Risultati elezioni Regno Unito, vittoria schiacciante dei conservatori. Brexit a un passo
I Tory del premier Boris Johnson in netto vantaggio con 368 seggi contro i 191 del Labour. Corbyn: "Non sarò leader Labour nelle prossime elezioni". Media Usa: "Il cambiamento più importante dalla Seconda guerra mondiale"
a cura di KATIA RICCARDI e ALESSIO SGHERZA,
12 dicembre 2019
https://www.repubblica.it/esteri/2019/1 ... 243317516/
Brexit, possibile voto già prima di Natale
LONDRA - Il Regno Unito ha deciso compatto, senza esitazioni: il partito Conservatore del premier Boris Johnson ha stravinto le elezioni britanniche. Secondo gli exit poll, confermate dai primi risultati in arrivo dallo spoglio delle schede nei singoli collegi, i Tory avrebbero 368 seggi, 50 in più rispetto alle elezioni del 2017. Una proiezione di Sky News conferma che i Tory otterranno tra i 358 e i 368 seggi a Westminster e che il premier Boris Johnson avrà un margine di maggioranza tra i 66 e 86 seggi. I laburisti avranno tra i 192 e i 202 seggi. "Grazie a tutti nel nostro grande Paese, a chi ha votato, a chi è stato volontario, a chi si è candidato. Viviamo nella più grande democrazia del mondo", ha esultato il premier britannico. "Ho ricevuto un mandato molto forte, andremo fino in fondo con Brexit", ha detto applaudito a notte fonda.
Il Labour si ferma a 191. Un risultato che per i conservatori non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher quando conquistò il terzo mandato nel 1987, e che segna la disfatta peggiore dal 1935 del partito di Jeremy Corbyn, che finisce subito sotto processo. Uno "shock", è stato il mesto commento di John McDonnell, esponente di punta dei laburisti, "sul futuro di Jeremy Corbyn saranno prese decisioni appropriate". E su Twitter rimbalza l'hashtag #CorbynOut. Lui, a tarda notte, dice che non guiderà il partito alle prossime elezioni. Corbyn però resterà leader per "un periodo di riflessione".
Soddisfatti i nazionalisti scozzesi che salgono di 20 seggi, lo Scottish National Party di Nicola Sturgeon, grande oppositrice della Brexit, può dirsi soddisfatta con 55 seggi. Male i LibDem fermi a 13 (non eletta la leader Jo Swimson), Plaid Cymru (3 seggi) e i Green stabili con un seggio. Il Brexit Party di Farage non elegge nemmeno un deputato a Westminster ma, si è consolato il leader, "otteremo la Brexit, abbiamo fatto un buon lavoro".
Elezioni in Gran Bretagna
12 DIC 2019
(ANSA) - ROMA
http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews ... AE2K-OQh3k
Il risultato laburista segnalato dagli exit poll (191 seggi), se confermato, è da considerarsi un tracollo per il partito guidato da Jeremy Corbyn. Deludenti anche i numeri attribuiti ai Lib-Dem, che otterrebbero soltanto 13 seggi, mentre 55 seggi andrebbero agli indipendentisti scozzesi (Snp). Da questi dati la nuova formazione guidata da Nigel Farage, il Brexit Party, non registra alcun seggio.
Valanga Boris: travolti Corbyn, europeisti e competenti nostrani che come al solito non hanno capito nulla Dario Mazzocchi e Federico Punzi
13 dicembre 2019
http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... kZC7GnT25c
Non solo “Brexit done”. Un capolavoro di leadership e di politica: ha schiacciato Corbyn nell’angolo Remain scippandogli i voti dei Leavers laburisti e finito il lavoro puntando su industria e sanità pubblica, facendo dei Tories un One Nation Party
I numeri sono implacabili: 362 a 203 con soli 3 seggi ancora da assegnare. Per i Tories una vittoria storica: la più ampia maggioranza di seggi dal 1987 (la terza della Thatcher). Per il Labour la peggior sconfitta dal 1935. Ma il risultato di un’elezione non è mai scontato. Nelle ultime settimane i sondaggi davano i Conservatori in vantaggio in termini percentuali, ma lasciando dubbi sulla reale consistenza della maggioranza a Westminster, al punto da non poter escludere del tutto l’eventualità di un nuovo Hung Parliament. Nelle snap election del giugno 2017 l’allora premier Theresa May aveva ottenuto in termini percentuali e in voti assoluti un risultato ragguardevole, ma non bastò a causa della forte polarizzazione del voto tra i due partiti maggiori, che raccolsero oltre l’82 per cento dei voti (42 a 40). La storia si sarebbe potuta ripetere, ma negli ultimi giorni un indicatore diventato ormai infallibile ai nostri occhi rafforzava decisamente le chance di vittoria di Johnson: i giornaloni italiani infatti si sforzavano di accreditare la narrazione di un “recupero” Labour, gli elettori avevano deciso per il “voto tattico” nei collegi in bilico (tutti tranne lui!), annullando il vantaggio percentuale dei Tories (è la dura legge dell’uninominale!). Come al solito, si trattava di wishful thinking.
È andata esattamente al contrario, con i Tories che hanno strappato collegi storicamente laburisti. Insieme a Corbyn escono quindi asfaltati anche i nostri media mainstream con il solito circo di inviati, esperti ed eurolirici al seguito, non solo perché alcuni schierati con il leader laburista, “male minore”, ma soprattutto perché non si sono mai voluti rassegnare al fatto che gli inglesi non hanno cambiato idea su Brexit, non si sono pentiti, né hanno ceduto alla strategia della paura, alimentata dai continui rapporti secondo cui i supermercati si sarebbero svuotati e la Regina sarebbe dovuta fuggire da Londra. Hanno voluto dipingere Johnson come un cinico opportunista, un pericoloso pagliaccio, una macchietta, le cui bugie avrebbero trascinato a fondo il Regno Unito, non riconoscendo in lui l’uomo di profonda cultura e il politico di razza. Non sarebbe mai riuscito a convincere l’Ue a riaprire l’accordo di uscita, ad eliminare il backstop, dicevano e scrivevano gli inviati che non aveva nemmeno una proposta in tasca con cui presentarsi a Bruxelles. E sappiamo com’è andata. Sghignazzavano e si davano di gomito ad ogni “umiliazione” parlamentare che subiva (quante volte l’hanno dato per finito?), senza comprendere che proprio su quelle sconfitte Johnson stava pazientemente e sapientemente costruendo il successo di oggi e cucendo addosso ai suoi avversari i panni degli sconfitti.
Perché era chiaro che prima o poi al voto si sarebbe tornati. E così, ad ogni bocciatura dei Comuni e della Corte, ad ogni escamotage dei Remainer e provocazione di Bruxelles, prendeva forma la sua campagna, si rafforzava la sua immagine di leader del “Get Brexit Done” in contrapposizione alla palude di Westminster e ai Remainer che brigavano con Bruxelles per tenere il Regno Unito prigioniero dell’incertezza per chissà quanto. Ha costretto Corbyn all’angolo, portandolo prima a sposare definitivamente, voto dopo voto a Westminster, una posizione Remainer senza però né convinzione né una strategia chiara su come ribaltare il risultato del 2016, poi a mostrare di temere il ritorno alle urne che fino a poco tempo prima invocava quasi ogni giorno.
Quella di Boris Johnson è una vittoria della leadership e degli ingredienti di cui una leadership politica è fatta: carisma e coraggio, chiarezza e sintonia con gli elettori, strategia e abilità nel muoversi nelle istituzioni. I suoi eccessi comunicativi non sono fine a se stessi, ma il veicolo di argomenti forti e di una strategia precisa. Fin dal giorno in cui è entrato al Numero 10 di Downing Street, una ventata di energia e concretezza ha spazzato via il grigiore e le insicurezze trasmesse dalla May.
Brexit done, ma non solo. Fattore decisivo la stanchezza dell’elettorato per lo stallo su Brexit, che Johnson ha saputo interpretare al meglio: gli elettori a quanto pare avevano proprio una gran voglia di “Get Brexit Done”. L’immobilismo, l’indecisione, è quanto di più lontano dallo spirito degli inglesi. Occorreva dare una spallata ad un Parlamento bloccato sulla questione più delicata dal Dopoguerra ad oggi, un mandato forte e chiaro al primo ministro per risolvere la matassa e tornare a occuparsi delle tante faccende domestiche passate in secondo piano, ma che stanno a cuore ai britannici probabilmente più dei rapporti con l’Ue.
Mentre la May aveva trasmesso la sensazione di essere la causa prima dell’impasse, con i suoi tentennamenti e i suoi passi indietro, Johnson ha saputo ribaltare questa percezione, assumendo da subito una posizione molto netta e, soprattutto, ottimistica su Brexit (uscita con o senza accordo entro il 31 ottobre) e lasciando ai suoi avversari la paternità di arrocchi, rinvii, bizantinismi e confusione. Anche Theresa May diceva di voler deliver Brexit, ma in lei era palpabile la paura, la scarsa convinzione nella scelta di lasciare l’Unione europea, la logica di riduzione del danno con la quale ha approcciato i negoziati, venendo letteralmente sbranata da Bruxelles, mentre Johnson ha incarnato la fiducia, la visione di una Brexit che oltre ai rischi presenta anche l’opportunità di “Unleash Britain’s Potential”.
Chi chiedeva a gran voce un secondo referendum, invadendo le strade di Londra o dai palazzi su questo lato della Manica, è stato accontentato. Qualcuno potrebbe sbrigativamente concludere che i britannici considerano il laburismo di Corbyn più pericoloso della Brexit stessa. Oppure, più semplicemente ritengono l’esito del 2016 come assodato, piaccia o meno, e ora si aspettano dalle loro istituzioni che riprendano il controllo dopo troppo tempo.
Non solo Brexit, dicevamo, perché alla base del trionfo di Johnson c’è anche un posizionamento politico ben oltre la comfort zone conservatrice sui temi economico-sociali. Un’analisi più approfondita dei voti reali consentirà di capire quanto i Tories siano riusciti a sfondare nell’elettorato laburista, ma la prima impressione è che abbiano intercettato non solo i voti di coloro che tre anni e mezzo fa si erano espressi per il Leave e che oggi si sentono traditi dall’ondivago Corbyn, che aveva annunciato che non avrebbe preso posizione, da primo ministro, in occasione di un secondo referendum sul divorzio dall’Ue.
Oltre che ai temi cari agli elettori di destra come la sicurezza, l’impresa privata e le tasse, Johnson si è dedicato per tutta la campagna elettorale a temi molto cari alla sinistra tradizionale, come i servizi pubblici, le infrastrutture e i cambiamenti climatici, impegnandosi a rafforzare il sistema sanitario nazionale (NHS) e quello dell’istruzione, e mettendo al centro della sua campagna i lavoratori, dalla manifattura alla pesca. Senza mancare di rassicurare la City, promettendo un’agenda economica liberale, a partire dai prossimi rapporti commerciali con l’Europa e il resto del mondo.
Con queste elezioni Johnson potrebbe quindi aver ridisegnato i confini conservatori, rendendoli quelli di un One Nation Party, fondendo componenti compassionevoli e liberali, sociali e imprenditoriali. Elementi non nuovi per chi lo conosce, sorprendenti per chi soprattutto in Italia lo ha superficialmente dipinto come un estremista di destra (e ora non gli resta che attaccarsi alla questione scozzese per provare a ridimensionare il suo successo).
Ha voluto rischiare e andare all-in, portando gli avversarsi allo scoperto e chiedendo le urne anticipate: poteva andare a sbattere e invece ha letteralmente sfondato – come nell’efficace spot elettorale in cui con una ruspa abbatte il muro dell’Hung Parliament.
E la nota positiva è che oltre ai tentativi di fermare la Brexit, votando in massa per i Tories gli elettori britannici hanno rigettato con forza l’islamo-marxismo e l’antisemitismo di cui era portatore il Labour di Corbyn.
Blair: “Labour vergogna, comico sulla Brexit. Rischia di sparire” –
18 dicembre 2019
http://blog.ilgiornale.it/cesare/2019/1 ... gQlM9DxDY8
Il risultato elettorale del Partito laburista? “Una vergogna. Abbiamo deluso il nostro Paese”. Le ragioni della peggiore sconfitta della sinistra inglese dal 1935? “Un’indecisione quasi comica sulla Brexit, che ci ha alienato tutte e due le parti del dibattito”, europeisti e antieuropeisti.
E poi ancora, a pesare sul pessimo risultato, è stata l’offerta di un “socialismo quasi rivoluzionario, un mix di politica economica di estrema sinistra, unito a una profonda ostilità verso la politica estera occidentale”. Infine lui, Jeremy Corbyn, visto dagli elettori come un leader “fondamentalmente in contrapposizione con quello che la Gran Bretagna e l’Occidente rappresentano”, sostenuto da un movimento di protesta totalmente incapace di essere votato come “governo credibile”.
Parla così oggi a Londra Tony Blair, il premier di maggior successo della storia del Labour (vincitore di tre elezioni consecutive, al governo dal 1997 al 2007), poi finito nel cono d’ombra del suo stesso partito, i cui vertici si sono spostati più a sinistra. Oggi Blair è in parte rimpianto dagli elettori (poco), in parte ancora odiato (molto) per la decisione di coinvolgere il Regno Unito nella guerra in Iraq, per il suo stile di vita, le amicizie con i ricchi del pianeta e le consulenze milionarie in giro per il mondo, anche a favore di qualche regime non proprio specchiato.
Eppure nessuno meglio di lui, che fu l’uomo della Terza Via europea e seppe trovare un compromesso fra destra e sinistra, fra libero mercato e politiche di solidarietà, può restituirci un’analisi altrettanto lucida e incisiva sulla debacle laburista. Blair arriva al cuore del problema e non è difficile capire perché: conosce bene gli elettori, specie quelli di centro che era riuscito a conquistare riportando il Partito Laburista al governo. Conosce il business e le imprese, con cui aveva rilanciato l’economia negli anni della Cool Britannia. Perciò è certo di quello che ormai sembra chiaro a tutti e che lui aveva largamente anticipato: se non fosse stato per Corbyn, per la sua decisione di accettare l’elezione di Natale, di cadere cioè nella trappola di Boris senza avere una linea chiara sulla Brexit, “avremmo tenuto gran parte dei nostri voti nelle aree laburiste tradizionali”. E se non fosse stato per l’incapacità di Corbyn di affrontare l’antisemitismo nel partito – una circostanza “che ci ha lasciato disgusto” – non ci saremmo “sentiti per la prima volta in conflitto nel votare Labour”.
A proposito del programma laburista alle ultime elezioni – una sfilza di promesse ambiziose e costose, che Corbyn ancora difende – Blair è lapidario: “È stato un urlo contro il sistema ma non è un programma di gioverno” . E ancora: “Qualsiasi pazzo può promettere qualsiasi cosa gratis, ma la gente non si è fatta prendere in giro”.
Cosa accadrà adesso? Corbyn ha detto che si farà da parte con il nuovo anno. Molti gli rimproverano di continuare a logorare il partito senza un’uscita di scena immediata. Il Labour deve scegliere la sua anima. Ma soprattutto – dice Blair – deve rinnovarsi. “O si rinnova, come un concorrente per il potere, serio, progressista e non conservatore. Oppure, se rinuncerà a questa ambizione, sarà sostituito. La scelta è questa: cruda, dura, difficile, ma vera”. “Per conquistare il potere, abbiamo bisogno di autodisciplina, non di autoindulgenza, dobbiamo ascoltare cosa dice davvero la gente, non sentire solo la parte che vogliamo ascoltare noi” . Infine serve creare una nuova agenda politica, al centro della quale deve esserci la “comprensione e mobilitazione dell’industria tecnologica, che è l’equivalente della Rivoluzione industriale del XIX secolo”.
Cosa vuol dire questo? Che “c’è una montagna da scalare” per il Labour, come ha ammesso uno dei candidati alla leadership, Keir Starmer, fin qui ministro ombra per la Brexit e come Blair favorevole a un secondo referendum. Ma il tempo scorre. E Re Boris, con una maggioranza schiacciante e il “governo del popolo”, proverà ora a conquistare per sempre i cuori della working class.
Brexit è qui per restare: smontati stereotipi e pregiudizi, la sfida è solo all'inizio
Atlantico Quotidiano
Dario Mazzocchi
31 Gen 2020
http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... OtKy5bxB6s
Smentiti quelli che “Brexit non si farà mai”, ecco l’altro volto della Brexit, quello positivo e liberale che eurolirici e disfattisti hanno preferito non vedere, perché rischia di mostrare che c’è vita al di fuori dell’Ue
Il fatidico giorno, dunque, è arrivato: finisce gennaio ed inizia Brexit. Dopo un lungo e politicamente drammatico parto il Regno Unito esce ufficialmente dall’Unione europea. È un passaggio epocale, uno stato membro che esce dal blocco. Impensabile anche a poche ore dalla chiusura delle urne il 23 giugno 2016, quando il divorzio non era stato preso davvero in considerazione nella sua totalità, ma solo come un’eventualità giudicata per lo più remota, mentre l’esito del referendum ha finito per scatenare un forte terremoto nello status quo contemporaneo, seguito da lì a pochi mesi dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Ipotesi irrealizzabili per i più, nei dibattiti e nelle analisi, nel susseguirsi di opinioni e previsioni. Invece, è successo e sta succedendo.
Una lunga strada e siamo solo all’inizio – Brexit per troppo tempo e in modo errato è stata descritta come l’affermazione del populismo Oltremanica, come il trionfo delle bugie e delle paure sui dati di fatto e sulla realtà, come la costruzione di nuovi muri per isolarsi dal resto del mondo di fronte ai sempre più consistenti flussi migratori verso l’Europa. Parafrasando il poeta settecentesco irlandese Jonathan Swift, è stato commesso l’errore di scambiare le voci degli ambienti cosmopoliti londinesi per il sentimento della nazione. Eppure, il Regno Unito è sempre stato fondamentalmente poco incline all’europeismo e, negli ultimi anni di convivenza, la strategia di Bruxelles di dare vita ad un’unione sempre più profonda e ramificata ha riacceso quegli stessi animi che sembravano – sembravano – sopiti durante i mandati di Tony Blair e agli inizi dell’avventura da primo ministro di David Cameron, che infatti decise di scommettere in modo pesante per consacrare il suo operato garantendo che con la sua rielezione del 2015 il popolo avrebbe avuto la facoltà di esprimersi sulla permanenza nell’Ue. Poco più di un anno dopo avrebbe rassegnato le sue dimissioni.
Cos’è stata e cosa sarà questa benedetta Brexit? Se per gli strenui difensori del modello europeista resta un errore irreparabile, per i britannici è stata ed è una sonora richiesta di take back control inoltrata all’establishment, oltre che una stagione mai vissuta in precedenza di scontri e divisioni che hanno aggiunto ulteriori scosse telluriche ad un sistema impreparato, al punto da non sapere come procedere, dando fiato ai disfattisti. Termini come crisi istituzionale, emergenza nazionale e tracollo economico si sono diffusi come una pandemia, mentre la vita di tutti i giorni andava avanti. Theresa May che giocava male le carte in mano, mancando di una chiara strategia per le contrattazioni e di una solida maggioranza parlamentare; i Comuni che dettavano l’agenda e poi finivano per non trovare un accordo; l’Ue che imponeva continui diktat nella speranza che l’Articolo 50 venisse definitivamente revocato; le strade di Londra che si riempivano di manifestati pro e contro – soprattutto contro – Brexit; il luogo comune che il popolo si fosse pentito della sua scelta, unitamente all’idea che la democrazia sia sopravvalutata, quando non in grado di garantire l’esito sperato.
Tirare dritto – Proprio quando sembrava naufragare contro un bianco scoglio di Dover, Brexit è invece proseguita, suggellata dal trionfo di Boris Johnson alle elezioni di dicembre. Pragmatismo anglosassone: andiamo avanti e passiamo oltre, abbiamo perso fin troppo tempo. C’era un nuovo accordo con l’Ue (che sembrava impossibile ottenere), c’era un candidato con le idee chiare e ottusamente a favore dell’addio, quindi denigrato sulla pubblica piazza da chi era ancora fermo al 13 giugno 2016, e c’era una proposta alternativa che non avrebbe dato scampo, quella presentata dal fallimentare Jeremy Corbyn di ricominciare da capo, con un secondo referendum. L’esito è stato lampante e improvvisamente è calato il silenzio: Brexit è scomparsa dai titoli, dai talk show politici, dalle cronache marziane di chi aveva confuso le voci degli ambienti cosmopoliti londinesi per quelle dei quattro angoli del regno, accettata a malincuore dagli hooligans del fusionismo europeo, tornati però a farsi vivi a ridosso del fatidico termine.
“Il processo di messa in atto del referendum è stato così lungo e penoso che a Bruxelles anche coloro che non volevano il distacco della Gran Bretagna (ed erano nettamente la maggioranza) stanno ora tirando un respiro di sollievo”, ha commentato dalle colonne del Messaggero domenica scorsa Romano Prodi, convinto che Londra abbia fallito nel tentativo di dividere la grande famiglia europeista. È una sua legittima convinzione, ma che il voto del 2016 avesse quell’intento è tutto da dimostrare.
Out and into the world – C’è chi piuttosto guarda a Brexit con attenzione, curiosità e interesse, senza farne una barricata ideologica – come Capezzone, Punzi e altri autori hanno tentato di fare ormai due anni e mezzo fa in “Brexit. La sfida” (Giubilei Regnani, 2017). Sono molti coloro che cercano un’alternativa alla sovrastruttura architettata nei corridoi di Bruxelles, spesso soggetta alla diarchia Berlino–Parigi. Non sono per forza contrari al concetto in sé di collaborazione economica e politica tra gli stati membri, ma si augurano che venga messo un freno alla seconda. Credono che l’identità dei Paesi sia un punto di forza e non un peso e che si possano ottenere benefici dalle relazioni con gli altri senza dover per forza adeguarsi a linee guida che non giocano a favore dei propri interessi nazionali. Confidano nel pluralismo e guardano con sospetto alle armonizzazioni forzate a colpi di direttive. Sono i connotati di quella che noi di Atlantico abbiamo definito da tempo la Brexit liberale di Johnson, il quale ora ha i numeri per mantenere la promessa e per riproporli durante le trattative che caratterizzeranno il periodo di transizione che inizierà con lo scoccare della mezzanotte.
Non è certo escluso che tra le anime di quel popolo che nel 2016 ha scelto il Leave trovino spazio quelle ancorate ad un passato che non può tornare e all’isolazionismo autarchico, ma non sono mai state maggioranza, se non per un certo sensazionalismo mediatico e la stravaganza di alcuni suoi portavoce. Tanto può bastare a chi si accontenta di soffermarsi sulla superficie e preferisce non scavare a fondo, per tirare affrettate conclusioni, ma in un momento storico come quello in atto il buon senso dovrebbe suggerire di non cadere in tentazione. Out and into the world era lo slogan degli euroscettici britannici già negli Anni Settanta, riposto in seguito in un cassetto, ma non nel dimenticatoio, quanto tra le cose da conservare perché potrebbero sempre tornare utili. La vita dopo Brexit proseguirà in modo meno tenebroso di quanto si prospettava – e qualcuno probabilmente si augurava. Non mancheranno nemmeno le scorte alimentari sugli scaffali dei supermercati. Si concretizzerà invece un’alternativa che aiuterà a considerare nuove vie e ad esplorare nuove strade, non per radere al suolo ciò che c’è quanto piuttosto per migliorare e tenere il passo dei tempi che cambiano. Sempre ammesso che se ne abbia il coraggio.
Ecco perché Londra ha staccato la spina all'Europa
Lorenzo Vita
1 febbraio 2020
https://it.insideover.com/politica/lond ... qwGXY6NlKs
Il Regno Unito lascia ufficialmente l’Unione europea ed entra in una nuova era ripartendo dal suo passato. Niente più costola atlantica dell’Europa né “serpe in seno” come definita da molti del sistema voluto da Bruxelles. Londra esce dall’Europa e torna a pensare se stessa come potenza in grado di gestire la propria strategia senza essere parte in un sistema politico continentale. E la Brexit rappresenta il primo step per una riscoperta del mondo da parte dei britannici dopo che per qualche decennio avevano creduto (senza troppe illusioni) di poter essere anche parte dell’Unione europea.
I cittadini britannici, ma soprattutto gli strateghi di Downing Street, non hanno mai avuto una grande percezione di se stessi come europei. E la Brexit, che sancisce il divorzio tra Londra e Bruxelles, è solo la presa di coscienza di un ruolo che il Regno Unito non ha mai voluto condividere con le potenze europee. Paese votato al mare contro un blocco terrestre, Stato indipendenti per natura contro un blocco multilaterale che ha sempre ritenuto distante, alla ricerca dell’Atlantico e sempre meno della Manica, il Regno Unito ha fatto una scelta difficile, pericolosa e non certo semplice consapevole che in fondo la sua strategia è sempre stata questa: non essere parte dell’Europa ma evitare che qualcuno prendesse il sopravvento nel Vecchio continente. Ci è riuscita per 47 anni dentro l’Ue. Ci è riuscita adesso con la Brexit, dal momento che il terremoto che ha colpito l’Europa ha comunque inferto un colpo durissimo ai piani dell’asse franco-tedesco e in particolare della Germania. E ha posto certamente una pietra tombale sulle certezze oniriche di chi ha creduto che l’Europa potesse solo crescere ed espandersi. Una doccia gelata che vede dal’altra parte il cambiamento del mondo.
Perché quello che ha fatto la Gran Bretagna è in realtà parte di un’evoluzione molto più grande che include tutti gli angoli del mondo: Europa compresa. Londra non va via da un’Europa che conta, ma da un’Unione europea sempre più debole e instabile e su cui si sono posti gli occhi inflessibili delle superpotenze che per decenni hanno voluto mantenere lo status quo. Oggi l’Ue non serve e gli Stati Uniti, che per molto tempo hanno tollerato (o benedetto) l’Unione come espressione europea della Nato, oggi non hanno più interesse a questo blocco di Stati guidato da Bruxelles ma in realtà da Berlino e Parigi e che compete con Washington. E Donald Trump, punta di diamante di questa strategia americana, è arrivato non a caso mentre il Regno decideva per la Brexit. I due fenomeni non sono così distanti come sembrano. E le due sponde dell’Atlantico hanno deciso una via sovranista ante litteram quasi insieme, come a voler confermare che l’Atlantico avrebbe staccato la spina all’Europa.
Così è stato. E proprio a porre il sigillo su questa dinamica atlantica, Boris Johnson ha visto da subito in Trump il suo interlocutore privilegiato, sin dai tempi della sua carica di ministro degli Esteri. Sia chiaro: non senza divergenze. L’ultima mossa di Londra di aprire a Huawei nel 5G britannico è un messaggio chiarissimo nei confronti dell’alleato statunitense. Ma è chiaro che la special relationship atlantica ne uscirà comunque rafforzata, come confermato anche dalle parole di Mike Pompeo pochi minuti dopo lo scoccare della mezzanotte del primo febbraio.
Ma la decisione sul 5G da parte del governo conservatore indica anche dell’altro. L’apertura verso Huawei non è soltanto un’operazione di “rivolta” contro le decisione imposte dal Pentagono e dalla Cia ma anche il segnale di come a Londra vogliano il dialogo con Pechino. La Cina ha subito fatto intendere di essere particolarmente interessata al Regno post-Brexit. Ed è chiaro che adesso Johnson guarda al gigante asiatico come un Paese in grado di investire molto più liberamente sul territorio inglese pur con le cautele imposte dalla relazione con Washington. In questo senso, il pericolo che la City diventi una sorta di paradiso fiscale o che si costruisca un asse finanziario tra Shanghai, Hong Kong e la capitale britannica preoccupa (e molto) Francoforte. E gli investitori cinesi sanno di poter fare affari in un Paese che ha nel commercio e nella globalizzazione il suo punto di forza.
Global Britain ripetono a Londra. Ed è questo l’obiettivo del governo che sa di avere dalla sua gli Stati Uniti, e di poter contare sulla Cina. Non potrà certo contare sulla Russia, di cui Londra continua a essere un rivale strategico. Ma in questo momento al Regno Unito interessa prendere la sua posizione di forza nell’Anglosfera, ricucendo con il Commonwealth, ribadendo le sue linee sul controllo dei mari, riprendendo i dossier sulle ex colonie ma senza sganciarsi definitivamente dall’Europa, in particolare nel campo della Difesa e del commercio, con cui il Regno Unito ha troppo interscambio per sfuggire. Una strategia complessa ma che parte da un dato: niente ha avuto inizio soltanto con la Brexit, ma sarà proprio l’uscita dall’Ue a segnare il cambio di passo. Non è detto che Londra torni, ma di sicuro l’obiettivo è uno: mollare l’ancora dell’Europa per navigare (certamente a vista) verso gli Oceani. Global Britain, appunto.