La fine dell'impero romano e il mito dei barbari invasori

La fine dell'impero romano e il mito dei barbari invasori

Messaggioda Berto » lun feb 08, 2016 10:38 am

Enflasion
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L’inflazione monetaria e la caduta dell’impero romano (1° parte)
https://www.lindipendenza.com/peden-inf ... no-1-parte

Proponiamo in ANTEPRIMA per L’Indipendenza la traduzione integrale in italiano dell’articolo Inflation and the Fall of the Roman Empire, tratto dal Ludwig von Mises Institute, scritto da Joseph R. Peden, saggista ed autore da varie pubblicazioni, ha insegnato storia al Baruch College of the City University of New York. Si tratta di una trascrizione della lezione da lui tenuta al Seminar on Money and Government a Houston in Texas, il 27 Ottobre 1984. La registrazione audio originale è qua reperibile. (Traduzione di Luca Fusari)

Due secoli fa, nel 1776, furono pubblicati in Inghilterra due libri entrambi ancora avidamente letti: La ricchezza delle nazioni di Adam Smith e Declino e caduta dell’impero romano di Edward Gibbon. Opera in più volumi, quella di Gibbon è il racconto di uno Stato che sopravvisse per dodici secoli in Occidente e per altri mille anni in Oriente a Costantinopoli.

Eppure nel guardare a questo fenomeno, Gibbon commentò che la sua meraviglia non era che l’Impero romano fosse caduto, quanto piuttosto che fosse durato così a lungo. Gli studiosi a partire da Gibbon hanno dedicato grande quantità di energia per esaminare questo problema: come è stato possibile che l’Impero romano sia durato così a lungo? E’ declinato o è stato semplicemente trasformato in qualcos’altro (quel qualcos’altro è la civiltà europea, di cui siamo gli eredi)?.

Mi è stato chiesto di parlare sul tema della storia romana, in particolare sul problema dell’inflazione e del suo impatto. La mia analisi si basa sulla premessa che la politica monetaria non può essere studiata o capita isolandola dalle politiche generali dello Stato. I temi monetari, fiscali, militari, e le questioni politiche ed economiche sono tutti molto intrecciati, e la ragione per cui lo sono è in parte dovuto al fatto che lo Stato, qualsiasi Stato, cerca di solito di monopolizzare l’offerta di denaro sul proprio territorio.

La politica monetaria serve sempre, anche se in modo pessimo, i bisogni percepiti dai governanti dello Stato. Se anche accade che possa migliorare la prosperità e il progresso delle masse del popolo ciò è un vantaggio secondario, ma il suo primo obiettivo è quello di soddisfare le esigenze dei governanti non del governato. Ritengo che questo punto sia centrale per la comprensione del corso della politica monetaria nel tardo Impero romano.

Possiamo iniziare osservando la mentalità dei governanti dell’Impero romano a partire dalla fine del II° secolo d.C. fino alla fine del III° secolo. Gli storici romani si riferiscono a questo periodo come la crisi del III° secolo, e la ragione è che i problemi della società romana in quel periodo erano così profondi, così enormi, che la società romana emersa dopo tale secolo fu molto, molto diversa in quasi tutti gli ambiti da quella che era stata nel I° e nel II° secolo. L’imperatore Settimio Severo diede questo consiglio ai suoi due figli Caracalla e Geta: «vivere in armonia, arricchire le truppe, ignorare tutti gli altri». Ora c’era una politica monetaria per cui essere ammirati!.

Caracalla non seguì la prima parte del consiglio, infatti uno dei suoi primi atti fu quello di uccidere il fratello. Prese così seriamente a cuore l’arricchimento delle truppe che sua madre protestò con lui invitandolo ad essere più moderato e di limitare le sue crescenti spese militari e le sue nuove assai onerose tasse. Lui rispose affermando che non c’erano più entrate giuste o ingiuste, ma di non preoccuparsi, indicando la spada disse «finché abbiamo questa non saremo a corto di soldi».

Le sue priorità furono rese più esplicite quando disse «a parte me nessuno dovrebbe avere del denaro, affinché io lo possa dare ai soldati». Fu di parola, alzò del 50% la paga dei soldati e per raggiungere questo obiettivo raddoppiò le imposte di successione versate dai cittadini romani. Quando questo non fu sufficiente a soddisfare le sue esigenze, diede a quasi tutti gli abitanti dell’impero la cittadinanza romana. Quello che fu un privilegio divenne semplicemente un mezzo di espansione della base imponibile.

Poi andò oltre, procedendo allo svilimento della moneta. La monetazione di base dell’impero romano in questo periodo, stiamo parlando del 211 d.C., era il denario d’argento (argenteus denarius) introdotto da Augusto alla fine del I° secolo prima di Cristo con circa il 95% di argento, la quale moneta continuò ad essere per due secoli il mezzo base di scambio nell’impero.

Al tempo di Traiano, nel 117 d.C., conteneva solo l’85% d’argento calando dal 95% di Augusto. Dall’età di Marco Aurelio, nel 180 d.C., il denario era per il 76% d’argento. Al tempo di Settimio la componente d’argento era scesa al 60%, Caracalla la livellò ulteriormente arrivando al 50%.

Caracalla fu assassinato nel 217 d.C. e dopo di lui seguì un’età che gli storici chiamano l’era dell’Anarchia militare o dei soldati imperatori, perché per tutto il III° secolo tutti gli imperatori provennero dall’esercito e tutti giunsero al potere con colpi di Stato militari o con qualcosa di simile. Ci furono circa 26 imperatori legittimi in questo secolo e solo uno di loro morì di morte naturale, il resto furono tutti assassinati o morirono in battaglia, il che fu assolutamente senza precedenti nella storia romana (con due precedenti eccezioni: il suicidio di Nerone e l’assassinio di Caligola).

Caracalla aveva anche svilito la moneta d’oro. Sotto Augusto circolavano 45 monete per una libbra d’oro. Caracalla ne fece 50 con una libbra d’oro. Meno di 20 anni dopo, circolavano 72 per una libbra d’oro, ridottesi a 60 alla fine del secolo da Diocleziano, solo per essere sollevate nuovamente a 72 da Costantino. Così anche la moneta d’oro fu inflazionata svilendola di valore.

Ma la vera crisi arrivò dopo Caracalla, tra il 258 e il 275 d.C., in un periodo di intense guerre civili e di invasioni estere, gli imperatori semplicemente abbandonarono a tutti gli effetti la moneta d’argento. Nel 268 d.C. c’era solo lo 0,5% d’argento nel denario. I prezzi in questo periodo aumentarono nella maggior parte dell’impero di quasi il 1000%. Le uniche persone che furono pagate in oro furono le truppe barbariche assunte dagli imperatori. I barbari erano così barbari che avrebbero accettato solo l’oro come pagamento per i loro servigi.

La situazione non cambiò fino a quando divenne imperatore Diocleziano nell’anno 284 d.C. Poco dopo la sua ascesa alzò il peso della moneta d’oro, l’aureo (aureus) a 60 monete per libbra da un minimo di 72. Ma dieci anni dopo abbandonò il conio argenteo, che da questo momento fu semplicemente una moneta di bronzo immerso in argento piuttosto rapidamente.

Egli l’abbandonò completamente e tentò di emettere una nuova moneta d’argento chiamato argenteo (argenteus) per 96 monete a libbra. Questo argenteus fu fissato come cambio pari a 50 dei vecchi denarii (del vecchio conio). Fu progettato per rispondere al bisogno di monete a più alta tariffazione sul mercato, per riflettere l’inflazione. Egli batté anche una nuova moneta di bronzo tariffata a 10 denarii chiamata nummo (nummus), ma meno di un decennio più tardi dalla sua emissione fu tariffato a 20 denarii, e l’argenteo andò da 50 denarii a 100; in altre parole nonostante gli sforzi di Diocleziano l’Impero soffrì un’inflazione del 100%.

Seita (seguita, continua)


L’inflazione monetaria e la caduta dell’impero romano (2° parte)

Proponiamo in ANTEPRIMA per L’Indipendenza la traduzione integrale in italiano della seconda parte (qua la prima) dell’articolo Inflation and the Fall of the Roman Empire, tratto dal Ludwig von Mises Institute, scritto da Joseph R. Peden, saggista ed autore di varie pubblicazioni, ha insegnato storia al Baruch College of the City University of New York. Si tratta di una trascrizione della lezione da lui tenuta al Seminar on Money and Government a Houston in Texas, il 27 Ottobre 1984. La registrazione audio originale è qua reperibile. (Traduzione di Luca Fusari)

Il successivo imperatore che interferì con la moneta in modo significativo fu Costantino, il primo imperatore cristiano di Roma. Nel 312, in prossimità dell’emissione dell’Editto di Tolleranza per il Cristianesimo, Costantino emise una nuova moneta d’oro che chiamò con un nuovo nome: il solido (solidus) d’oro massiccio. Furono coniate 72 monete per libbra, sicché fu degradato più delle monete di Diocleziano.

La questione e le perplessità che gli storici si sono posti è su dove egli abbia preso tutto quell’oro; in realtà non è un vero e proprio rompicapo una volta che si inizia a guardare alla legislazione che ha avuto luogo.
Prima di tutto Costantino introdusse due nuove imposte.
La tassa sui possedimenti dei senatori fu una novità, poiché i senatori erano generalmente liberi dalla maggior parte delle imposte sulla loro terra.
Inoltre stabilì una tassa sul capitale dei mercanti; non sui loro guadagni ma sul loro capitale.
Questa venne riscossa ogni cinque anni e doveva essere versata in oro.

Inoltre richiese che gli affitti delle proprietà imperiali, che fossero affittati ad inquilini, dovessero essere pagati solo in oro. Prese le riserve di lingotti del suo ex compagno Licinio, il quale li aveva a sua volta estorti con la forza dalle città orientali dell’Impero. In altre parole i lingotti d’oro o d’argento del tesoro delle città furono semplicemente requisiti da Licinio. Quest’oro passò poi nelle mani di Costantino dopo essersi sbarazzato di Licinio in una guerra civile.

Stiamo anche dicendo che Costantino spogliò i templi pagani dei loro tesori. Questo lo fece piuttosto tardi durante il suo regno, a quanto pare inizialmente aveva ancora un po’ di paura nel far arrabbiare gli dei di Roma. Quando però la cristianità divenne più presente, sentì di poter derubare i templi pagani con maggior facilità. La riforma di Costantino, in un certo senso, iniziò l’inversione del processo: la coniazione della moneta d’oro fu sufficientemente estesa che cominciò a prendere piede e a circolare più liberamente.

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Tuttavia la coniazione della moneta d’argento fallì, quel che era peggio il governo centrale non cercò di controllare il flusso di moneta a gettone coniata in questo periodo. Il risultato di tutto questo fu che la monetazione venne coniata non solo dalle zecche imperiali ma anche dalle zecche delle città provinciali (in rosso le aree di coniazione, n.d.t.).

In altre parole, se una città non poteva pagare i suoi costi e il pagamento delle retribuzioni ai propri dipendenti, semplicemente batteva un po’ di moneta e la emetteva. Entro la fine del III° secolo si cominciò ad avere in forma massiccia ciò che i numismatici chiamano moneta contraffatta, anche se bisognerebbe chiamarla credito odierno. La gente aveva bisogno di spiccioli e semplicemente andava a produrseli, il che ovviamente significò che la quantità di moneta in circolazione fu incontrollata e sempre più massiccia.

Una delle cose che accaddero nel corso di questa inflazione del III° secolo fu la scoperta da parte del governo che, quando pagava le sue truppe con la monetazione coniata a gettone o anche con monete d’argento svalutate, i prezzi aumentavano subito. Ogni volta che il valore d’argento del denario scese i prezzi ovviamente aumentarono, e il risultato di tutto questo fu che il governo, al fine di cercare di proteggere i suoi funzionari e i suoi soldati dagli effetti dell’inflazione, cominciò ad esigere il pagamento delle tasse in natura e con servigi anziché in moneta. Liquidarono la moneta ripudiando i propri problemi e non accettandola per la riscossione delle imposte.

Con la riforma di Costantino questa situazione cambiò un po’ più lentamente ma inesorabilmente, il governo cominciò ad allontanarsi dalla riscossione delle imposte e dal pagamento dei salari in natura privilegiando invece l’oro. Nel lungo periodo questo significò che un gold standard fu rafforzato e l’oro rimase la vera moneta dell’Impero Romano.

Tuttavia l’inflazione per le masse del popolo non finì. In altre parole, l’oro fu una copertura contro l’inflazione per chi l’aveva, e questi furono principalmente le truppe e i funzionari pubblici. I contribuenti dovettero acquistare queste monete d’oro per pagare le tasse e così, se erano abbastanza ricchi, potevano permettersi di acquistare queste monete d’oro le quali erano sempre più costose in termini di denaro gettone. Se si fosse stati più poveri semplicemente non si poteva pagare le tasse, e questo significava la perdita delle terre e in un modo o nell’altro si finiva per diventare dei delinquenti.

Sentiamo costanti riferimenti su persone che abbandonarono la loro terra scomparendo. E’ un dato di fatto nel III° secolo e fu un problema costante a Roma: tutte le tipologie di persone stavano cercando di sfuggire alle maggiori imposte che necessitavano i militari. L’esercito stesso crebbe, dal tempo di Augusto quando era di circa 250 mila soldati, agli oltre 600 mila uomini del tempo di Diocleziano. L’esercito raddoppiò nel corso di questa spirale inflazionistica, e ovviamente contribuì notevolmente all’inflazione.

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Inoltre l’amministrazione dello Stato crebbe enormemente. Sotto Augusto essenzialmente vi era l’amministrazione imperiale a Roma, i governatori delle varie province al secondo livello di amministrazione, e quindi le primarie unità governative dell’Impero Romano che in quel momento erano le città. Al tempo di Diocleziano questo modello venne spezzato. Non si aveva più un imperatore ma quattro imperatori. Il che significava quattro corti imperiali, quattro guardie pretoriane, quattro palazzi, quattro staff, eccetera.

Sotto di loro vi erano quattro prefetture pretoriane, delle unità amministrative regionali con il loro personale e i loro bilanci. Queste quattro prefetture furono poi divise in 12 diocesi, ogni diocesi aveva del personale amministrativo e così via. Sotto i governanti diocesani, i vicari della diocesi, abbiamo le province. Al tempo di Augusto c’erano circa 20 province, trecento anni dopo, senza alcun aumento sostanziale del territorio, ci furono oltre un centinaio di province. Avevano semplicemente cominciato a dividere e suddividere le province allo scopo di mantenere il controllo militare all’interno di queste regioni. In altre parole, il costo amministrativo e di polizia dello Stato romano diventò sempre più enorme.

Tutti questi costi sono alcuni dei motivi per cui l’inflazione ha avuto luogo, ne dirò altri in un attimo. Per darvi un’idea della situazione dopo la riforma aurea di Costantino vorrei solo brevemente aggiungere le cifre di quanto costò in termini di monete d’argento, gettoni, denari, e in libbra d’oro. Al tempo di Diocleziano, nell’anno 301 d.C, egli fissò il prezzo a 50 mila denari per una libbra d’oro. Dieci anni dopo salì a 120 mila. Nel 324 d.C., 23 anni dopo che fu fissata a 50 mila, arrivò a 300 mila, e nel 337 d.C., anno della morte di Costantino, una libbra d’oro valeva 20 milioni di denari.

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Tra l’altro, così come a tutti è familiare la moneta tedesca degli anni ’20 del XX° secolo e la sua estesa stampa, la monetazione romana aveva anche bolli e sovra-timbri sul metallo, indicanti multipli di valore. A un certo punto Diocleziano ebbe una meravigliosa idea: invece di emettere una moneta unica ideò un metodo per gestire l’inflazione. Prese delle monete in bronzo e le mise in un sacchetto di pelle e lo chiamò ‘follaro’ (‘follis’), la gente cominciò passarsi questi sacchetti tra loro come valore.

Credo che fosse l’equivalente romano di quei cestini di carta che vediamo nelle immagini della Germania degli anni ’20. E’ interessante notare che, entro dieci anni o giù di lì dalla sua adozione, la parola ‘follaro’ indicante questo sacchetto di monete ormai indicava le monete. Non poterono nemmeno tenere i sacchetti stabili anche loro si erano inflazionati.

Con tutta questa inflazione, vi è una cosa interessante che penso debba esserci di grande conforto: gli storici dei prezzi dell’Impero romano giunsero alla conclusione che nonostante tutta questa inflazione (o forse dovremmo dire a causa di tutta questa inflazione) il prezzo dell’oro, in termini di potere d’acquisto, rimase stabile dal I° al IV° secolo. In altre parole l’oro rimase in termini di potere d’acquisto un valore stabile, mentre tutto questo conio diventò sempre più inutile.



L’inflazione monetaria e la caduta dell’impero romano (3° parte)

https://www.lindipendenza.com/peden-inf ... no-3-parte

Proponiamo in ANTEPRIMA per L’indipendenza la traduzione integrale in italiano della terza parte (qua la prima e la seconda) dell’articolo Inflation and the Fall of the Roman Empire, tratto dal Ludwig von Mises Institute, scritto da Joseph R. Peden, saggista ed autore di varie pubblicazioni, ha insegnato storia al Baruch College of the City University of New York. Si tratta di una trascrizione della lezione da lui tenuta al Seminar on Money and Government a Houston in Texas, il 27 Ottobre 1984. La registrazione audio originale è qua reperibile. (Traduzione di Luca Fusari)

Quali furono le cause di questa inflazione?
Prima di tutto le guerre.
La paga dei soldati salì dai 225 denarii durante il periodo di Augusto a 300 denarii al tempo di Domiziano, circa un centinaio di anni più tardi. Un secolo dopo Domiziano, al tempo di Settimio era tra i 300 e i 500 denarii, circa 10 anni dopo al tempo di Caracalla era a 750 denarii.
In altre parole, il costo dell’esercito aumentò anche in termini di conio, così man mano che la moneta divenne più inutile, il costo dell’esercito aumentò.

L’anticipo versato al soldato nel prosieguo del III° e nel IV° secolo non ci è noto, non abbiamo dati.
Uno dei motivi è che i soldati furono sempre pagati in termini di richieste di forniture e in beni in natura. Gli fu letteralmente dato cibo, vestiario, alloggio e altre materie prime in sostituzione della retribuzione; e venne applicato anche al servizio civile.
Dopo l’ascesa al potere se un imperatore romano si rifiutava di pagare un donativo (un bonus dato ai soldati) veniva semplicemente ucciso dalle sue truppe.

I Romani ebbero questo tipo di problema anche nei giorni della Repubblica: se i soldati non venivano pagati erano piuttosto risentiti.
I donativi stanziati all’ascesa di un nuovo imperatore fin dai tempi di Augusto, nel III° secolo cominciarono ad essere stanziati ogni cinque anni.
Al tempo di Diocleziano i donativi erano erogati ai soldati ogni anno, in tal modo diventò parte del loro salario di base.

La dimensione dell’esercito aumentò.
Raddoppiò dal tempo di Augusto a Diocleziano, fu così anche per la dimensione del servizio civile che ho citato.
Tutti questi eventi portarono le risorse fiscali dello Stato oltre la loro capacità di sostenere se stesse, e lo svilimento e la tassazione furono entrambi utilizzati per mantenere la nave dello Stato; frequentemente con eliminazioni, poi attraverso la tassazione, spesso semplicemente accusando le persone di tradimento per poi poter confiscare a loro le proprietà.

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Uno dei Padri cristiani, san Gregorio di Nazianzo, commentò che la guerra è la madre delle tasse e penso che sia una cosa importante da tenere a mente: la guerra è la madre delle tasse.
Ed è anche ovviamente la madre dell’inflazione.
Quali furono le conseguenze dell’inflazione?
Una delle cose strane circa l’inflazione durante l’Impero romano è che mentre lo Stato romano sopravvisse (lo Stato romano non fu distrutto dall’inflazione) ciò che andò distrutto dall’inflazione fu la libertà del popolo romano, in particolare la prima vittima fu la loro libertà economica.

Roma ebbe fondamentalmente un modello di laissez-faire nei rapporti tra Stato ed economia.
Tranne in casi di emergenza, che erano solitamente legati alla guerra, il governo romano in genere seguì una politica di libero scambio e di minima restrizione sulle attività economiche della sua popolazione. Ma sotto la pressione della necessità di pagare le truppe e sotto la pressione dell’inflazione, la libertà del popolo cominciò ad essere seriamente erosa molto rapidamente.

Potremmo iniziare con la classe nota come i decurioni.
Questa era una prospera classe di proprietari terrieri medio-piccoli, furono gli elementi dominanti nelle città dell’impero romano.
Erano la classe da cui venivano scelti i consigli municipali, i magistrati e i funzionari.
Tradizionalmente vedevano il servizio nei governi delle loro città come un onore e rispondevano a questo compito donando non solo il loro tempo ma anche la loro ricchezza al miglioramento dell’ambiente urbano: la costruzione di stadi e terme, la riparazione delle strade e la fornitura di acqua pura.
Erano considerati dei benefattori, una specie di filantropia, e la loro ricompensa era ovviamente il riconoscimento pubblico e la stima.

Nella metà del III° secolo, a questa classe fu assegnato il compito di raccogliere le tasse nelle municipalità.
Il governo centrale non poté più raccogliere le tasse in modo efficace, così fece collettivamente responsabile la classe dei decurioni circa l’ottenimento dell entrate le quali dovevano poi essere mandate al governo imperiale. I decurioni ovviamente ebbero molte difficoltà, come chiunque altro, e i ritorni furono spesso inadeguati.
Così il governo risolse il problema semplicemente approvando una legge: qualsiasi imposte che i decurioni non fossero in grado di raccogliere dagli altri, le avrebbero dovute pagare di tasca propria. Questo è noto come incentivo alla raccolta delle tasse.

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Come si può ben immaginare, con le crisi sempre più grandi e l’economia distrutta da guerre civili, invasioni e dagli effetti dell’inflazione, i decurioni “stranamente” non vollero più essere decurioni, e cominciarono ad abbandonare le loro terre, le loro città, e a fuggire ovunque potessero trovare rifugio presso altre grandi città o in altre province.
Ma non furono autorizzati a farlo impunemente, venne approvata una legge che sanzionava ogni decurione scoperto fuori sede con l’arresto, legato come uno schiavo veniva riportato nella sua città natale e alla sua dignità di decurione.

Il III° secolo fu anche il periodo della persecuzione nei confronti della chiesa, e troviamo che alcuni degli imperatori dovettero avere del senso dell’umorismo, dato che approvarono che se un cristiano fosse stato arrestato e condannato alla pena capitale per il suo credo in Cristo, non doveva essere subito giustiziato ma gli veniva offerta la possibilità di diventare un decurione.

I mercanti e gli artigiani erano tradizionalmente organizzati in gilde, in camere di commercio e quel genere di cose.
Furono sottoposti alla pressione del governo, poiché questo non poteva ottenere abbastanza materiale per la macchina da guerra attraverso i canali regolari (le persone non accettavano tutta la monetazione a gettone), furono così costrette a fare consegne di merci.
Se si possedeva una fabbrica di indumenti si doveva consegnare parecchi capi di abbigliamento pretesi dal governo.
Se si possedeva navi si doveva trasportare su di esse le merci del governo.

In altre parole una sorta di nazionalizzazione delle imprese private, e questa nazionalizzazione significò che le persone che rischiavano i loro soldi e il loro talento furono costrette a servire lo Stato che lo volessero oppure no. Quando le persone cercavano di uscire da questa condizione furono costrette per legge a rimanere nella loro professione. In altre parole non si poteva cambiare lavoro o business.

Questo non fu sufficiente perché dopo tutto la morte è sempre un sollievo dalle tasse, e così le occupazioni divennero ereditarie.
Quando il padre moriva, suo figlio doveva obbligatoriamente prendere in mano la sua attività, il suo commercio, la sua professione.
Se tuo padre era un calzolaio si doveva essere un calzolaio.
Queste leggi iniziarono con l’essere applicate alle industrie legate alla difesa, ma ovviamente a poco a poco ci si rese conto che tutto era legato alla difesa.

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Re: Ła fin de l'enpero roman e el mito dei barbari envaxori

Messaggioda Berto » lun feb 08, 2016 10:38 am

L’inflazione monetaria e la caduta dell’impero romano (4° parte)

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Proponiamo in ANTEPRIMA per L’Indipendenza la traduzione integrale in italiano della quarta parte (qua la prima, la seconda e la terza) dell’articolo Inflation and the Fall of the Roman Empire, tratto dal Ludwig von Mises Institute, scritto da Joseph R. Peden, saggista ed autore di varie pubblicazioni, ha insegnato storia al Baruch College of the City University of New York. Si tratta di una trascrizione della lezione da lui tenuta al Seminar on Money and Government a Houston in Texas, il 27 Ottobre 1984. La registrazione audio originale è qua reperibile. (Traduzione di Luca Fusari)

I contadini, noti come coloni, erano locatari di entrambe le proprietà imperiali e private.
Anche loro, una ex classe libera, furono sottoposti allo stesso tipo di pressioni che colpì tutti i piccoli proprietari, e cominciarono ad allontanarsi cercando di trovare opportunità, locazioni ed occupazioni migliori.
Così sotto Diocleziano i coloni furono vincolati al terreno.

Chiunque avesse avuto un contratto di locazione su un particolare pezzo di terra non poteva dare questa locazione ad altri, inoltre si dovette rimanere su quella terra per lavorarla. In effetti questo fu l’inizio di quello che nel Medioevo si chiamò la servitù della gleba, la quale ha in realtà sua origine nella società tardo-romana. Sappiamo ad esempio dagli studi della Palestina, soprattutto negli scritti rabbinici, che nel corso del III° e all’inizio del IV° secolo la struttura della proprietà terriera in Palestina cambiò in modo drammatico.

La Palestina nel II° secolo d.C. era in gran parte composta da piccoli proprietari contadini con piccoli appezzamenti di terreno, forse mediamente di due acri e mezzo. Dal IV° secolo quei piccoli titolari praticamente scomparvero e furono sostituiti da vasti possedimenti controllati da pochi grandi proprietari terrieri.
I contadini che lavoravano quei possedimenti rimasero le stesse persone ma nel frattempo persero la loro terra a beneficio dei grandi latifondisti.

In altre parole la proprietà terriera divenne una sorta di enorme agro-business. La popolazione della Palestina, ancora prevalentemente ebraica, mutò poiché la proprietà della terra passò dagli ebrei ai gentili, e la ragione di ciò fu senza dubbio dovuta al fatto che le uniche persone con grandi quantità di denaro che potevano comprare questi piccoli proprietari in difficoltà erano ovviamente i funzionari del governo. Sentiamo parlare di loro, venendo questi chiamati potentates, quelli potenti. In effetti vi fu un cambiamento nella distribuzione della ricchezza in Palestina, e ovviamente con modalità simili ciò accadde anche in altri luoghi.

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Per quanto riguarda le tasse, queste ovviamente aumentarono su tutta la linea, ma Diocleziano decise che quello ereditato fosse un sistema molto inefficiente; ogni provincia aveva più o meno un proprio sistema di tassazione che in realtà risaliva all’epoca pre-romana. Così con mente militare, chiese una loro armonizzazione. Quello che fece fu di valutare tutte le ricchezze terriere in unità di produttività: iugum.

In altre parole ogni persona che avesse dei terreni, sia che fosse un grande o un piccolo proprietario terriero, venne collettivamente valutato con la iugum.
Ciò significò che l’imperatore per la prima volta ebbe la base per un bilancio nazionale, qualcosa che i Romani non ebbero fino a Diocleziano. Egli seppe in ogni momento quante unità imponibili di ricchezza c’erano in qualsiasi provincia, semplicemente applicando una valutazione ed aspettando di ottenere un importo fisso di denaro.

Purtroppo non tenne conto del fatto che la produttività agricola varia notevolmente da stagione a stagione, e che se un esercito passava attraverso la provincia, questa poteva richiedere anni per recuperare i precedenti ritmi di produzione. Il risultato è che sentiamo di petizioni di massa provenienti da intere province, le quali chiedevano all’imperatore di condonare a loro le tasse, posticipando di cinque anni i crediti scaduti e così via e così via, o di ridurre il numero delle unità di produttività al fine di riflettere la perdita di popolazione o la perdita di materiali.

E’ un dato di fatto, quando la gente cominciò a sostenere che ‘avevo cinque persone che pagavano questa unità di tassazione ma due di loro sono fuggite e ora c’è solo metà della terra produttiva’, la risposta del governo fu ‘non importa, si deve ancora pagare anche per quella terra che ora è fuori dalla produzione’.
Non c’èra alcuna relazione tra le tasse e la produttività effettiva.

Come fecero le persone a proteggersi da tutto questo?
Beh, prima di tutto i mutui a lungo termine praticamente cessarono di essere concessi.
I finanziamenti a lungo termine, di qualsiasi tipo, scomparvero.
Nessuno prestava a meno che non fosse garantito il pagamento in oro o in lingotti d’argento.
In realtà il governo stesso, sotto Diocleziano e Costantino, rifiutò di accettare monete d’oro nel pagamento delle tasse, ma insistette invece nel pagamento con lingotti d’oro.
Sicché le monete che venivano comprate sul mercato dovettero poi essere fuse e presentate sotto forma di lingotti, il motivo era che il governo non fu mai certo di quanto fosse effettivamente adulterata la propria moneta d’oro.

Pegni e titoli per le colture o per dei prestiti furono sempre sia in oro che in argento o addirittura in colture. In Egitto abbiamo un documento in cui le banche si rifiutarono di accettare le monete con l’immagine divina dell’imperatore per questioni di Stato. La reazione del governo fu ovviamente quella di costringere le banche ad accettare la moneta. Ciò portò una corruzione all’ingrosso nella società romana, con persone che si rifiutarono di cambiare conio in base alle tariffe fissate ufficialmente, preferendo invece farlo sul mercato nero su un principio di mercato.

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Ci furono ovviamente degli abbandoni delle terre, una massiccia evasione fiscale, le persone lasciarono il loro lavoro, le loro case, il loro status sociale.
Il contributo finale di Diocleziano, a questo continuo disastro, fu quello di emettere nel 301 d.C. il suo famoso Editto sui prezzi, un esempio di sforzo enorme da parte del governo per controllare l’inflazione mediante il controllo dei prezzi.


Dovete capire che c’era un piccolo problema: l’Impero romano era una vasta regione che andava dalla Gran Bretagna all’Iraq in Mesopotamia, dal Reno e dal Danubio fino al Sahara. Includeva aree sia con economie molto sofisticate che aree molto primitive, e il risultato fu che il costo della vita variò notevolmente da provincia a provincia. L’Egitto sembra abbia avuto il più basso costo della vita, la Palestina ebbe un costo della vita doppia rispetto a quella dell’Egitto, e Roma e l’Italia ebbero un costo della vita doppio rispetto a quello della Palestina.

Diocleziano ignorò questo e stabilì un prezzo unico standard per l’intero Impero.
Il risultato fu che in Egitto probabilmente non vi furono gli effetti derivanti dall’Editto, poiché il prezzo (il prezzo massimo fissato nell’Editto) fu molto raramente raggiunto da quelle parti.
Fu il popolo di Roma che trovò il prezzo massimo inferiore al prezzo di mercato. Il risultato furono dei disordini in strada e la scomparsa delle merci.
La sanzione comminata a Roma per la violazione della legge fu la morte, una pena molto comune comminata per ogni colpa.


L’inflazione monetaria e la caduta dell’impero romano (5° ed ultima parte)
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Proponiamo in ANTEPRIMA per L’Indipendenza la traduzione integrale in italiano della quinta ed ultima parte (qua la prima, la seconda, la terza e la quarta) dell’articolo Inflation and the Fall of the Roman Empire, tratto dal Ludwig von Mises Institute, scritto da Joseph R. Peden, saggista ed autore di varie pubblicazioni, ha insegnato storia al Baruch College of the City University of New York. Si tratta di una trascrizione della lezione da lui tenuta al Seminar on Money and Government a Houston in Texas, il 27 Ottobre 1984. La registrazione audio originale è qua reperibile. (Traduzione di Luca Fusari)

La mentalità di Diocleziano e il motivo dell’Editto sul prezzo massimo emerse nella prefazione alla legge. Mi limiterò a citare brevemente alcuni passaggi, quando li ascolterete mi piacerebbe che prestiate attenzione, perché si può avere una diversa interpretazione di quel che Diocleziano intendeva dire.
«Se gli eccessi perpetrati da persone di avarizia illimitata e frenetica potrebbero essere controllati», ciò non era riferito a sé stesso, «se il benessere generale potesse sopportare senza danni questa licenza riottosa, se questi pazzi incontrollati, senza scrupoli, smodati, avari potessero essere persuasi a desistere dal saccheggio della ricchezza di tutti, allora tutto dovrebbe andare bene».

Chi erano queste persone? Erano a suo dire i commercianti, benché i tipi avidi e tirchi che provocano l’inflazione come tutti sappiamo non erano loro.
Poi parla di se stesso e dei suoi tre soci. «Noi i protettori della razza umana siamo d’accordo che la legislazione è decisiva e necessaria, dato che le tanto auspicate soluzioni l’umanità stessa non è in grado di fornirle. (…) Con i rimedi forniti dalla nostra lungimiranza, queste cose possono essere sanate per il miglioramento generale di tutti». Suona familiare non è vero? Anche loro erano però parte dell’umanità, ma per costoro non si può fare nulla da soli, c’è “bisogno” del legislatore!.

In realtà leggendo il resto della proclama diventa chiaro che la ragione per cui l’Editto sui prezzi venne emesso fu che i soldati erano divenuti le principali vittime dell’inflazione, e Diocleziano temeva di perdere il controllo del suo esercito. Così le persone da proteggere furono i soldati e gli altri servitori dello Stato. Fatta eccezione per l’Editto sui prezzi (il quale non funzionò e venne gradualmente eliminato), le riforme monetarie di Diocleziano erano timidi passi nella giusta direzione.

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Ma i suoi passi non furono abbastanza radicali, la sua incapacità di creare un sufficiente approvvigionamento di monete d’oro e d’argento, combinato con il suo continuo ricorso a pagamenti in natura per le imposte e gli stipendi, e la continua emissione di moneta a corso forzoso di bronzo in quantità infinita, non riuscì a risolvere in maniera significativa il problema.

Le riforme di Costantino furono parziali, ma con sufficiente vigore e carattere radicale per fare la differenza. Attraverso la sua volontà di estrarre per costrizione le riserve auree dai contribuenti, costringendoli a rigettare i loro lingotti, diede una fornitura crescente di oro nelle mani dei funzionari del governo.

L’oro fu sempre usato per pagare i bonus militari, gli stipendi ai burocrati, e anche per i pagamenti di alcuni lavori pubblici. Sempre più spesso emerse un sistema monetario a due livelli, nel quale il governo, i soldati e i burocrati godettero dei benefici di un gold standard, mentre la parte non governativa dell’economia continuò a lottare con una moneta a corso forzoso in rapida svalutazione.

Il nuovo solidus d’oro, diffuso ampiamente dai suoi possessori (i dipendenti pubblici), fu venduto a vari tassi di mercato ai clienti che ne avevano un disperato bisogno per poter pagare le tasse. Così lo Stato trovò un modo per proteggere sé stesso e i propri dipendenti dagli effetti nefasti del proprio precedente ciclo inflazionistico, mentre lentamente si ritirò dal macchinoso e dispendioso sistema d’accettazione di beni in natura per le tasse e il pagamento degli stipendi. Nel frattempo, le masse soffrirono di una massiccia iniezione di denaro a corso forzoso che dovettero accettare in pagamento a seguito delle requisizioni di oro, argento, o altri beni di valore che il governo richiedeva.

Ora possiamo trarre alcune lezioni da questo racconto sulle politiche monetarie del tardo impero romano. Se come disse Randolph Bourne «la guerra è la salute dello Stato», la prima lezione è che essa è veleno per una moneta stabile e sonante. La crisi monetaria romana fu quindi strettamente connessa con il problema militare romano. Un’altra lezione è che i problemi diventano risolvibili quando un sovrano decide che qualcosa può essere fatto e deve essere fatto. Diocleziano e Costantino chiaramente erano disposti ad agire per tutelare gli interessi della classe dominante, di quella militare e del servizio civile.

Le riforme monetarie furono necessarie per conquistare l’appoggio delle truppe e dei burocrati che componevano l’unico vero costituente dello Stato romano, il sistema monetario dualistico fu dunque progettato per questo scopo. Questo portò ad uno standard monetario stabile per il gruppo dirigente il quale non esitò a fissarlo a scapito della massa della popolazione. Lo Stato romano sopravvisse, non analogamente la libertà del popolo romano. Quando nel V° secolo con le invasioni barbariche in Occidente la libertà divenne possibile le persone approfittarono della possibilità di cambiamento.

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La pressione fiscale rimase gravosa anche dopo che questo gold standard fu ristabilito. I contadini furono totalmente alienati dallo Stato romano perché non erano più liberi. Allo stesso modo non fu più libera né la comunità imprenditoriale né la classe media delle città urbane. L’economia d’Occidente si era fatalmente più indebolita rispetto a quella d’Oriente, e quando leggiamo gli scritti dei primi anni del V° secolo del prete cristiano Salviano di Marsiglia sul perché lo Stato romano stesse crollando in Occidente, egli afferma che esso meritasse il collasso perché aveva negato la prima premessa del buon governo: la giustizia per il popolo.

Per giustizia intendeva un giusto sistema di tassazione.

Salviano ci dice, e non credo che stesse esagerando, che uno dei motivi per cui lo Stato romano crollò nel V° secolo fu che il popolo romano, la massa della popolazione, dopo che venne catturata dai barbari ebbe un solo desiderio: non avrebbe mai più voluto ricadere sotto il dominio della burocrazia romana.
In altre parole lo Stato romano era il nemico, i barbari furono i liberatori.


Questo fu senza dubbio dovuto all’inflazione del III° secolo.
Mentre lo Stato risolse il problema monetario per i propri elettori clientelari, non riuscì a risolverlo per le masse, continuando ad utilizzare un sistema oppressivo di tassazione al fine di riempire le casse dei burocrati, dei dirigenti e dei militari.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Ła fin de l'enpero roman e el mito dei barbari envaxori

Messaggioda Berto » lun feb 08, 2016 11:06 am

La caduta dell'Impero romano d'Occidente viene fissata formalmente dagli storici nel 476, anno in cui Odoacre depose l'ultimo imperatore romano d'Occidente, Romolo Augusto.
https://it.wikipedia.org/wiki/Caduta_de ... 'Occidente
Comunque, da un punto di vista strettamente politico-militare, l'Impero romano d'Occidente cadde definitivamente dopo che nel V secolo fu invaso da vari popoli non romani e quindi privato del suo nucleo peninsulare per mano delle truppe germaniche in rivolta di Odoacre nel 476. Sia la storicità che le esatte date di questo avvenimento rimangono ancora incerte e alcuni storici negano che possa parlarsi di caduta dell'Impero. Rimangono divergenti perfino le opinioni sul fatto che tale caduta sia frutto di un singolo evento oppure di un lungo e graduale processo.
...
Oltre alle invasioni germaniche del V secolo e all'importanza sempre più incisiva dell'elemento barbarico nell'esercito romano, sono stati individuati anche altri aspetti per spiegare la lunga crisi e la caduta finale dell'Impero romano d'Occidente:

il calo demografico dovuto non solo alle guerre ed alle carestie, ma anche alle epidemie che si diffondevano molto velocemente e causavano numerose vittime;
la crisi economico-produttiva delle campagne unita al crollo dei traffici commerciali, all'inflazione galoppante e, quindi, al ritorno ai pagamenti in natura;
la crisi e la fuga dalle città, a rischio non solo di saccheggio da parte degli eserciti barbarici, ma anche di malattie infettive per le disastrose condizioni igieniche;
la perdita di coesione sociale, dovuta all'enorme squilibrio nella distribuzione della ricchezza: lusso eccessivo per pochissimi privilegiati e povertà estrema per la grande massa dei contadini e del proletariato urbano;
la mancanza di consenso nei confronti del governo centrale, causata anche dalla degenerazione burocratica: da una parte corruzione sistematica, dall'altra eccessivo peso fiscale che finiva per gravare sui ceti meno abbienti;
i difetti del sistema costituzionale, con il governo centrale condizionato dallo strapotere dell'esercito e sempre a rischio di usurpazione.
...


???
https://it.wikipedia.org/wiki/Declino_e ... ero_romano
Declino e caduta dell'impero romano, tradotto anche come Storia del declino e della caduta dell'impero romano (titolo originale in inglese The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, noto popolarmente come The History) è un saggio scritto dallo storico inglese Edward Gibbon e pubblicata in sei volumi. Il primo volume fu pubblicato nel 1776, e poi ristampato altre cinque volte. I volumi II e III vennero dati alle stampe nel 1781, mentre i volumi IV, V e VI nel periodo 1788-89. È considerata come la maggiore opera letteraria inglese del XVIII secolo.

Nel Capitolo 38, in un paragrafo chiamato Osservazioni generali sulla caduta dell'Impero romano in Occidente, il Gibbon elenca una serie di cause che portarono declino e alla caduta dell'Impero romano d'Occidente:
« ... la decadenza di Roma fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza...Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo. Le legioni vittoriose, che in guerre lontane avevano appreso i vizi degli stranieri e dei mercenari,... il vigore del governo militare fu indebolito e alla fine abbattuto dalle istituzioni parziali di Costantino, e il mondo romano fu sommerso da un'ondata di barbari. Spesso la decadenza di Roma è stata attribuita al trasferimento della sede dell'Impero [...]. Tale pericolosa novità ridusse la forza e fomentò i vizi di un duplice regno... Sotto i regni successivi l'alleanza tra i due imperi fu ristabilita, ma l'aiuto dei Romani d'Oriente era tardivo, lento e inefficace [...]. »

Ma da discepolo fedele di Voltaire, identificava nel Cristianesimo la causa prima della crisi dell'Impero:
« ...l'introduzione, o quanto meno l'abuso, del cristianesimo ebbe una certa influenza sulla decadenza e caduta dell'Impero romano. Il clero predicava con successo la pazienza e la pussilanimità. Venivano scoraggiate le virtù attive della società, e gli ultimi resti di spirito militare finirono sepolti nel chiostro. [...] ... la Chiesa e persino lo stato furono sconvolti dalle fazioni religiose [...]; il mondo romano fu oppresso da una nuova specie di tirannia, e le sette perseguitate divennero i nemici segreti del paese. ...Se la decadenza dell'Impero romano fu affrettata dalla conversione di Costantino, la sua religione vittoriosa attenuò la violenza della caduta e addolcì l'indole crudele dei conquistatori »
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Re: Ła fin de l'enpero roman e el mito dei barbari envaxori

Messaggioda Berto » lun feb 08, 2016 11:10 am

???

Le cause della caduta

http://www.cadutaimperoromano.it/cause- ... aduta.html

Mutamenti climatici e migrazioni barbariche
Pressione dei barbari
Pestilenze
Guerre civili
Inflazione
Rigidità sociale
Pressione burocratica e fiscale
Latifondo
Crisi demografica
Cristianesimo
Barbari nell’esercito
Sconfitte militari
Uso del piombo
Decadenza delle città
Decadenza del senso civico
Caduta dei valori del mondo classico
Perdita delle province
Varie tesi
Le tesi di alcuni celebri storici


E’ uno dei problemi storici più dibattuti da sempre. La ricerca della cause della caduta dell’impero romano e dunque della fine della civiltà antica in Occidente è uno dei dilemmi mai completamente risolti. Come poté, una costruzione talmente formidabile franare in pochi decenni e il mondo sprofondare nelle tenebre del medio evo? (Ma coale tenebre??? La xe stà la regnasensa de l'Ouropa altre ke tenebre) Molti studiosi hanno optato per una delle cause qui elencate, ma probabilmente, come si è propensi a ritenere oggi, le cause furono molteplici. Difficile, piuttosto, è stabilire quali furono le più determinanti e quelle che ne scatenarono altre. Quasi tutti gli storici sono concordi nel dare grande importanza ai movimenti profondi della società antica prodottisi già durante il principato (31 a.C.-235 d.C.), accentuatisi drammaticamente nel periodo dell’anarchia militare (235-285) e divenuti inarrestabili durante il dominato (285-476) e, in particolare, nell’ultimo secolo dell’impero d’Occidente.

Proviamo a indicare alcune delle cause ritenute principali:

Mutamenti climatici e migrazioni barbariche. Nel III, IV e V secolo il clima dell’Asia centrale divenne più ostile alle tribù di nomadi dedite alla pastorizia (probabilmente più freddo e più secco). Queste cercarono nuovi pascoli e spinsero verso sud-ovest le tribù di cacciatori-coltivatori abitanti nelle foreste e intorno ai grandi fiumi dell’Europa orientale (generalmente Germani). Costoro penetrarono entro i confini romani in cerca di sussistenza, dapprima come immigrati questuanti, poi come invasori. Le popolazioni barbariche al di là del limes erano sostanzialmente appartenenti a tre gruppi: i Germani stanziali (Sassoni tra il basso corso dell’Elba e il mare del Nord, Juti e Angli nella penisola dello Jutland, Franchi tra l’Elba e il Reno, Burgundi tra il Reno e il Meno, Svevi-Alemanni tra Reno, Meno e Danubio, Marcomanni-Bavari-Quadi tra il Danubio e l’alto corso dell’Elba); i Germani migranti (Goti, Gepidi, Eruli e Rugi dalla Scandinavia fino al Mar Nero e ai Balcani, Longobardi dalla Scandinavia all’Europa centrale, Vandali dalla costa meridionale del Baltico alla Spagna e al Nord Africa); i non-Germani a loro volta migranti (iranici e asiatici: Alani del Caucaso, Sarmati iranici, Unni mongolici, ecc.).
Nel V secolo anche i Germani stanziali divennero migranti in direzione della Gallia, della Spagna e della Britannia. Vi erano poi gruppi minori (i Pitti della Scozia e gli Scoti tra Irlanda e Scozia in buona parte di origine celtica; i Berberi dell’Atlante, i beduini berberi del Sahara e le tribù arabe tra il Giordano e il basso corso dell’Eufrate).

Pressione dei barbari. La spinta dei nomadi provenienti dalle steppe e la creazione di confederazioni barbariche molto più forti e organizzate delle tribù del I secolo a.C. lungo le rive orientali e settentrionali di Reno e Danubio ebbero un ruolo importante nella crisi finale dell’impero. Così come l’aggressività del nuovo impero persiano che, a partire dal 230 d.C., obbligò l’esercito romano a stanziare ingenti forze nel Medio Oriente.

Pestilenze. Nella seconda metà del II secolo, ricomparve la peste dopo 700 anni di assenza dall’Occidente (dal tempo della peste di Atene). L’epidemia spopolò città e campagne (con contrazione della produzione agricola e successive carestie) e rese più difficile la leva militare proprio mentre i barbari premevano alle frontiere.

Guerre civili. Dopo il lungo periodo di pace (dal 30 a.C. al 192 d.C.) eserciti romani tornarono a scontrarsi tra loro proprio durante il III secolo, mentre carestia, pestilenza endemica e attacchi barbarici alle frontiere rendevano già critica la situazione. La grande crisi militare del 235-285 che destrutturò l’esercito, fu caratterizzata da imperatori effimeri, provocò una serie interminabile di guerre civili e permise ai barbari di invadere molte province dell’impero;

Inflazione. Nello stesso periodo (III secolo) si svalutò pesantemente la moneta provocando una inflazione molto rilevante che ebbe come conseguenze povertà, malcontento e rivolte (come quella in Gallia dei contadini Bagaudi).

Rigidità sociale. Il diminuito afflusso di schiavi conseguente alla fine delle guerre di conquista (inizio del II secolo) provocò una carenza di mano d’opera tale che, alla fine del III secolo, lo Stato fu costretto a rendere ereditario il lavoro agricolo. Contemporaneamente divennero ereditarie anche le cariche (particolarmente onerose) di decurione (consigliere municipale, responsabile anche della raccolta delle tesse) e di altri addetti ai servizi pubblici.

Pressione burocratica e fiscale (seppure modestissima se vista con occhi moderni) accompagnata da leggi vessatorie che obbligavano i figli a continuare il mestiere dei padri;

Latifondo. Aumentarono invece ricchezza e potere dei latifondisti (quasi tutti senatori) che divennero man mano sempre più autonomi dallo Stato fino a ritirarsi nelle loro ville-fortezze come veri e propri feudatari e a non voler concedere i loro contadini al reclutamento. La quasi totale dissoluzione della piccola proprietà agraria a vantaggio del latifondo ebbe come conseguenza la sparizione del ceto medio agricolo che era la forza di Roma repubblicana (il contadino-soldato). Insomma la popolazione si divise in due fasce: una sottilissima di ricchi e super-ricchi, un’altra grandissima di poveri e indigenti;

Crisi demografica. Ebbe come conseguenza un rapido ricambio delle classi dirigenti. Sia le grandi famiglie di origine patrizia sia quelle plebee si estinguevano nel giro di poche generazioni e al loro posto subentrava gente aliena alla cultura romana, provinciali e barbari; La crisi demografica dell’Occidente fu causata sia da problemi pratici (pestilenze, guerre, invasioni, senso di insicurezza), sia dall’ideologia della castità che, a partire dal III secolo, non fu soltanto cristiana;

Cristianesimo. La nuova religione si contrappose radicalmente agli ideali classici. Era intollerante ed esclusiva e predicava una sorta di non-violenza diffondendo un’ideologia remissiva che contrastava con le necessità di difesa e di organizzazione civile in un momento molto difficile per l’impero (III-V secolo). Inoltre prediligeva la castità inducendo molti adepti a non sposarsi contribuendo così alla crisi demografica già creata da pestilenze, guerre civili e difficoltà sociali. La Chiesa cristiana, molto bene organizzata e, dal III secolo anche molto ricca, creò una specie di stato nello stato che, a partire dal IV secolo divenne egemone anche politicamente. Molti cristiani, soprattutto fino a quando l’impero fu pagano, non volevano combattere contro i nemici esterni. Era l’esaltazione del martirio;

Barbari nell’esercito. La carenza della leva militare (l’ultima venne fatta ai primi del V secolo) creò vuoti nell’esercito che furono riempiti, a partire dal III secolo, dai barbari che alla fine del IV secolo divennero la maggioranza dei soldati arrivando a detenere anche i massimi comandi militari. Sarà un comandante barbaro dell’esercito romano a deporre l’ultimo imperatore d’Occidente nel 476.

Sconfitte militari. L’esercito romano, che nei primi secoli dell’impero era praticamente invincibile in quanto organizzato in misura incomparabilmente superiore a quella delle tribù barbariche, perse gradualmente questo primato a partire dalla metà del III secolo. Anzitutto dovette affrontare le armate del nuovo impero persiano altrettanto bene organizzate e con una tattica di battaglia efficacissima nei deserti della Siria e della Mesopotamia. Quindi si trovò a dover contenere gli attacchi delle nuove confederazioni barbariche che, oltre a disporre di un notevole numero di guerrieri, avevano appreso dai Romani tecniche belliche e disponevano di armi molto simili a quelle dei soldati imperiali. Durante il III secolo le armate romane subirono varie disfatte sia contro i Persiani, sia contro i Goti e soltanto con Aureliano e i suoi successori riuscirono a ritornare vittoriose. Ma ormai la supremazia militare non esisteva più: ogni battaglia poteva essere vinta o perduta. Il disastro di Adrianopoli (378) spazzò via decine di migliaia di veterani e l’esercito romano ne uscì a pezzi. Dopo di allora i vuoti furono colmati da gruppi e tribù barbariche, tutti soldati molto infidi e indisciplinati che, alla fine, si ribellarono al governo centrale (476).

Uso del piombo. Questa causa (i bicchieri e il vino contenenti piombo che avrebbero man mano determinato sterilità e malattie psichiche) è senza dubbio la più fantasiosa ma anche la meno certa e sicuramente la meno importante delle concause.

Decadenza delle città. L’impero romano era una specie di confederazione di città, alcune delle quali mantenevano la condizione di città-stato. Ogni città aveva le sue leggi, i suoi amministratori (i decurioni) e il proprio territorio da sfruttare. Tutte le città, però, erano inserite nelle province e sottoposte al governo di Roma che le controllava tramite i funzionari imperiali (proconsoli, prefetti, governatori, ecc.). Roma provvedeva alla sicurezza esterna, interveniva in caso di gravi calamità, dirimeva le controversie che insorgevano tra le città come supremo tribunale d’appello, promulgava leggi generali valide per ogni parte dell’impero. In cambio esigeva il gettito fiscale e un certo numero di reclute da arruolare nell’esercito.
Il sistema funzionò bene dalla metà del I secolo a.C. alla metà del II secolo d.C. Fu quello il periodo della “pax romana”. Circa duecento anni di sviluppo economico e culturale, di grandi opere pubbliche e di totale sicurezza. Le città accrebbero il numero dei loro abitanti e fecero a gara per accogliere gli artisti, gli intellettuali e perfino gli aurighi più celebri. La maggior parte dei meravigliosi monumenti che Roma ha lasciato in ogni parte dell’Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente appartengono proprio a quell’epoca. Erano quasi tutte opere finanziate dalle città stesse per mostrarsi grandiose e degne di appartenere all’impero universale.
Poi, tra il 160 e il 180, la situazione incominciò a deteriorarsi. Vi furono attacchi barbarici e autentiche invasioni. Marco Aurelio, che era l’imperatore, fu costretto a combattere per molti anni lungo il Danubio, a dispetto del suo spirito contemplativo e della sua cultura filosofica. Oltre alle aggressioni barbariche, si sviluppò una terribile pestilenza che per molti anni si riacutizzava mietendo milioni di vittime (si ipotizza addirittura un quarto degli abitanti di tutto l’impero). La pestilenza fu preceduta e seguita da pessimi raccolti e quindi da carestie ricorrenti. Insomma, interagirono tra loro molti fattori negativi che incisero profondamente sia nello stile di vita sia nella fiducia nel futuro che aveva caratterizzato gli ultimi due secoli.
Le città subirono una contrazione demografica. Le successive riprese furono modeste e a partire dal 235 la situazione generale degenerò gravemente. La dinastia dei Severi, che tanto si era basata sulla forza dell’esercito, fu rovesciata proprio da un pronunciamento militare avvenuto a Magonza, in Germania, e da allora per cinquant’anni si succedettero una serie di imperatori acclamati dalle varie armate che furono soprattutto impegnati in guerre civili.
Tutto ciò, mentre alle frontiere avvenivano gravi eventi. Anzitutto, a partire dal 230, la dinastia partica venne rovesciata da una dinastia persiana che si rivelò subito molto più aggressiva e potente dei suoi predecessori. Nel 260 perfino un imperatore romano (Valeriano) cadde prigioniero dei Persiani. L’impero, che era in preda a guerre civili, dovette spostare grandi forze a oriente e ciò permise ai barbari germanici di attaccarlo sia lungo il Danubio sia lungo il Reno.
I Germani, infatti, non erano più suddivisi in un pulviscolo di tribù come ai tempi di Cesare. Avevano sviluppato tecniche agricole, commerci e imitato l’arte della guerra romana. Soprattutto, si erano uniti in confederazioni tribali molto più efficienti e pericolose. I Franchi lungo il Reno settentrionale, gli Alemanni lungo l’alto Reno e l’alto Danubio, i Marcomanni lungo il medio Danubio e i Goti, arrivati sul basso Danubio dopo tre secoli di migrazioni in quella che oggi è la Russia.
Le città, che in gran parte erano aperte e comodamente raggiungibili dalle strade imperiali, subirono i contraccolpi maggiori. In Gallia furono più volte saccheggiate. Tutte le province balcaniche furono messe a ferro e fuoco. Perfino la Grecia, l’Anatolia e la Spagna furono attaccate da orde di predoni. In fretta e furia vennero edificate mura, ma la caduta del senso di sicurezza ebbe un impatto fortemente negativo sulla vita urbana.
Fin dagli ultimi anni della Repubblica, si era delineata una netta distinzione tra cittadini e gente di campagna. I cittadini avevano subìto rapidamente l’influenza della cultura e dei costumi romani e, nel giro di due generazioni, erano stati assimilati. Avevano assunto il latino come propria lingua e la civiltà di Roma come modello. Facevano a gara per mostrarsi più romani degli abitanti dell’Italia. Diversamente i contadini, nella quasi totalità analfabeti, erano sfruttati dalle città e dai latifondisti e non avevano molte occasioni per “latinizzarsi”. Le campagne rimasero indigene e, in una certa misura, estranee se non ostili, alla romanizzazione.
Quando le città incominciarono a contrarsi e, nei secoli IV e V, a ridursi a borghi fortificati e l’impero si riempì di immigrati barbari, le campagne non si batterono affatto per difenderlo. La gente dei campi vedeva lo Stato romano come un esoso esattore di tasse e i suoi funzionari come alleati naturali dei padroni che sfruttavano il loro lavoro.
La decadenza drammatica delle città corrispose dunque alla decadenza dell’impero. Le città lo avevano sostenuto per secoli, ma dopo il 400 non furono più in grado di salvarlo. La fine del mondo antico in Occidente, è parallela alla fine della grande vita civica. In Oriente le città, quasi tutte di origine greca, sopravvissero per altri 150 anni, ma poi trovarono lo stesso destino.

Decadenza del senso civico. Fu la diretta conseguenza della crisi delle città. Negli ultimi due secoli dell’impero le persone più insigni tentavano di evitare la cooptazione nel consiglio dei decurioni in quanto spesso ciò significava la rovina economica.

Caduta dei valori del mondo classico. L’antichità classica aveva avuto i suoi albori nell’Atene di Pericle. Era stata l’epoca dei grandi filosofi (Socrate, Platone, Aristotele), dei grandi tragici (Eschilo, Sofocle, Euripide), dei grandi commediografi (Aristofane), dei grandi oratori (Demostene). Il valore fondante dell’antichità classica era la centralità dell’uomo come individuo e quindi di tutto ciò che lo circondava e lo riguardava. Anche le divinità non erano altro che il riflesso delle esperienze umane. L’arte ritraeva l’uomo e la donna come bellezza ideale e i loro corpi nudi simboleggiavano la perfezione del creato. I giovani si esibivano nelle competizioni atletiche così come nelle gare poetiche. Rifulgeva Olimpia come centro di questo mondo di armonia e di bellezza.
Roma accolse in gran parte questa eredità. Il primo impero fino agli Antonini fu sempre ispirato dagli ideali della Grecia classica trasmessi attraverso la mediazione dei regni ellenistici. L’aldilà era generalmente poco interessante, perché erano l’uomo e la sua vita terrena, la sua cultura, la politica e la ricchezza delle città con i fori frequentati dal popolo il centro dell’attenzione e dell’universo.
Ma già verso la fine del I secolo si insinuò negli animi più sensibili una sottile angoscia. L’interrogativo era: tutto ciò sarebbe durato in eterno? Incominciarono a svilupparsi riti misterici e religioni che facevano intravvedere l’aldilà come meta da raggiungere. La grande crisi del III secolo spazzò via le illusioni. Il mondo terreno era quello del dolore e del peccato. Erano i malvagi a dominare e non la felicità dell’età dell’oro. Il Cristianesimo, per primo, mostrò Roma come Babilonia, il centro del male e non la dea che con le sue leggi reggeva un mondo di armonia.
Da allora si verificò un progressivo distacco tra le speranze terrene che venivano vanificate e la grande speranza celeste. Un distacco che fu completato da Agostino di Ippona quando, dopo il 410, scrisse “La città di Dio”. Era quello il fine ultimo al quale l’umanità doveva tendere, non all’illusoria perfezione dello stato imperiale. Roma poteva anche cadere (e infatti era stata saccheggiata dai Goti di Alarico) ma il Cielo era pronto ad accogliere i giusti. Da allora nessun grande spirito sembrò veramente interessato alle sorti dell’impero.

Perdita delle province. Lo storico inglese Peter Heather afferma che, contrariamente a quanto sostenuto dalla maggioranza dei suoi colleghi (il grande Edward Gibbon in primis), l’impero d’Occidente non crollò per motivi endogeni, ma in seguito agli attacchi esterni. Insomma, furono le sconfitte militari ad abbatterlo.
Questa tesi si basa su alcuni elementi: in primo luogo, afferma Heather, fino al 375 l’impero aveva mantenuto intatto il suo potenziale economico e militare ed era enormemente più forte dei barbari. Contava su un esercito di mezzo milione di uomini mentre ognuna delle confederazioni germaniche non poteva mettere in campo più di 20-30 mila guerrieri. Il Cristianesimo era ormai stato accettato dall’esercito e i Cristiani avevano rinunciato alle loro obiezioni di coscienza in quanto era l’impero cristiano il rappresentante del Cielo sulla Terra.
Ma, a partire dal 375, si verificò una serie di eventi drammatici. Il primo di questi eventi riguardò i Germani dell’est (in particolare i Goti stanziati nelle terre che oggi sono la Romania e l’Ucraina), incalzati a oriente dagli Unni, una popolazione di nomadi mongolici che aveva un secolo prima attaccato anche l’impero cinese. I Goti, come è noto, chiesero asilo al di qua del Danubio. Dopo lunghe e penose trattative questi profughi affamati e terrorizzati vennero accolti all’interno dell’impero, ma subito furono vessati da funzionari senza scrupoli e da speculatori. Seguirono rivolte e repressioni fino a quando i Goti si unirono in una grande sollevazione. Vennero affrontati dall’imperatore Valente i cui generali, però, per imperizia e arroganza vennero sconfitti ad Adrianopoli, l’odierna Edirne nella Turchia europea. L’armata romana, che comprendeva migliaia di validi veterani, finì nelle paludi e venne sterminata dai barbari. Da quel disastro l’esercito imperiale non si sarebbe più ripreso.
Sempre Heather (ma in questo confortato dal parere di molti altri storici) osserva che, per riempire i vuoti, furono arruolate intere tribù barbariche, tra le quali anche molti Goti. Poi furono gli Unni a compiere scorrerie al di qua del Danubio. In definitiva, quasi tutte le ricche province balcaniche che producevano grandi quantità di derrate alimentari e contavano molti importanti complessi minerari, furono perdute.
Heather sostiene che ogni provincia dava un gettito fiscale. La perdita di una provincia aveva come conseguenza una riduzione del gettito fiscale generale.

Varie tesi. Sono state elencate fino a duecento cause e concause della caduta di Roma, ma nessuna di queste appare decisiva. E’ probabile che tutte abbiano più o meno influito nella decadenza e nel crollo finale e dunque si può dire che ogni storico ha la sua parte di ragione.

LE TESI DI ALCUNI CELEBRI STORICI

- Montesquieu: la decadenza morale, la corruzione, il lassismo dei costumi;
- Voltaire: le invasioni dei barbari e le dispute religiose;
- Gibbon: il Cristianesimo che distrusse gli ideali romani e l’immigrazione dei barbari;
- Herder: la reazione dei caratteri nazionali che l’impero aveva conculcato;
- Burckhardt: una vera e propria senescenza fisica (elenca varie cause, tutte accettabili);
- Engels: la fine dei modi di produzione schiavistica;
- Pirenne: la fine ci fu soltanto nel VII secolo con l’espansione araba;
- Rostovzev: una rivoluzione sociale di contadini distrusse la cultura cittadina;
- Mazzarino: una decadenza progressiva fin dagli ultimi tempi della Repubblica;
- Brown: non ci fu un crollo, ma una trasformazione durata secoli;
- Heather: le sconfitte militari e la perdita degli introiti delle province.
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Re: Ła fin de l'enpero roman e el mito dei barbari envaxori

Messaggioda Berto » lun feb 08, 2016 11:27 am

http://online.scuola.zanichelli.it/radi ... impero.pdf

Giovanni Tabacco

Il reclutamento nell’esercito romano e la crescente presenza dei barbari Le regole generali di arruolamento nell’esercito prevedevano che i soldati fossero procurati, parallelamente all’esazione di altre imposte, dai proprietari fondiari, grandi e piccoli, questi ultimi raggruppati in modo che l’obbligo di dare una o più reclute pesasse solidalmente su un consorzio: la scelta cadeva in tal modo sulla popolazione contadina, soprattutto sul colonato dipendente, e il servizio imposto ai soldati si prolungava nel tempo per oltre un ventennio, non senza una forte tendenza [...], a trasformarsi in un obbligo ereditario. Ma invece di persone il grande proprietario o il consorzio potevano offrire una somma di denaro, che consentisse ai responsabili del reclutamento di procurarsi altrove i soldati: e fu questa la via che favorì il crescente ricorso ad elementi germanici, più facilmente disposti a farsi assoldare.
Poiché [...] i soldati germanici, rispetto a quelli forniti dai proprietari fondiari a modo di imposta, rivelarono buone qualità militari, e nell’esercito romano furono accolti anche germani già avvezzi al comando presso le proprie tribù, la presenza di tali elementi assunse nell’esercito dell’Impero un’importanza non soltanto numerica. Nel corso del IV secolo andò crescendo la proporzione degli ufficiali militari di origine barbarica rispetto a quelli provenienti dai ceti elevati dell’Impero o dall’avanzamento dei veterani reclutati nella popolazione rurale. Salirono anche ai gradi più alti: furono sempre più numerosi fra i duces, a cui era affidato il comando militare delle regioni soprattutto di confine; e divennero anche comandanti supremi [...], subordinati soltanto all’imperatore. [...]. Le grandi famiglie senatorie per lo più non disdegnarono di estendere a questi Germani, potenti nella corte imperiale e per la base economica conseguita, le alleanze anche matrimoniali con cui usavano appoggiarsi fra loro.
L’assimilazione dei Germani di dignità senatoria nell’aristocrazia dell’Impero poté quindi apparire perfetta. Ma la loro origine non era dimenticata: perché essa li poneva in una relazione speciale con tutti i gruppi germanici non assimilati dell’Impero, presenti in modo cospicuo nelle forze armate, e con intere popolazioni, ora alleate ora nemiche dell’Impero. Ciò avvenne ovunque, in Occidente e in Oriente, ed anche in Italia.


Arnold H.M. Jones
Il peso della tassazione e della popolazione improduttiva
Un Impero come quello dell’Occidente, che non aveva mai ceduto per due secoli e mezzo, a partire dal regno di Augusto, che aveva superato la crisi della metà del terzo secolo e che, riorganizzato internamente da Diocleziano, era riuscito a rimanere ancora intatto per altre tre generazioni, come mai si sgretolò in così poco tempo nel quinto secolo?
E fu questo crollo dovuto principalmente all’aumentata pressione dall’esterno o a un disfacimento interno, o all’uno e l’altro fattore insieme? [...] Per far fronte alla crescente pressione dei barbari, sia l’una che l’altra metà dell’Impero dovettero aumentare di molto il numero dei soldati nei loro eserciti, prababilmente raddoppiandolo
[...]. Il pesante aggravio economico che l’aumentata dimensione dell’esercito comportava affaticò gravemente la capacità produttiva dell’Impero con la conseguenza di provocare una serie di debolezze. A qualcuno potrebbe sembrare un’esagerazione dire che le risorse di regioni così vaste come quelle che costituivano l’Impero romano potessero essere affaticate eccessivamente dalla necessità di rifornimenti alimentari, di vestiario e di armamento di 300 000 uomini in più; ma non dobbiamo dimenticare che tecnologicamente l’Impero era più addietro anche dell’Europa medievale. Con i primitivi sistemi di agricoltura, di produzione industriale e di trasporti che allora si usavano, erano necessarie molte più ore lavorative di quanto non sia oggi, per produrre i viveri per le razioni, tessere la stoffa per le uniformi, forgiare e rifinire le armi e le armature, e trasportare tutto questo materiale con chiatte o carri nelle zone di confine.
Per far questo le tasse dovettero essere aumentate di molto, e per stabilire gli imponibili e raccogliere le nuove tasse, l’apparato amministrativo dovette anch’esso allargarsi, ciò che, di nuovo, significava un altro aumento nel peso della tassazione.
Il pesante aggravio prodotto dalle tasse fu probabilmente la causa prima della decadenza economica dell’Impero.
[Un’altra causa fu l’aumento della popolazione improduttiva in proporzione al numero delle persone produttive]: i senatori con le famiglie e lo stuolo di servitori, i decurioni, gli impiegati dell’amministrazione pubblica, gli avvocati, i soldati, i cittadini delle capitali. Il peso in tasse e in affitti che di conseguenza fu scaricato sulle spalle dei coltivatori risultò troppo gravoso e la popolazione agricola lentamente si ridusse di numero.
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Re: Ła fin de l'enpero roman e el mito dei barbari envaxori

Messaggioda Berto » mar mar 01, 2016 8:22 am

A parer vostro l'impero romano d'oriente in epoca medievale ...può considerarsi una continuazione dell'impero romano?

Matteo Serpellini

https://www.facebook.com/groups/Medioev ... 8702455197

Pietro Cociancich
Certo. Tant'è che loro si autochiamavano "Rhomaîoi", e i turchi chiamavano (e usano ancora questo termine in senso spregiativo verso i greci) "Rum"

Alberto Pento
No né come cultura, tradizioni, lingua, politica, religione, suddivisione e amministrazione statuale, né come territorio imperiale che non coincide con quello occidentale che è terminato convenzionalmente nel 476 d.C.. I greci e gli armeni non erano e non sono romani tanto meno latini come non erano e non sono romani e latini (sebbene in parte contaminati dai romani e dai latini) la maggior parte degli italici, degli iberici, dei britannici, dei gallici, i germani, i balcanici, i mediorientali, gli africani mediterranei. Per analogia con il mondo islamico detto impropriamente arabo: gli egiziani, i libici, i marocchini, i tunisini, gli algerini, i berberi, gli iraniani, i siriani, gli iracheni, i kurdi, i libanesi, ... non sono arabi e i vari imperi mussulmani non erano tutti arabi come per esempio l'imperi berbero e ottomano.

Nicol Pozzi
Se si potesse tornare indietro del tempo e chiederlo ad un abitante dell'Impero, ti direbbe certamente si.
Se si potesse fare la stessa domanda ad un Latino occidentale, ti direbbe in maniera spregiativa assolutamente no, infatti li chiamavano sprezzantemente greci.
A mio parere l'Impero d'Oriente ha molte cose per essere definito romano, e se c'è un'istituzione che ha dato continuità all'idea di Impero in maniera coerente nell'Europa medievale va cercato ad Oriente. L'Impero in Occidente da Ottone in poi era "nominalmente" romano ma aveva ben poco, in sostanza, per essere definito tale, se si esclude la base giuridica che nasce comunque da codici redatti a Costantinopoli...

Giampiero Proietti
Solo nell'Alto Medio Evo, poi è diventato un'altra cosa!

Alberto Pento
Anche gli imperi medievali germanici, quello di Carlo Magno e poi il Sacro Romano Impero si "fregiavano" del nome romano, per darsi una continuita storica, politica e mitica. Il presente è sempre un portato del passato così come in "epoca romana" il presente di allora era un portato dell'epoca preromana in tutto: lingua, costumi, leggi, istituzioni. Il mondo, l'area italica, l'Europa non sono nate e morte con Roma e l'impero romano. Roma, i romani e la romanità non sono l'inizio e il centro della storia ma soltanto fasi storiche politico culturali.

Giuseppe Russo
Diciamo che, nonostante gli intellettuali e gli storici definissero se stessi Rhomaioi, l'Impero d'Oriente rimase romano fino ad Eraclio (610 d.C.). E' da quel momento che, convenzionalmente, si fa iniziare l'impero impropriamente detto bizantino (sarebbe meglio definirlo solo impero d'Oriente). A partire da quel momento, il greco è la lingua ufficiale, si riforma l'esercito e si ristruttura l'economia e parte della società. Quindi no, sono due entità statali diverse in tanti particolari. Le uniche cose che si perpetuano sono le tradizioni e le memorie della romanità.

Maurizio E Mary Sciarra
Ancora nel 1453 l unico titolo dell imperatore era basileus ton romaion...

Alberto Pento
L'impero bizantino non aveva Roma come capitale e nemmeno come capitale onoraria; i suoi imperatori non avevano più nessun legame con Roma. Di romano c'era soltanto il titolo dell'imperatore, il passato, mentre il presente e il futuro non erano più romani.

cristina vuerich
e il codice di giustiniano ?
cristina vuerich
Secondo loro si e anche secondo i barbari...la romagna si chiama cost propria a causa di questo fraintendimento storico

Alberto Pento
I nomi non esprimono tutta la complessa realtà etnica-storica, linguistica-culturale-politica dei territori: Longobardia e Romania (Romagna durante l'Esarcato di Ravenna); la Longobardia non era costituita solamente dai Longobardi. Sono denominazioni che riflettono il dominio politico-ideologico. I "barbari" di questo caso avevano e hanno un nome si chiamano Longobardi; anche i Romani furono più volte e a ragione, chiamati barbari. Nel nord della penisola italica il medioevo a dominio germano è durato quasi 1/3 più del periodo "antico" a dominio romano.

Valentino Carroccia
Sono molte le realtà che dopo la caduta dell'impero romano d'occidente si sono sentite in dovere di ricostruire l'impero d'occidente. I Franchi di Carlo Magno fu il primo a farlo, benedetto dal papato, proprio perché dopo la caduta di Roma l'Europa cadde nel caos per molti secoli. La singolarità sta nel fatto che i germanici i più agguerriti nemici di Roma e che i romani non riuscirono mai a domarli, per secoli hanno simulato un impero che si richiamava al quel periodo "il sacro romano impero" per l'appunto. Titoli come Caiser, Zar si richiamano al Cesar romano, la stessa Mosca fu fondata come la seconda Roma. L'Impero romano d'oriente è qualcosa di profondamente diverso, del resto fu Costantino con la fondazione di Costantinopoli a volere questa diversità.

cristina vuerich
la terza...la seconda è stata costantinopoli

Alberto Pento
Mi dispiace ma non vi è stato alcun caos post imperiale con l'arrivo dei migranti germani, piuttosto vi è stata la rinascita dell'Europa dopo che gli ultimi secoli dell'impero romano l'avevano portata al caos. E' stata una liberazione dal dominio romano, una rinascita. Gli ultimi secoli dell'impero romano sono stati caratterizzati da guerre di espansione coloniale, da guerre di difesa dei domini, da guerre civil-militari per il trono imperiale e da guerre civil sociali per l'oppressione fiscale. Se oggi riusciremo a costruire l'Europa Unita (in senso federale) lo potremmo fare senza costruire imperi con le armi che poi sono destinati a disfarsi, perché con il male della violenza non si costruisce il bene della pace.

Nicol Pozzi
Sembra un'ipotesi ripresa da certi storiografi anglosassoni e tedeschi...non mi trova molto d'accordo: è un fatto che prima delle migrazioni di massa ( quindi grossomodo prima di Adrianopoli ) il livello della civiltà fosse parecchio piu alto. Basti pensare che per il VI secolo in Toscana o Tuscia furono ritrovati dagli archeologi stabilimenti umani nelle caverne! Fino a due secoli prima c'erano le case, i teatri, le terme, le strade...
E del resto, i secoli che seguirono il dissolvimento delle istituzioni imperiali in Occidente non furono certamente meno tumultuosi di quelli che lo precedettero...si sprecano le narrazioni di fatti d'arme, eccidi, occupazioni militari...

Alberto Pento
Le strade selciate o "salixà" esitevano già da secoli prima di Roma sia in area italica (Sicania, Etruria, Veneto: a Oderzo e a Este) che europea; anche le terme esistevano prima di Roma in Etruria e nel Veneto. Le case non sono un'invenzione romana esistono da miliaia di anni prima di Roma e tutte le genti d'Europa avevano le loro o di legno o di pietra: e non è che il legno fosse da meno della pietra, anzi la tradizione del legno è millenaria: per esempio in Gran Bretagna a Londra quando se ne sono andati i romani, le genti celtiche hanno ripreso a costruire in legno secondo la loro tradizione anziché continuare le costruzioni in pietra introdotte dai romani.

Nicol Pozzi
Caro Alberto, dici cose giuste ma io non ho certo affermato che quelle cose le abbiano inventate i Romani. "È un fatto che prima delle migrazioni di massa - e qui accetto la lezione degli storici che non parlano più di invasioni - il livello della civiltà fosse parecchio più alto", questo ho scritto: poi è sicuro che per costruire la capanna in legno serve ugualmente una certa perizia, lungi da me negarlo.
Però il punto è che dallo splendore meridiano dell'Impero ai secoli che solitamente cataloghiamo come Tarda Antichità \ Alto Medioevo c'è una grande differenza per quanto concerne la qualità della vita, dei materiali d'uso, degli insediamenti, e mi pare arduo affermare che le migrazioni portarono ad un assetto più stabile dell'Europa continentale...è un risultato che si raggiunse in tempi di ben più lunga gittata a mio parere.

Alberto Pento
Gentile Nicol Pozzi sarebbe interessante se ci spiegassi in che cosa il livello di civiltà della Tarda Antichità Romana fosse più elevato di quello dell'Alto Medioevo Germanico. Le costruzioni in legno non riguardano le semplici capanne, ma le Longhouse, i ponti su pali o su barche, le case a più piani miste a terra-sassi-pietre-mattoni, le fortificazioni castellare, le navi, ecc. Poi ricordo lo sviluppo delle cattedrali gotiche in pietra, delle grandi ville, delle corti, dei castelli, delle grandi residenze aristocratiche. Per quanto concerne la qualità della vita bisogna considerare quella della gente comune e non quella degli imperatori e della aristocrazie.
Ricordo come la democrazia comunale che è il nucleo del "Rinascimento" sia un portato della cultura germanica più che la evoluzione dei municipi romani che altro non erano che l'organizzazione amministrativa dei territori sottomessi e privi di cittadinanza romana per il loro sfruttamento tributario.




Luca Di Cocco
L'Europa, o meglio le sue basi, sono nate proprio nei tumultuosi "Secoli Bui" dell'Alto Medioevo dalla fusione di tre elementi: il retaggio della cultura classica, la religione cristiana e la cultura germanica o comunque nord europea.

Alberto Pento
Non solo la "cultura classica" ma anche le "culture locali" con le loro radici preistoriche e protostoriche che hanno ripreso vigore dopo la fine dell'impero romano. Le culture locali non erano mai morte e nemmeno furono cancellate dalla "romanità" o dalla "romanizzazione" come taluni ignorantoni hanno raccontato nel passato e ancor oggi sfacciatamente raccontano. Inoltre per l'area veneta lagunare vi è stato l'apporto greco-armeno bizzantino.

Luca Di Cocco
I Romani non hanno mai cancellato nulla, casomai hanno assorbito molto le culture locali, rielaborandole e facendole proprie.

Alberto Pento
Qualcosa hanno cercato di cancellare, con tutte le stragi che hanno fatto.

Luca Di Cocco
Le stragi le hanno fatte TUTTI: dai greci ai Romani, dai Cinesi ai Mongoli fino a giungere ai Nazisti e Comunisti dei tempi nostri. E' storia.

Luca Di Cocco
Ogni episodio va contestualizzato. I Romani rasero al suolo Cartagine e Gerusalemme dopo ripetute ribellioni.

Alberto Pento
I popoli invasi e sottomessi hanno tutto il diritto di ribellarsi e di cacciare gli invasori anche sterminandoli come hanno fatto i germani di Arminio a Teutoburgo con i romani.

Luca Di Cocco
Anche gli antichi Israeliti occuparono la terra di Canaan e non credo in modo pacifico..i tempi erano quelli che erano.

Alberto Pento
Gli israeliti si sono ricavati una "tana" o nicchia o covolo, pagandola carissima e non un impero; i romani sono andati a rapinare, a ridurre in schiavitù e a stragiare mezzo mondo, una certa differenza c'è tra gli israeliti e i romani.

Luca Di Cocco
Non concordo ma rispetto il tuo pensiero.

Alberto Pento
Grazie.
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Re: Ła fin de l'enpero roman e el mito dei barbari envaxori

Messaggioda Berto » mer mar 16, 2016 9:28 am

Quanto sei “barbaro”? – parte 1 – Fine dell’Impero
26 marzo 2014
http://lastoriaviva.it/quanto-sei-barba ... dellimpero

Sono reduce dalla visione del film documentario “I longobardi in Italia” che permette di compiere un viaggio tra i luoghi appartenenti al sito seriale dell’UNESCO “Italia Langobardorum”. E come sempre mi succede sto elaborando i molti spunti di riflessione che questa proiezione mi ha fornito.

Già, l’Italia dei Longobardi… È incredibile come i libri di storia maltrattino ancora molto i regni instaurati in Europa dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. La nostra storia, quella Europea e soprattutto italiana, non sono rimaste sospese e in apnea nell’attesa del Rinascimento. Nel lungo e complicato periodo durato ben mille anni, definito banalmente Medio Evo, età di mezzo tra la grandiosità dell’impero Romano e la Rinascita, si sono succeduti in Italia una serie di popoli e vicende che hanno lasciato il segno: nell’architettura, nell’arte, nella lingua. E poiché con il linguaggio si trasmettono le idee, non temiamo di dire che hanno lasciato il segno nel nostro pensiero.
Senza scadere nelle irrisolvibili diàtribe tra nostalgici eredi dell’Impero Romano e altrettanto nostalgici eredi di tutte le altre etnie che hanno popolato la penisola, mi sembra il caso di dare giusto risalto a quanto della cultura cosiddetta barbarica il nostro paese possiede. Conosco già un paio di obiezioni: Poggiarono sulla struttura giuridico-amministrativa romana! Impararono a costruire dai Romani! Tutto vero, sarebbe stato del resto una scelta insensata e irresponsabile gettare quanto di buono e ancora perfettamente funzionante e funzionale rimaneva dell’Impero. Un segno di intelligenza farne buon uso e ampliarne le potenzialità in un’era diversa e nuova. Facciamo una rapida carrellata, in puro stile Bignami di Storia.


Quando finisce l’impero romano d’Occidente?

Come tutti sanno la caduta dell’Impero romano d’Occidente viene fatta ufficialmente coincidere con la presa del potere da parte di Odoacre, nel 476. E’ questa una data del tutto convenzionale dal momento che, anche negli anni precedenti, il comando non era più di fatto in mano agli imperatori, ma ai loro magistri militum, generali di stirpe barbarica che in tempi di grandi pressioni militari in tutta la parte occidentale dell’impero, detenevano il potere attraverso il controllo delle legioni. Ma secondo me il cosiddetto “inizio della fine” fu segnato con certezza dalla Battaglia di Adrianopoli nel 378, in cui lo stesso imperatore Valente perse la vita e che vide la sconfitta schiacciante dell’esercito romano ad opera dei Goti.

Sull’argomento ho scovato una meravigliosa conferenza tenuta recentemente dal Professor Alessandro Barbero che presenta un’affascinante descrizione di come si arrivò ad Adrianopoli e cosa significò e che, con mio enorme conforto, condivide la mia opinione. Con la sua consueta capacità descrittiva e divulgativa rende il periodo in questione veramente “vivo”. Vi propongo il video con estremo piacere, ci sentiamo poi.

Come Barbero ha esaustivamente dimostrato quindi si può iniziare a parlare di declino già circa un secolo prima della data scolasticamente appresa e convenzionalmente stabilita. Si tratta di un secolo incredibilmente movimentato per l’Impero e per la nostra penisola. Le motivazioni del declino e tutte le sue manifestazioni non sono argomento da poco e non è il caso di trattarle in questo veloce articolo da blog, ma in appendice troverete dei testi di vario genere su cui approfondire. Per quanto mi riguarda non mi piace il termine “Caduta dell’Impero” si tratta di una trasformazione dall’impero ai regni successivi, definiti Romano-Barbarici e non vi è, culturalmente, una soluzione di continuità. A dirla tutta è il periodo della storia che personalmente preferisco per la ricchezza di rimandi tra la cultura classica e la nuova linfa barbarica. Mi piacciono i contrasti e l’ibridazione.

In buona sostanza la presenza di questo elemento “barbarico” in Italia ha una storia ben più complessa e sfumata di quello che i libri di storia scolastici possano far trasparire.

Riprendendo gli Atti del Convegno internazionale di studi (Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 17-18 giugno 2010)

“L’avanzata unna a metà del IV secolo, l’attraversamento del Danubio da parte dei Goti nel 376 e il successivo disastro di Adrianopoli fanno sì che aumenti anche in Occidente la presenza di nuclei barbarici originariamente stanziati nell’Europa centro-orientale. Si incrementa sensibilmente l’arruolamento di Goti, Eruli, Sarmati, Alani e Unni nell’esercito imperiale sia che si tratti di singoli individui o di bande più consistenti, tali da costituire reparti regolari con forte caratterizzazione etnica o di buccelarii a disposizione di un potente generale. La presenza di Goti e Alani in Italia si fa particolarmente significativa a partire dall’ultimo ventennio del IV secolo, a seguito delle campagne degli eserciti occidentali nelle province danubiane. Già nel 377 il generale di Graziano Frigerido sconfigge un gruppo di Greutungi guidato da Farnobio, che si era unito ad una banda di Taifali, parte dei quali verranno deportati a coltivare i campi tra Reggio, Parma e Modena. Probabilmente a seguito degli accordi di pace del 380, Graziano arruola nell’esercito occidentale bande di Alani, che poterono godere di un trattamento economico migliore rispetto a quello riservato ai soldati
regolari. Contingenti di Alani, ma anche di Unni, vennero utilizzati da Valentiniano II nel 383-384 contro gli Iutungi che avevano invaso la Rezia. Da questi arruolamenti paiono derivare i comites Alani, reparto di cavalleria inserito nelle vexillationes palatinae e a disposizione del Magister equitum praesentalis che sono ricordati nella Notita Dignitatum Occidentis agli inizi del V secolo. A Milano la presenza di Goti è frequentemente segnalata da Ambrogio in occasione della disputa delle basiliche del 385-386, dato che l’arianesimo di queste milizie favoriva l’atteggiamento anticattolico della corte: il vescovo fa anche riferimento a un carro utilizzato dai Goti come chiesa mobile.


Nuove bande alane e gote giungono in Italia nel 394 al seguito di Teodosio che al Frigido sconfigge l’usurpatore Eugenio. L’esercito dell’imperatore orientale, assai variegato per composizione, comprende anche contingenti barbarici guidati da capi tribali, ma sotto il controllo di alti ufficiali romani di origine barbarica: all’armeno Bacario erano subordinati gli orientali; a Gainas i Goti, tra i quali anche quelli di Alarico, a Saulo gli Alani (probabilmente foederati pannonici). I Goti di Alarico vennero congedati e rimandati in Oriente subito dopo la battaglia, gli Alani restarono invece in Italia, se, com’è probabile, il Saulo che li guida al Frigido è lo stesso che li comanda nella battaglia di Pollenzo del 402, morendo nello scontro. Alani al servizio dei Romani saranno presenti anche nella successiva battaglia di Verona e verranno utilizzati anche nel 405-406 contro Radagaiso, insieme a bande unne e ai Goti da Saro. Paolino di Nola ricorda invece gruppi alani al seguito di Alarico che si avvicinano minacciosamente a Nola.

La Notitia Dignitatum ricorda molti stanziamenti di Sarmatae in Italia settentrionale, segnalati anche in un rescritto imperiale del 400 indirizzato a Stilicone; molte testimonianze toponomastiche rimandano a queste presenze, una delle quali, Salmour, non lontano da Pollenzo, trova conferma in un’epigrafe frammentaria che ricorda un praefectus Sarmatarum. È questo anche il periodo che inaugura la stagione delle invasioni barbariche: Alarico, che nel 401- 402 attraversa tutta l’Italia settentrionale, assedia Milano, è sconfitto a Pollenzo e, nel corso della sua ritirata, a Verona; Radagaiso, rex Gothorum, che nel 405-406 scende dal Brennero ed è fermato da Stilicone a Fiesole e ancora Alarico nel 408-412, che il 24 agosto del 410 prende Roma e la saccheggia per tre giorni, evento sentito come epocale dai contemporanei.

La presenza di barbari orientali nella penisola in quegli anni dunque è ampiamente segnalata dalle fonti storiche, letterarie e epigrafiche; difetta gravemente invece la documentazione archeologica. Il manufatto più noto è costituito dalla coppia di fibule ad arco in lamina d’argento rinvenute nel 1888 a Villafontana, nel Veronese, entro un contesto funerario di cui non è possibile ricostruire i dettagli. Le due fibule sono assegnabili ad una tipologia tipica del costume femminile nelle culture germanico-orientali Černjachov-Sîntana de Mureş tra la metà del IV secolo e gli inizi del V; Volker Bierbrauer, assegnando particolare importanza a questo ritrovamento, ha definito come ‘orizzonte Villafontana’ l’arco cronologico che va dalla diaspora dellegenti gotiche, determinata dall’arrivo degli Unni in Europa orientale, al passaggio dei Goti di Alarico in Italia (370-380/400-410; Periodo D1, nelle vicende complessive di queste genti). In effetti queste fibule sono generalmente ritenute pertinenti il corredo di una donna giunta in Italia proprio nel corso delle incursioni di Alarico del 401-402 (le truppe del capo visigoto, in ritirata, vengono sconfitte proprio presso Verona) o del 408-412; va tenuto però in considerazione che in quegli anni altre circostanze potevano giustificare la presenza di questi oggetti: il passaggio dei Goti di Radagaiso, discesi dal Brennero, o più genericamente la presenza di un reparto dell’esercito romano con qualche effettivo barbarico.

I “barbari” quindi erano tra i romani molto prima che l’Impero, per così dire, crollasse. E dati i ritrovamenti di oggetti funerari femminili non si strattava soltanto di isolati gruppi armati e bande di passaggio, ma, sebbene non si abbiano dati certi, è anche chiaro che in qualche modo la presenza di gruppi familiari e il probabile stanziamento di individui o di piccoli gruppi non sono da escludere. Senza quindi dimenticare che la Storia è fatta di singole vite originali torniamo agli eventi macroscopici.

A mio modesto avviso l’ultimo “vero” imperatore fu Valentiniano III, figlio della nota patrizia Galla Placidia, importante figura di questo periodo di “transizione”. Sebbene anch’egli fosse di fatto dominato dalla figura di un generale barbaro, Flavio Ezio di origini scite o gotiche a seconda che si dia credito a Gibbon o Jordane, discendeva dalla dinastia di Teodosio I e Valentiniano I… non propriamente un parvenu. Sedette sul trono per un trentennio, fronteggiando la minaccia dei Vandali e degli Unni e mantenendo quanto meno il controllo di tutta la penisola e di buona parte della Gallia, sebbene la rimanente Gallia e la Spagna fossero ormai sotto il regno dei Visigoti, mentre il nord-Africa era in mano ai Vandali. Fu proprio il potere derivato da queste vittorie su Vandali e Unni a determinare l’enorme influenza del generale Ezio sulla corte imperiale. Quando le minacce d’invasione della penisola sembrarono meno pesanti anche Ezio perse il suo peso politico e Valentiniano se ne sbarazzò uccidendolo. Secondo tradizione, ci fu chi affermò che l’imperatore avesse in qualche modo tagliato la sua mano destra con la sinistra. Ma evidentemente era tradizione di famiglia: Onorio, zio di Valentiniano e suo predecessore, fece lo stesso con il proprio magister militum, di padre vandalo e madre romana, Stilicone.

Questo scherzetto permise ai Visigoti di Alarico di scorrazzare per l’Italia praticamente indisturbati nel 408-410 mentre Onorio restava barricato a Ravenna difeso più dalle circostanti paludi che da un valido esercito.
Del resto non era facile fare l’imperatore in quei tempi: obiettivamente le forze militari erano appannaggio di uomini “nuovi”, capi clan delle popolazioni limitrofe sottomesse o federate, oppure figli di militari romani e nobili donne di stirpe barbara. Qualcuno sottolinea che l’esercito si fosse modificato virando al barbarico, è molto più corretto pensare che l’Impero stesso si fosse modificato, integrando e facilitando l’incontro, oltre che lo scontro, di diverse etnie e popolazioni. Di fatto un imperatore dell’epoca, posizione piuttosto scomoda da ricoprire, doveva scegliere tra l’essere manovrato da un generale o privarsene. Ci sarebbe voluta una personalità molto forte e un totale sostegno senatoriale per contrastare con la politica la preponderante influenza militare e la volontà di affermazione di personaggi come i magistri militum di quel periodo, ma questo miracolo non accadde. Così Valentiniano fece come poté fare nel periodo caotico e pericoloso in cui visse. Durò trent’anni e questo fu di per sé un gran successo.

Gli ultimi imperatori e i generali “barbari”

Dopo Valentiniano si sono succeduti una serie di imperatori, per così dire, fantoccio, proclamati dai loro generali al solo scopo di “mantenere le apparenze”: tralasciando Petronio Massimo, coinvolto nell’assassinio di Ezio prima e di Valentiniano poi, che fu imperatore per soli settanta giorni e Avito, proclamato dai Visigoti di Spagna, che regnò per quindici mesi, vediamo prendere il potere il generale suebo-goto Ricimero che insediò e liquidò ben tre imperatori: Maggioriano assassinato da Ricimero dopo quattro anni, Libio Severo, che dopo altri quattro anni morì in circostanze sospette in cui si ventila il coinvolgimento del magister Ricimero e quindi Antemio, genero dello stesso Ricimero, che però non esitò ugualmente a scontrarsi con lui in una vera e propria guerra civile, dopo sei anni di governo. Non serve dire che vinse Ricimero, che si liberò così del suo terzo imperatore.
Toccò poi all’italico Anicio Olibrio salire al trono, per pochi mesi, mentre governavano il solito Ricimero e Gundobado, figlio del re burgundo Gundioco e secondo alcune fonti, della sorella dello stesso Ricimero.
Alla sua morte era già passato a miglior vita anche Ricimero, ma ci pensò il nipote Gundobado a porre sul trono il successore: Glicerio. Evidentemente il burgundo non aveva però la stoffa del presunto zio nello scegliere gli imperatori, perché Glicerio non venne riconosciuto né dall’imperatore d’Oriente Leone I né dalla classe senatoria. Così quando Leone inviò in Italia il suo “collega” imperatore Giulio Nepote, Gundobado non reagì e Glicerio fu deposto.

La stessa sorte toccò, come per contrappasso, anche a Giulio Nepote, il quale fu deposto dal suo magister militum Flavio Oreste. Questi pose sul trono il proprio figlio quattordicenne Romolo Augusto. Anch’egli in seguito deposto, dopo soli undici mesi in cui a governare fu il padre, per mano del magister militum Odoacre.

Odoacre e Teodorico

Siamo arrivati così alla fatidica data del 476 in cui Odoacre si pone sotto l’autorità dell’imperatore d’oriente, ma non ritiene di dover cercare un simulacro di imperatore occidentale. Ormai i tempi sono maturi per non dover rispettare nemmeno le apparenze: nei circa vent’anni dalla morte di Valentiniano all’ascesa di Odoacre, l’essere barbari non sembra rivestire più un veto per l’esercizio del potere su quel che restava dell’Impero d’Occidente. Come si legge da questa breve carrellata l’elemento barbarico ha per così dire ormai preso piede. I Vandali a sud del mare nostrum minacciano costantemente la Sicilia, l’occidente europeo è in mano ai Visigoti, a nord e a est dell’Italia premono svariate popolazioni germaniche. Nella stessa penisola italica il potere scivola gradualmente dalle mani dell’imperatore a quelle dei generali che da principio instaurano legami matrimoniali e se ne fanno spingere la carriera, poi, lentamente prendono vigore fino all’aperta assunzione di potere. Non dobbiamo pensare a uomini isolati, ma a interi clan che compongono le schiere dell’esercito. Questi uomini sono vissuti sul suolo italiano, hanno avuto mogli e amanti italiche o di altre tribù, con cui hanno generato figli. Si sono stabiliti e sono morti sulla nostra terra. Mescolando lingua e tradizioni, oltre al genoma, in una realtà per molti versi confusa e caotica ma indubbiamente vitale.

Anche l’etnia di Odoacre è confusa. «Le notizie contrastanti circa la sua origine etnica – unna, scira, turingia, ruge – sono dovute a una complessa interconnessione tribale più che all’incertezza delle fonti» si legge sul Dizionario Biografico della Treccani. Altrettanto composito il suo esercito se Jordane riporta «Non molto tempo dopo che Augustolo era stato ordinato imperatore a Ravenna dal padre Oreste, Odoacre, re dei Turcilingi si impadronì dell’Italia, avendo con sé Sciri, Eruli e ausiliari provenienti da genti diverse» (Iordanis de origine actibusque getarum).

Ambigua fu anche la sua posizione istituzionale e il suo rapporto con la parte orientale dell’impero. Si comportò di fatto da bravo governatore dell’Italia, pagando un tributo ai Vandali riprese il controllo della Sicilia, sedò rivolte interne, sconfisse i Rugi nel Norico, attuale area attorno a Vienna, da cui però si ritirò permettendo così l’avanzata in quella zona dei Longobardi provenienti da nord. Dopo aver annesso la Dalmazia cogliendo il pretesto di punire il governatore romano Ovida, assassino di Giulio Nepote, delineò il confine della penisola verso nord seguendo quello naturale delle Alpi. Durante alcune dispute dottrinarie si schierò con la sede pontificia contro la posizione dell’imperatore Zenone. Questo gli fece ottenere alcuni privilegi rispetto alla chiesa, tali da legittimarlo come regnante, anche senza il placet di Costantinopoli.

Più o meno a questo punto del suo successo, nel 488, l’imperatore d’Oriente Zenone decise di porgli un freno. Le ambizioni e i risultati militari di Odoacre lasciavano intendere un eccessivo potere e pertanto una minaccia per la sua sovranità. Zenone si accordò con un altro cosiddetto barbaro, il re degli Ostrogoti Teodorico, perché sconfiggesse Odoacre e prendesse possesso della penisola italica e degli annessi territori.
Teodorico era un principe Ostrogoto inviato come ostaggio a Costantinopoli per suggellare gli accordi tra il padre Teodemiro e i bizantini. Cresciuto alla corte imperiale ricevette un’ottima istruzione, compreso l’apprendimento di greco e latino. riscattato dopo dieci anni dal padre si fece notare per la competenza militare. Costantinopoli gli riconobbe lo status di federato e lo nominò anche console, consolidando il suo potere nei balcani. L’accordo per sconfiggere Odoacre avrebbe potuto risolvere a Zenone il problema di essere premuto da due potenti personaggi sia a est che a ovest. La guerra durò cinque anni con numerose e complesse vicende di alterne alleanze e tradimenti. Teodorico sconfisse Odoacre una prima volta presso l’Isonzo nel 488, infliggendogli poi il colpo definitivo in territorio veronese, nella Campagna Minore (oggi Madonna di Campagna), tra le attuali San Martino Buon Albergo e San Michele.

Secondo la tradizione è proprio in occasione del tremendo scontro tra i due eserciti, quello di Odoacre e quello di Teodorico, che nacque uno tra i più tipici piatti della tradizione culinaria veronese: la Pastissada de’ Caval, lo stracotto di carne di cavallo. Alla fine della cruenta battaglia rimasero sul campo centinaia di cavalli, anch’essi, come molti combattenti, vittime dello scontro. La popolazione affamata chiese al vincitore Teodorico il permesso di utilizzare quella carne. Il nuovo sovrano lo concesse ma, data la grande abbondanza di carne, si dovette escogitare il modo di conservarla immergendola in vino e spezie. La successiva cottura diede vita al celebre piatto che oggi si mangia accompagnato dalla tipica polenta molle. Forse la storia non è vera, ma è suggestivo pensare di mangiare un cibo del V secolo legato a due re barbari, non vi pare?
A proposito di cibo: Odoacre finì i suoi giorni assassinato su ordine di Teodorico, pare durante un banchetto, e lasciò ai Goti l’incontrastato dominio sull’Italia.
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Re: Ła fin de l'enpero roman e el mito dei barbari envaxori

Messaggioda Berto » mer lug 06, 2016 5:28 pm

???

L’impero romano distrutto dagli immigrati
di Enrico Maria Romano
2016/07

http://www.campariedemaistre.com/2016/0 ... grati.html

La questione dell’immigrazione-invasione sta diventando una delle più urgenti e delle più necessarie da affrontare per tutti i liberi e consapevoli cittadini d’Europa. La cattiva informazione, così tipica dei mass media democratici come stampa e TV, su questo tema è giunta a picchi insormontabili di menzogne, omissioni, confusioni, raggiri e ricatti morali indecenti e inauditi.
“Chi è per l’immigrazione è buono; chi è contrario è cattivo”: questo il luogo comune, il pregiudizio e l’affabulazione implicita in innumerevoli discorsi, articoli strappalacrime e dibattiti in cui risulta sempre più difficile restare fuori dal coro, razionali e sordi al frastuono delle contro-verità.
L’eccellente rivista web Il Covile faceva stato, nel numero 846 (aprile 2015), della correlazione tra diffusione dei mass media e indottrinamento delle masse, masse che però da qualche tempo, lentamente ma sicuramente, cercano sempre più informazioni autentiche e non manipolate sui blog liberi più che sui quotidiani di regime. L’autore dello studio, l’ottimo giornalista-studioso Armando Ermini, titolava il suo documentato dossier di 8 fitte pagine “Come tenersi informati nonostante la stampa”… Già!
Tra le notizie positive prodotte da Ermini spicca il fatto che grosse fette di cittadini italiani, tedeschi e americani non credono più ai mass media tradizionali, e i quotidiani ad esempio calano regolarmente, al di qua e di là dell’Oceano, i lettori e gli abbonati (statistiche ufficiale della FABC). Nell’Italia dei primi anni ’40, ricorda Ermini, esistevano 66 quotidiani che vendevano “oltre il doppio di copie rispetto ad oggi” (p. 1). Certo senza radio e TV generaliste, ma anche con meno italiani e assai più analfabeti di oggi. Interessanti poi le citate statistiche di “eticità” attribuita alla stampa. Essa sia tra la gente comune che tra i giornalisti, gli addetti ai lavori, è percepita come bassa (rispettivamente 53,7% per la gente comune e 84,6% per i giornalisti che quindi diffidano dell’imparzialità degli stessi giornali su cui scrivono).
Ebbene per farci un’idea semplice e chiara dei rischi dell’immigrazione attuale, in tutto e per tutto diversa dalle immigrazioni otto-novecentesche (tirate in ballo come i cavoli a merenda), è utilissimo leggere tutto d’un fiato il breve e succoso pamphlet di Giuseppe Valditara, Ordinario di Diritto Romano all’Università di Torino e studioso di questioni politiche contemporanee.
Se il titolo è già chiaro e ad effetto ("L’impero romano distrutto dagli immigrati", edizioni Il Giornale, pp 52, € 2,50), il sottotitolo lo è ancor di più: “Così i flussi migratori hanno fatto collassare lo stato più imponente dell’antichità”. Niente di meno!

“Roma venne fondata, secondo Varrone, nel 753 a.C. L’ultimo imperatore romano d’Occidente [Romolo Augustolo] venne deposto nel 476 d.C. Una comunità statuale durata oltre 1200 anni è già un record, ma l’impero di Roma fu anche il più grande di tutti i tempi. E, soprattutto, Roma è stata il pilastro della civiltà occidentale. Non solo ha influenzato la lingua della gran parte delle popolazioni d’Europa, ma anche il diritto dei popoli di mezzo mondo, ha tracciato le grandi vie di comunicazione, ha influenzato l’architettura e, soprattutto, ha dato all’Europa moderna alcuni valori essenziali” (p. 7). Si può e si deve aggiungere, da cattolici, il ruolo provvidenziale di Roma e del suo impero come fu riconosciuto chiaramente dai Padri della Chiesa e nel Medioevo. Gli stessi sommi Pontefici, come Pio XII e Paolo VI, solo per citarne due tra i più celebri, fecero vari discorsi in cui celebrarono la grandezza di Roma e del suo ruolo di Città-Civiltà destinata da Dio ad essere davvero Caput mundi in quanto sede del Vicario di Cristo e Capitale eterna della cristianità.

Ebbene il Valditara mostra bene come nella politica romana ci furono sempre due pilastri uniti e indivisibili: l’apertura all’esterno, fino alla concessione della cittadinanza romana agli stranieri (e agli stessi barbari) e “la prioritaria difesa degli interessi della res publica” (p. 8).

Tutta la storia di Roma, dalla monarchia alla repubblica all’impero, è un frullato e un mix di popoli, razze e culture diverse. Ma l’armonia si fondò sulla forte identità culturale di Roma. “La nascita della civitas avviene secondo la tradizione con la costruzione delle mura. Nella narrazione degli antichi la costruzione delle mura viene prima dei templi, delle strade, degli acquedotti e delle case. La storicità delle mura romulee è stata dimostrata dagli scavi degli archeologi” (p. 8). Le mura, a ben pensarci, sono un vero segno di amore. Chi di noi vorrebbe una casa senza mura? Costruire delle mura di cinta, come si faceva per ogni città e borgo del Medioevo e della stessa età moderna, e perfino nei conventi, era un segno di amore e di cura per ciò che era contenuto nelle mura stesse. Le mura della città ci dicono che quello che circondano è importante, i cittadini contano qualcosa per chi presiede al bene comune. Non a caso, ricorda l’Autore, le mura vengono definite già dai romani antichi come sanctae: “Le cose sanctae sono divinae. Dunque è evidente un collegamento con il mondo religioso” (pp. 8-9). Ancora: “Le mura rispondono ad una esigenza di protezione e di differenziazione. Le mura difendono da predoni e invasori (…). Le mura rendono riconoscibile l’extraneus, cioè colui che sta al di fuori, e l’indigeno, cioè colui che è generato all’interno. Le mura dunque identificano e separano” (p. 9). Che bello e commovente nel mondo post moderno tutto liquidità, sottilità, confusione (perfino sessuale e naturale, oltre che etnica e sociale) questo elogio delle mura!

Eppure, senza nessuna contraddizione reale, “i Romani, a differenza di altri popoli antichi, hanno nel loro archetipo l’idea dell’unità della diversità. Roma nasce dall’incontro di popoli e culture differenti” (p. 10). L’intero libretto di Giuseppe Valditara ci dà numerosi esempi in tal senso: Lavinia che sposa il troiano Enea (uno straniero dunque) da cui nasceranno attraverso Silvio, Romolo e Remo (p. 11); il ratto delle sabine, ovvero di donne non-romane (p. 12); i sette re di Roma, con vari stranieri tra i re (Numa Pompilio sabino, Tarquinio Prisco etrusco, etc.); la prima opera letteraria in latino compilata dal greco Livio Andronico; Ennio, “il poeta nazionale per eccellenza, era originario del Salento” (p. 15), Catullo veronese, Virgilio mantovano, Tito Livio padovano, etc. etc.

“Gli immigrati faranno fare a Roma un decisivo salto di qualità. La Roma latino-sabina era poco più che un villaggio di pastori e contadini. Saranno i re etruschi, portatori di una civiltà più evoluta, a darle le grandi mura, i grandi palazzi e i grandi templi” (p. 17). D’altra parte, come scrive Polibio, “i Romani sono più pronti di ogni altro popolo a mutare i costumi e adottarne di migliori” (p. 20). Ma allora, immigrazione sì o immigrazione no, si chiederà il lettore? Ebbene per Roma, esemplare anche in questo, non c’erano dubbi: tutto dipende dall’apporto degli stranieri. Infatti, “non tutto ciò che arrivasse dall’estero andava bene: solo ciò che rappresentava un miglioramento, non ciò che peggiorava la vita, le istituzioni, i rapporti sociali” (p. 23). Il criterio non fu mai, salvo alla fine (e ciò provocò l’anarchia), il diritto presunto dello straniero ad essere equiparato al cittadino – vera mostruosità logica e giuridica – ma il bene comune della patria, a volte avvalorato dallo straniero, a volte minato dal barbaro di turno.
Fatte le debite proporzioni non è un criterio valido ancor oggi? Sì, salvo volere, come forse vogliono i poteri forti internazionali, abolire le frontiere e cancellare gli Stati nazionali, creando così l’uomo cittadino del mondo, senza doveri e con infiniti diritti, nella più pura tradizione utopica. Tutta la vita contemporanea instabile, ondivaga, senza lavoro fisso, patria fissa, famiglia fissa porta a questo: ma è la cultura attuale che deve essere corretta, non le leggi stabili della corretta vita civile.
Di più. “Una delle caratteristiche del genio romano fu tuttavia quella di non ricevere mai passivamente, di non subire i contributi dall’esterno, ma di rielaborarli e farli propri, in altre parole di romanizzarli” (p. 24). Così nei secoli passati, l’Europa quando accolse cittadini non europei, li cristianizzò, almeno tendenzialmente, facendoli divenire parte del tessuto sociale e culturale dominante. Ma oggi che l’Unione Europea vuole scristianizzare l’Europa, non esiste più collante comune né tra gli europei, né tra gli abitanti stessi degli stati che la compongono, se non la vita occidentale nichilista e priva di valori, tranne l’accoglienza (ammesso che sia un valore…).
Claudio imperatore disse: “I Galli si sono assimilati a noi nei costumi, nelle arti, nei vincoli di sangue” (cit. a p. 26). Chiaro? “Gli stranieri rimodellavano la loro esistenza sugli schemi e sui valori romani” (p. 30). E quando così non era esisteva “la revoca della cittadinanza a chi era già [divenuto] cittadino, ma aveva dimostrato di non meritarla” (p. 35).
Il merito è un criterio evidentemente etico e pre-politico, e come tale non superabile. Oggi che il tasso di criminalità presso chi sbarca sulle nostre coste è piuttosto alto, chi merita di divenire cittadino italiano? E chi non lo merita, dopo constatate malefatte, che fine fa? Lo sappiamo tutti: si fa finta, per buonismo, di non vedere. Ma sono proprio i nostri poveri a soffrire di più e si fa finta di non vederli… Tutto questo crea gioco forza insofferenza nell’italiano medio che viene trattato peggio (più tasse, più regole da seguire e meno diritti) del new entry… Al contrario la politica di Roma, ispirata alla filosofia romana realista, fu altra: “Nel 187 a.C. vengono espulsi ben 12.000 Latini immigrati”. (p. 36). Secondo il padovano Tito Livio, che difende il provvedimento, la ragione era che costoro erano diventati “un peso insopportabile per Roma”. D’altra parte, “La difesa dell’ordine sociale e della stabilità interni avevano la preminenza su qualsiasi altra valutazione, anche di carattere umanitario” (p. 38).
Oggi dovremmo, secondo il pensiero dominante (ma impopolare: Brexit docet) accogliere tutti i poveri, tutti i profughi, tutti gli sbandati, tutti i senza patria e tutti i criminali del pianeta. È sensato tutto ciò? È conforme al bene comune delle nostre nazioni, e specialmente dei suoi ceti economicamente e psicologicamente più fragili ed emarginati, come disoccupati e anziani?
Questa, esattamente questa, fu la causa o almeno una delle cause, secondo l’Autore, del definitivo crollo di Roma. Dopo il periglioso editto di Caracalla del 212 d.C. che concedeva la cittadinanza a tutti coloro che vivevano all’interno dell’Impero, fu un continuo di invasioni barbariche di Vandali, Alani, Svevi, che crearono “enclave autonome” (p. 43). In seguito, ai temibili “Goti, per la prima volta nella storia di Roma, fu consentito di vivere all’interno dell’impero senza sottomettersi, rimanendo un’entità autonoma, con proprie leggi, proprie tradizioni” (p. 44). Sembra quasi che si parli dell’immigrazione mussulmana del XXI secolo… “Si rinnegava il principio tradizionale che vedeva passare l’integrazione attraverso l’assorbimento. L’integrità dell’impero era stata di fatto spezzata e si era creata una spina nel fianco imperiale che ebbe un ruolo importante nel crollo finale” (pp. 44-45).
Così nel 408, nel cuore di una Roma già ampiamente cristianizzata, “stando alla testimonianza di Sant’Agostino, i Visigoti compirono violenze atroci in ogni quartiere e senza distinzione di ceto sociale, saccheggiarono beni, pubblici e privati, eseguirono torture indicibili e stupri numerosissimi, compiuti persino a danno delle monache. Roma non riuscì più a risollevarsi” (p. 45).
Ma al crollo politico della Roma imperiale fece seguito la resurrezione della Roma cristiana guidata dai Pontefici e il suo rinnovato impero con l’incoronazione di Carlo Magno nel Natale dell’Ottocento. Un crollo odierno sarebbe ben più drastico poiché lo spirito non è pronto e la carne è debole.
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Re: Ła fin de l'enpero roman e el mito dei barbari envaxori

Messaggioda Berto » dom set 04, 2016 7:08 am

???

1. NAZI-FELTRI, SOLUZIONE FINALE! ‘’PER FERMARE L'INVASIONE DEI BARBARI L'UNICA È LASCIARE GLI IMMIGRATI IN MARE. NON APPENA I PROFUGHI SAPRANNO CHE ATTRAVERSARE IL MARE COMPORTA IL PERICOLO DI CREPARE ANNEGATI, SE NE GUARDERANNO DAL SALPARE”
2. ‘’CERCHIAMO ALMENO DI RENDERE LA VITA DURA AGLI INVASORI, COSÌ COME FECERO GLI ANTICHI ROMANI. ALLORA I MIGRANTI NON ERANO ACCOLTI A BRACCIA APERTE, NESSUNO SI SOGNAVA DI OFFRIRE ASSEGNI DI SOSTENTAMENTO, CASE POPOLARI E SOGGIORNI IN ALBERGO’’
3. ‘’SUCCEDE SPESSO CHE ESSI NON GRADISCANO LA NOSTRA CUCINA E SI RIBELLINO, PERCHÉ NON AMANO I MACCHERONI E PREFERISCONO ALTRE PIETANZE. CERTO, SAREBBE BELLO ACCONTENTARLI. MA SE NON ABBIAMO SOLDI, CHE FARE? VENDERE I NOSTRI AVERI PER SODDISFARLI? NON TUTTI SONO DISPOSTI A SACRIFICARSI PER I GUSTI ALIMENTARI DEI BARBARI’’
28 mag 2016 11:14

http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 125662.htm

Dire che gli immigrati sono dei poveracci è come scoprire l' acqua calda, quella tiepida e anche quella fredda. Pertanto, non intendiamo ammorbarvi con l' ennesimo pistolotto politicamente corretto. Vorremmo semplicemente dire a voi e ai responsabili della cosa pubblica che le invasioni barbariche sono inevitabili - sempre avvenute dalle origini del mondo - ma andrebbero governate per evitare che i barbari vincano subito.

Cerchiamo almeno di rendere la vita dura agli invasori, così come fecero gli antichi romani. I quali, non ancora corrotti, non ancora debosciati, quando venivano attaccati da orde germaniche, slave e sarmatiche reagivano e non si facevano soverchiare, ma combattevano con tutte le forze allo scopo di non farsi dominare dagli stranieri incivili.
Allora usava così. I migranti non erano accolti a braccia aperte, nessuno si sognava di offrire loro assegni di sostentamento, case popolari e soggiorni in albergo.

Scoppiavano guerre tra cittadini in armi dell' Impero e coloro che miravano a impadronirsene. I conflitti durarono secoli e secoli. Alla fine, vinsero i barbari, ma ce ne volle per battere gli antenati di Alberto Sordi. Oggi, invece, gli eredi dei romani, ossia gli italiani, non sono capaci di opporsi agli invasori e li ospitano volentieri nella speranza di stringere amicizia con loro; se essi sono in difficoltà su barconi in balìa del mare, noi ci rechiamo per salvarli direttamente a casa loro, a poche miglia dalle coste libiche e li portiamo qui, dopo di che cerchiamo di integrarli pur sapendo che non sono integrabili.
In breve, caliamo le brache.

Soccorrere il prossimo - lo dice il Papa - è cosa buona e giusta. Ma se il prossimo sono quattromila sfigati in un botto solo, non è facile dare loro assistenza. Dove li mettiamo?
Con quali mezzi li manteniamo, visto che molti nostri compatrioti sono in miseria e sopravvivono a stento, magari pernottando in automobili sostitutive di civili abitazioni? Vogliamo o no prendere coscienza che non abbiamo risorse per fronteggiare l' emergenza extracomunitari?

Fino a qualche tempo fa, coloro che sfuggivano dai luoghi infami della Terra arrivavano da noi, poi tentavano di trasferirsi nel Nord Europa e ci riuscivano pure. Cosicché, non rimanevano qui a pesare sui nostri bilanci già abbastanza disastrati. Ora invece Austria, Germania, Danimarca, eccetera hanno chiuso i confini e non c' è più verso di oltrepassarli. I profughi sono impossibilitati a varcare le frontiere e restano nella Penisola. Una catastrofe.

Si dà cioè il caso che tutti i Paesi membri delle Ue abbiano sbarrato le porte e non accettino di ricoverare un solo straniero, mentre noi poveri tapini, circondati dal mare, anziché respingere i pretendenti asilo, li andiamo a prelevare (per spirito caritatevole) direttamente nei pressi di casa loro; dopo di che, quando sbarcano, ci tocca fornirgli il necessario per campare. Succede spesso che essi non gradiscano la nostra cucina e si ribellino, perché non amano i maccheroni e preferiscono altre pietanze. Bisognerebbe accontentarli? Certamente, sarebbe bello.

Ma se non abbiamo soldi, che possiamo fare? Vendere i nostri averi per soddisfarli?
Non tutti sono disposti a sacrificarsi per andare incontro ai gusti alimentari dei barbari. Dato che l' Europa si fa gli affari propri, e non tollera di ricevere altri stranieri, lasciando a noi il compito ingrato di prenderli in consegna, non abbiamo altra scelta che agire come gli antichi romani. Non dico che l' Italia debba rigettare in mare coloro che arrivano sulle amate sponde, ma almeno non offriamoci volontari per andarli a ripescare tra le onde lontane dalle nostre rive.


Il discorso è semplice. Dichiariamo solennemente, urbi et orbi, che i posti in Italia sono esauriti e che non siamo in grado di inviare nostre navi a raccattare naufraghi. Diciamolo con fermezza e atteniamoci al proposito senza tentennamenti.
Non appena i profughi sapranno che attraversare il mare comporta il pericolo di crepare annegati, se ne guarderanno dal salpare.

Indubbiamente si tratterà di tenere duro per qualche settimana, dopo di che nessuno più oserà puntare la prua sulle nostre coste. Chi eventualmente si azzarderà a farlo, saprà di rischiare la morte per annegamento. La maggior parte di quelli che aspirano a venire qui, desisterà. Sia chiaro, non ce la facciamo più ad assicurare ad altri la felicità che non abbiamo neanche noi.


Alberto Pento

Non devo assolutamente nulla agli africani, non ho preso nulla a loro e non ho alcun dovere di mantenere i loro figli, che si arrangino. Per me possono anche morire io non ho assolutamente da preoccuparmi per loro. Difendiamo la nostra casa e la nostra terra dagli invasori e dai criminali nostrani che li sostengono. Togliere le risorse dei nativi per i giovani, i vecchi, i malati, i diversamente abili, le famiglie, l'ambiente e darle, trasferirle, regalarle ai foresti non aventi alcun diritto è una violazione dei Diritti Umani Universali un crimine contro l'umanità, un alto tradimento punibile con la morte. I nazislamici poi dovrebbero essere banditi tutti e i loro complici italiani ed europei perseguiti come criminali.

Feltri ha una visione storica della fine dell'impero romano che non corrisponde affatto alla realtà delle cose: l'impero romano implose perché divenne troppo grande, indifendibile e non più espandibile e così il suo imperialismo si afflosciò. L'imperialismo romano fatto di conquiste, rapine, tributi, riduzione in schiavitù, stragi e deportazioni ha sfatto l'Europa e "i barbari germani" impadronendosi dell'impero fecero risorgere l'Europa. Non si possono paragonare i germani con gli africani e gli islamici, non è un confronto sostenibile.



All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla
viewtopic.php?f=194&t=2494
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Re: Ła fin de l'enpero roman e el mito dei barbari envaxori

Messaggioda Berto » sab mar 18, 2017 8:45 am

Un'altro articolo che ricicla questa storiella inventata dei romani civili sconfitti dai barbari incivili per il troppo buonismo


Lettera a un europeo non ancora nato
17 marzo 2017
Alberto Aldrovandi

http://islamicamentando.altervista.org/ ... uro-europa

Quando leggerai questo, sarai stupito di apprendere che sapevamo già tutto. Certo, non posso conoscere i dettagli, nessuno poteva. E poi dipende da quando e dove ti trovi esattamente. Non posso sapere se la tua situazione è quella della guerra civile strisciante, del terrorismo quotidiano, come nella vecchia Irlanda del Nord, o addirittura peggio, quella del Libano, in cui il corpo nazionale si è separato definitivamente.

Eppure, la malvagità radicale dell’islamismo, assai peggiore del vecchio nemico fascista, ci è nota. Però non avete fatto niente, risponderai tu, vigliacchi! Questo non è giusto da parte tua. Abbiamo fatto quello che potevamo, rovinandoci la vita semplicemente per poter esercitare la libertà di parola, per mettere in guardia. Le circostanze erano quelle di una élite stupida e ostile, di masse mantenute nell’ignoranza. L’accusa di razzismo bastava a mettere a tacere quasi tutti quelli che cercavano anche solo, magari rozzamente, di ragionare.

Andare contro, lo si pagava a caro prezzo. Proteggere i diritti, o addirittura le vite dei critici dell’islamismo, degli antiislamisti, era considerata – per quanto assurdo questo ti possa sembrare oggi! – un onere sgradevole e umiliante da parte delle nostre massime autorità. Gli antiislamisti venivano protetti, quando venivano protetti, secondo la formula “perché non siamo delle bestie come loro”, un po’ come quando in galera si isolano i pedofili per proteggerli dagli altri detenuti: non perché suscitino simpatia ma appunto “perché non siamo delle bestie come loro”. In effetti, c’era più rispetto per gli intellettuali che giustificavano la pedofilia. Quella era considerata una scelta coraggiosa, se fatta secondo i crismi della sinistra libertaria. E naturalmente la pedofilia non era considerata davvero una brutta cosa se esercitata nell’ambito islamico.
L’atteggiamento era quello delle democrazie occidentali di fronte al fascismo, prima dell’invasione della Polonia: lasciamoli fare, non li stuzzichiamo, è la loro cultura. La libertà di parola vale quando si parla dell’Occidente, non dell’Islam. La relazione coniugale islamica è diversa da quella regolata dalle nostre leggi, che lì vanno applicate con discrezione. La legge islamica deve essere rispettata, i crimini commessi in base a essa non sono veramente tali, o perlomeno vanno considerati dei crimini attenuati, giustificati dal fallimento delle politiche di integrazione, dalla nostra incapacità di comprendere o adattarci.

Ma così andavate verso la catastrofe! – dirai tu. Beh, sì. Lo sapevamo bene. Così come so che quando leggerai questo sarà già stato compiuto il primo attacco chimico o biologico di massa, verosimilmente durante una partita di calcio (perché è quella la nostra vera religione, so già anche questo), se non addirittura il primo attacco nucleare, con una bomba sporca.
Quindi, nel mondo in cui vivi mentre leggi questo sono state approvate delle leggi, la libertà di parola è stata limitata “nell’interesse di tutti”, la libertà di movimento pure. Il comunitarismo è ufficialmente riconosciuto dallo Stato, la legge islamica è di fatto riconosciuta dalla legge dello Stato. È vietato fare riferimento a etnicità o religione dei criminali, nelle aule di tribunale e negli articoli dei giornali, quei pochi giornali che ancora rimangono come status symbol. I poteri delle autorità giudiziarie e di pubblica sicurezza sono stati, un po’ alla volta, senza grandi clamori, estesi enormemente. Naturalmente non lo chiamano fascismo. Avranno inventato qualche eufemismo di comodo, e quegli stessi che oggi ci insultano chiamandoci ignoranti e razzisti, o i loro analoghi, sono stati i primi a riconoscere la necessità di questo cambio di regime in senso autoritario, di fronte all’evidenza dei cadaveri. Tutti amano i propri bambini.

Ma come si è potuti arrivare a questo? – chiedi tu. I vostri intellettuali, i vostri politici, erano dunque matti? Lavoravano per un’entità aliena, era in atto una cospirazione? Niente di tutto questo. La verità è molto più banale. Davvero, loro non capiscono. Sembra incredibile, ma non capiscono. Come gli antichi imperatori romani che facevano patti con i capi barbari, sono convinti di aver fatto un buon affare con l’immigrazione. E anche per l’imperatore romano ogni singolo patto era un buon affare, nel breve periodo. Purtroppo, i romani non sapevano quanto fosse grande il mondo, quanti barbari ci fossero. Non sapevano che per ogni capo barbaro che sovvenzionavano, ce n’erano altri dieci, o altri cento, che dicevano “e io chi sono?”. Così alla fine il sistema impero romano è collassato, a causa, ma guarda un po’, di un’ondata di profughi (i goti)! Ai barbari si è dovuta dare non soltanto la terra ma anche la legge loro: fine dello stato di diritto.

Noi, diversamente dagli antichi romani, sappiamo benissimo quanto è grande il mondo e quanta gente povera ci vive, nella violenza, fuori da ogni democrazia. Per questo chi ci governa è imperdonabile. Noi sappiamo, o dovremmo sapere, che per ogni immigrato che entra illegalmente e viene accolto a braccia aperte ce ne sono altri dieci, o altri cento, che si dicono “e io chi sono?”. Sappiamo inoltre che nel caso dei musulmani l’immigrato è portatore di una legge altra, che ritiene superiore a quella dello Stato e che pretende di applicare: se non nei luoghi pubblici, perlomeno in casa sua, sul luogo di lavoro, nel suo quartiere. Quando questo sarà riconosciuto ufficialmente, sarà la fine dello stato di diritto.

Coloro che giustificano e aiutano l’immigrazione illegale, in cui gli immigrati musulmani cercano normalmente di sottomettere se non di uccidere i cristiani, vivono in un sogno che per te, europeo non ancora nato, è diventato un incubo. Loro, che hanno abbandonato ogni religione, ogni tradizione, ogni rispetto per i loro antenati, nel loro delirio masochista vedono nell’immigrato, quanto più ostile e invidioso verso il mondo che dovrà accoglierlo, un dio che ritorna, una penitenza per la loro miseria, la loro pochezza, la mancanza di riconoscenza verso chi li ha preceduti. Come gli aztechi, aspettano il ritorno del gran dio Quetzalcoatl, il Serpente Piumato, e invece gli arriva Cortez con i suoi conquistadores. Attendono il Cristo, e aprono le porte ad Attila.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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