La lezione laica della Svizzera all’islam
di Laura Zambelli Del Rocino
Domenica, 24 Aprile, 2016
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«La nostra patria è l’Uomo, la fedeltà a lui prima di tutto», dai Diari di Max Frisch.
Risulta difficile comprendere la Svizzera per noi italiani, così vicini e così lontani. Ora che anche il Corriere della Sera ha ripreso un fatto accaduto giorni fa in un paese di Basilea Campagna, è l’occasione per analizzare l’approccio elvetico alle questioni di immigrazione, cui potremmo ispirarci e ricavarne spunti costruttivi. Accade che due fratelli musulmani si rifiutano di stringere la mano alla maestra a fine lezione, consuetudine di simbolico ringraziamento e genuina tradizione locale. La motivazione addotta è che il Corano vieta ogni contatto fisico tra un uomo e una donna che non sia la moglie. Colti alla sprovvista, gli educati docenti inizialmente abbozzano, ma la questione viene approfondita presso i vertici cantonali. La conseguenza è la sospensione della domanda di naturalizzazione dei ragazzi e della loro famiglia, cui seguono accertamenti prima di procedere a una decisione definitiva. I media svizzeri informano che il padre era fuggito dalla Siria in Libano, poi a Dubai e infine in Arabia Saudita, dove ne era uscito da imam prima di stabilirsi in Svizzera nel 2001. Il processo di integrazione sembrava filare liscio, buoni i rapporti con la popolazione locale e addirittura l’hobby dello sci, più integrato di così. Fino al giorno del fatidico diniego a stringere una mano femminile, che sembrerebbe una ragazzata dei figli se il gesto non fosse frutto dei precetti del Corano, faccenda che fa mal sperare in future questioni di convivenza ben più fondamentali, ancorché non fondamentaliste, di un semplice contatto fisico tra maestra e alunno.
Lasciamo da parte le banalità legate alla par condicio dell’ospitalità, in Siria pochi ambirebbero a trasferirsi e se è vero che siamo culturalmente superiori, la riflessione sarà posta in altri termini: in che modo dimostriamo di essere superiori e di difendere le nostre radici?
Max Frisch pone l’accento sulla centralità dell’individuo a scapito del valore demagogico della patria, concetto tramutato in pratica storicamente da sempre, basti pensare all’ospitalità che la Svizzera ha concesso ai dissidenti di qualsiasi nazionalità prima, durante e dopo le ultime guerre, alle avanguardie intellettuali sviluppatesi a Zurigo (una piccola città culla del dadaismo) e in particolare nei cantoni a tradizione non cattolica, più aperti alle innovazioni di ogni genere nonostante le popolazioni fortemente radicate e autoctone. La bandiera rossocrociata è simbolo di libertà di espressione, di culto e di scambio, e la Svizzera riesce a conciliare le tradizioni con la libertà individuale, con 4 lingue nazionali e con 26 cantoni autonomi.
Veniamo al punto. Con il 25% di residenti stranieri (un quarto della popolazione!), è il primo Paese europeo come numero di immigrati. Ed è vero che africani e nordafricani sono una percentuale insignificante, in maggioranza arrivano dagli altri Paesi europei, dai Balcani e dall’Europa dell’est, ma non è un caso né una fortuna, è semplicemente il frutto di una selezione dei richiedenti il domicilio attuata da sempre. Ai contingenti è avvezza anche la Spagna, che apre e chiude le frontiere come un rubinetto all’occorrenza, per citare un esempio più latino e cattolico. Detto questo si dirà che in tempi di emergenza non è un sistema equo, del resto anche la Germania ha scelto di dare la precedenza ai siriani a scapito di altre etnie (per poi invertire la rotta visti i problemi incontrati). E l’Italia che fa? Accoglie tutti indiscriminatamente spinta dalla correttezza buonista, da un Papa assetato di consensi, dal business legato alla migrazione e magari dalla pietas cattolica generalizzata (anche se non conosco nessuno che abbia un amico dell’amico che ospita mezzo migrante in casa). Poi però si scaglia contro i Paesi che certi problemi non hanno, e invece di copiare un sistema che funziona un po’ meglio, si adagia sui piagnistei vittimistici di ordinanza.
Nonostante l’irrisoria presenza di islamici, la Svizzera ha messo ai voti l’edificazione dei minareti, bocciati perché deturpano il paesaggio essendo più alti dei pini; il Canton Ticino ha approvato il divieto del velo che copre il viso, e altri cantoni si stanno allineando; a chi non si integra viene revocato il permesso di domicilio, per non parlare del processo di naturalizzazione che prevede la conoscenza di storia, ordinamento giuridico e geografia con ruscelli, valli e mazzi vari.
A queste condizioni un Paese risulta inappetibile a prescindere, almeno per chi vorrebbe importare usi e costumi in contrasto non solo con le leggi locali, ma addirittura col paesaggio. Per contro, chi ha il fegato di stringere la mano alla maestra e di mostrare il viso per strada gode di tutta l’assistenza del welfare, con una socialità che da noi se la sognano persino i cittadini italiani, il tutto con una pressione fiscale ridotta a fronte di servizi efficienti. La superiorità non consiste nell’accoglimento illimitato o nell’esaltazione per le migliaia di profughi raccolti in mare da sciorinare in sede europea per raccogliere consensi morali e fondi da impiegare in modo nebuloso, ma nella regolamentazione di un contingente accettabile cui offrire assistenza adeguata e reali possibilità di inserimento. “Integrazione” è un concetto sopravvalutato e inattuabile, sarebbe già un successo la convivenza pacifica, la tutela della dignità dell’immigrato e la salvaguardia dei nostri valori con cui non è moralmente accettabile scendere a compromessi. Tutto il resto è profonda noia da retorica mirata all’accattonaggio di consensi nell’immediato a scapito di una politica lungimirante, costruttiva e onesta. Ma per questo ci vorrebbe un vero statista, noi abbiamo solo il politico di turno.