latera, ecc.), trasforma il lessema osco luv- in vuf-, e poi gli pospone il morfema –iune, che serve per formare aggettivi. Ecco quindi vufiune, cioè “Libero”, che poi probabilmente passa dall’umbro all’etrusco assumendo la forma fuflun, che in etrusco coesiste con lut, di diretta importazione greca.

3.8. Marte compare con l’epiteto di huřie in Ib 2. Il termine, traslitterato poi in caratteri latini con horse (VIb 43) corrisponde formalmente al latino fodius (da fundo = distruggo) e significa letteralmente “che sbaraglia, distrugge, mette in fuga”. Anche la coppia marte huřie (teonimo + epiteto) contravviene al modello della “divinità dell’Atto” perché il primo elemento si scambia di posto con il secondo e i due termini non possono essere equiparati alla formula onomastica bimembre formata da prenome + patronimico. Probabilmente la coesistenza di clausole come marte huřie (in cui il nomen agentis è epiteto della divinità) e ahtu iuviu (in cui il nomen agentis, divinizzato, è seguito da un epiteto che deriva da un teonimo) si spiega con la grande libertà con la quale si formavano in origine anche i nomi e i gentilizi, non riducibili solo alla formula stereotipata di prenome e patronimico.

3.9. Chi fossero esattamente gli dei hoie e uestisie non è del tutto chiaro. Il teonimo hoie (in caratteri umbro-etruschi hule) va probabilmente collegato al latino holus (verdura) e sembra individuare quindi un dio degli orti o del rigoglio vegetativo. Il teonimo uestisie (in caratteri umbro-etruschi vestiçe) potrebbe collegarsi al verbo greco λείβ (libare): *leipstiçe> uepstiçe> vestiçe, e individuerebbe un dio della libazione: Libasius, che si trova in latino anche nella forma Loebasius, ed è anche epiteto di Libero. Ma il dato più interessante è che a queste due divinità di origine animistica vengono dedicate due grotte (di cui si parla soltanto in VIa) che sembrano una acquisizione recente – proprio come la grotta del Lupercal a Roma, “riscoperta” da Augusto.

3.10. I teonimi fisie e pase (cioè deus fidius e pax in latino) ricorrono infinite volte, insieme e separatamente: insieme si ritrovano 10 volte in VIa e VIb; nel complesso, il primo è attestato 56 volte e il secondo 15. Non si sfugge alla suggestione che il loro binomio sia l’equivalente eugubino del binomio Fides e Pax, così importante a Roma nella cultura della restaurazione augustea.

NOTE:
(1) Arnobio (Adversus nationes 3, 29) chiama Fontus e non Fons il dio, e dice che era figlio di Giano; Cicerone De legibus 2, 22, 56; Livio 40, 29, 3; Sol. 1, 21; Ovidio Fasti, 1, 269.
(2) Facchetti 2000, 281.
(3) Lehmann 1980, 69-70.


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Re: Unbro

Messaggioda Berto » gio giu 19, 2014 7:09 am

Teuters, teuta, touta, totam, touto, toutatis, tuath, teutoni, tote, tutore, ...

https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... FXREE/edit

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Re: Unbro

Messaggioda Berto » ven giu 20, 2014 6:57 pm

Il banchetto rituale nelle Tavole Iguvine - di Carlo D’Adamo

http://www.carlo.dadamo.name/articoli/2 ... ituale.htm

È abitudine corrente tradurre il termine şesna, che occorre 4 volte in Vb, con il nostro “cena”, e l’espressione ape frater çersnatur furent di Va 24 con la frase “dopo che i fratelli avranno cenato”. Tuttavia l’enfasi conferita qui alla şesna (voce che non ricorre mai nelle prime Tavole) conferma la grande importanza ideologica del banchetto. Si tratta infatti non di un pranzo fra amici o di un desinare privato, ma del banchetto rituale della confraternita, importante non solo per reiterare una pratica autoreferenziale che rafforza lo spirito di gruppo, ma anche per le sue valenze simboliche. Al banchetto partecipavano in effigie anche gli dei, ai quali non si mancava di offrire la loro parte, con triplici libazioni e offerte varie. Il banchetto rinsaldava così il legame tra i celebranti e le divinità, che avrebbero continuato quindi a riversare il loro favore sulla comunità.

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Del resto anche in latino “cena” non designa la cena, ma il pasto principale, quello che si teneva nelle primissime ore del pomeriggio. È preferibile quindi tradurre şesna con “banchetto”, pensando all’ideologia che stava alla base delle riunioni delle confraternite e riprendeva l’usanza antichissima del simposio; pensando alla pratica del lettisternio, teso ad ottenere il favore divino; pensando anche alla “tavola bona” che a Gubbio ancora oggi, prima dello svolgimento della Corsa dei Ceri, i soci delle confraternite celebrano tutti insieme.

Probabilmente şesna e il verbo çersnaom sono da collegare alla radice cer-, che definisce l’area semantica di “taglio”, “divido”; da qui l’ipotesi che la şesna fosse in origine la divisione di cibo in porzioni e la loro distribuzione rituale a tutti i partecipanti alla cerimonia. Per queste ragioni chi traduce şesna con “cena” perde completamente il senso di quella ritualità. “Banchetto”, anche se il termine è inadeguato, rende maggiormente l’idea dell’importanza di quella condivisione di cibo che permette di stabilire alleanze, rafforzare amicizie, consolidare parentele e condividere scelte.

Nella Tavola Vb il testo in alfabeto latino prescrive le quantità di farro che le curie devono dare ai fratelli Attiggiani come tributo per il santuario, e le quantità di carne che questi, a loro volta, devono distribuire alle curie. Per due volte si reitera la formula che impegna i Claverni e i Casilati a offrire ai due uomini che saranno andati a ritirare il farro una şesna oppure sei assi; per due volte si reitera la formula che impegna i fratelli Attiggiani ad offrire ai Claverni ed ai Casilati una şesna oppure sei assi.
È ovvio che non viene offerta la sportula, come qualche traduttore ha ipotizzato, né che si tratta di una ricompensa per il lavoro svolto, ma di una cerimonia rituale che solennizza lo scambio arcaico di farro e carne tra le diverse comunità territoriali e la confraternita del santuario federale.
Anche la formula A VI, “assi sei”, è formula rituale. Sono quindi del tutto inutili le ricerche volte a stabilire quanto costassero i pranzi nelle locande nel III, nel II o nel I secolo, perché qui di tutt’altro si parla (1).

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In alto: la “Tavola bona”, banchetto solenne prima della Corsa dei Ceri a Gubbio.
Qui sopra: Tabula lusoria con il menu del giorno (Roma, Musei Capitolini).

NOTE

“Da una parte le Tavole Vb e VI b, scritte in alfabeto latino, indicano la prima il valore di una cena equivalente a tre assi, la seconda una multa di trecento assi imposta al magistrato … che non abbia procurato le offerte occorrenti alla confraternita… Se si confronta un passo di Polibio secondo il quale nella Gallia cisalpina si era ospitati con mezzo asse, si comprende che con questa disposizione della Tavola VII b siamo all’ultima svalutazione dell’asse verificatasi in età repubblicana, al livello di 1/24 dell’asse librale, e legalizzata con la legge Papiria dell’89 a. C. Maggior valore ha ancora la moneta nella Tavola Va, scritta in alfabeto umbro.” G. Devoto, Le Tavole di Gubbio, Firenze 1974, pagg. 4 e 5.
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