L'Europa sta svoltando a destra via dal social nazicomunismo

L'Europa sta svoltando a destra via dal social nazicomunismo

Messaggioda Berto » lun mar 02, 2020 5:23 pm

Risultati elezioni Regno Unito, vittoria schiacciante dei conservatori. Brexit a un passo
I Tory del premier Boris Johnson in netto vantaggio con 368 seggi contro i 191 del Labour. Corbyn: "Non sarò leader Labour nelle prossime elezioni". Media Usa: "Il cambiamento più importante dalla Seconda guerra mondiale"
a cura di KATIA RICCARDI e ALESSIO SGHERZA,
12 dicembre 2019

https://www.repubblica.it/esteri/2019/1 ... 243317516/

Brexit, possibile voto già prima di Natale

LONDRA - Il Regno Unito ha deciso compatto, senza esitazioni: il partito Conservatore del premier Boris Johnson ha stravinto le elezioni britanniche. Secondo gli exit poll, confermate dai primi risultati in arrivo dallo spoglio delle schede nei singoli collegi, i Tory avrebbero 368 seggi, 50 in più rispetto alle elezioni del 2017. Una proiezione di Sky News conferma che i Tory otterranno tra i 358 e i 368 seggi a Westminster e che il premier Boris Johnson avrà un margine di maggioranza tra i 66 e 86 seggi. I laburisti avranno tra i 192 e i 202 seggi. "Grazie a tutti nel nostro grande Paese, a chi ha votato, a chi è stato volontario, a chi si è candidato. Viviamo nella più grande democrazia del mondo", ha esultato il premier britannico. "Ho ricevuto un mandato molto forte, andremo fino in fondo con Brexit", ha detto applaudito a notte fonda.
Il Labour si ferma a 191. Un risultato che per i conservatori non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher quando conquistò il terzo mandato nel 1987, e che segna la disfatta peggiore dal 1935 del partito di Jeremy Corbyn, che finisce subito sotto processo. Uno "shock", è stato il mesto commento di John McDonnell, esponente di punta dei laburisti, "sul futuro di Jeremy Corbyn saranno prese decisioni appropriate". E su Twitter rimbalza l'hashtag #CorbynOut. Lui, a tarda notte, dice che non guiderà il partito alle prossime elezioni. Corbyn però resterà leader per "un periodo di riflessione".
Soddisfatti i nazionalisti scozzesi che salgono di 20 seggi, lo Scottish National Party di Nicola Sturgeon, grande oppositrice della Brexit, può dirsi soddisfatta con 55 seggi. Male i LibDem fermi a 13 (non eletta la leader Jo Swimson), Plaid Cymru (3 seggi) e i Green stabili con un seggio. Il Brexit Party di Farage non elegge nemmeno un deputato a Westminster ma, si è consolato il leader, "otteremo la Brexit, abbiamo fatto un buon lavoro".


Elezioni in Gran Bretagna
12 DIC 2019
(ANSA) - ROMA

http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews ... AE2K-OQh3k

Il risultato laburista segnalato dagli exit poll (191 seggi), se confermato, è da considerarsi un tracollo per il partito guidato da Jeremy Corbyn. Deludenti anche i numeri attribuiti ai Lib-Dem, che otterrebbero soltanto 13 seggi, mentre 55 seggi andrebbero agli indipendentisti scozzesi (Snp). Da questi dati la nuova formazione guidata da Nigel Farage, il Brexit Party, non registra alcun seggio.



Valanga Boris: travolti Corbyn, europeisti e competenti nostrani che come al solito non hanno capito nulla Dario Mazzocchi e Federico Punzi
13 dicembre 2019

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... kZC7GnT25c

Non solo “Brexit done”. Un capolavoro di leadership e di politica: ha schiacciato Corbyn nell’angolo Remain scippandogli i voti dei Leavers laburisti e finito il lavoro puntando su industria e sanità pubblica, facendo dei Tories un One Nation Party

I numeri sono implacabili: 362 a 203 con soli 3 seggi ancora da assegnare. Per i Tories una vittoria storica: la più ampia maggioranza di seggi dal 1987 (la terza della Thatcher). Per il Labour la peggior sconfitta dal 1935. Ma il risultato di un’elezione non è mai scontato. Nelle ultime settimane i sondaggi davano i Conservatori in vantaggio in termini percentuali, ma lasciando dubbi sulla reale consistenza della maggioranza a Westminster, al punto da non poter escludere del tutto l’eventualità di un nuovo Hung Parliament. Nelle snap election del giugno 2017 l’allora premier Theresa May aveva ottenuto in termini percentuali e in voti assoluti un risultato ragguardevole, ma non bastò a causa della forte polarizzazione del voto tra i due partiti maggiori, che raccolsero oltre l’82 per cento dei voti (42 a 40). La storia si sarebbe potuta ripetere, ma negli ultimi giorni un indicatore diventato ormai infallibile ai nostri occhi rafforzava decisamente le chance di vittoria di Johnson: i giornaloni italiani infatti si sforzavano di accreditare la narrazione di un “recupero” Labour, gli elettori avevano deciso per il “voto tattico” nei collegi in bilico (tutti tranne lui!), annullando il vantaggio percentuale dei Tories (è la dura legge dell’uninominale!). Come al solito, si trattava di wishful thinking.

È andata esattamente al contrario, con i Tories che hanno strappato collegi storicamente laburisti. Insieme a Corbyn escono quindi asfaltati anche i nostri media mainstream con il solito circo di inviati, esperti ed eurolirici al seguito, non solo perché alcuni schierati con il leader laburista, “male minore”, ma soprattutto perché non si sono mai voluti rassegnare al fatto che gli inglesi non hanno cambiato idea su Brexit, non si sono pentiti, né hanno ceduto alla strategia della paura, alimentata dai continui rapporti secondo cui i supermercati si sarebbero svuotati e la Regina sarebbe dovuta fuggire da Londra. Hanno voluto dipingere Johnson come un cinico opportunista, un pericoloso pagliaccio, una macchietta, le cui bugie avrebbero trascinato a fondo il Regno Unito, non riconoscendo in lui l’uomo di profonda cultura e il politico di razza. Non sarebbe mai riuscito a convincere l’Ue a riaprire l’accordo di uscita, ad eliminare il backstop, dicevano e scrivevano gli inviati che non aveva nemmeno una proposta in tasca con cui presentarsi a Bruxelles. E sappiamo com’è andata. Sghignazzavano e si davano di gomito ad ogni “umiliazione” parlamentare che subiva (quante volte l’hanno dato per finito?), senza comprendere che proprio su quelle sconfitte Johnson stava pazientemente e sapientemente costruendo il successo di oggi e cucendo addosso ai suoi avversari i panni degli sconfitti.

Perché era chiaro che prima o poi al voto si sarebbe tornati. E così, ad ogni bocciatura dei Comuni e della Corte, ad ogni escamotage dei Remainer e provocazione di Bruxelles, prendeva forma la sua campagna, si rafforzava la sua immagine di leader del “Get Brexit Done” in contrapposizione alla palude di Westminster e ai Remainer che brigavano con Bruxelles per tenere il Regno Unito prigioniero dell’incertezza per chissà quanto. Ha costretto Corbyn all’angolo, portandolo prima a sposare definitivamente, voto dopo voto a Westminster, una posizione Remainer senza però né convinzione né una strategia chiara su come ribaltare il risultato del 2016, poi a mostrare di temere il ritorno alle urne che fino a poco tempo prima invocava quasi ogni giorno.

Quella di Boris Johnson è una vittoria della leadership e degli ingredienti di cui una leadership politica è fatta: carisma e coraggio, chiarezza e sintonia con gli elettori, strategia e abilità nel muoversi nelle istituzioni. I suoi eccessi comunicativi non sono fine a se stessi, ma il veicolo di argomenti forti e di una strategia precisa. Fin dal giorno in cui è entrato al Numero 10 di Downing Street, una ventata di energia e concretezza ha spazzato via il grigiore e le insicurezze trasmesse dalla May.

Brexit done, ma non solo. Fattore decisivo la stanchezza dell’elettorato per lo stallo su Brexit, che Johnson ha saputo interpretare al meglio: gli elettori a quanto pare avevano proprio una gran voglia di “Get Brexit Done”. L’immobilismo, l’indecisione, è quanto di più lontano dallo spirito degli inglesi. Occorreva dare una spallata ad un Parlamento bloccato sulla questione più delicata dal Dopoguerra ad oggi, un mandato forte e chiaro al primo ministro per risolvere la matassa e tornare a occuparsi delle tante faccende domestiche passate in secondo piano, ma che stanno a cuore ai britannici probabilmente più dei rapporti con l’Ue.

Mentre la May aveva trasmesso la sensazione di essere la causa prima dell’impasse, con i suoi tentennamenti e i suoi passi indietro, Johnson ha saputo ribaltare questa percezione, assumendo da subito una posizione molto netta e, soprattutto, ottimistica su Brexit (uscita con o senza accordo entro il 31 ottobre) e lasciando ai suoi avversari la paternità di arrocchi, rinvii, bizantinismi e confusione. Anche Theresa May diceva di voler deliver Brexit, ma in lei era palpabile la paura, la scarsa convinzione nella scelta di lasciare l’Unione europea, la logica di riduzione del danno con la quale ha approcciato i negoziati, venendo letteralmente sbranata da Bruxelles, mentre Johnson ha incarnato la fiducia, la visione di una Brexit che oltre ai rischi presenta anche l’opportunità di “Unleash Britain’s Potential”.

Chi chiedeva a gran voce un secondo referendum, invadendo le strade di Londra o dai palazzi su questo lato della Manica, è stato accontentato. Qualcuno potrebbe sbrigativamente concludere che i britannici considerano il laburismo di Corbyn più pericoloso della Brexit stessa. Oppure, più semplicemente ritengono l’esito del 2016 come assodato, piaccia o meno, e ora si aspettano dalle loro istituzioni che riprendano il controllo dopo troppo tempo.

Non solo Brexit, dicevamo, perché alla base del trionfo di Johnson c’è anche un posizionamento politico ben oltre la comfort zone conservatrice sui temi economico-sociali. Un’analisi più approfondita dei voti reali consentirà di capire quanto i Tories siano riusciti a sfondare nell’elettorato laburista, ma la prima impressione è che abbiano intercettato non solo i voti di coloro che tre anni e mezzo fa si erano espressi per il Leave e che oggi si sentono traditi dall’ondivago Corbyn, che aveva annunciato che non avrebbe preso posizione, da primo ministro, in occasione di un secondo referendum sul divorzio dall’Ue.

Oltre che ai temi cari agli elettori di destra come la sicurezza, l’impresa privata e le tasse, Johnson si è dedicato per tutta la campagna elettorale a temi molto cari alla sinistra tradizionale, come i servizi pubblici, le infrastrutture e i cambiamenti climatici, impegnandosi a rafforzare il sistema sanitario nazionale (NHS) e quello dell’istruzione, e mettendo al centro della sua campagna i lavoratori, dalla manifattura alla pesca. Senza mancare di rassicurare la City, promettendo un’agenda economica liberale, a partire dai prossimi rapporti commerciali con l’Europa e il resto del mondo.

Con queste elezioni Johnson potrebbe quindi aver ridisegnato i confini conservatori, rendendoli quelli di un One Nation Party, fondendo componenti compassionevoli e liberali, sociali e imprenditoriali. Elementi non nuovi per chi lo conosce, sorprendenti per chi soprattutto in Italia lo ha superficialmente dipinto come un estremista di destra (e ora non gli resta che attaccarsi alla questione scozzese per provare a ridimensionare il suo successo).

Ha voluto rischiare e andare all-in, portando gli avversarsi allo scoperto e chiedendo le urne anticipate: poteva andare a sbattere e invece ha letteralmente sfondato – come nell’efficace spot elettorale in cui con una ruspa abbatte il muro dell’Hung Parliament.

E la nota positiva è che oltre ai tentativi di fermare la Brexit, votando in massa per i Tories gli elettori britannici hanno rigettato con forza l’islamo-marxismo e l’antisemitismo di cui era portatore il Labour di Corbyn.



Blair: “Labour vergogna, comico sulla Brexit. Rischia di sparire” –
18 dicembre 2019

http://blog.ilgiornale.it/cesare/2019/1 ... gQlM9DxDY8

Il risultato elettorale del Partito laburista? “Una vergogna. Abbiamo deluso il nostro Paese”. Le ragioni della peggiore sconfitta della sinistra inglese dal 1935? “Un’indecisione quasi comica sulla Brexit, che ci ha alienato tutte e due le parti del dibattito”, europeisti e antieuropeisti.
E poi ancora, a pesare sul pessimo risultato, è stata l’offerta di un “socialismo quasi rivoluzionario, un mix di politica economica di estrema sinistra, unito a una profonda ostilità verso la politica estera occidentale”. Infine lui, Jeremy Corbyn, visto dagli elettori come un leader “fondamentalmente in contrapposizione con quello che la Gran Bretagna e l’Occidente rappresentano”, sostenuto da un movimento di protesta totalmente incapace di essere votato come “governo credibile”.

Parla così oggi a Londra Tony Blair, il premier di maggior successo della storia del Labour (vincitore di tre elezioni consecutive, al governo dal 1997 al 2007), poi finito nel cono d’ombra del suo stesso partito, i cui vertici si sono spostati più a sinistra. Oggi Blair è in parte rimpianto dagli elettori (poco), in parte ancora odiato (molto) per la decisione di coinvolgere il Regno Unito nella guerra in Iraq, per il suo stile di vita, le amicizie con i ricchi del pianeta e le consulenze milionarie in giro per il mondo, anche a favore di qualche regime non proprio specchiato.

Eppure nessuno meglio di lui, che fu l’uomo della Terza Via europea e seppe trovare un compromesso fra destra e sinistra, fra libero mercato e politiche di solidarietà, può restituirci un’analisi altrettanto lucida e incisiva sulla debacle laburista. Blair arriva al cuore del problema e non è difficile capire perché: conosce bene gli elettori, specie quelli di centro che era riuscito a conquistare riportando il Partito Laburista al governo. Conosce il business e le imprese, con cui aveva rilanciato l’economia negli anni della Cool Britannia. Perciò è certo di quello che ormai sembra chiaro a tutti e che lui aveva largamente anticipato: se non fosse stato per Corbyn, per la sua decisione di accettare l’elezione di Natale, di cadere cioè nella trappola di Boris senza avere una linea chiara sulla Brexit, “avremmo tenuto gran parte dei nostri voti nelle aree laburiste tradizionali”. E se non fosse stato per l’incapacità di Corbyn di affrontare l’antisemitismo nel partito – una circostanza “che ci ha lasciato disgusto” – non ci saremmo “sentiti per la prima volta in conflitto nel votare Labour”.

A proposito del programma laburista alle ultime elezioni – una sfilza di promesse ambiziose e costose, che Corbyn ancora difende – Blair è lapidario: “È stato un urlo contro il sistema ma non è un programma di gioverno” . E ancora: “Qualsiasi pazzo può promettere qualsiasi cosa gratis, ma la gente non si è fatta prendere in giro”.

Cosa accadrà adesso? Corbyn ha detto che si farà da parte con il nuovo anno. Molti gli rimproverano di continuare a logorare il partito senza un’uscita di scena immediata. Il Labour deve scegliere la sua anima. Ma soprattutto – dice Blair – deve rinnovarsi. “O si rinnova, come un concorrente per il potere, serio, progressista e non conservatore. Oppure, se rinuncerà a questa ambizione, sarà sostituito. La scelta è questa: cruda, dura, difficile, ma vera”. “Per conquistare il potere, abbiamo bisogno di autodisciplina, non di autoindulgenza, dobbiamo ascoltare cosa dice davvero la gente, non sentire solo la parte che vogliamo ascoltare noi” . Infine serve creare una nuova agenda politica, al centro della quale deve esserci la “comprensione e mobilitazione dell’industria tecnologica, che è l’equivalente della Rivoluzione industriale del XIX secolo”.

Cosa vuol dire questo? Che “c’è una montagna da scalare” per il Labour, come ha ammesso uno dei candidati alla leadership, Keir Starmer, fin qui ministro ombra per la Brexit e come Blair favorevole a un secondo referendum. Ma il tempo scorre. E Re Boris, con una maggioranza schiacciante e il “governo del popolo”, proverà ora a conquistare per sempre i cuori della working class.






Brexit è qui per restare: smontati stereotipi e pregiudizi, la sfida è solo all'inizio
Atlantico Quotidiano
Dario Mazzocchi
31 Gen 2020

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... OtKy5bxB6s

Smentiti quelli che “Brexit non si farà mai”, ecco l’altro volto della Brexit, quello positivo e liberale che eurolirici e disfattisti hanno preferito non vedere, perché rischia di mostrare che c’è vita al di fuori dell’Ue

Il fatidico giorno, dunque, è arrivato: finisce gennaio ed inizia Brexit. Dopo un lungo e politicamente drammatico parto il Regno Unito esce ufficialmente dall’Unione europea. È un passaggio epocale, uno stato membro che esce dal blocco. Impensabile anche a poche ore dalla chiusura delle urne il 23 giugno 2016, quando il divorzio non era stato preso davvero in considerazione nella sua totalità, ma solo come un’eventualità giudicata per lo più remota, mentre l’esito del referendum ha finito per scatenare un forte terremoto nello status quo contemporaneo, seguito da lì a pochi mesi dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Ipotesi irrealizzabili per i più, nei dibattiti e nelle analisi, nel susseguirsi di opinioni e previsioni. Invece, è successo e sta succedendo.

Una lunga strada e siamo solo all’inizio – Brexit per troppo tempo e in modo errato è stata descritta come l’affermazione del populismo Oltremanica, come il trionfo delle bugie e delle paure sui dati di fatto e sulla realtà, come la costruzione di nuovi muri per isolarsi dal resto del mondo di fronte ai sempre più consistenti flussi migratori verso l’Europa. Parafrasando il poeta settecentesco irlandese Jonathan Swift, è stato commesso l’errore di scambiare le voci degli ambienti cosmopoliti londinesi per il sentimento della nazione. Eppure, il Regno Unito è sempre stato fondamentalmente poco incline all’europeismo e, negli ultimi anni di convivenza, la strategia di Bruxelles di dare vita ad un’unione sempre più profonda e ramificata ha riacceso quegli stessi animi che sembravano – sembravano – sopiti durante i mandati di Tony Blair e agli inizi dell’avventura da primo ministro di David Cameron, che infatti decise di scommettere in modo pesante per consacrare il suo operato garantendo che con la sua rielezione del 2015 il popolo avrebbe avuto la facoltà di esprimersi sulla permanenza nell’Ue. Poco più di un anno dopo avrebbe rassegnato le sue dimissioni.

Cos’è stata e cosa sarà questa benedetta Brexit? Se per gli strenui difensori del modello europeista resta un errore irreparabile, per i britannici è stata ed è una sonora richiesta di take back control inoltrata all’establishment, oltre che una stagione mai vissuta in precedenza di scontri e divisioni che hanno aggiunto ulteriori scosse telluriche ad un sistema impreparato, al punto da non sapere come procedere, dando fiato ai disfattisti. Termini come crisi istituzionale, emergenza nazionale e tracollo economico si sono diffusi come una pandemia, mentre la vita di tutti i giorni andava avanti. Theresa May che giocava male le carte in mano, mancando di una chiara strategia per le contrattazioni e di una solida maggioranza parlamentare; i Comuni che dettavano l’agenda e poi finivano per non trovare un accordo; l’Ue che imponeva continui diktat nella speranza che l’Articolo 50 venisse definitivamente revocato; le strade di Londra che si riempivano di manifestati pro e contro – soprattutto contro – Brexit; il luogo comune che il popolo si fosse pentito della sua scelta, unitamente all’idea che la democrazia sia sopravvalutata, quando non in grado di garantire l’esito sperato.

Tirare dritto – Proprio quando sembrava naufragare contro un bianco scoglio di Dover, Brexit è invece proseguita, suggellata dal trionfo di Boris Johnson alle elezioni di dicembre. Pragmatismo anglosassone: andiamo avanti e passiamo oltre, abbiamo perso fin troppo tempo. C’era un nuovo accordo con l’Ue (che sembrava impossibile ottenere), c’era un candidato con le idee chiare e ottusamente a favore dell’addio, quindi denigrato sulla pubblica piazza da chi era ancora fermo al 13 giugno 2016, e c’era una proposta alternativa che non avrebbe dato scampo, quella presentata dal fallimentare Jeremy Corbyn di ricominciare da capo, con un secondo referendum. L’esito è stato lampante e improvvisamente è calato il silenzio: Brexit è scomparsa dai titoli, dai talk show politici, dalle cronache marziane di chi aveva confuso le voci degli ambienti cosmopoliti londinesi per quelle dei quattro angoli del regno, accettata a malincuore dagli hooligans del fusionismo europeo, tornati però a farsi vivi a ridosso del fatidico termine.

“Il processo di messa in atto del referendum è stato così lungo e penoso che a Bruxelles anche coloro che non volevano il distacco della Gran Bretagna (ed erano nettamente la maggioranza) stanno ora tirando un respiro di sollievo”, ha commentato dalle colonne del Messaggero domenica scorsa Romano Prodi, convinto che Londra abbia fallito nel tentativo di dividere la grande famiglia europeista. È una sua legittima convinzione, ma che il voto del 2016 avesse quell’intento è tutto da dimostrare.

Out and into the world – C’è chi piuttosto guarda a Brexit con attenzione, curiosità e interesse, senza farne una barricata ideologica – come Capezzone, Punzi e altri autori hanno tentato di fare ormai due anni e mezzo fa in “Brexit. La sfida” (Giubilei Regnani, 2017). Sono molti coloro che cercano un’alternativa alla sovrastruttura architettata nei corridoi di Bruxelles, spesso soggetta alla diarchia Berlino–Parigi. Non sono per forza contrari al concetto in sé di collaborazione economica e politica tra gli stati membri, ma si augurano che venga messo un freno alla seconda. Credono che l’identità dei Paesi sia un punto di forza e non un peso e che si possano ottenere benefici dalle relazioni con gli altri senza dover per forza adeguarsi a linee guida che non giocano a favore dei propri interessi nazionali. Confidano nel pluralismo e guardano con sospetto alle armonizzazioni forzate a colpi di direttive. Sono i connotati di quella che noi di Atlantico abbiamo definito da tempo la Brexit liberale di Johnson, il quale ora ha i numeri per mantenere la promessa e per riproporli durante le trattative che caratterizzeranno il periodo di transizione che inizierà con lo scoccare della mezzanotte.

Non è certo escluso che tra le anime di quel popolo che nel 2016 ha scelto il Leave trovino spazio quelle ancorate ad un passato che non può tornare e all’isolazionismo autarchico, ma non sono mai state maggioranza, se non per un certo sensazionalismo mediatico e la stravaganza di alcuni suoi portavoce. Tanto può bastare a chi si accontenta di soffermarsi sulla superficie e preferisce non scavare a fondo, per tirare affrettate conclusioni, ma in un momento storico come quello in atto il buon senso dovrebbe suggerire di non cadere in tentazione. Out and into the world era lo slogan degli euroscettici britannici già negli Anni Settanta, riposto in seguito in un cassetto, ma non nel dimenticatoio, quanto tra le cose da conservare perché potrebbero sempre tornare utili. La vita dopo Brexit proseguirà in modo meno tenebroso di quanto si prospettava – e qualcuno probabilmente si augurava. Non mancheranno nemmeno le scorte alimentari sugli scaffali dei supermercati. Si concretizzerà invece un’alternativa che aiuterà a considerare nuove vie e ad esplorare nuove strade, non per radere al suolo ciò che c’è quanto piuttosto per migliorare e tenere il passo dei tempi che cambiano. Sempre ammesso che se ne abbia il coraggio.








Ecco perché Londra ha staccato la spina all'Europa
Lorenzo Vita
1 febbraio 2020

https://it.insideover.com/politica/lond ... qwGXY6NlKs

Il Regno Unito lascia ufficialmente l’Unione europea ed entra in una nuova era ripartendo dal suo passato. Niente più costola atlantica dell’Europa né “serpe in seno” come definita da molti del sistema voluto da Bruxelles. Londra esce dall’Europa e torna a pensare se stessa come potenza in grado di gestire la propria strategia senza essere parte in un sistema politico continentale. E la Brexit rappresenta il primo step per una riscoperta del mondo da parte dei britannici dopo che per qualche decennio avevano creduto (senza troppe illusioni) di poter essere anche parte dell’Unione europea.

I cittadini britannici, ma soprattutto gli strateghi di Downing Street, non hanno mai avuto una grande percezione di se stessi come europei. E la Brexit, che sancisce il divorzio tra Londra e Bruxelles, è solo la presa di coscienza di un ruolo che il Regno Unito non ha mai voluto condividere con le potenze europee. Paese votato al mare contro un blocco terrestre, Stato indipendenti per natura contro un blocco multilaterale che ha sempre ritenuto distante, alla ricerca dell’Atlantico e sempre meno della Manica, il Regno Unito ha fatto una scelta difficile, pericolosa e non certo semplice consapevole che in fondo la sua strategia è sempre stata questa: non essere parte dell’Europa ma evitare che qualcuno prendesse il sopravvento nel Vecchio continente. Ci è riuscita per 47 anni dentro l’Ue. Ci è riuscita adesso con la Brexit, dal momento che il terremoto che ha colpito l’Europa ha comunque inferto un colpo durissimo ai piani dell’asse franco-tedesco e in particolare della Germania. E ha posto certamente una pietra tombale sulle certezze oniriche di chi ha creduto che l’Europa potesse solo crescere ed espandersi. Una doccia gelata che vede dal’altra parte il cambiamento del mondo.

Perché quello che ha fatto la Gran Bretagna è in realtà parte di un’evoluzione molto più grande che include tutti gli angoli del mondo: Europa compresa. Londra non va via da un’Europa che conta, ma da un’Unione europea sempre più debole e instabile e su cui si sono posti gli occhi inflessibili delle superpotenze che per decenni hanno voluto mantenere lo status quo. Oggi l’Ue non serve e gli Stati Uniti, che per molto tempo hanno tollerato (o benedetto) l’Unione come espressione europea della Nato, oggi non hanno più interesse a questo blocco di Stati guidato da Bruxelles ma in realtà da Berlino e Parigi e che compete con Washington. E Donald Trump, punta di diamante di questa strategia americana, è arrivato non a caso mentre il Regno decideva per la Brexit. I due fenomeni non sono così distanti come sembrano. E le due sponde dell’Atlantico hanno deciso una via sovranista ante litteram quasi insieme, come a voler confermare che l’Atlantico avrebbe staccato la spina all’Europa.

Così è stato. E proprio a porre il sigillo su questa dinamica atlantica, Boris Johnson ha visto da subito in Trump il suo interlocutore privilegiato, sin dai tempi della sua carica di ministro degli Esteri. Sia chiaro: non senza divergenze. L’ultima mossa di Londra di aprire a Huawei nel 5G britannico è un messaggio chiarissimo nei confronti dell’alleato statunitense. Ma è chiaro che la special relationship atlantica ne uscirà comunque rafforzata, come confermato anche dalle parole di Mike Pompeo pochi minuti dopo lo scoccare della mezzanotte del primo febbraio.

Ma la decisione sul 5G da parte del governo conservatore indica anche dell’altro. L’apertura verso Huawei non è soltanto un’operazione di “rivolta” contro le decisione imposte dal Pentagono e dalla Cia ma anche il segnale di come a Londra vogliano il dialogo con Pechino. La Cina ha subito fatto intendere di essere particolarmente interessata al Regno post-Brexit. Ed è chiaro che adesso Johnson guarda al gigante asiatico come un Paese in grado di investire molto più liberamente sul territorio inglese pur con le cautele imposte dalla relazione con Washington. In questo senso, il pericolo che la City diventi una sorta di paradiso fiscale o che si costruisca un asse finanziario tra Shanghai, Hong Kong e la capitale britannica preoccupa (e molto) Francoforte. E gli investitori cinesi sanno di poter fare affari in un Paese che ha nel commercio e nella globalizzazione il suo punto di forza.

Global Britain ripetono a Londra. Ed è questo l’obiettivo del governo che sa di avere dalla sua gli Stati Uniti, e di poter contare sulla Cina. Non potrà certo contare sulla Russia, di cui Londra continua a essere un rivale strategico. Ma in questo momento al Regno Unito interessa prendere la sua posizione di forza nell’Anglosfera, ricucendo con il Commonwealth, ribadendo le sue linee sul controllo dei mari, riprendendo i dossier sulle ex colonie ma senza sganciarsi definitivamente dall’Europa, in particolare nel campo della Difesa e del commercio, con cui il Regno Unito ha troppo interscambio per sfuggire. Una strategia complessa ma che parte da un dato: niente ha avuto inizio soltanto con la Brexit, ma sarà proprio l’uscita dall’Ue a segnare il cambio di passo. Non è detto che Londra torni, ma di sicuro l’obiettivo è uno: mollare l’ancora dell’Europa per navigare (certamente a vista) verso gli Oceani. Global Britain, appunto.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Messaggioda Berto » lun mar 02, 2020 5:24 pm

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Messaggioda Berto » lun mar 02, 2020 5:24 pm

Germania, l'ultradestra fa tremare la Turingia. Vince il candidato liberale con l'aiuto dell'Afd
TONIA MASTROBUONI
5 febbraio 2020

https://www.repubblica.it/esteri/2020/0 ... 5TZumtJZwg

BERLINO - Terremoto in Germania: per la prima volta un governatore regionale è stato eletto con l’appoggio dell’ultradestra Afd. In Turingia, land dell’ex Germania Est, il liberale Thomas Kemmerich si è candidato a sorpresa contro il governatore uscente, Bodo Ramelow (Linke). Ed è passato con lo scarto di un solo voto: 45 a 44, ma sostenuto da Cdu, Fdp e Afd. È un voto che fa tremare la Grande coalizione a Berlino.

Durissima la reazione della leader della Cdu, Annegret Kramp-Karrenbauer. Al livello locale il suo partito avrebbe agito “apertamente contro i consigli, le richieste e le preghiere del partito federale”. Secondo la ministra della Difesa “bisogna riflettere sull’eventualità di nuove elezioni”. Persino il capo del partito del nuovo governatore non sembra felicissimo del risultato. Secondo Christian Lindner (Fdp) “se “la Cdu/Csu, la Spd e i Verdi non cooperano, bisognerà indire nuove elezioni”.
Il sospetto di accordi segreti tra la Cdu, Fdp e l’Afd, al livello locale, è però enorme. Nonostante il veto di Annegret Kramp-Karrenbauer su qualsiasi alleanza con l’ultradestra, il capo in Turingia dei cristianodemocratici, Mike Mohring, ha condotto colloqui con l’Afd, all’indomani delle elezioni dello scorso autunno. Poi si è catapultato dal lato opposto dello spettro politico e ha flirtato con la sinistra radicale, con la Linke.

Il risultato di oggi è anzitutto un trauma per il partito di Angela Merkel. Mohring si è affrettato a puntualizzare di aver appoggiato “un candidato centrista” e di non sentirsi responsabile per “le scelte di altri partiti”, cioè per l’appoggio dell’Afd. E ha aggiunto di aspettarsi “una chiara presa di distanza” del neo governatore dall’Afd. Non si capisce però chi potrebbe sostenerlo, dopo il ‘bacio della morte’ dell’ultradestra. Kemmerich stesso si è detto “anti-Afd” e “anti-Höcke”, ma per ora è solo la Cdu ad essersi dichiarata disponibile a governare con lui.

Le reazioni, anche a sinistra, non si sono fatte attendere. Minaccioso il vicecancelliere, Olaf Scholz (Spd). Su Twitter ha fatto sapere di ritenere “inaccettabile” la “rottura del tabù” del caso Kemmerich, di ritenere la vicenda non casuale ma “organizzata” e ha promesso che ne chiederà conto al partner di governo, la Cdu. Il segretario generale della Spd, Lars Klingbeil, parla di un “punto bassissimo della storia del dopoguerra tedesco, non solo della Turingia”; il suo collega di partito, Kevin Keuhnert, è convinto che “il 5 febbraio 2020 è una data che sarà ricordata dagli storici”. L’esponente storico dei Verdi Juergen Trittin rimprovera la Fdp di “essersi fatta votare dai fascisti”. Il capo della Linke, Bernd Riexinger, si chiede: “quanto è caduta in basso la Fdp per far eleggere un governatore con i voti dei fascisti di Höcke e dell’Afd? È la rottura di un tabù dalle conseguenze incalcolabili”.

La Turingia è infatti il feudo del capo dell’ala estremista dell’Afd, Björn Höcke, che potrebbe essere stato il regista occulto del colpo di scena sulle sponde dell’Elba. E qualche giornale come il Tagesspiegel si spinge già a ipotizzare l’uscita della Spd dalla Grande coalizione.

Kemmerich si era candidato dopo che Ramelow aveva cercato di farsi confermare dal parlamentino con un’alleanza rosso-rosso-verde, di Linke, socialdemocratici e verdi. Per due volte i parlamentari regionali gli hanno negato la maggioranza assoluta. Al terzo passaggio sarebbe bastata una maggioranza semplice, e, a sorpresa, Ramelow è stato battuto dall’avversario della Fdp. E siccome il candidato dell’Afd, Christoph Kindervater, non ha incassato neanche un voto, è chiaro che nel segreto dell’urna i voti dell’ultradestra sono confluiti su Kemmerich.




Speriamo che la crisi tedesca si amplifichi e porti a nuove elezioni e a una paralisi dell'Europa sovietica, con conseguenze anche per l'Italia

La crisi della Germania avrà ripercussioni sull'Unione europea
Roberto Vivaldelli
13 febbraio 2020

https://it.insideover.com/politica/la-c ... LWQitSpY-M


L’entrata di Berlino in una fase di stallo politico per via delle dimissioni di Annegret Kramp-Karrenbauer, che si è dimessa dalla presidenza della Cdu e, soprattutto, ha rinunciato alla corsa per la cancelleria, aprendo così la corsa alla successione, avrà pesanti conseguenze anche sul fronte politico comunitario. Come l’ha definita il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, dopo tutto che cos’è l’Unione europea se non “un impero liberale, o meglio, neoliberale: un blocco strutturato gerarchicamente e formato da Stati nominalmente sovrani la cui stabilità si mantiene grazie a una distribuzione del potere dal centro verso la periferia”?

E se al centro “si trova una Germania che cerca, più o meno, con successo, di dissimularsi all’interno del nocciolo duro dell’Europa (Kernereuropa)” e quest’ultima è entrata, di fatto, in una fase di crisi politica, a farne le spese è di conseguenza tutta l’Europa. In questa fase complessa, complici le dimissioni di Akk, come nota IlSole24Ore, la Germania assumerà il 1°luglio la presidenza di turno dell’Unione. Sono in programma discussioni importanti, legate al bilancio comunitario 2021-2027, al Green Deal, e anche al prossimo patto migratorio. E la Germania molto probabilmente non sarà in grado di gestirle.


“La crisi della Germania lascia l’Europa senza guida”

Come nota il New York Times, le dimissioni Annegret Kramp-Karrenbauer “non faranno altro che intensificare le domande su dove sta andando la Germania”. L’incertezza su chi succederà ad Angela Merkel, osserva il Nyt, estenderà “il senso di paralisi che sta frustrando gli alleati della Germania nell’Unione Europea e Washington”. Guntram Wolff, direttore dell’istituto di ricerca economica di Bruegel a Bruxelles, ha affermato che con l’incapacità della Merkel di realizzare una transizione ordinata, “le principali iniziative dell’Unione europea non andranno da nessuna parte fino all’autunno del prossimo anno.

Jana Puglierin, a capo dell’ufficio berlinese dello European Council on Foreign Relations, ha affermato: “Non mi aspetto elezioni anticipate, ma temo una paralisi in politica estera ed europea della coalizione al potere. Da Berlino non giungeranno nuove e grandi idee. Nei prossimi mesi, la Germania rischia di guardarsi l’ ombelico”. Lo sguardo di molti osservatori, sottolinea IlSole24Ore, è rivolto al processo di riforma della zona euro. Sul tavolo c’ è ancora il completamento dell’unione bancaria, in particolare la creazione di una assicurazione in solido dei depositi, e altre forme di condivisione delle risorse. Ma come spiega Eric Maurice, rappresentante a Bruxelles della Fondation Schuman, “in questa fase, e a ridosso di una prossima incertissima campagna elettorale, Berlino sarà restia a fare scelte su questo fronte”.


La crisi dalla Turingia

La goccia che ha fatto traboccare il vaso e minato la leadership già incerta di Akk è arrivata dalla Turingia. Il primo ministro Thomas Kemmerich, presidente del Partito liberaldemocratico (Fdp) nel Land, era stato eletto grazie ai voti di Afd, battendo il governatore uscente, Bodo Ramelow della Linke. Kemmerich ha vinto per un solo voto, 45 a 44. Come riporta il settimanale Der Spiegel, Kemmerich avrebbe dovuto presiedere un governo di minoranza formato da Fdp e Unione cristiano-democratica (Cdu). L’avventura di Kemmerich, tuttavia, è finita ancora prima di cominciare. Come riporta Der Taggespiegel, l’Fdp della Turingia aveva presentato la richiesta dello scioglimento del parlamento statale, al fine di chiedere nuove elezioni. Il neopresidente ha annunciato di dimettersi definendo il passo “inevitabile”.


Alberto Pento
Speriamo che la crisi tedesca si amplifichi e porti a nuove elezioni e a una paralisi dell'Europa sovietica, con conseguenze anche per l'Italia




Il partito di Angela Merkel è stato pesantemente sconfitto alle elezioni ad Amburgo
lunedì 24 febbraio 2020

https://www.ilpost.it/2020/02/24/amburg ... 1CWbnCHJn0

Il partito dell’Unione cristiano-democratica (CDU) della cancelliera tedesca Angela Merkel, ha subìto una pesante sconfitta nelle elezioni della città stato di Amburgo. Stando ai primi risultati di domenica sera, il suo candidato, Marcus Weinberg ha ottenuto l’11,2 per cento dei voti, il peggior risultato degli ultimi 70 anni.

Peter Tschentscher, candidato del partito Socialdemocratico (SPD), ha ottenuto il 39 per cento dei voti e Katharina Fegebank dei Verdi il 24,2 per cento, crescendo del 13 per cento rispetto alle elezioni precedenti nel 2015. Il partito di estrema destra AfD ha ottenuto il 5,3 per cento dei voti, superando appena la soglia di sbarramento per restare in Parlamento. Amburgo verrà probabilmente governata dalla coalizione uscente tra i Verdi e la SPD.

La CDU si trova in difficoltà dopo l’annuncio di dimissioni, date a inizio febbraio, della sua leader Annegret Kramp-Karrenbauer, considerata l’erede di Merkel. Kramp-Karrenbauer le aveva annunciate dopo che un esponente del Partito liberale, Thomas Kemmerich, era stato eletto governatore della Turingia grazie ai voti sia della CDU che degli estremisti di destra dell’AfD, spesso accusati di razzismo e di vicinanza con gruppi neonazisti. L’episodio si era concluso dopo un intervento di Merkel e con le dimissioni di Kemmerich ma aveva avviato un grande dibattito nella CDU, che aveva sempre escluso di poter collaborare con l’AfD.

Secondo i sondaggi, la scorsa settimana il consenso per l’AfD era crollato dopo l’attacco armato a sfondo razzista a Hanau, dove un uomo aveva sparato in due bar uccidendo 9 persone, perlopiù di origine straniera. Il suo corpo era stato ritrovato a casa sua insieme a quello della madre: si era presumibilmente suicidato dopo averla uccisa.



Germania: regionali Amburgo, conferma per i rosso-verdi. Calano Cdu e AfD
Peter Tschentscher (Ansa)
23 febbraio 2020

http://www.rainews.it/dl/rainews/artico ... 80b34.html

L'AfD entra per poco nel Parlamento regionale, i Verdi raddoppiano i propri consensi, la Spd tira un sospiro di sollievo e mantiene il governo di Amburgo, cala la Cdu: stando ai primi risultati, l'atteso voto per il rinnovo del Landtag della città-Stato anseatica assume un significato politico significativo per tutta la Germania.

Per i socialdemocratici il 39,2% dei consensi, pur in netto calo rispetto alle elezioni di cinque anni fa, l'esito del voto rappresenta un importante sospiro di sollievo: per il partito che fu di Brandt e di Schmidt la prima vittoria importante da anni, che assicura a Peter Tschentscher di mantenere il suo posto di sindaco. Raddoppiano, come previsto, i Verdi che dal 12,3% del 2015 balzano con la loro candidata di punta Katharina Fegebank al 24,1% attestandosi come seconda forza politica di Amburgo: è dunque praticamente certo che l'attuale coalizione 'rosso-verde' continuerà la sua esperienza di governo.
È invece "un giorno amaro" per la Cdu di Frau Merkel, che vede anche qui un'emorragia di voti da quasi il 16% all'11,2%. Come ha ammesso lo stesso Paul Ziemiak, capo organizzativo dei cristiano-democratici, sicuramente non ha aiutato la performance del partito in Turingia, dove si è ritrovato a votare insieme all'ultradestra dell'Afd il nuovo governatore del Land. Con esiti disastrosi: lo stesso presidente costretto alle elezioni, indignazione in tutto il Paese, la leader della Cdu Annegret Kramp-Karrenbauer che annuncia le proprie dimissioni nonché la rinuncia a correre come prossima candidata alla cancelleria.

Ma l'altro essenziale dato politico uscito dalle elezioni di Amburgo è il debolissimo risultato dell'AfD: il partito dell'ultradestra guidato da Alexander Gauland, Alice Weidel e Joerg Meuthen ha il 5,2% (più di un punto sotto il risultato del 2015). A detta dei commentatori, anche qui può avere giocato un ruolo il caso Turingia - ogni forma di collaborazione con la destra radicale è considerata la "rottura degli argini", la violazione di un tabù per gli altri partiti - ma forse ancora di più la strage di pochi giorni fa ad Hanau, in Assia: praticamente tutte le altre forze politiche hanno puntato apertamente il dito contro l'AfD, considerata responsabile del "clima d'odio" e delle tendenze xenofobe che sono andate crescendo in Germania negli ultimi anni.

In difficoltà anche i liberali dell'Fdp, dati intorno al 5% e a rischio esclusione Landtag: non è escluso che pure su questo debole dato abbia influito "l'affaire Turingia", dove l'Fdp ha votato insieme a Cdu e AfD per far eleggere il proprio candidato. Srtabile, infine, il partito della sinistra populista, la Linke, al 9,1%.
Esultano (pur avendo perso più di 8 punti rispetto a cinque anni fa) i socialdemocratici, che mantengono il governo di una grande città. Il vicecancelliere nonché ministro alle Finanze, Olaf Scholz, infatti spera che il voto amburghese "sia una spinta" per il partito nazionale e si dice "superfelice" del risultato. Esulta il ministro degli Esteri Heiko Maas, non solo per il risultato del suo partito, la Sdp, ma anche per la cattiva performance dell'AfD: "Gli istigatori d'odio e propagatori di paura sono fuori", ha twittato Maas. Il segretario generale dell'Spd, Lars Klingbeil, è tornato a chiedere che l'ultradestra venga messa "sotto osservazione" dall'intelligence tedesca: "Si tratta del braccio politico della destra estrema".

Di successo "fulminante" parla il leader nazionale dei Verdi, Robert Habeck, anche perché si tratta storicamente del secondo miglior risultato nella storia degli ambientalisti a livello regionale. "Si tratta di una chiara indicazione per la continuazione del governo rosso-verde. Se la Spd decidesse altrimenti, non sarebbe una scelta intelligente", ha detto Habeck.
Di contro, l'AfD, con il suo candidato di punta Dirk Nockeman, punta il dito contro gli altri partiti, accusandoli di aver messo in atto "una campagna di emarginazione" nei confronti dell'ultradestra. Alla pubblicazione degli exit poll e delle prime proiezioni, alle feste di partito di Spd e Verdi i militanti hanno inneggiato alla vittoria al grido di "Nazis Raus" (fuori i nazisti). Significativo anche il notevole aumento dell'affluenza, attestatasi al 62%: cinque anni fa, con il 56,9%, aveva raggiunto il livello più basso sin dal 1949. Anche questo il segnale del fatto che è stato un voto che andava oltre i confini della città-stato.


Alberto Pento
L'AfD non è nazista, i nazisti erano social nazionalisti, razzisti e totalitari, l'AfD è liberal nazionalista nativista non razzista e democratica che è molto diverso. E ha perso solo l'1,...% e non certo per i fatti di Hanau.


Via questa Europa sinistra prima che sia troppo tardi:
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 0015260892
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Messaggioda Berto » lun mar 02, 2020 5:24 pm

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Messaggioda Berto » lun mar 02, 2020 5:25 pm

In Slovacchia hanno vinto i populisti di destra
Il Post
domenica 1 marzo 2020

https://www.ilpost.it/2020/03/01/slovac ... K7xYm0eNUs

Alle elezioni parlamentari OL’aNO ha staccato nettamente i socialdemocratici che erano al governo da 15 anni, e ora proverà a fare un governo con gli altri partiti di opposizione

Il partito populista di destra e anti-corruzione Gente comune e personalità indipendenti (OL’aNO) ha vinto le elezioni parlamentari che si sono tenute in Slovacchia sabato, ottenendo circa il 25 per cento dei voti e staccando di quasi sette punti i socialdemocratici di Direzione – Socialdemocrazia (Smer), che erano al governo da quindici anni. Igor Matovic, il leader di OL’aNO, ha detto che proverà a formare «il miglior governo che la Slovacchia abbia mai avuto, con l’aiuto degli altri leader dell’opposizione democratica». Si prevede che il governo includerà anche l’estrema destra, in forte ascesa negli ultimi anni in Slovacchia.

È stato un risultato superiore alle aspettative per OL’aNO, che negli ultimi sondaggi era dato quasi appaiato a Smer ma che l’ha invece abbondantemente superato, dopo una campagna elettorale basata soprattutto sulle promesse di combattere la corruzione e che ha cavalcato le proteste di piazza seguite all’omicidio del giornalista investigativo Ján Kuciak, che stava conducendo delle inchieste sui legami tra criminalità organizzata e persone vicine a membri del governo. L’omicidio aveva costretto alle dimissioni il primo ministro Robert Fico, di Smer, a cui era succeduto il compagno di partito Peter Pellegrini.

OL’aNO è un partito senza una visione politica coerente e definita: nei suoi nove anni di attività ha fatto moltissime campagne contro la corruzione nel paese, alcune delle quali usando slogan come “Insieme contro la mafia”. A gennaio, per esempio, Igor Matovic andò a Cannes, in Francia, e riprese se stesso di fronte alla villa lussuosa di proprietà di un ex ministro delle Finanze slovacco e membro di SMER: «Buongiorno mafia», disse Matovic prima di sostenere che la villa fosse di proprietà della Repubblica Slovacca.

Su altri temi, OL’aNO ha assunto nel corso del tempo posizioni di destra. Nel 2019 propose per esempio ulteriori restrizioni alle norme sull’aborto, e disse che non sarebbe entrato in un nessun governo favorevole a legalizzare l’unione civile tra persone dello stesso sesso.

L’altra notizia importante uscita dalle elezioni è stato l’8 per cento ottenuto dal partito di estrema destra L’SNS, guidato dal neonazista Marian Kotleba, che si stima otterrà 17 seggi in parlamento, tre in più di quelli che aveva nella precedente legislatura. I conservatori populisti di Siamo una Famiglia hanno ottenuto lo stesso risultato di L’SNS, mentre avrà qualche seggio in meno (13, si stima) Libertà e solidarietà (SAS), formazione liberale di centrodestra guidata dall’economista Richard Sulik.

Non si sa ancora cosa succederà adesso. Nessun partito ha ottenuto la maggioranza, e sarà quindi necessario formare una coalizione: a guidarla sarà certamente OL’aNO, che adesso ha un’ampia scelta tra i molti partiti più piccoli che sono da anni all’opposizione. Matovic ha escluso la possibilità di un accordo con i socialdemocratici, dicendo di voler iniziare le trattative con Siamo una Famiglia e con i partiti di opposizione di centrodestra e di destra, per creare una coalizione che abbia la maggioranza nel parlamento slovacco, che conta 150 seggi.

Il partito centrista fondato dal’ex presidente Andrej Kiska, Per la gente (Za Ludi), si è fermato intorno al 6 per cento, più o meno come la coalizione liberale Ps-Spolu, di cui fa parte Slovacchia Progressista, il partito che nella primavera del 2019 è riuscito a eleggere la presidente Zuzana Čaputová. Ps-Spoli però non ha superato la soglia per l’ingresso in parlamento prevista per le coalizioni, così come non ha superato quella per i singoli partiti il Movimento Cristiano-Democratico (KHD), di centrodestra, rimasto sotto al 5 per cento.

Allora saprai che il Post esiste da dieci anni, che i suoi articoli sono gratis, e che esistono grazie al lavoro di molte persone e a quello che il Post spende per fare funzionare tutto questo. Puoi darlo per scontato, e prendertelo gratis, e va bene. Oppure puoi fare la tua parte, e abbonarti.
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L'Europa sta svoltando a destra via dal social nazicomunismo

Messaggioda Berto » mar mar 03, 2020 11:20 pm

NOTIZIA CENSURATA / IN SLOVENIA NUOVO GOVERNO NAZIONALISTA ANTI IMMIGRAZIONE, MA LA NOTIZIA NON ''APPARE'' IN ITALIA
martedì 3 marzo 2020
Giuseppe de Santis

http://www.ilnord.it/index.php?id_artic ... Q.facebook

LONDRA - L'informazione italiana asservita agli interessi delle oligarchie finanziarie Ue non ha scrupoli nell'usare l'emergenza del coronavirus per censurare notizie che danno fastidio al governo e un esempio in tal senso riguarda ciò che sta avvenendo in Slovenia.

Infatti in questo paese al confine con l'Italia mercoledi' scorso Janez Jansa, leader del partito anti-immigrati Slovenian Democratic Party, è stato nominato primo ministro dopo aver trovato un accordo per formare una coalizione di governo con altri tre partiti.

Questo accordo è il risultato della caduta del governo di centro sinistra avvenuta a gennaio causata dai continui disaccordi tra i cinque partiti che facevano parte di quella coalizione.

Jansa non è la prima volta che è a capo di un governo visto che in passato aveva ricoperto la carica di primo ministro due volte ma è stato costretto alle dimissioni nel 2013 perchè accusato di corruzione anche se poi questo caso è stato annullato dalla corte costituzionale.

Il leader dello Slovenian Democratic Party, un alleato del primo ministro ungherese Viktor Orban, nel 2018 è stato quello che ha ottenuto piu' voti ma non è riuscito a trovare altri partiti per formare una coalizione ma adesso c'è riuscito e formerà un'alleanza col partito Nova Slovenija, il Modern Centre Party e il partito dei pensionati DESUS e su un parlamento di 90 seggi ne avrà 48.

Il programma della coalizione prevede più fondi per la sanità, più posti gratuiti negli asili, controlli più efficienti alle frontiere e politiche più severe sui rifugiati.

Anche se è ancora troppo presto per fare previsioni è possibile prevedere che la Slovenia chiuderà le sue frontiere alle orde di immigrati siriani che dalla Turchia pianificano attraversare i Balcani per arrivare in altri paesi europei e sicuramente farà fronte comune con l'Austria che proprio pochi giorni fa ha dichiarato che è pronta a chiudere le frontiere se l'Unione Europea non farà nulla per fermare l'ondata migratoria proveniente dalla Turchia.

Come era facile prevedere questa notizia riportata anche da Yahoo è stata completamente censurata dalla gtande stampa italiana tutta "europeista" perchè si vuole convincere gli italiani ad accettare più immigrati.

Noi ovviamente non ci stiamo e abbiamo deciso di riportare questa notizia perchè vogliamo che l'Italia chiuda le frontiere.

Qui c'è il link originale su questa storia:
https://uk.news.yahoo.com/slovenia-anti ... 44580.html
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Re: L'Europa sta svoltando a destra via dal social nazicomun

Messaggioda Berto » lun lug 13, 2020 7:18 pm

Polonia, trionfa Duda: perdono George Soros e Bruxelles
13 luglio 2020

https://oltrelalinea.news/2020/07/13/po ... bruxelles/


In Polonia è vittoria dei sovranisti. Come riporta l’agenzia Agi, Andrzej Duda, molto vicino alle posizioni di Donald Trump, ha battuto con un margine risicato l’avversario eurofilo, Rafal Trzaskowski. Duda ha ottenuto il 51,21% mentre il sindaco di Varsavia, un liberale che prometteva relazioni più strette con l’Unione europea, si è fermato al 48,79%. Risultato che rafforza il partito di governo ‘Legge e Giustizià, in rotta di collisione con Bruxelles per la riforma giudiziaria che secondo i critici intacca le libertà democratiche. Duda ha promesso di mantenere gli assegni sociali e, durante la campagna elettorale, ha attaccato i diritti LGBT. Tuttavia, i commentatori politici polacchi rilevano che la buona performance di Trzaskowski suggerisce una “nuova dinamica” per l’opposizione polacca e “cambiamenti significativi” sulla scena politica.

Il secondo turno delle elezioni presidenziali ha registrato un’affluenza molto elevata, pari al 68,9 per cento, oltre 13 punti in più di quella delle elezioni presidenziali del 2015, pari al 55,34 per cento. È quanto emerge dai dati pubblicati dall’agenzia Ipsos alla chiusura delle urne. L’affluenza è più elevata anche rispetto a quella del primo turno tenutosi due settimane, quando si era comunque attestata a un considerevole 64,51 per cento

Polonia, vince Duda: festeggiano i sovranisti

“Congratulazioni per la vittoria elettorale al presidente polacco Andrzej Duda. Il successo ottenuto è il segno dell’ottimo lavoro fatto. Buon lavoro per i prossimi anni di mandato. Siamo pronti a collaborare per la costruzione di un’Europa migliore e più giusta”. Lo ha dichiarato il vicesegretario federale della Lega Lorenzo Fontana, ex ministro agli Affari europei.”Congratulazioni al presidente Andrzej Duda, riconfermato con un’altissima partecipazione al voto e nonostante la campagna di demonizzazione della sinistra e di Bruxelles. Con lui e gli amici conservatori polacchi continueremo a batterci per un’Europa dei valori e dell’identità” afferma il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.

Che cosa significa la vittoria di Duda

Come riporta il Financial Times, Duda, un cattolico devoto di 48 anni, è solo il secondo presidente polacco a vincere la rielezione. La sua vittoria significa che il suo partito governerà almeno fino alle elezioni parlamentari del 2023. Ciò consentirà al partito di proseguire con le riforme giudiziarie che hanno scatenato aspri scontri tra Varsavia e Bruxelles.

Duda ha iniziato la campagna promuovendo i grandi progetti infrastrutturali previsti da Law and Justice e posizionandosi come garante dei generosi programmi di welfare del partito, che hanno migliorato significativamente la vita di molte famiglie più povere. Duda rappresenta il baluardo contro le minacce straniere ai valori cattolici tradizionali della Polonia. Ad una manifestazione del mese scorso, ha definito il movimento per i diritti LGBT un’ideologia “più distruttiva” del comunismo. La scorsa settimana, ha accusato i media di proprietà tedesca di aver tentato di interferire nelle elezioni. “Questa è un’elezione di civiltà, tra la nostra civiltà cristiana cattolica e il neopaganesimo”, ha detto Ewa, un matematico di Targowek, un distretto nel nord-est di Varsavia, che ha votato per Duda. “Trzaskowski rappresenta quest’ultimo. Come [sindaco di Varsavia], ha ufficialmente sostenuto il gay pride. È chiaro che tipo di uomo sia”.

Il suo rivale, il filo-europeista Rafal Trzaskowski, ha ammesso di aver ricevuto una borsa di studio da George Soros, il finanziere fondatore dell’Open Society Foundations.
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L'Europa sta svoltando a destra via dal social nazicomunismo

Messaggioda Berto » ven mag 07, 2021 10:52 pm

L’Olanda guarda a destra: da progressista e tollerante a xenofoba euroscettica
Vincenzo Cacciopoli
11 marzo 2021

https://www.affaritaliani.it/esteri/l-o ... refresh_ce

Una volta conosciuti per il loro progressismo e tolleranza sociale, i Paesi Bassi sono sembrati a lungo in un certo senso"immuni" alle tendenze di estrema destra. Tuttavia, dall'inizio del 21 ° secolo, il paese ha assistito all'ascesa di diversi influenti partiti populisti di destra, tra cui il Lijst Pim Fortuyn (LPF), il Partito della libertà di Geert Wilders (PVV) e, più recentemente, il Forum per la democrazia. (FvD), guidato dall’enfant prodige della politica olanede Thierry Baudet, che però, dopo alcune controversie interne, è affondato nei sondaggi, dopo aver ottenuto in pochissimo tempo un successo insperato.

La rapida ascesa del FvD è stata notevole sotto ogni punto di vista. Nato come think tank euroscettico nel 2015, il partito ha vinto due dei 150 seggi alla Camera dei Rappresentanti olandese dopo aver ottenuto l'1,8% dei voti alle elezioni generali del 2017. Due anni dopo, il FvD è diventato il più grande partito della Camera alta olandese dopo aver vinto quasi il 16% dei voti alle elezioni provinciali del 2019. Nel gennaio 2020, il partito ha annunciato di essere diventato "il più grande partito dei Paesi Bassi per adesione", superando in tal modo i tradizionali partiti di massa, tra cui il partito laburista e i democratici cristiani. La storia di successo dell'FvD ha subito un inatteso improvviso arresto nel novembre 2020, quando il partito ha ceduto a lotte intestine al suo interno.

L'implosione ha provocato un massiccio esodo di membri (anziani) del partito e una più generale perdita di sostegno pubblico. Sebbene il futuro del partito sia attualmente incerto, sembra giusto affermare che la svolta del FvD ha avviato una nuova fase nella storia del populismo di destra nei Paesi Bassi, caratterizzata dalla normalizzazione dell'estrema destra nella sfera pubblica e concorrenza all'interno della famiglia del partito populista di destra radicale. Infatti, dal 2017, due partiti di estrema destra hanno rappresentanza parlamentare nei Paesi Bassi: il PVV e il FvD.

In quanto tali, entrambi i partiti sono fermamente anti-immigrati e profondamente euroscettici. Ma vi sono tuttavia alcune differenze fondamentali, in particolare per quanto riguarda il loro elettorato. Ad esempio, a differenza dei sostenitori del PVV, gli elettori della FvD tendono ad essere più istruiti ed economicamente orientati verso destra (nel senso che favoriscono una distribuzione del reddito meno egualitaria). Passando al lato dell'offerta, ci sono anche differenze degne di nota tra i due partiti e i loro leader.

Ufficialmente, il FvD è stato istituito come un partito conservatore, con l'obiettivo di migliorare lo stato generale della democrazia nei Paesi Bassi `` rompendo il cartello del partito '' e dando agli elettori olandesi più voce in capitolo nel processo decisionale, in particolare introducendo referendum vincolanti, iniziative popolari, sindaci eletti direttamente e democrazia elettronica. In effetti, fin dall’inizio, il FvD si è presentato come un'alternativa di destra più moderata e socialmente accettabile al PVV.

Nel corso del tempo, tuttavia, è diventato sempre più evidente che il FvD avesse virato all'estrema destra. Subito dopo la svolta elettorale iniziale del partito nel 2017, sono emerse tensioni tra le diverse fazioni all'interno del partito. Nella battaglia interna sul corso ideologico del partito, ha prevalso la corrente più radicale e, a volte, di estrema destra. Mentre Wilders ha concentrato la maggior parte della sua agenda sulla conservazione della cultura olandese (in particolare opponendosi all'Islam), Baudet ha fatto commenti palesemente razzisti.

Ad esempio, nel 2015, Baudet aveva già espresso il suo desiderio per un'``Europa prevalentemente bianca '' e nel 2017 ha messo in guardia sulla presunta `` diluizione omeopatica della popolazione olandese '' con persone di altre culture, attingendo così all'estrema destra Great Teoria della cospirazione sostitutiva. La differenza tra Wilders e Baudet è stata ulteriormente illustrata dalle rispettive risposte alla recente assalto al Campidoglio degli Stati Uniti. Mentre Wilders si è affrettato a prendere le distanze dall'attacco sostenendo il suo impegno per la democrazia, Baudet ha condiviso un tweet che aveva originariamente pubblicato nel 2016, affermando che Trump `` sarebbe stato un grande leader per l'Occidente nel suo insieme '', anche se in seguito ha rimosso il tweet e ha negato di averlo pubblicato in primo luogo.

Alla luce delle dichiarazioni pubbliche fatte dal leader del partito, il FvD potrebbe essere meglio descritto come un partito di estrema destra. Questo aiuta anche in parte a spiegare l'implosione del partito. La discesa del partito alle urne è iniziata nell'estate del 2019, quando il co-fondatore e senatore del partito Henk Otten è stato espulso dopo aver pubblicamente accusato Baudet di "spingere il partito troppo a destra". Nel 2020, l'FvD ha perso credibilità quando Baudet (che inizialmente aveva spinto per misure di blocco più rigorose) è diventato un alleato vocale delle proteste anti-chiusre e ha espresso sostegno alle teorie del complotto COVID-19.

Nel novembre 2020, sono emerse nei media nuove accuse di messaggi antisemiti, omofobi e razzisti diffusi su bacheche interne nell'ala giovanile del partito, dopo di che le tensioni di fondo nella leadership del partito sono sfociate in una disputa pubblica. Nel tentativo di evitare le crescenti pressioni per prendere le distanze dalle accuse di estremismo, Baudet ha rinunciato alla sua posizione di candidato principale per le elezioni generali del 2021, ma successivamente ha fatto marcia indietro sulla sua decisione di dimettersi.

Il 4 dicembre 2020, il FvD ha annunciato che il 76 per cento dei 37.000 membri del partito aveva votato per Baudet, ponendo così fine alla lotta per la leadership. Il dissenso interno ha fatto precipitare l'FvD nei sondaggi da circa il 17% nel marzo 2019 a circa il 3% di Febbraio 2021. Il grande vincitore di tutto questo sembra essere Geert Wilders, per il quale il caos nel FvD è arrivato in un momento perfetto, mentre i Paesi Bassi si stanno preparando per le elezioni di marzo.

In effetti, la perdita di sostegno al FvD è stata rispecchiata da una ripresa del sostegno al PVV, che attualmente si trova al secondo posto, proprio dietro il Partito popolare per la libertà e la democrazia (VVD) del primo ministro Mark Rutte. Per mantenere il potere politico del suo partito, lo stesso Rutte ha anche adottato elementi della politica di estrema destra, utilizzando una retorica dura e disumanizzante nei confronti degli immigrati e degli olandesi di colore.

Nel 2015, il gabinetto di Rutte ha approvato il divieto per le donne di indossare il burqa o il niqab nei trasporti pubblici, nelle scuole, negli ospedali e in altri edifici pubblici (il risultato di un precedente accordo con il PVV di Wilders nel 2012). Alla vigilia delle elezioni nel paese del marzo 2017, quando il VVD era dietro al PVV di Wilders nelle urne, Rutte ha pubblicato una lettera aperta in cui diceva agli immigrati di adattarsi ai "valori olandesi" o di andarsene. Un recente video VVD sui richiedenti asilo che violano la legge ha dichiarato che i Paesi Bassi "non sono un santuario per la feccia".

Rutte gode della reputazione di "un pragmatico di livello mondiale" - un modello moderato dell'Europa occidentale - ma mentre l'estrema destra raccoglie forza, ha mostrato una chiara volontà di impegnarsi in tematiche assai forti per sostenere il sostegno di parte dei suoi elettori.. Léonie de Jonge dell'Università di Groningen, esperta di politica populista di destra radicale e di estrema destra nei paesi del Benelux ha affermato, in sua recente analisi sul fenomeno dei movimenti di destra olandese che “C'è la possibilità che il PVV di Geert Wilders venga ora visto come un'alternativa moderata, relativamente "mainstream" al FvD.

Una rapida occhiata al manifesto 2021 del PVV indica che il partito vuole chiudere i confini a tutti i migranti provenienti dai paesi islamici, rimandare indietro i richiedenti asilo siriani, chiudere tutte le moschee e mettere fuori legge il Corano, confermando così che Wilders ha mantenuto il suo vantaggio radicale.” È forse troppo presto per fare previsioni precise sull'esito delle elezioni generali del 2021. Ciò che è interessante, tuttavia, è che le attuali stime dei sondaggi sembrano in realtà abbastanza simili al panorama politico al momento delle precedenti elezioni, nel marzo 2017.

Mentre forse alcuni si aspettavano (o speravano) che la pandemia avrebbe cambiato le carte in tavola,ristabilendo le gerarchie e mettendo i populisti all’angolo, le recenti chiusure e il coprifuoco imposto dal governo hanno scatenato durissimi scontri fra la popolazione stanca di restrizioni e imposizioni , spesso cavalcati opportunisticamente proprio dai partiti di destra, che hanno visto in queste proteste argomenti utili in termine di aumento nei consensi. I Paesi Bassi hanno a lungo fatto affidamento su un "modello Polder" di governo per consenso, che prende il nome dalle aree di terra prosciugate del paese tra dighe che storicamente richiedevano un'attenta gestione. Questa tradizione politica tende a coinvolgere governi di coalizione con un gran numero di partiti che possono richiedere molto tempo per formarsi, e comporta anche consultazioni da parte del governo con sindacati e altri partiti. Ma la pandemia e le accresciute tensioni sociali potrebbero rendere assai più difficile seguire un simile modello.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: L'Europa sta svoltando a destra via dal social nazicomun

Messaggioda Berto » ven mag 07, 2021 10:52 pm

Spagna, il Partito popolare vince le elezioni regionali a Madrid
Sconfitta la sinistra
Per governare dovrà allearsi con l'estrema destra di Vox
4 maggio 2021

https://www.ilsole24ore.com/art/spagna- ... id-AES4D8F

Il Partito popolare vince le elezioni regionali anticipate nella regione autonoma di Madrid, ma per governare dovrà allearsi con l'estrema destra di Vox. Secondo gli exit poll diffusi da Gad3 per Telemadrid e Tve, la presidente uscente Isabel Diaz Ayuso potrebbe essere confermata, dopo il successo alle urne con il 43,7% delle preferenze, portando il partito di centrodestra a 62-65 deputati nell'Assemblea regionale, oltre il doppio dei 30 ottenuti nel 2019. Un numero che però non sarebbe sufficiente a formare un governo, e che costringerebbe il Pp a guardare all'alleanza con l'estrema destra.

Vox, guidato da Rocío Monasterio, sarebbe il quarto partito con il 9,2%, avrebbe fra 12 e 14 seggi e potrebbe entrare per la prima volta nel governo regionale della capitale. Ad Ayuso basterebbe anche l'astensione del movimento xenofobo, antifemminista e antiindipendentista, per governare da sola.

Secondo gli exit-poll, nelle regionali il blocco di sinistra si fermerebbe a 56-63 deputati. Il partito più votato dopo il Pp è il Psoe con il 18,4%, che sotto la guida di Ángel Gabilondo resta la prima forza di sinistra, scendendo però a 25-28 seggi rispetto ai 37 del 2019. Seguono Mas Madrid di Mónica García con il 15,42% e 21-24 deputati, e Unidas Podemos con Pablo Iglesias al 7,9%, ossia 10-11 deputati, tre o quattro più di due anni fa.

Grande sconfitto Ciudadanos, che uscirebbe dall'Assemblea locale non avendo superato la soglia del 5%: un duro colpo, passando da 26 rappresentanti a zero. L'affluenza, intanto, è stata da record: al 69,19% (alle ore 19), 11 punti percentuali in più rispetto al 2019 (58,13%). Se i risultati fossero confermati, consentirebbero al Pp di mantenere il controllo della regione che guida da un quarto di secolo, premiando anche la decisione di anticipare il voto. In questo scenario, Ayuso governerebbe sino al 2023.

A dispetto del desiderio della presidente uscente, il cui motto elettorale è stato 'Libertà', di “governare da sola” perché “le coalizioni non sono buone”, stando ai sondaggi di Metroscopia circa il 78% dei suoi elettori prima del voto si è detto a favore di una coalizione proprio con l'estrema destra di Vox.Inevitabilmente la pandemia ha pesato sul voto, mentre il 40% delle infezioni nel Paese si è concentrato proprio nella regione della capitale. Nonostante ciò, la linea di Ayuso è sempre stata di opporsi alle politiche del governo nazionale del socialista Pedro Sanchez, spingendo invece per le riaperture in chiave economica.


LA PARTE DOVE STARE
Niram Ferretti
5 maggio 2021

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

Pablo Iglesias lascia la politica. Le elezioni della comunità autonoma di Madrid hanno consegna la vittoria alla destra (ma non ci avevano detto che ormai il vento del cosiddetto "populismo"non soffiava più?).
Il barricadiero e poi neofemminista leader di un partito filo venezuelano e filo iraniano viene sconfessato dall'elettorato. Un po' come fu per Jeremy Corbyn, altro estremista che amava definire Hamas e Hezbollah "amici" e considerava Israele l'ultimo avamposto colonialista.
Commentado ironica la sua vittoria, Isabel Díaz Ayuso ha detto senza problemi, "Se ti danno del fascista sei dalla parte giusta della storia". Anche perchè, per essere considerato tale, oggi basta poco.
Non essere d'accordo con il DDL Zan, per esempio, non essere a favore dell'immigrazione incontrollata, ritenere che la famiglia naturale, composta da un uomo, una donna e dei figli, non sia equiparabile a quella omosessuale, sostenere che la civiltà occidentale, pur con le sue inevitabili scie di tenebra, ha creato un combinato disposto fatto di prosperità, cultura, libertà e un ventaglio prima sconosciuto di possibilità di espressione umana, ignoto a ogni altra civiltà umana, oppure, più semplicemente dichiarare, "Donald Trump è stato un eccellente presidente".
Da che parte fosse Pablo Iglesias, uno che considera Israele, "un paese illegale", non ci sono mai stati dubbi.



Il messaggio liberalconservatore è ancora vincente, ora ai Popolari manca solo il tassello "devoluzionista"
Atlantico Quotidiano
Marco Faraci
6 maggio 2021

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... uzionista/

Non c’è dubbio che la vittoria del Partido Popular (PP) nelle elezioni anticipate per il rinnovo dell’assemblea della regione di Madrid è stata netta sul piano dei numeri, anche al di là delle previsioni già favorevoli dei sondaggi. Le dimensioni del successo della presidente uscente Isabel Díaz Ayuso sono però ulteriormente amplificate dal significato ideologico della sfida madrilena che è andato ben oltre la pura dimensione dell’”amministrazione” locale.

Nei fatti la vittoria dei Popolari è maturata in un contesto che ha visto il ritorno chiaro della contrapposizione tradizionale tra destra e sinistra. La Ayuso ha presentato una proposta politica conservatrice orgogliosa e senza complessi, mentre la sinistra ha fatto quanto mai ricorso a tutto il suo armamentario ideologico più classico.

La leader popolare madrilena ha condotto, per molti versi, una campagna “thatcheriana”, con uno slogan quasi blasfemo nel periodo storico così culturalmente statalista che stiamo vivendo – una sola parola semplice, diretta: “Libertad”. Il riferimento alla “libertà” – fa piacere dirlo – non è stato solamente un espediente retorico, ma ha trovato una declinazione concreta nel governo espresso in questi ultimi anni dai Popolari a Madrid, che è stato improntato ad un sano buon senso liberale.

Al di là di politiche in generale “market-friendly”, sostenute da politici di cultura liberale come il consigliere alle finanze Javier Fernández-Lasquetty, è sul coronavirus che la Ayuso ha maggiormente marcato le propria differenza rispetto agli altri governi regionali e al governo nazionale di Pedro Sánchez. Il governo madrileno è stato tra i pochi in Europa a fare di tutto per evitare lockdown generalizzati, preferendo ad essi sistemi di regole che consentissero di rimanere il più possibile aperti, in modo da limitare gli impatti sulle attività economiche e sulle relazioni sociali. In linea di principio negozi, bar, ristoranti, musei e teatri sono restati in funzione e le chiusure, quando sono state giudicate inevitabili, sono state rese il più possibile “chirurgiche” – quartiere per quartiere.

Malgrado da più parti verso la Ayuso si levassero accuse di irresponsabile “populismo di destra”, la scelta di un approccio pragmatico e non proibizionista alla gestione della pandemia è stata premiata dai fatti. I numeri dei contagi non sono stati peggiori che nelle altre regioni spagnole – spesso addirittura migliori. E l’economia ne esce in condizioni molto più vitali rispetto al resto del Paese. Soprattutto, però, i Popolari madrileni hanno compreso che nell’equazione complessiva dovesse rientrare anche un ragionevole rispetto della libertà personale e della dignità dei cittadini e che l’emergenza pandemia non potesse giustificare qualsiasi tipo di restrizione dei diritti individuali.

In termini più complessivi è innegabile che, sul piano economico e sociale, il Partido Popular di questi anni abbia una delle più serie agende politiche a livello europeo. Tra le grandi forze del centrodestra continentale è quella in cui maggiormente sembrano riecheggiare le idee e i princìpi della libertà individuale e del liberalismo economico, laddove in altri Paesi prevalgono o centrismi tecnocratici o sbrigative “vie di destra alla spesa pubblica”.

Particolarmente simbolico, da questo punto di vista, è lo spot “Piensa en ti” (“Pensa a te”) con cui il PP ha affrontato la campagna elettorale nazionale del 2019. In un periodo storico in cui tutti i partiti invitano a pensare “a quello che lo Stato può fare per te”, o a quello che “tu puoi fare la Società”, il PP invitava a pensare “a trovare lavoro o un lavoro migliore”, “ad aprire un’attività”, “a fare figli” e “a educarli in libertà” e “a trasferirsi nella casa che si sogna da tempo” – con un ottimismo individualista che ricorda più il “Morning in America” di Ronald Reagan che lo spirito e gli stilemi della politica a cui siamo abituati.

Il risultato di Madrid è la riprova che il messaggio liberalconservatore, comunicato correttamente e declinato con coerenza, abbia un notevole potenziale di penetrazione. Di ciò dovremmo tornare ad essere consapevoli, anche qui da noi in Italia dove di un certo taglio culturale si sentirebbe quanto mai il bisogno.

Per quanto riguarda nello specifico i Popolari spagnoli, la questione, a questo punto, è quanto il successo di Madrid sia estrapolabile in chiave nazionale. Quello che è sicuro è che il risultato del PP rappresenta il ritorno ad una forza chiaramente maggioritaria nell’ambito del centrodestra spagnolo, dopo anni in cui la frammentazione del voto moderato e conservatore ha indebolito le prospettive di governo nazionale. Ciudadanos sembra ormai fuori dai giochi, mentre la scalata di Vox appare arrestabile. In questo contesto, le dinamiche di “voto utile” giocheranno, con tutta probabilità, a favore del consolidamento della posizione del Partido Popular.

Nei fatti la presenza, nel centrodestra, di un singolo partito “dominante” non è solo un fattore di forza dal punto di vista dell’immagine, ma garantisce anche maggiore efficienza nel conseguimento di seggi in virtù degli effetti moderatamente maggioritari del sistema elettorale.

Il vero problema dei Popolari oggi è che una proposta politica con il potenziale per governare la Spagna si riduce in una posizione strutturalmente minoritaria per la sua incomprensione della questione nazionale catalana e basca. In Catalogna e nei Paesi Baschi il PP non tocca palla, ma quello che è peggio è che, rispetto ad alcuni anni fa, ha perso qualsiasi capacità di allearsi con le emanazioni moderate e di centrodestra del nazionalismo locale. Nel 1996 José Maria Aznar arrivava alla Moncloa con i voti dei nazionalisti catalani e baschi; oggi questo non sarebbe possibile. Il PP parla solo alla Spagna “castigliana”, mentre il Partito Socialista essenzialmente governa la Spagna in quanto è l’unica forza politica in grado di comporre maggioranze “plurinazionali”.

Vincere senza le aree basche e catalane non solo appare complicato, ma sarebbe anche “sbagliato”, in quanto, contrariamente alla dinamica destra-sinistra, i conflitti di carattere nazionale non possono essere consegnati alla sola logica maggioritaria, ma devono essere composti attraverso relazioni di convivenza e meccanismi istituzionali più “orizzontali”.

Peraltro, l’esperimento politico madrileno rappresenta un successo dell’autonomia. Quanto Isabel Díaz Ayuso e il Partido Popular sono riusciti a mettere in pratica è stato reso possibile dall’attuale grado di “devolution” di cui dispone la regione madrilena ed ancora di più avrebbero potuto realizzare se le competenze attribuite a tale regione fossero state ancora maggiori.

Comprendere come la decentralizzazione e la devoluzione rappresentino soluzioni “win-win”, come ampliare gli spazi di autogoverno convenga a tutti, e non solo a catalani, baschi e galiziani, rappresenta oggi il tassello mancante ad un centrodestra per tanti altri versi maturo e culturalmente equipaggiato come quello spagnolo. La sensazione è che ci vorrà ancora del tempo perché tale tassello trovi il suo posto.




Madrid fortezza liberale: capolavoro Ayuso, prende tutto e le suona alla sinistra 'buona e giusta'
Enzo Reale Da Barcellona
7 maggio 2021

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... -e-giusta/

Il social-populismo si ferma alle porte di Madrid. Le elezioni anticipate nella comunità della capitale confermano la presidenza di Isabel Díaz Ayuso (PP), ma lo fanno consegnando al centrodestra una rappresentanza più che doppia rispetto al 2019 (65 seggi) e ridimensionando in maniera inappellabile il Partito Socialista (PSOE), al governo del Paese dal 2018. Per il sanchismo, complice anche un candidato inconsistente, il tonfo è stato storico: da 37 a 24 seggi, il peggior risultato di sempre, superato in numero di voti da Más Madrid, una formazione di sinistra di carattere locale. La scommessa di Pablo Iglesias salva i mobili in casa Podemos (10 rappresentanti) ma condanna a morte la sua proiezione politica personale e probabilmente anche il governo di coalizione con i socialisti: alle undici e mezza di sera annuncia in tono contrito le sue dimissioni e il suo addio alla politica. Si dice che lo attenda un futuro televisivo, lontano dalle istituzioni ma dai riflettori mai. La democrazia spagnola, comunque sia, respira sollevata.

Il capolavoro di Ayuso è tale che il numero di seggi ottenuti dal PP è superiore alla somma di tutte le forze di sinistra, rendendo così sufficiente l’astensione di VOX nel processo di investitura e scarsamente rilevante il suo appoggio nell’azione di governo. Sparisce Ciudadanos, forza centrista che governava fino a ieri con Ayuso, che ha pagato caro il tentativo di promuovere mozioni di sfiducia anti-PP in altre comunità autonome: il minacciato ribaltone ha portato alle elezioni che ne hanno decretato la scomparsa dallo scenario regionale (da 26 a zero rappresentanti). L’esecutivo a guida socialista si risveglia con la capitale del Paese come principale baluardo dell’opposizione e con Isabel Díaz Ayuso come icona dell’anti-sanchismo. Un avversario potenzialmente formidabile.

La prima lezione del voto madrileño è che gridare “fascista” a tutto quel che si muove e non indossa il colore rosso miseria elettoralmente non paga. Gli elettori si sono dimostrati più maturi del populismo del sedicente fronte “progressista” e hanno rifiutato la retorica da guerra civile con cui Iglesias e compagnia pseudo-rivoluzionaria avevano condotto la campagna: il No pasarán dimostra sempre un certo appeal, solo che ha funzionato al contrario. I cittadini hanno premiato la gestione Ayuso, soprattutto quella della pandemia, la sua politica di aperture controllate, la logica non punitiva nei confronti dell’economia e della libertà di movimento, l’equilibrio tra salute e rispetto dei diritti dei cittadini.

No, non era fascismo ma la promessa di ridurre l’imposizione fiscale post-pandemia, di deregolamentare, di aumentare le possibilità di scelta nel servizio pubblico. No, non erano fascisti i milioni di votanti che hanno fatto la coda ai seggi elettorali per dare la loro preferenza al centrodestra, ma persone normali che chiedono semplicemente di potersi muovere, lavorare, mandare i figli a scuola e sono stanche di sentirsi dire cosa devono fare, pensare, votare per essere considerate cittadini a pieno titolo. Una splendida dimostrazione di autosufficienza e di rifiuto degli abusi del potere, incarnati invece da una sinistra che ha sposato ad oltranza la mentalità da lockdown, secondo il lemma tanto consolidato quanto fallimentare del sorvegliare e punire. Il trionfo di Ayuso è soprattutto la proposta di un modello alternativo rispetto a quello che ha fatto della Spagna un buco nero economico e sanitario. Ed è proprio questo che spaventa il social-populismo al comando, la constatazione che il suo discorso omologatore possa essere rigettato in maniera altrettanto netta a livello nazionale.

Un brusco risveglio, insomma, reso ancora più brusco da quella che può definirsi una serata perfetta per un Partito Popolare che esce rinvigorito da una consultazione di carattere amministrativo dalle profonde ricadute politiche: in un colpo solo Isabel Díaz Ayuso si avvicina alla maggioranza assoluta, assorbe interamente l’elettorato centrista di Ciudadanos, relega VOX ad una posizione del tutto marginale nel governo della comunità, scardina la compattezza del fronte delle sinistre e obbliga Iglesias alle dimissioni. Uno scenario assolutamente impensabile fino a poche settimane fa.

La logica conseguenza a livello nazionale del voto di martedì sarebbe che Sánchez se ne assumesse le responsabilità politiche a livello di governo, di partito e di coalizione con Podemos. Ma non succederà: è nella natura del premier e della sinistra spagnola in generale afferrarsi al potere aumentando la carica dello scontro ideologico. Oltretutto l’uscita di scena di Iglesias, personaggio scomodo e ingestibile, lascia in teoria campo libero alle ambizioni egemoniche di Sánchez. Qualche mugugno si solleverà dalle consorterie socialiste sul territorio ma l’apparato politico-propandistico della Moncloa è ancora in grado di mettere a tacere i dissenzienti con una certa facilità. È chiaro però che da martedì sera il terreno sotto i piedi dell’esecutivo si è fatto più sdrucciolevole.

Quanto all’ex leader e co-fondatore di Podemos solo poche parole, giusto quelle che merita. Con lui se ne va la figura più perniciosa per la democrazia spagnola dalla morte di Francisco Franco: quinta colonna del chavismo in Spagna, finanziatosi “vendendo” consulenze al regime venezuelano, è l’uomo che ha reintrodotto e propagato a piene mani l’odio di classe in un Paese sempre alle prese con il retaggio della memoria storica. Interpellato in campagna elettorale su “libertà o comunismo, Pablo?”, rispondeva con aria di superiorità “comunismo, e che cacchio”. Il giorno delle elezioni gracchiava ai microfoni il solito mantra “antifascista” appellandosi con sicumera alla “volontà della maggioranza democratica”. Solo la sua, ovviamente. E la maggioranza ha parlato, mandandolo a casa, quella sì ben pagata dal dinero pubblico del suo triste settennato politico, da cui si svincola con un chalet con piscina, una moglie ministro e le tasche ben piene. Tutto tipicamente comunista, in effetti. Adesso affiderà alla propaganda televisiva il suo veleno ideologico, l’erba cattiva non muore mai. Ma la sua parabola politica sembra davvero al capolinea.

Di Ayuso i suoi avversari hanno detto di tutto: che con la sua politica di aperture aveva “diffuso l’epidemia”, che la sua comunità contaminava il Paese (falso, gli indici di contagio di Madrid sono in molti casi migliori di altre regioni che hanno adottato la politica del lockdown ferreo), che con lei avrebbe vinto il trumpismo, il fascismo, il turboliberismo, l’egoismo, l’estremismo, l’hanno chiamata idiota, ignorante, manipolatrice, l’hanno disegnata con una svastica tra le mani. Il repertorio di sempre, che la sinistra buona e giusta utilizza all’occorrenza contro chi non può sconfiggere sul campo. Per questo il suo trionfo vale doppio, triplo. Perché smaschera l’ipocrisia politicamente corretta dei padroni del pensiero e li costringe all’angolo, soli di fronte alla loro miseria morale. Lo slogan della sua campagna è un esempio lampante di successo di una strategia comunicativa: quel “socialismo/comunismo o libertà” non si riferiva certo all’instaurazione del soviet dei soldati e dei contadini ma interpretava alla perfezione il sentimento di una popolazione stanca di limitazioni, imposizioni e bugie ufficiali.

Anche se la stampa italiana vi racconterà la vittoria dell’estrema destra (uscita invece ridimensionata e marginalizzata dal voto), il risultato di martedì è una boccata d’ossigeno per una democrazia fiaccata dai colpi dell’antipolitica e dell’ideologia social-populista, un segnale importante di resistenza civica e un punto di partenza per una riscossa liberale contro gli eterni idolatri del Leviatano. Ma la strada resta ancora tutta in salita e piena di insidie.
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L'Europa sta svoltando a destra via dal social nazicomunismo

Messaggioda Berto » gio nov 25, 2021 8:36 am

Austria, il cancelliere Kurz si dimette
Rosa Scognamiglio
9 Ottobre 2021

https://www.facebook.com/ilGiornale/pos ... &ref=notif

https://www.ilgiornale.it/news/mondo/se ... 1633819972

Sebastian Kurz, indagato per favoreggiamento della corruzione, si è dimesso dall'incarico di cancelliere. "Il bene del Paese viene prima di me", ha dichiarato dopo aver rassegnato le dimissioni

Austria, il cancelliere Kurz si dimette

Sebastian Kurz, il cancelliere austriaco indagato per favoreggiamento della corruzione, ha rassegnato le dimissioni. A darne notizia è il quotidiano online DiePresse e le maggiori agenzia stampa internazionali. Secondo quanto confermano fonti a vario titolo, l'incarico sarà affidato temporaneamente al ministro degli esteri Alexander Schallenberg. "Il bene del Paese viene prima di me", ha spiegato Kurz nel corso della conferenza stampa di sabato pomeriggio 9 ottobre.

L'indagine per favoreggiamento della corruzione

Nei giorni scorsi era trapelata la notizia di un'indagine che coinvolge il cancelliere austriaco con l'ipotesi di reato per favoreggiamento della corruzione. Secondo quanto trapelato dalla stampa estera, le investigazioni riguarderebbero alcune anomalie riscontrate nella gestione dei fondi pubblici che il leader dell'ÖVP avrebbe veicolato con finalità partitiche. Nello specifico, l'inchiesta ordinata dell'Ufficio del Procuratore per l'Economia e la Corruzione (WKStA) sarebbe incentrata su alcuni sondaggi commissionati con i soldi pubblici quando Kurz era ancora ministro degli Esteri. I sondaggi sono stati divulgati sul quotidiano Oesterreich e attraverso il canale televisivo Oe24, organi di stampa appartenenti alla famiglia Fellner.

Oltre al cancelliere austriaco, sono indagati gli editori Helmuth e Wolfgang Fellner, l'ex ministro delle finanze, Sophie Karmasin, ed alcuni stretti collaboratori del capo di governo tra i quali spiccherebbe il nome di Stefan Steiner, braccio destro di Kurz, e Gerald Fleischmann, direttore generale della comunicazione della cancelleria.

Le dimissioni

A seguito dell'apertura del fascicolo d'inchiesta per favoreggiamento della corruzione, il cancelliere austriaco ha rassegnato le dimissioni. "Non c'è tempo per gli esperimenti, una coalizione quadripartita sarebbe irresponsabile, il Paese è più importante di me", ha spiegato Kurz nella conferenza stampa di questo pomeriggio. "Le accuse sono false, sarebbe bello se la presunzione di innocenza si applicasse a tutti", ha poi aggiunto. "Un passo difficile e una decisione necessaria per evitare che il Paese finesse in una fase di stagnazione politica e economica", scrive DiePress riportando le parole del cancelliere dimissionario. Al suo posto, stando a quanto conferma la stampa austriaca, ci sarà il ministro degli esteri Alexander Schallenberg. Il vicecancelliere Werner Kogler dei Verdi, partner di governo con la ÖVP, a seguito delle perquisizioni, aveva descritto Kurz come persona "non idonea all'incarico". Oggi le dimissioni.
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